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sabato 19 marzo 2016

GLI ZINGARI

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La parola italiana zingaro deriva dal greco medievale tsínganoi, tribù dell'Anatolia. Non è escluso che l'etimo originario sia indo-ario, atzigan. Un'opinione diffusa all'inizio del XX secolo ne faceva risalire l'origine allo stanziamento in Mesopotamia di popolazioni sire, etiopi e nubiane, in seguito alle vittorie dell'imperatore Costantino V, che si sarebbero chiamate Athingan, in seguito disperse dalle invasioni turche.

Zingaro e zingano sono da alcuni autori fatti risalire a Athínganoi, "intoccabili", nome di gruppi eretici stanziati nelle regioni anatoliche di Frigia e Licaonia; essa avrebbe avuto connotazione, secondo molti, negativa (dato che trattasi dello stesso nome dell'infima "casta-non casta" indiana, i paria, da cui proverrebbero, per esempio, i necrofori).

Altri ritengono invece che la connotazione del significato fosse positiva, portando a sostegno di ciò un documento del 1387 di Nauplia, in Grecia, dove i veneziani confermarono i privilegi agli zingari concessi a loro dai bizantini. Privilegi che ritroviamo per questi popoli in diversi documenti per un centinaio di anni in diversi luoghi dell'Europa.
Intorno al XVI secolo il termine avrebbe assunto la connotazione - negativa - che troviamo ancora oggi.

Spesso, per indicare le etnie romaní, vengono usati anche altri nomi meno precisi: ad esempio, in italiano zingari e gitani.

La parola gitano alimentava la leggenda di una loro provenienza dall'Antico Egitto e il mito degli zingari discendenti dal figlio di Abramo e della sua schiava Agar, sulla scorta del fatto che Ismaele, nella Bibbia, viene considerato "colui che camminava con Dio" (Gen. 21,20).

Piero Colacicchi sostiene che nomade, riferito ai Rom, è un termine ottocentesco, usato non tanto per indicare lo stile di vita di questi quanto piuttosto con intento discriminatorio verso coloro che ritenevano "uomini inferiori" poiché pigri, vagabondi, caratterialmente instabili, in contrapposizione a quello dell'uomo eletto, amante della patria, posato e seguace della morale.

Rom sta ad indicare una precisa etnia di popolazione romaní, ed è il termine con il quale il non-zingaro, oggi, intende indicare, erroneamente, tutti i gruppi di popolazioni romaní; questi, Kalé, Sinti e Rom ritengono, da parte loro, che il termine "zingaro" sia offensivo.

La popolazione romaní è suddivisa nei seguenti gruppi etnici:

Rom (principalmente presenti in Europa centro e sud-orientale ed in Italia meridionale)
Sinti (presenti in Germania, Austria, Francia, Paesi Bassi, Danimarca ed Italia settentrionale), i Manouches in Francia
Kalé (presenti principalmente in Spagna ed in Portogallo)
Romanichals (principalmente presenti nel Regno Unito)
Romanisæl (principalmente presenti in Svezia ed in Norvegia)
Ciascuno di questi gruppi contiene al proprio interno ulteriori suddivisioni.

Pare ormai approvata la teoria che vede il popolo zingaro provenire dal sub-continente indiano per via delle similitudini linguistiche, le caratteristiche somatiche e grazie anche a documenti antichissimi che ne testimoniano la presenza. Ad esempio, la parola "rom" deriva dal termine in sanscrito (un'antica lingua indiana) "domba" che significa "uomo libero"; oppure il termine "sinto" deriva da "Sindh", il nome del fiume Indro, il più lungo del Pakistan.

