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venerdì 6 marzo 2015

PONTE DI PADERNO

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Il ponte San Michele, noto anche come ponte di Calusco, ponte di Paderno o ponte Rothlisberger è un ponte ad arco in ferro, a traffico misto ferroviario-stradale che collega i paesi di Paderno e Calusco attraversando una gola del fiume Adda.

Il ponte, progettato dall'ingegnere svizzero Jules Röthlisberger (1851-1911) e realizzato dalla Società Nazionale Officine di Savigliano (il cui ufficio tecnico era diretto da Röthlisberger), è lungo 266 metri e si eleva a 85 metri al di sopra del livello del fiume.

Fu tra i primi esempi di costruzione che utilizzò la teoria dell’ellisse di elasticità e venne successivamente studiato a livello europeo assieme agli altri grandi ponti metallici eretti negli anni immediatamente precedenti o nello stesso periodo (come il ponte Maria Pia di Oporto e il viadotto di Garabit).

Esso è formato da un'unica campata in travi di ferro da 150 metri di corda, che sostiene, tramite 7 piloni sempre in ferro, un'impalcatura a due livelli di percorribilità, il primo ferroviario e il secondo (6,3 metri più in alto) stradale. La sede stradale è larga cinque metri ed è a singola corsia.

Nel più basso dei due livelli del ponte passa la linea ferroviaria elettrificata Seregno–Bergamo, mentre sul livello superiore si trova la strada carrabile che collega la provincia di Lecco a quella di Bergamo.

La campata è costituita da due archi parabolici simmetrici e affiancati, leggermente inclinati tra loro e a sezione variabile più snella verso la cima. La scelta di un ponte a singola campata senza appoggi a terra fu favorita sia dalla particolare forma della gola, stretta e profonda, sia dalla volontà di non intralciare la navigazione sul corso d'acqua.

Gli archi si appoggiano a opere cementizie e murarie costruite a metà della parete della scarpata che discende al fiume. I plinti e i contrafforti di sostegno sono costituiti da oltre 5.000 metri cubi di pietra di Moltrasio e 1.200 metri cubi di granito di Baveno.

La struttura è interamente chiodata e non fa uso di saldature: alla fine del XIX secolo, quando il ponte fu eretto, la tecnica della saldatura richiedeva impianti ancora troppo poco pratici per essere adoperati nei manufatti in opera, specie se di dimensioni così rilevanti e in posizioni poco agevoli. Le macchine portatili per la saldatura, soprattutto quelle a elettrodi, si sarebbero cominciate a diffondere solo pochi anni dopo e si sarebbero affermate solo con la prima guerra mondiale.

Nonostante tali limiti tecnici, il ponte risultò un'opera di ingegneria imponente per l'epoca, con 100.000 chiodi ribattuti che reggono le oltre 2.500 tonnellate della complessa struttura a maglie triangolari degli archi, dei piloni e dei due livelli percorribili. Il doppio arco da solo pesa oltre 1.320 tonnellate, mentre la travata principale raggiunge le 950 tonnellate e i piloni ammontano a 245 tonnellate.

Per le sue peculiarità tecniche, il ponte è considerato un capolavoro di archeologia industriale italiana, nonché una delle più notevoli strutture realizzate dall'ingegneria ottocentesca. Esso si trova a poca distanza da altri due impianti di grande rilevanza: le centrali idroelettriche Esterle e Bertini.

La rilevanza del ponte San Michele dal punto di vista storico è paragonabile a quella della Torre Eiffel, eretta esattamente negli stessi anni e con le stesse tecnologie. Entrambe le strutture all'epoca della costruzione divennero il simbolo del trionfo industriale per i rispettivi paesi.

All'epoca della sua costruzione, il ponte San Michele era il più grande ponte ad arco al mondo per dimensioni e il quinto in totale per ampiezza di luce.

Al ponte è legata una leggenda metropolitana, secondo cui il progettista Röthlisberger si sarebbe suicidato prima del collaudo per timore di un fallimento: in realtà Röthlisberger morì di polmonite il 25 luglio 1911 nella sua casa di Chaumot. In passato dal ponte si praticava il bungee jumping grazie ad apposite strutture temporanee, oggi non più in quanto non conforme alle normative in vigore. Il ponte, per via della sua altezza e della conformazione delle barriere, è teatro di frequenti suicidi, con 15 atti simili compiuti tra il 2004 e il 2005. Gli episodi suicidari sono continuati, e la mattina del 5 dicembre 2014 sono state posizionate delle reti metalliche per tenere i pedoni ad una certa distanza dai parapetti, ostacolandone lo scavalcamento.

