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lunedì 4 maggio 2015

PERSONE DI PORLEZZA : LIVIA BIANCHI

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«Nel settembre 1943, accorreva con animo ardente nelle file dei partigiani, trasfondendo nei compagni di lotta il fuoco della sua fede purissima per la difesa del sacro suolo della Patria oppressa. Volontariamente si offriva per guidare in ardita ricognizione attraverso la impervia montagna una pattuglia che, scontratasi con un grosso reparto nemico impegnava dura lotta, cui essa, virilmente impugnando le armi, partecipava con leonino valore, fino ad esaurimento delle munizioni. Insieme ai compagni veniva catturata e sottoposta ad interrogatori e sevizie, che non piegarono la loro fede. Condannati alla fucilazione lei veniva graziata, ma fieramente rifiutava per essere unita ai compagni anche nel supremo sacrificio. Cadde sotto il piombo nemico unendo il suo olocausto alle luminose tradizioni di patriottismo nei secoli fornite dalle donne d'Italia.»
— Cima Valsolda, settembre 1943 - gennaio 1945.


Nata a Melara (Rovigo) nel 1919, fucilata il 21 gennaio 1945 a Porlezza (Como), casalinga, Medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria.

Si sposò a soli sedici anni con un giovane di Revere (Mantova) che, chiamato alle armi e spedito al fronte durante la II guerra mondiale, cadde prigioniero degli Alleati. Rimasta sola con un figlio piccolo, senza marito e senza lavoro, sul finire del 1942 Livia raggiunse la propria famiglia, che si era frattanto trasferita a San Giacomo Vercellese. Qui trovò lavoro come bracciante in risaia, per poi trasferirsi a Torino, ove entrò in contatto con ambienti antifascisti.

In coincidenza con l’armistizio dell’8 settembre 1943 si unì alla lotta antifascista, inquadrata con il nome di battaglia di "Franca" nel gruppo "Umberto Quaino" della 52ª Brigata Garibaldi "Luigi Clerici", fu operativa come staffetta porta-ordini e combattente nella regione montuosa del Lago di Lugano. Alla fine di novembre 1944, il centro antiribelli di Menaggio organizzò nella zona una vasta azione di rastrellamento impiegando 1400 uomini: lo scopo era di eliminare le formazioni partigiane nelle valli occidentali del basso Lario.

Per sfuggire alla cattura insieme ai compagni del distaccamento Quaino della 52ª Brigata Garibaldi "Luigi Clerici" Giuseppe Selva Falco, comandante, Angelo Selva Puccio, Angelo Capra Russo, Ennio Ferrari Carlino e Gilberto Carminelli Bill riuscirono a rifugiarsi in una baita all'Alpe vecchio. Riuscirono a sopravvivere in condizioni disumane alle intemperie dell'alta montagna fino a metà gennaio 1945. Stremati, scesero a valle rifugiandosi in casa di un antifascista loro conoscente. In seguito ad una soffiata, i militi circondano la casa nella notte del 20 gennaio e all'indomani, dopo un violento combattimento costringono alla resa il gruppo dallo scarseggiare delle munizioni e dalla falsa promessa di aver salva la vita.

Il gruppo di partigiani asserragliato nell'abitazione fu invece speditamente condotto al locale cimitero e schierato di fronte al muro di cinta per essere sommariamente passato per le armi. A Livia Bianchi fu offerta la grazia e la libertà in quanto donna, ciò che - come recita la motivazione della Medaglia d'oro al valore militare che le fu concessa alla memoria - ella rifiutò per la sua dignità di donna e di partigiana, restando unita ai compagni nel supremo sacrificio.




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venerdì 1 maggio 2015

LE SABBIE D' ORO DI BREBBIA

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La "Sabbie d'Oro" è una bella spiaggia sul Lago Maggiore ricca di canneti che ospitano specie arboree rare come l'ontano nero e diverse specie di anfibi, come il tritone crestato.