Bisogna però specificare che, essendo un popolo storicamente portato all'emigrazione, non possiamo parlare di una vera e propria patria d'origine, ma più che altro di luoghi in cui hanno soggiornato per un periodo storico più o meno lungo. Dalla regione indo-pakistana, nell'XI secolo gli zingari si sono spostati seguendo l'Indro, il Tigri, l'Eufrate, il Danubio, l'Elba, il Reno e il Rodano. Le cause di questi spostamenti di massa rimangono sconosciute, anche perché, altro fattore di non poco conto, le testimonianze su questo popolo si trasmettono per via orale ed è dunque molto facile che la realtà dei fatti diventi leggenda, o peggio, pura finzione. Tuttavia, gli studiosi sono concordi nell'attribuire la causa di questa emigrazione alle devastanti invasioni del re afghano Mahmud di Ghazna. Giunti prima in Iran e poi in Persia, gli zingari raggiunsero l'Armenia e il Caucaso meridionale, zone di influenza bizantina. Da lì a poco arrivarono in Turchia per giungere nei Balcani, dove si stabilirono definitivamente. È probabilmente da attribuirsi a questa lunga permanenza la credenza popolare che vede gli zingari provenire dai Paesi balcanici. Nei Balcani, gli zingari cominciarono a praticare mestieri che ancora oggi fanno: fabbri, maniscalchi, ferrai, esperti nella lavorazione del metallo, costruttori di armi, ma divennero anche ricercatori d'oro in Transilvania, o importanti musicisti in Ungheria, dove entrarono letteralmente a far parte del folklore locale, soprattutto per i brani eseguiti con il violino.

Tra il XIV e il XV secolo, gli zingari giunsero in Europa occidentale e, in seguito alla battaglia del Kosovo del 1392, dove l'impero ottomano sconfisse l'esercito serbo-cristiano sancendo l'influenza islamica nel territorio, i gitani raggiunsero anche l'Italia seguendo i profughi croati, kosovari, albanesi e greci. Viaggiavano in gruppo, spesso spacciandosi per gente facoltosa proveniente dall'Egitto. Una falsità che però è entrata talmente tanto nell'immaginario collettivo che ancora oggi gli zingari vengono chiamati in Spagna "gitanos" (dal latino "aegyptanus", derivazione di "Aegyptus", cioè "Egitto"), o nel Regno Unito "gypsies".

La convivenza con gli europei fu drammatica. A causa del loro abbigliamento bizzarro, della lingua incomprensibile, del loro vivere di elemosina e per le pratiche di chiaroveggenza, spesso scambiata per stregoneria, le autorità locali emanarono una serie di decreti che penalizzavano e discriminavano la popolazione. In Germania, per esempio, la pena di morte, normalmente riservata agli uomini, venne estesa anche alle donne zingare, oppure, nel 1500, ci fu un provvedimento imperiale che garantiva l'impunità a chiunque avesse ucciso uno di loro. Non andò meglio in Moldavia o in Valacchia, dove divennero servi della gleba. In Spagna, nel 1492 furono condannati all'esilio assieme ai mori e agli ebrei. In Ungheria furono accusati di cannibalismo. In Italia, il primo decreto di espulsione fu emanato a Milano nel 1512 perché accusati di portare la peste.  Insomma, il ripudio e l'odio nei confronti di questa popolazione hanno origini antiche.

Le persecuzioni ebbero fine intorno al XVIII secolo, quando i sovrani illuminati piuttosto che condannarli a morte o all'esilio, cercarono di integrarli con la popolazione del luogo. Questo però significava spogliarli delle loro tradizioni e delle loro usanze. Ad esempio, in Ungheria e Transilvania, dove ormai vivevano da secoli in base alla loro cultura, furono obbligati ad abbandonare la loro lingua per esprimersi esclusivamente nella lingua nazionale. Inoltre, dovevano rinunciare alla loro vita nomade per stabilirsi in appartamenti, esercitare mestieri comuni, non mendicare, andare in chiesa e vestirsi come la popolazione locale. In cambio, il governo distribuiva case, mezzi agricoli e bestiame. L'iniziativa ovviamente fallì.

Abbandonata questa finta filantropia, i diversi Paesi divennero via via più liberali nei loro confronti, tant'è che in Romania, tra il 1855 e il 1856, vennero liberati dalla schiavitù. Da lì in poi, cominciò un'altra ondata migratoria che coinvolse non solo l'Europa, ma anche l'America, Brasile e Argentina in primis.