Dopo l'Unità d'Italia il neonato regno iniziò l'opera di raccordo e unificazione delle diverse tratte ferroviarie gestite da diverse società private. Le varie reti erano principalmente su scala locale, assai poco omogenee tra loro per mezzi e materiali e spesso nemmeno adeguatamente collegate.

Milano aveva già visto le prime ferrovie nell'agosto del 1840, quando venne aperto il collegamento con Monza: la presenza dell'Adda sul lato orientale della zona però separava la città dalle emergenti aree industriali che gravitavano intorno a Bergamo e Brescia (quest'ultima particolarmente strategica per via della produzione militare).

Lungo l'Adda stesso si trovavano numerosi impianti principalmente di tipo tessile e le vie di comunicazione esistenti ormai cominciavano a diventare sempre più insufficienti alle necessità dell'industrializzazione.

Da questo scenario derivò dunque la decisione di costruire un raccordo ferroviario tra Usmate-Carnate e Ponte San Pietro, in modo da collegare efficientemente le aree produttive dell'area dell'Adda.

Il primo progetto venne affidato alla Società per le Strade Ferrate Meridionali, che aveva in carico la costruzione del tracciato ferroviario: il progetto prevedeva un ponte a più piloni, con travatura in ferro ma a struttura rettilinea. Questo ponte avrebbe dovuto essere dotato di due piani di percorrenza, il superiore per la ferrovia e quello inferiore per la strada.

La Società Nazionale Officine di Savigliano (SNOS) chiese di poter partecipare con un proprio progetto all'assegnazione del lavoro e ne ottenne facoltà presentando nel marzo 1886 una raccolta di dodici tavole tecniche. La SNOS aveva già realizzato alcuni ponti in ferro, tra cui quello sul Po a Casale Monferrato e quello di Asti sul Tanaro, nonché anche il ponte di Trezzo d'Adda.

La gara vide quattro progetti partecipanti in tutto e il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici (organo tecnico dell'omonimo Ministero) assegnò l'incarico alla SNOS.

Il 22 gennaio 1887 il commendator Di Lena, Ispettore Generale delle Strade Ferrate, firmò il contratto con la società piemontese rappresentata dal direttore generale ing. Moreno.

Vennero concordati soli diciotto mesi per il completamento dell'opera. Furono fatte piccole modifiche al progetto originale, allungando ed elevando il ponte alle misure attuali (cinque metri in più di corda dell'arco, 42 in più di lunghezza).

L'importo dei lavori venne stabilito in 1.850.000 lire per la costruzione, più 128.717,50 lire per le opere preliminari.

Per la costruzione del ponte vero e proprio venne realizzato un primo ponte di servizio, per il quale furono necessari 1.800 metri cubi di pino importato dalla Baviera. Durante la realizzazione di questa struttura temporanea, che richiese ben 11 mesi per via della complessità del terreno, si iniziarono a costruire i plinti e le fondamenta, grazie al continuo afflusso di granito e pietra trasportato lungo l'Adda con le chiatte.

Il ferro (2.515 tonnellate) e la ghisa (110 tonnellate) necessari vennero importati dalle fonderie tedesche e lavorati a Savigliano in modo da ottenere i moduli da assemblare per costruire la struttura che venivano poi trasportati a Paderno in ferrovia e montati in posizione tramite una funicolare azionata da una potente locomotiva.

La SNOS mise a disposizione del cantiere 470 operai: la efficace logistica e l'organizzazione permisero di rispettare i tempi promessi, anche se vi furono alcune vittime tra i lavoratori.

La costruzione venne terminata nel marzo 1889; nel maggio dello stesso anno venne effettuato il collaudo, in una giornata di pioggia torrenziale, che consistette nel transito di un treno pesante alla, come venne definita nel resoconto de L'Eco di Bergamo, velocità vertiginosa di 45 km/h (dopo due passaggi a 25 e 35). Il convoglio era composto da 3 locomotive da 83 tonnellate l'una e trenta vagoni, risultando ben più lungo di tutto il ponte e dal peso complessivo di 850 tonnellate.

Nel 1890 il ponte, verniciato di fresco, fu infine interamente concluso.