Le Sabbie d’Oro sono collocate sulla sponda lombarda del Lago Maggiore tra la foce del Fiume Bardello e quella del Torrente Acquanegra, in località Bozza (Comune di Brebbia). Il confine orientale corrisponde alla SP 69, quello occidentale coincide con le sponde del Lago Maggiore, mentre a ridosso dei confini settentrionale e meridionale sono presenti alcune abitazioni. Il territorio di questo SIC coincide con quello di una delle quattro porzioni che costituiscono la ZPS “Canneti del Lago Maggiore”. Sito di notevole rilevanza naturalistica per la presenza di habitat strettamente collegati tra di loro e appartenenti alla stessa serie evolutiva. Si osservano, infatti, vegetazioni palustri comprendenti canneti, boscaglie dense a Salix cinerea e boschi igrofili a dominanza di Populus alba, Salix alba e Alnus glutinosa. Il canneto presente è uno dei pochi rimasti nel Lago Maggiore. Il sito ospita una ricca e significativa componente avifaunistica. Tutta l’area è compressa dell’avanzata degli insediamenti antropici ed è esposta a rischio di colmature. L’impatto principale sul sito è quello legato alla fruizione turistico-ricreativa e all’espansione delle zone residenziali limitrofe. L’area è caratterizzata da una successione vegetazionale igrofila che si instaura a partire dalle sponde del lago e in funzione delle diverse condizioni di disponibilità di acqua. In prossimità delle sponde lacustri, si può osservare la presenza del lamineto e del fragmiteto a dominanza di Phragmites australis, seguiti da formazioni igrofile a Salix cinerea e quindi da boschi igrofili a dominanza di Alnus glutinosa.  Le formazioni forestali risultano concentrate soprattutto nella porzione nordorientale del luogo. Il cariceto è altresì ben rappresentato.




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LE CITTA' DEL LAGO MAGGIORE : BREBBIA

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Brebbia è un comune italiano di 3.360 abitanti della provincia di Varese in Lombardia. Fa parte della zona collinare della provincia di Varese (zona ovest) e il suo territorio è bagnato dal Lago Maggiore. Fa parte del Medio Verbano Orientale.

Ha una "forte" zona industriale e anche molti campi ad uso agricolo, in alcuni dei quali si sta recuperando l'antica coltivazione del Fagiolo di Brebbia diventato anche Presidio Slow Food. Brebbia inoltre fa parte della zona agraria numero 3 della Provincia di Varese (Valli del medio Verbano).

Il termine greco "Brabia", equivale a vittoria o premio di vittoria ed in senso traslato significa anche cosa bella e decorosa. A prova di ciò tale nome bene si addice al luogo, posto com'è fra due laghi, il Maggiore e quello di Varese.
Secondo un'altra derivazione il nome Brebbia deriverebbe da "Plebia", a sua volta derivato dal latino "Plebs", che significa plebe.
La spiegazione più verosimile è quella che fornisce lo storico N. Sormanni. Egli sostiene che il nome Brebbia deriva dalla caratteristica che il paese conserva tuttora. A Brebbia, infatti, esiste una località denominata dalla tradizione popolare "Paù", vocabolo dialettale che tradisce la voce italiana paludi. E' un terreno acquitrinoso e palustre, dove avevano sede le antiche terme e i bagni pubblici. Orbene, i latini designavano col vocabolo "Brevia" quei luoghi paludosi che si trovavano nelle immediate adiacenze dei luoghi ove precisamente le acque sono basse: "Brevia dicere ubi acquae sunt breves".
Successivamente, i barbari, che erano soliti cambiare, la lettera V in B ed anche in P, pronunciavano "Brebia" e talvolta "Brepia", termini che si incontrano nei documenti storici e notarili.

Quali siano stati i primi abitanti risulta abbastanza difficile individuarlo. Alcuni storici concordano nell'affermare che essi fossero popoli palafitticoli, provenienti dalla Svizzera. Gli scavi condotti in Angera dal professor Vincenzo Fusco dell'Università di Milano, hanno permesso di accertare che questa sponda del lago Maggiore fu sede di insediamenti umani fin dall'età mesolitica, 8000 - 7000 a.C. e fanno ritenere che anche i colli e la pianura di Brebbia furono frequentati da quelle popolazioni di tempi così remoti.

Dai ritrovamenti fossili, si dedusse che si trattava di popolazioni abbastanza civili; infatti, mentre facevano uso della pietra per costruire armi e oggetti vari, utilizzavano metalli, come il bronzo, conoscevano anche la giadeite (roccia impiegata per la fabbricazione di asce) e l'ossidiana (roccia che si rinviene solitamente nell'isola di Lipari, in Sardegna, nei Balcani e in Ungheria).