Tuttavia, dato lo storico odio nei loro confronti, era inevitabile che finissero nel mirino dei nazisti. Circa 500mila morirono in quello che gli zingari chiamano "barò porrajmos", che in lingua romanì significa "il grande genocidio". Considerati non solo come una razza inferiore, ma anche come degli "asociali", i gitani erano talmente discriminati tra i discriminati che ad Auschwitz vivevano in baracche a loro riservate.

Il regime nazista attuò il genocidio della popolazione romaní, uccidendo 250.000 zingari nei campi di sterminio. Altri 250.000 morirono appena catturati oppure durante il trasferimento verso i lager. I Rom ricordano questa tragedia con il termine romaní Porajmos ("devastazione"), analogo a quello con cui si ricorda il più noto sterminio nazista del popolo ebraico, la Shoah ("sterminio") . Dal 2015, il 2 agosto è nell'Unione europea la giornata internazionale per il ricordo del genocidio delle popolazioni romanì.

Oggi gli zingari in Europa si aggirano intorno ai 10-12 milioni. In Paesi come Romania, Slovacchia, Turchia, Bulgaria e Serbia raggiungono il 5 per cento della popolazione. Tuttavia, è Bucarest ad ospitare il maggior numero di gitani in Europa. I dati sugli zingari in Italia sono piuttosto confusi, tra chi parla persino di 200mila e chi di appena 80mila. Circa l'80 per cento di loro ha la cittadinanza italiana e appena il 20 per cento sarebbe straniero e proveniente per lo più dai Balcani. I due più grandi ceppi si dividono in rom e sinti. I primi si sono insediati soprattutto nell'Italia centro-meridionale, mentre i secondi nel Nord. I sinti storicamente esercitano il mestiere di giostrai (per esempio, Moira Orfei e la sua famiglia sono di origine sinti), ma dato che si tratta di un lavoro "in via di estinzione" si stanno reinventando rottamatori o venditori. Entrambi, sia sinti che rom, sono per lo più cattolici. Difatti, le popolazioni zingare tendono ad adottare la religione del luogo in cui vivono. Questo fa sì che in Italia, ben il 75 per cento di loro è cattolico, il 20 per cento musulmano e il 5 per cento raggruppa ortodossi, pentecostali e testimoni di Geova.

Si tratta di un popolo piuttosto giovane: circa la metà di loro non supera i 18 anni e appena il 3 per cento arriva a oltre i 60. Il tasso di natalità è alto (5-6 bambini a famiglia), così come lo è quello di mortalità. Il matrimonio, in genere, avviene in giovane età ed è regolato da usanze e tradizioni che variano in base all'etnia di appartenenza. Difatti, per i sinti avviene tramite la fuga, cioè i due ragazzi vivono per qualche giorno da alcuni parenti; mentre per i rom la famiglia dello sposo "compra" la sposa, cioè corrisponde una cifra in denaro alla famiglia della giovane come una sorta di risarcimento. Ad ogni modo i matrimoni non sono regolati da rigide norme sociali, tant'è che possono sposarsi anche persone appartenenti ad etnie diverse.

La lingua delle popolazioni gitane, al giorno d'oggi parlata unicamente dai Rom e dai Sinti, è il romaní, un idioma indoeuropeo facente parte del gruppo delle lingue indoarie.

Sebbene non esista uno schema generale della struttura sociale valido per tutte le etnie, si può affermare che fra gli zingari non esistano le classi sociali come si intendono comunemente. Le uniche distinzioni all'interno delle comunità sono quella tra i sessi (maschi - femmine) e quella basata sull'età (giovane - anziano).

Inoltre in primo luogo per lo zingaro conta la famiglia, e precisamente marito, moglie e figli. Al di là del nucleo famigliare vi è la famiglia estesa, che comprende i parenti, con i quali vengono sovente mantenuti i rapporti di convivenza nello stesso gruppo, comunanza di interessi e di affari. Poi esiste la kumpánia, cioè l'insieme di più famiglie estese non necessariamente unite da legami di parentela, ma tutte appartenenti allo stesso gruppo ed anche allo stesso sottogruppo o a sottogruppi affini.