Solo tre anni dopo il primo, il ponte subì un secondo collaudo, per verificare la percorribilità con le locomotive di nuova generazione, più potenti e pesanti.

L'apertura del ponte offrì finalmente la possibilità di stabilire comunicazioni rapide e stabili tra le due parti della Lombardia, riducendo i tempi di percorrenza e rendendo di fatto praticabile l'apertura di nuove tratte commerciali tra le zone produttive del Piemonte orientale (Novara e Vercelli) e le industrie dell'est lombardo, soprattutto del bresciano e del bergamasco.

Il ponte venne già all'epoca della sua costruzione ritenuto un capolavoro di tecnica ingegneristica, tanto da venire inserito nell'elenco dei maggiori ponti ad arco del mondo e da venire citato come esempio di splendore dell'ingegneria civile sia per il progetto ardito che per la perizia della realizzazione.

Durante la seconda guerra mondiale il ponte, pur venendo occasionalmente bombardato, non venne danneggiato seriamente da azioni belliche, ma necessitò ugualmente di alcuni lavori di consolidamento ad opera del genio militare, seguiti da un completo restauro della travatura nei primi anni cinquanta. Le azioni di bombardamento hanno lasciato tuttavia alcuni ordigni nei fondali del fiume, che però oggi non costituiscono un pericolo.

Negli anni successivi vi sono stati altri due grandi interventi di restauro, nel 1972 e nel 1992.

Negli anni ottanta il ponte è stato inserito nell'elenco dei beni tutelati dalla Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici della Regione Lombardia.

All'inizio degli anni novanta, con il centenario della struttura, si è cominciato a prendere in considerazione la possibilità di chiudere il ponte, ormai inadeguato, affiancandovi una nuova struttura in cemento a singola campata. La spesa prevista era di 42 miliardi di lire all'epoca. Il progetto ad oggi risulta abbandonato.

Ad oggi il ponte rappresenta ancora un nodo cruciale per l'attraversamento del fiume, anche se dal 1991 gran parte del traffico pesante o a lunga percorrenza è stato dirottato sui più capienti ponti di Trezzo sull'Adda, Brivio e sul ponte dell'arteria autostradale della A4 Torino-Trieste.

Il ponte si raccorda a tre strade, in una configurazione a "Y": sulla parte occidentale confluiscono due strade locali del comune di Paderno, mentre dalla parte opposta la strada penetra dopo pochi chilometri nell'abitato di Calusco.

La carreggiata è a singola corsia, con due camminamenti su entrambi i lati stretti tra le alte travature: vi è una restrizione ad entrambi gli accessi, realizzata con due paracarri metallici ai lati della carreggiata per limitare la velocità di immissione delle auto. L'entrata di mezzi pesanti è interdetta già da diversi anni. vige il divieto permanente a tutti i veicoli di massa complessiva superiore ai 35 quintali.

Il transito è regolato da semafori dotati di telecamere che alternano il senso di marcia del ponte a intervalli di diversi minuti: su entrambi i lati i conducenti hanno l'obbligo di spegnere i motori a semaforo rosso, dato che le file di veicoli spesso arrivano nel centro abitato e i tempi di attesa sono lunghi.

La linea ferroviaria è a binario unico con riduzione di velocità a 15 km/h per via delle caratteristiche della struttura.


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venerdì 27 febbraio 2015

LA TORRE VELASCA

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« La Torre si propone di riassumere culturalmente e senza ricalcare il linguaggio di nessuno dei suoi edifici, l'atmosfera della città di Milano, l'ineffabile eppure percepibile caratteristica »
(Ernesto Nathan Rogers, 1958)
La Torre Velasca è un grattacielo di Milano, situato nella piazza omonima, a sud del Duomo. Il nome, derivato dal preesistente toponimo, è legato al governatore spagnolo Juan Fernández de Velasco, a cui fu dedicata la piazza nel Seicento. La Torre svetta nel panorama cittadino, del quale è divenuta uno dei simboli più noti. Per il suo interesse storico-artistico, nel 2011 la Soprintendenza per i Beni Culturali l'ha sottoposta a vincolo culturale.

Fu progettata dallo Studio BBPR su incarico della società Rice, con la collaborazione dell'ingegner Arturo Danusso, su un'area del centro di Milano devastata dai bombardamenti angloamericani del 1943. La progettazione iniziò fra il 1950-1951, ma l'idea iniziale di una torre in ferro fu scartata a causa degli alti costi del materiale; fra il 1952 ed il 1955 fu realizzato il progetto definitivo della torre, realizzata tra il 1956 e il 1957 con i finanziamenti della Società Generale Immobiliare.