Le numerose testimonianze sulle abitazioni, dimostrano che essi trovarono certamente luoghi adatti a Monate, Varano e Biandronno; qui infatti, avevano a disposizione laghi a sponda bassa e non soggetta ad eccessivi sbalzi di magra e di piena. Luoghi favorevoli erano anche i piccoli stagni, quali la torbiera detta del Pavidolo posta ai piedi del Castellaccio, sul lato Sud del colle di Brebbia Superiore.

Depongono in questo senso gli oggetti venuti alla luce, nella seconda metà dell'800, durante gli scavi per l'estrazione della torba proprio nella piccola torbiera del Pavidolo.

Secondo altri storici, i primi abitatori delle nostre terre sarebbero stati i Liguri, popolo che avrebbe esteso il suo dominio dal mare sino alle sponde del Verbano. Una conferma indiretta verrebbe fornita da una lapide rinvenuta ad Angera ed ora di proprietà della Famiglia Borromeo. Essa proverebbe che Angera, prima ancora di Starona, era denominata Vico Sebrino o Vicolo dei Sebrini e fra gli studiosi pare che questo nome sia di origine ligure.

In seguito alle grandi migrazioni Nord-Sud, celtiche e galliche, i Liguri furono battuti e si ritirarono esclusivamente su quella terra che prese nome da essi: la Liguria, mentre sui territori lasciati liberi, si stabilirono i Galli, che vi rimasero fino al 221 a.C., fino a quando vi giunsero i Romani. Questi, infatti, divenuti padroni di tutta l'Italia Centrale e Meridionale, si volsero a settentrione, da loro chiamata Gallia Cisalpina.

Nel 532 di Roma - 221 a.C., i Romani, guidati dai consoli Cornelio Scipione e Claudio Marcello, penetrarono nella Pianura Padana e, vinto ogni ostacolo, occuparono Milano e poi Como, le due roccaforti dei Galli.

Con la sorprendente calata di Annibale in Italia, alla testa dell'esercito Cartaginese, furono annullate gran parte delle conquiste romane della Gallia Cisalpina e i Galli tentarono di scrollarsi di dosso il giogo di Roma, ma dopo la vittoria romana di Capua e quella definitiva di Zama (Africa 202 a.C.), con la scomparsa di Annibale, i Romani tornarono nelle nostre terre assoggettandole definitivamente. Fu così, che da allora (187 a.C.) le nostre contrade, dapprima occupate dai Liguri, e poi dai Galli, divennero Romane e costituirono l'undicesima provincia d'Italia, chiamata Insubria.

Giulio Cesare, divenuto arbitro di Roma, largheggiò ancor più verso le città della Gallia, fino ad innalzarle alla dignità di Municipio (49 a.C.) e più tardi, Augusto dichiarò l'Insubria, parte integrante dell'Italia e dell'Impero.
Completata così la romanizzazione teorica, ufficiale, non si fece attendere troppo quella pratica e reale con la costruzione di strade, ponti acquedotti, case, templi, ville teatri, ed altre opere di pubblica utilità e con la promulgazione di provvide leggi che resero fiorente il territorio, tanto più che, a poco a poco, queste regioni divennero le mete preferite di riposo e di soggiorno dei nobili Romani.
La particolare importanza che Brebbia ebbe durante la dominazione romana, la si desume da numerose epigrafi, incise su lapidi rinvenute in loco e descritte dal tedesco Mommsen.

Come testimonia un antichissimo manoscritto che si trova presso l'archivio vescovile di Novara, il Cristianesimo giunse a Brebbia intorno al 387 d.C. Come conferma la storia e la tradizione popolare, il primo apostolo delle nostre terre, fu S. Giulio col fratello Giuliano.
I risultati furono mirabili: in poco tempo la maggioranza dei Brebbiesi rinunciò al paganesimo e si fece cristiana. Così Brebbia, che prima era il centro del paganesimo di tutta la vasta zona circonvicina, divenne il centro del Cristianesimo.

Brebbia tenne fede alla nuova religione e divenne una delle Pievi più importanti, anzi la pieve per eccellenza, titolo che si confuse facilmente col suo nome proprio. Ecco perché in molti documenti posteriori si ha "Plebia", o "Blebia" per Brebia.

Con la caduta l'impero romano d'occidente (476 d.C.), si susseguirono invasioni barbariche, alcune delle quali furono particolarmente feroci nel combattere e nel distruggere tutto ciò che sapeva di romano. Verso la metà del V secolo, nella Gallia c'erano i Visigoti, seguirono i Franchi o Borgognoni, gli Alemanni, i Turingi ed infine, vennero tutti spazzati dai Franchi, che ristabilirono l'unità della Gallia, non più Romana, bensì barbarica o Franca, sebbene influenzata dalla civiltà romana, ancora vigorosissima.