La nascita e la morte sono considerati eventi impuri. Nella popolazione romaní l'ospedale, il medico, il prete ricordano la morte e pertanto i contatti con loro devono essere ridotti al minimo. La donna mestruata e la puerpera sono fonte di impurità e non possono fare vita pubblica o lavare i propri panni insieme a quelli degli altri. Nei rom "vla" (originari della Valacchia), presso i quali il concetto di impurità è più radicato, durante la gravidanza e per quaranta giorni successivi al parto alla neo-mamma non è consentito di svolgere alcuna attività (ad esempio cucinare). Al termine del periodo di purificazione, i vestiti indossati, il letto, i piatti, i bicchieri e gli altri oggetti adoperati dalla puerpera sono distrutti o bruciati.

Il culto dei morti è molto sentito ed è diffusa la convinzione che il morto, se non debitamente onorato, possa riapparire in forma di animale o di uomo per vendicarsi.

In Italia la popolazione romaní si divide in:
Rom italiani (con cittadinanza): circa 90.000, di cui:
Rom harvati: 7.000 giunti dalla Jugoslavia settentrionale dopo la seconda guerra mondiale. I khalderasha ne costituiscono un sottogruppo.
Rom lovari: 1.000, che si occupano principalmente dell'allevamento di cavalli (la parola viene dall'ungherese ló, che significa appunto cavallo).
Rom balcanici: 70.000
Rom jugoslavi: presenti principalmente in campi del Nord Italia. Meno del 10% dei minori frequenta le scuole pubbliche, bassissimo è il tasso d'impiego degli adulti.
Khorakhanè ("lettori del Corano"): caratterizzati dalla religione musulmana e provenienti da Kosovo e Bosnia ed Erzegovina, sono il gruppo più numeroso di rom stranieri presente nel Bresciano. La migrazione è avvenuta dalla seconda metà del 1991 fino all'estate del 1993, in concomitanza con l'aggravarsi della situazione bellica nella ex Jugoslavia
Dasikhané: caratterizzati dalla religione ortodossa, provenienti da Romania o Bulgaria.
Rom romeni: sono il gruppo in maggior crescita; hanno comunità a Milano, Roma, Napoli, Bologna, Bari, Pescara, Genova, ma si stanno espandendo nel resto d'Italia.
30.000 nel Sud Italia, distinguibili in:
Rom abruzzesi e molisani, giunti in Italia al seguito dei profughi arbëreshë dall'Albania dopo la battaglia di Kosovo Polje nel 1392, parlano romanì mescolato ai dialetti locali e praticano l'allevamento e il commercio di cavalli, oltre che, nel caso delle donne, la chiromanzia (romnìa). Diversi nuclei sono emigrati in vari centri del Lazio a partire dal Novecento
Rom napoletani (napulengre), ben integrati, fino agli anni settanta si occupavano principalmente della fabbricazione di attrezzi da pesca e di spettacoli ambulanti.
Rom cilentani: 800 residenti ad Eboli, con punte di elevata alfabetizzazione
Rom pugliesi, si dedicano in maggioranza all'agricoltura ed all'allevamento di cavalli (alcuni di loro gestiscono macellerie equine)
Rom calabresi: uno dei gruppi più poveri, con 1550 ancora residenti in abitazioni di fortuna
Camminanti siciliani
Sinti: 30.000, residenti principalmente in Nord e Centro Italia e un tempo occupati principalmente come giostrai, mestiere che però sta scomparendo e che li costringe a reinventarsi in nuovi mestieri, da rottamatori a venditori di bonsai.

A differenza di quanto si pensi, non tutti sono nomadi, anzi. Molti vivono in appartamenti e perfettamente integrati con la comunità locale, soprattutto da quando le loro storiche professioni, che li portavano a girovagare continuamente, stanno venendo meno. Ma il pregiudizio rimane, tant'è che nel rapporto sull'Italia della Commissione europea contro il Razzismo e l'Intolleranza (Ecri), Bruxelles ha invitato Roma ad abbandonare "il falso presupposto che rom e sinti siano nomadi" dato che, in base a tale idea, viene attuata "una politica di segregazione dal resto della società" con l'installazione dei "campi nomadi" nati per ospitare solo temporaneamente queste popolazioni e spesso sforniti dei servizi più basilari.