Per costruirla servirono 292 giorni, 8 in meno del tempo contrattuale.

La Torre Velasca è il monumento più rappresentativo di quel periodo di transizione, in cui Ernesto Nathan Rogers, direttore della rivista Casabella, rappresentava un punto di riferimento per quella parte della cultura disciplinare che cercava il superamento del razionalismo, traghettando quell'eredità dei maestri europei verso un nuovo atteggiamento nei confronti dell'ambiente e della storia.

Nella fase preliminare venne interpellata una società newyorkese specializzata nella valutazione economica dei progetti d'architettura e stabilì che, data la situazione tecnologica dell'industria siderurgica italiana, il progetto sarebbe stato irrealizzabile.

Il profilo della Torre è la conseguenza di un lungo studio che trova le sue origini nella ricerca di risposte funzionali alla costrizione in cui si trova la base della stessa, ubicata nella piccola piazza omonima, libera però di espandersi verticalmente; in tutto questo, la Velasca volle essere una citazione moderna della Torre del Filarete presente al Castello Sforzesco.

I primi diciotto piani sono occupati da negozi e uffici, mentre i successivi piani, fino al ventiseiesimo, sono destinati ad appartamenti privati. Essi sono sviluppati su una planimetria più larga rispetto ai piani sottostanti e ciò conferisce la caratteristica forma "a fungo" alla Torre, accentuata dalle numerose travi oblique. Quest'ultime sostengono l'espansione esterna dei piani superiori ma furono oggetto di ironia dei milanesi che diedero all'edificio il soprannome di "grattacielo delle giarrettiere" o di "grattacielo con le bretelle".

Nel 1961 al progetto venne attribuito il "Premio per un'opera realizzata", assegnato annualmente dall'IN/ARCH.

Malgrado l'indubbia valenza architettonica, la Torre Velasca ha da sempre suscitato pareri contrastanti – sia in patria che fuori dai confini nazionali – per il suo ardito design; lo scrittore Luciano Bianciardi, nel romanzo La vita agra del 1962, fu tra i primi detrattori definendola un «torracchione di vetro e cemento».

Esattamente cinquant'anni dopo, nel 2012, la scelta del quotidiano inglese The Daily Telegraph d'inserirla nella lista degli edifici più brutti al mondo ha rinfocolato il dibattito sul suo impatto nello skyline meneghino; architetti come Mario Bellini e Gianmaria Beretta ne riconoscono l'indubbio interesse stilistico e progettuale: «volle essere un palazzo milanese che rifiutava la standardizzazione dell'architettura internazionale»; dello stesso parere è il collega Stefano Boeri, anche assessore della giunta comunale milanese, per cui «la Torre è l’invenzione di una nuova architettura. Fu il primo grattacielo progettato con quella forma a fungo, nessuno prima aveva mai ideato un edificio del genere», rimarcandone quindi la sua unicità nel panorama internazionale.


Da parte della critica d'arte, Philippe Daverio considera la Torre un «assoluto capolavoro», sottolineando come ogni popolo rappresenta la propria idea di architettura. Sarebbe cattivo chiedere a un inglese di avere una conoscenza così articolata della nostra storia»; di diverso parere è invece Vittorio Sgarbi, critico e già assessore alla cultura del capoluogo lombardo, il quale sostiene che «chi non è abituato a guardarla con i nostri occhi indulgenti può sicuramente classificarla come mostro», ammettendo inoltre che «tende a non piacermi. È il paradigma della civiltà dell'orrore».

Al di fuori del versante artistico-architettonico, il giornalista Beppe Severgnini, pur parlando di un «capoccione di cemento» e di «tiranti improbabili», ne approva l'originalità e la follia, contestualizzandola a simbolo di quell'«Italia ottimista e casinista» del miracolo economico degli anni cinquanta e sessanta del XX secolo:

« Chi dice che è orrenda, non capisce niente di Milano. Probabilmente crede che il capoluogo lombardo voglia gareggiare con altre città d'Italia in bellezze rinascimentali. Invece è orgoglioso dei suoi angoli strambi, dei suoi portoni, dei suoi cortili irregolari, dei suoi palazzi dove qualche incosciente vorrebbe sostituire il portiere con un citofono.»

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