Durante le invasioni barbariche, la giurisdizione di quasi tutta l'Insubria passò agli Arcivescovi di Milano. Nacque così la Pieve e la Collegiata di Brebbia. Presso il pievano si stabilirono come cooperatori, altri sacerdoti per modo che già ai primi tempi Brebbia divenne anche sede di una Collegiata col titolo di S. Pietro, col Preposto e diciotto canonici.
La Pieve di Brebbia acquistò sempre più prestigio e, tra il 1200 e il 1500 si estese ai paesi limitrofi, quali: Gavirate, Ternate, Biandronno, Cazzago, Besozzo, Monvalle, Laveno, Cadrezzate, Comabbio, Bogno, Comerio, Santo Sepolcro (Ternate) e altri: Monate-Ispra-Barra che allora erano tutt'uno con Brebbia.
Tale primato rimase a Brebbia fino a che S. Carlo, verificato lo stato di abbandono e di incuria in cui si trovava la Pieve e la Prepositura (1567 d.C.), conferì a Besozzo, l'autorità di pieve (1574 d.C.), aggregando buona parte dei benefici alla Chiesa di S. Tommaso di Milano.

Il periodo medioevale dunque, fu caratterizzato da due elementi che polarizzarono la vita economica e sociale del luogo: il primo fu la presenza del castello con le giurisdizioni arcivescovili, il secondo fu il fatto d'essere Brebbia capopieve e di conseguenza avere un'importanza anche economica, grazie alla Chiesa e canonica di S. Pietro.
Il castello, denominato "Il Castellaccio" si ergeva su un colle che si eleva un'ottantina di metri rispetto al terreno circostante, ma che domina un'ampia regione. Elemento caratterizzante la vita economica di Brebbia nel medioevo fu lo sfruttamento dei corsi d'acqua, come il fiume Bardello, con la costruzione di mulini per la macina delle granaglie o per il taglio della legna. Il tipo più comune di casa d'abitazione era simile a quello riscontrabile in località "ad Cadonega", cioè una semplice costruzione.

In taluni casi si avevano strutture più complesse che fanno supporre un'attività agricola rivolta alla produzione di vino.

Un primo significativo strumento di conoscenza della situazione patrimoniale e agricola di Brebbia fu certamente il perticato rurale del 1558: un'imposta che fissava una certa somma per pertica di terra.

Brebbia contava 7000 pertiche divise tra proprietari laici ed enti ecclesiastici.
I nobili possessori di terre risiedevano a Milano o a Besozzo e tra i pochi possidenti abitanti a Brebbia molti erano mugnai e abitavano in località Ronchée.
Un quarto dell'intero territorio comunale era classificato come arativo, una parte era tenuta a vigneti, un'altra a prati e pascoli ed infine una buona area era paludosa.
Alla fine del cinquecento si registrò un calo della popolazione dovuto probabilmente a due epidemie di peste. In questo periodo la vita media si aggirava intorno ai quarantacinque anni.

Un'ulteriore epidemia "la Peste Manzoniana" si verificava nella prima metà del 1600 a seguito delle invasioni Spagnole e Francesi. Questa colpì anche Brebbia tra il 1629 e il 1631 con una drastica diminuzione della popolazione, tanto che nel 1636 si contavano solo 45 "fuochi" o nuclei familiari.

I grandi proprietari terrieri e gli enti religiosi continuarono a mantenere in questo periodo un importante presenza nel territorio di Brebbia. Estremamente interessante diventa lo studio delle mappe predisposte all'inizio del settecento per tutto lo stato di Milano con una scala approssimata di 1:2000 secondo l'unità di misura del trabucco milanese (2,6 m circa). Per ogni appezzamento, infatti, veniva indicato il numero di mappa, il perticato, la qualità del terreno e della coltura e segni convenzionali differenti.
Analizzando le mappe, pur mancanti di alcuni edifici, si ha una chiara visione di come doveva essere Brebbia nel Settecento. L'abitato appare molto ridotto e concentrato intorno alla chiesa di S. Pietro e del Castellaccio. Numerosi appaiono i mulini che costituivano gran parte dell'economia del tempo. Con l'editto Teresiano del 10 Ottobre 1757 e, successivamente, con l'editto di Leopoldo II del 10 Gennaio 1791, Brebbia risultava ancora capo pieve e rientrava nella giurisdizione della Provincia di Como.