Ma non è solo l'Italia a guardare con disprezzo gli zingari. Anche negli altri Paesi i pregiudizi e la discriminazione persistono, sintomo che le credenze che si sono trascinate per secoli sono dure a morire.

Nel 2005 e nel 2006 il razzismo nei confronti delle popolazioni gitane è diventato oggetto di attenzione a livello europeo, con l'adozione di una risoluzione del Parlamento europeo, il primo testo ufficiale che parla di antiziganismo. Le conferenze internazionali OSCE/EU/CoE di Varsavia (ottobre 2005) e Bucarest (maggio 2006), hanno confermato il termine «anti-Gypsyism» a livello internazionale.  Dal 2008 l'Unione europea ha inaugurato una Strategia europea per i rom.


LEGGI ANCHE :  http://asiamicky.blogspot.it/2015/02/rom-popolo-dai-mille-colori.html



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giovedì 2 luglio 2015

IL DISASTRO DEL GLENO



La Valle di Scalve è ubicata nelle Prealpi Lombarde (provincia di Bergamo), tra le più conosciute Val Seriana e Val Camonica. E' una valle ancora per ampi tratti incontaminata dall'edilizia e dal turismo di massa. Estese foreste risalgono le strette forre del torrente Dezzo per raggiungere le pendici dei ripidissimi massicci calcarei tra cui spicca il Gruppo della Presolana. E' proprio da quest'ultimo che, se si volge lo sguardo più in basso in direzione Nord , compare l'abitato di Vilminore di Scalve. Leggermente più decentrata è visibile la frazione di Bueggio. Dalla frazione Pianezza di Vilminore, si risale il sentiero n. 411 del CAI che porta alla Diga del Gleno, che appare all'improvviso. Dopo un percorso in salita di circa un'ora, il sentiero scavato nella roccia spiana, dopo un tornantino compaiono le tredici arcate di destra orografica. Solamente giungendo in prossimità della Diga sono visibili le altre due arcate di sinistra. In mezzo un enorme squarcio. Il torrente Gleno, affluente secondario del torrente Povo (a sua volta immissario del Dezzo) forma contro i resti della Diga un laghetto. Le arcate ormai scomparse hanno lasciato in bella vista la base in cemento, il famigerato "tampone a gravità", sulla quale è stato attualmente allestito un troppo pieno a sfioro del Lago del Gleno (precisiamo che già prima della costruzione della Diga esisteva un laghetto di montagna).

Il sentiero n. 411 non termina il suo tragitto in corrispondenza della Diga, ma conduce alla vetta del Monte Gleno percorrendo longitudinalmente una tipica valle alpina scavata dal torrente. Questa spettacolare ascesa nella Valle del Gleno nasconde innumerevoli meraviglie naturali. Il protagonista assoluto è comunque il torrente Gleno, che nel corso delle decine di migliaia di anni ha disegnato laghetti, marmitte dei giganti ed una numerosa serie di spettacolari cascatelle. Tutto ciò è racchiuso in un imponente anfiteatro allungato in direzione Nord. Una visita al Gleno quindi, risulterà molto limitata se ci accontenta di contemplare la misera opera umana.

Nel 1907 venne richiesta una concessione per lo sfruttamento idroelettrico del torrente Povo da parte dell'ing. Tosana di Brescia. La concessione venne poi ceduta all'ing. Gmur di Bergamo e poi alla Ditta Galeazzo Viganò di Truggio (Milano). Nel 1917 il Ministero del Lavori Pubblici fissò a 3.900.000 mc la capacità di invaso in località Pian del Gleno. Pochi mesi dopo la Ditta Viganò notificò l'inizio dei lavori, ma il progetto esecutivo non era stato ancora approvato dall'autorità competente (Genio Civile). Dopo una serie di proroghe venne presentato nel 1919 il progetto esecutivo per una diga a gravità a firma dell'ing. Gmur. Quest'ultimo però morì un anno dopo e la Ditta Viganò assunse al suo posto l'ing. Santangelo. Nel 1921 venne approvato il progetto esecutivo dell'ing. Gmur con i lavori già da qualche anno avviati. Nel 1921 la Ditta Viganò appaltò alla Ditta Vita & C. le opere di edificazione delle arcate.

Nell'agosto del 1921 l'ing. Lombardo del Genio Civile eseguì un sopralluogo al cantiere e rimase interdetto quando constatò che la tipologia costruttiva della diga a progetto, cioè a gravità (lo sbarramento che si oppone alla spinta del lago grazie al suo peso), era stato cambiata in corso d'opera in una diga ad archi multipli (struttura in grado di trasferire alle rocce di fondazione le spinte del lago). Rilevò infatti che stavano per essere costruite le basi delle arcate e che quelle nella parte centrale della diga non erano appoggiate sulla roccia ma sul tampone a gravità. Ne seguì l'immediata diffida al proseguire la costruzione e nel giugno 1922 venne ingiunto alla ditta Viganò di presentare un nuovo progetto, quasi si trattasse di una semplice abitazione in cui è stata variata la posizione di un paio di finestre rispetto al progetto. I lavori andarono avanti malgrado le osservazioni dell'ing. Lombardo e solo nei primi mesi del 1923 venne presentato il nuovo progetto.

Nella seconda metà di ottobre del 1923 il lago venne riempito a seguito delle violente precipitazioni. Vi furono problemi negli scaricatori superficiali ma soprattutto si innescarono massicce perdite d'acqua alla base delle arcate sovrastanti il tampone a gravità. Tali perdite furono sfruttate nelle ore notturne per la produzione di energia elettrica. La diga non poteva dirsi ultimata. Ancora numerose opere edili dovevano essere portate a termine. Il cattivo tempo perdurò anche nella seconda metà di novembre. Il 1° dicembre 1923 alle 6.30 il Sig. Morzenti, guardiano della diga, avvertì un "moto sussultorio violento". In seguito la difesa della Ditta Viganò ipotizzò addirittura che vi fosse stata un'esplosione causata da un atto terroristico. Poco dopo, alle 7.15, avvenne il crollo delle dieci arcate centrali della Diga. Una massa d'acqua di volume compreso tra 5 e 6 milioni di metri cubi iniziò la sua folle corsa verso valle.

Bueggio, frazione di Vilminore, fu quasi immediatamente travolta. L'enorme massa d'acqua, preceduta da un terrificante spostamento d'aria, distrusse le centrali di Povo e Valbona, così come due chiese ed il cimitero. L'acqua percorse lo stretto alveo montano del Povo sino alla confluenza con il Dezzo. L'omonimo abitato fu travolto e scomparve, così come la centrale elettrica, l'antico ponte, la strada e la fonderia per la produzione di ghisa la quale determinò un terrificante spettacolo di acqua, fiamme e vapore. All'altezza di Angolo il Dezzo forma una serie di spettacolari forre (la Via Mala). L'ondata, colma di detriti, creò delle ostruzioni temporanee con effetti terrificanti. Infatti, nei punti più stretti si crearono dei laghi che dopo pochi istanti riuscivano a sfondare le dighe di detrito, causando ondate ancora più distruttive. Molte località furono falcidiate, a Mazzunno venne distrutta una quarta centrale elettrica. L'abitato di Angolo rimase invece quasi intatto. L'ondata si precipitò nell'odierna Boario Terme. Le Ferriere di Voltri vennero gravemente danneggiate e vi furono gravissimi danni alle viabilità ed alle strutture.

Più a valle (Corna e Darfo) la valle del Povo si allarga e raggiunge l'Oglio. L'energia dell'ondata andò attenuandosi ma causò ancora vittime a gravissimi danni sino a raggiungere, 45 minuti dopo il crollo, il Lago d'Iseo. Qui lo spettacolo non fu meno terribile: una cinquantina di salme galleggiavano nell'acqua torbida. Il calcolo delle vittime fu stimato sulle 500 unità, mentre il conteggio delle vittime ufficiali si fermò a 360.

Il 3 dicembre 1923 giunsero a Darfo a commemorare le vittime il Re Vittorio Emanuele III e Gabriele d'Annunzio. A causa dell'impraticabilità delle strade, nessuna autorità poté visitare Angolo Terme e Mazzunno.