Nella seconda metà del settecento un grande movimento di riforme scosse l'organizzazione generale della società negli stati governati dagli Asburgo. Soprattutto con il piano di riforma del governo e dell'amministrazione dello Stato di Milano si ebbe il primo tentativo di mettere ordine nei governi locali. Un'ulteriore evoluzione della vita amministrativa la si ebbe quando le truppe francesi entrarono in Lombardia alla fine del settecento e furono adottate le leggi francesi: Brebbia divenne comune di terza classe nell'epoca napoleonica.
Con l'Unità d'Italia si mantenne la divisione in province e Brebbia continuò a dipendere da quella di Como. L'amministrazione comunale era retta da consiglieri comunali eletti dai cittadini che avessero compiuto i 21 anni e pagassero almeno 5 lire di contribuzioni dirette. La Giunta municipale, eletta dal Consiglio comunale, era composta dal Sindaco, da due assessori effettivi e due supplenti.
Ben 218 erano invece gli uomini arruolati nella Guardia Nazionale, corpo d'armata che doveva garantire la difesa delle comunità dai pericoli esterni e dall'evenienza di disordini.
Una relazione del sindaco Passera, inviata nel 1861 al Regio verificatore censuario di Gavirate, informava che a Brebbia c'erano 1142 abitanti, suddivisi nelle frazioni principali: Centro 433, Brebbia Superiore 222, Ronchée ed uniti 123, Bozza con molino 75, Ghigerima ed uniti 157, Marzée 79, Ronco 53.
La scuola era divisa in due classi, maschile e femminile, del solo grado inferiore; era affidata a due insegnanti, un maschio ed una femmina e gli scolari che frequentavano erano 50 (25 maschi e 25 femmine).
L'economia era ancora prevalentemente agricola con produzione di frumento, segale, avena e miglio; c'era anche una nutrita produzione di gelsi per alimentare i bachi da seta.
Il mestiere più praticato era quello del contadino (144 unità) ma era sorprendente anche il numero dei mugnai (26); si contavano anche 6 calzolai, 6 fabbri, 5 muratori, 4 campanari, 4 falegnami, 3 sarti, 2 osti, 1 tessitore, un commerciante, un prestinaio, un macellaio, un pastore, un pollivendolo, un pescatore.

Una parte del territorio era boschivo e di proprietà privata. Le prime attività industriali, legate alla forza motrice dell'acqua del Bardello erano: 2 cartiere, 1 sega di legna, 1 torchio d'olio e 12 molini da macina.
Le strade comunali avevano uno sviluppo di circa 13 km sul territorio.

Con la costruzione di un canale di 700 m tra le anse del fiume Bardello, all'altezza di Brebbia, nel 1893, l'imprenditore Achille Buzzi attivava la prima centrale idroelettrica della Lombardia con cui assicurava la forza motrice per la sua tessitura di Gavirate e la pubblica illuminazione delle piazze di Brebbia, Olginasio, Biandronno e Gavirate.

Nei primi anni del 1900 diede un forte impulso alla vita sociale del paese una prestigiosa figura religiosa: don Luigi Mari con la creazione di una Cassa Rurale, una Scuola di disegno per muratori, la Società di S. Giulio e la Lega del Lavoro.

Nel 1904 nasceva il Circolo familiare di Brebbia Superiore e nel 1905 compariva la prima farmacia, che dopo alterne vicende divenne stabile nel 1912 quando venne acquistata dal dott. Demetrio Ullio. A partire dal 1908 e per molti anni ebbe sede nella frazione di Ronchée e si trasferì nell'attuale sede solo nel 1967.

Il 23 marzo 1914, promossa e voluta dal senatore Giulio Adamoli di Besozzo, entrava in funzione la tranvia elettrificata Varese-Angera che portò in questa zona gli effetti del moderno mezzo che aveva trasformato il sistema dei collegamenti intorno a Varese, facilitandone i trasporti.

La prima guerra mondiale richiese a Brebbia un notevole contributo di uomini e di sangue (considerato rispetto al numero degli abitanti), uno dei più gravi subito dai comuni italiani per numero di caduti: i brebbiesi che non tornarono dal fronte furono ben 65 di cui 61 soldati e 4 Caporal Maggiore.

Tra le due guerre Brebbia assistette alle prime sostanziali immigrazioni di intere famiglie provenienti dalla Valtellina e da alcune zone del Veneto che incrementarono il numero dei residenti (da 1227 abitanti del 1861 si era passati a 2101 nel 1901 e 2210 nel 1921) e portarono in Paese nuovi costumi e usanze.

Con l'emanazione della legge 4 febbraio 1926 e non senza qualche dissidio locale, venne soppresso il Consiglio comunale, sostituito dal Podestà e Consulta municipale e prese il via il periodo del regime fascista.

Il difficile periodo della Repubblica sociale e i giorni della liberazione, nella primavera del 1945, trascorsero senza gravi turbamenti.

Dopo le elezioni del 1946, Mario Bricarello fu riconfermato Sindaco e la prima giunta comunale era composta dagli assessori Giovanni Podestà, Oreste Paolo Caglio, Ernesto Roncari e Augusto Betti.

Nel Referendum del 2 giugno 1946 il Paese scelse in maggioranza (662 voti) la Repubblica anche se i nostalgici della Monarchia erano rimasti ancora numerosi (451 voti).

Il confine con Besozzo è segnato in gran parte dal fiume Bardello. Esso è un emissario del Lago di Varese e un immissario del Lago Maggiore. In passato le sue acque hanno azionato le pale di molti mulini, uno dei quali è ancora funzionante in località Piona; attualmente alimenta alcune cartiere, una stamperia di tessuti e il Canale Buzzi, che dà forza motrice ad una arcaica turbina che genera corrente elettrica. Su confine col comune di Travedona scorre invece il torrente Acquanegra, che è emissario del Lago di Monate ed immissario del Lago Maggiore.

Il Paese è costituito da un nucleo centrale: "Brebbia Centro" e 3 frazioni: Brebbia Superiore - Ronchée e Bozza", ciascuna formata da località e antiche cascine che hanno conservato la loro caratteristica denominazione:

Brebbia Centro: Vaticano (Cantûn Pisûn) caratterizzato dalla grotta di Lourdes, Preölegie, Borghetto (Bûrghet), Frecc, Gesioeu;
Brebbia Superiore: Castellaccio (ur Castelasc), Roncaccio, Cascina Bara, Marzée, Mirabella (Mirébéle), Torbiera;
Ronchée: Piona (Piûne), Sué, Campagna, Bosco grosso;
Bozza: Bozza lago (Böze), Bozza mulino, Mulino nuovo (Mûrin noeuv), Ghigerima inferiore (Ghigérimé), Ghigerima superiore, Motta Pivione;
e altri Mirasole (Miresö), Vignetta (Vignéte), Ronco, Paû, San Martin, Laghetasch, Piner spésé.

Brebbia si colloca tra lambito tipico dei laghi intermorenici e la sponda del lago Maggiore. Del primo conserva i moderati rilievi di origine glaciale a volte poggianti su formazioni rocciose più antiche (Brebbia Superiore) mentre nelle depressioni formatesi tra i rilievi, i terreni argillosi favoriscono il ristagno delle acque (zona detta del "laghetasch" e zona bassa). La seconda si presenta con andamento pianeggiante e con sponda sabbiosa.

Il "Laghetasch" è un'area umida-torbosa con presenza di livelli dacqua variabili che si trova il colle di Motto Pivione. Diversi decenni orsono, il proprietario vi introdusse dei "taxodium", piante idrofile, che, svettano per la loro imponenza. Infatti, grazie alla loro particolare attitudine a respirare attraverso le radici cave emergenti, hanno trovato un habitat ideale nella piccola torbiera, tanto da propagarsi in diverse direzioni.

Con riferimento alla vegetazione, mentre la piana di Brebbia è utilizzata come area seminativa di frumento, mais, orzo, avena, segale, le colline sono ricoperte da boschi di castagni, con abeti, pini, betulle, noccioli, aceri, robinie, frassini faggi e sambuco. Nei prati e brughiere crescono ranuncoli, tarassaco, piantaggine, rabarbaro, trifoglio, pratoline, gerani e garofani selvatici e una varietà di graminacee che consente due o tre fienagioni nella bella stagione. In riva al Verbano e lungo la foce del Bardello crescono salici bianchi, ontani, canne palustri, tife e l'ambiente naturale si offre alla nidificazione di anatre e alcune specie di trampolieri.

La fauna è costituita da lepri, fagiani, qualche volpe, scoiattoli, ghiri, ricci, topi di campagna, talpe, bisce, merli, rondini, passeri, corvi, gabbiani, anatre e qualche airone.