Il 30 dicembre 1923 il Procuratore del Re incolpò per l'omicidio colposo di circa 500 persone i responsabili della ditta Viganò ed il progettista ing. Santangelo. Il 4 luglio 1927 il Tribunale di Bergamo condannò Virgilio Viganò e l'ing. Santangelo a tre anni e quattro mesi di detenzione più 7.500 Lire di multa. Va ricordato che la maggioranza dei sinistrati era stata precedentemente tacitata con indennizzi economici. I condannati scontarono solo 2 anni e la multa fu annullata. Il Cavalier Viganò morì nel 1928.

Dal processo, che ebbe luogo tra il gennaio 1924 e il 4 luglio 1927 e si concluse, come detto, con la condanna del titolare della società concessionaria e del progettista a tre anni e quattro mesi di detenzione, emerse che i lavori erano stati eseguiti in modo inadeguato ed in economia, che il progetto fu cambiato più volte in corso d'opera senza le opportune verifiche e che il controllo da parte del Genio Civile era stato svolto in maniera approssimativa e superficiale.

Il quadro che risultò dalle molte testimonianze fu agghiacciante. I materiali utilizzati erano di qualità pessima, mentre le armature erano quantitativamente insufficienti. Le imprese che lavorarono sotto la supervisione del Viganò (impresario all'antica, che non tollerava l'intrusione di ingegneri in cantiere e gli sprechi di materiale) vennero pagate a cottimo e quindi meno tempo impiegavano tanto più Viganò guadagnava. Durante i carotaggi sulla struttura eseguiti dai periti dopo il disastro, venne evidenziato che in alcuni casi i muratori avevano gettato direttamente i sacchi di cemento all'interno dei piloni. Venne anche criticato il tempo di maturazione del cemento delle arcate. Testimonianze affermarono che i muratori, nelle ultime fasi di costruzione, lavorarono direttamente sulle barche: si riempiva il lago mano a mano che i lavori progredivano. Con queste premesse il disastro fu inevitabile.

Il Disastro del Gleno rappresenta un esempio macroscopico degli effetti di un'approssimativa progettazione e malcostruzzione di una diga. La scelta (dettata da ragioni puramente economiche) di variare in corso d'opera la tipologia stessa della Diga ha rappresentato una sorta di bestemmia strutturale.

Le dighe ad archi multipli presupponevano un ottimo terreno d'appoggio poiché le volte hanno la funzione di trasmettere gli elevati carichi alle fondazioni. Quest'ultime devono essere dunque incastonate in roccia compatta ed integra. A Pian del Gleno le rocce subivano gli effetti degradanti del gelo e disgelo ed inoltre erano state sottoposte all'azione dei ghiacciai durante le glaciazioni. Ma, anche tralasciando il fattore geologico dell'area, ben undici arcate furono appoggiate direttamente sul tampone a gravità inizialmente costruito. Si creò una pericolosissima discontinuità strutturale. Solo un'accuratissima esecuzione delle opere avrebbe garantito un certo grado di sicurezza. Durante la fase istruttoria del processo vennero sentiti molti testimoni. Il quadro che ne risultò fu agghiacciante. I materiali utilizzati erano di qualità pessima, mentre le armature erano quantitativamente insufficienti. Non solo: le imprese che lavorarono sotto la supervisione del Viganò (impresario all'antica, che non tollerava l'intrusione di ingegneri in cantiere e gli sprechi di materiale) vennero pagate a cottimo e quindi meno tempo vi impiegavano tanto era di guadagnato. Durante i carotaggi sulla struttura eseguiti dai periti dopo il disastro, venne evidenziato che in alcuni casi i muratori avevano gettato direttamente i sacchi di cemento all'interno dei piloni. Ed ancora: venne criticato il tempo di maturazione del cemento delle arcate. Testimonianze affermarono che i muratori, nelle ultime fasi di costruzione, lavorarono direttamente sulle barche: si riempiva il lago mano a mano che i lavori progredivano. Con queste premesse (e ve ne furono molte altre) il disastro fu inevitabile.



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