La chiesa dei Santi Pietro e Paolo, edificio romanico del XII secolo costruito sulle fondamenta di una più piccola chiesa del VII secolo e probabilmente sui resti di un antico tempio pagano. L'aspetto più notevole della chiesa è dato dall'accuratezza del paramento murario, realizzato con blocchi di serizzo, granito e pietra d'Angera, dalla ricchezza di lavorazioni del portale meridionale e dalla presenza, all'interno, di un affresco con il ciclo della Passione che non ha precedenti in territorio varesino.

Il Museo della Pipa - Pipe Brebbia S.r.l. nato nel 1979 che rende pubblica una collezione privata di pipe (include una collezione di pipe di Gianni Brera) e di oggetti e scritti correlati realizzata dal fondatore della Pipe Brebbia, Enea Buzzi.

Il laghetàsc, piccola torbiera paludosa situata sul Motto Pivione a Brebbia, in mezzo ad un castagneto. Nello stagno crescono diverse piante di cipresso calvo delle paludi. Il sentiero che circonda il Laghetàsc fa parte delle Vie Verdi del Verbano.

Stupende sono le Sabbie d'Oro di Brebbia - Costa occidentale del Lago Maggiore.





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sabato 21 marzo 2015

DONGO

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Dongo è il luogo della cattura di Benito Mussolini e dei gerarchi della repubblica Sociale Italiana, che vennero portati nella sede comunale, Palazzo Manzi, per ufficializzare l’arresto. Il paese di Dongo sorge alla foce del torrente Albano, lungo il tracciato dell'Antica Via Regina; Dongo si trova anche sull'antico percorso che, attraverso il Passo San Jorio, collega il lago di Como alla Val Mesolcina.

Un documento del 1465 è il primo a segnalare la presenza nella zona di importanti miniere di ferro. Queste miniere e gli impianti per il trattamento del ferro nel 1771 divennero di proprietà di Pietro Rubini, che nel 1789 costruì' il primo altoforno a carbone di legna per la produzione della ghisa, nel 1839 la società diventerà Rubini Scalini Falck, da cui nascerà' l'industria siderurgica Falck.


All'altezza della Piazzetta Rubini venne catturato dai partigiani Benito Mussolini il 27 aprile 1945 in fuga da Milano verso la Valtellina; fu ucciso nella frazione di Giulino nel comune di Tremezzina (oggi Mezzegra), il giorno seguente.

Nel tentativo di sfuggire alla disfatta definitiva della Repubblica Sociale Italiana e sperando ancora in un sussulto dei suoi con la possibilità di trattare un accordo di resa a condizione, Mussolini abbandona il 18 aprile 1945 l'isolata sede di Palazzo Feltrinelli a Gargnano, sulla sponda occidentale del lago di Garda, e si trasferisce a Milano, dove arriva in serata prendendo alloggio nella prefettura; il giorno precedente aveva discusso nell'ultimo consiglio dei ministri sulla possibile resistenza nel Ridotto della Valtellina.

Nella notte, insieme a Pavolini, giunge a Menaggio un convoglio militare tedesco in ritirata composto da trentotto autocarri e da circa duecento soldati della FlaK, la contraerea tedesca, al comando del tenente Willy Flamminger diretto a Merano attraverso il passo dello Stelvio. Mussolini con i gerarchi fascisti e le rispettive famiglie al seguito, decide di aggregarvisi. La colonna, lunga circa un chilometro, alle cinque del mattino parte da Menaggio, ma alle sette, appena fuori dall'abitato di Musso, viene fermata ad un posto di blocco delle Brigate Garibaldi; dopo una breve sparatoria, e in seguito a lunghe trattative, i tedeschi ottengono il permesso di poter proseguire a condizione che venga effettuata un'ispezione, e che siano consegnati tutti gli italiani presenti nel convoglio, nel sospetto che vi fosse il Duce con qualche gerarca in fuga. Mussolini, su consiglio del capo della sua scorta SS, il sottotenente Fritz Birzer, indossa un cappotto e un elmetto da sottufficiale della Wehrmacht, si finge ubriaco e sale sul camion numero 34 della Flak, occultandosi in fondo al pianale, vicino alla cabina di guida, ricoperto da una coperta militare. A nessun altro italiano sarà concesso di tentare di seguire nascostamente Mussolini nel convoglio.

Intanto, durante l'attesa in cui si svolgevano le trattative, Ruggero Romano con il figlio Costantino, Ferdinando Mezzasoma, Paolo Zerbino, Augusto Liverani, Nicola Bombacci, Luigi Gatti, Ernesto Daquanno, Goffredo Coppola e Mario Nudi si consegnano al parroco don Enea Mainetti, nella canonica di Musso, che li affiderà ai partigiani. Il sacerdote venne a conoscenza della presenza di Mussolini nella colonna e ne diede comunicazione a "Pedro".

Verso le ore 16 del 27 aprile, durante l'ispezione della colonna tedesca in piazza a Dongo, Mussolini viene riconosciuto dal partigiano Giuseppe Negri sotto una panca del camion n. 34. Viene perciò prontamente disarmato del mitra e di una pistola Glisenti, arrestato e preso in consegna dal vicecommissario di brigata Urbano Lazzaro "Bill" che lo accompagna nella sede comunale, dove gli viene sequestrata la borsa di cui era in possesso.

Tutti gli altri componenti italiani al seguito vengono arrestati: si tratta di più di cinquanta persone, più le mogli e i figli al seguito. Tra di essi la maggior parte dei membri del governo repubblicano, più alcune personalità politiche, militari e sociali accompagnati dai loro familiari. Qualcuno si consegna spontaneamente, altri tentano di comprarsi una possibilità di fuga offrendo ingenti somme e valori alla popolazione locale. Gli occupanti di un autoblindo cercano di resistere ingaggiando una sparatoria, Pietro Corradori e Alessandro Pavolini fuggono buttandosi nel lago ma vengono ripresi e Pavolini rimane ferito. Il giorno seguente sedici di essi, tra gli esponenti più in vista del regime, saranno sommariamente fucilati sul lungolago di Dongo; tra gli altri, che rimangono agli arresti a Dongo e saranno trasferiti a Como, un'ulteriore decina di essi, in due notti successive, viene prelevata ed uccisa.

Il fermo della colonna motorizzata tedesca e il susseguente arresto di Mussolini e del suo seguito era stato effettuato dai partigiani della 52ª Brigata Garibaldi "Luigi Clerici", comandata da Pier Luigi Bellini delle Stelle, nome di battaglia “Pedro”. Il suo commissario politico era Michele Moretti “Pietro Gatti”, vice commissario politico Urbano Lazzaro “Bill” e il capo di stato maggiore Luigi Canali “Capitano Neri”. Tra i gerarchi al seguito del dittatore, furono arrestati anche Francesco Maria Barracu, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alessandro Pavolini, Ministro segretario del PFR, Ferdinando Mezzasoma, Ministro della Cultura Popolare, Augusto Liverani, Ministro delle Comunicazioni, Ruggero Romano, Ministro dei Lavori Pubblici, Paolo Zerbino, Ministro dell'Interno. Fu arrestato anche Marcello Petacci, fratello di Claretta, che a bordo di un'Alfa Romeo 1500 recante bandiera spagnola, seguiva il convoglio con la convivente Zita Ritossa, i figli Benvenuto e Ferdinando e la sorella. Esibendo un falso passaporto diplomatico spagnolo si dichiarava estraneo al convoglio, spacciandosi per diplomatico spagnolo. Anche Clara era in possesso di un passaporto spagnolo intestato a Donna Carmen Sans Balsells. Tra i fermati c'è anche la presunta figlia naturale del Duce, Elena Curti.

Nello stesso tempo, i prigionieri rimasti a Dongo, vengono interrogati e schedati dal "capitano Neri" e separati in tre gruppi distinti: Bombacci, Barracu, Utimpergher, Pavolini e Casalinuovo vengono anch'essi trasferiti a Germasino, i ministri rimangono rinchiusi nei locali del municipio e gli altri, autisti, impiegati, militari tra cui l'agente dei servizi segreti Rosario Boccadifuoco, distribuiti nell'ex caserma dei Carabinieri ed in case private. I Petacci, di cui non si era ancora scoperto la vera identità, vengono alloggiati all'albergo Dongo. La partigiana "Gianna", in collaborazione con l'impiegata comunale Bianca Bosisio, esegue l'inventario di tutti gli ingenti valori ed i beni sequestrati.

Per "oro di Dongo" si intendono comunemente tutti i beni sequestrati dalla 52ª Brigata Garibaldi "Luigi Clerici", tra quelli in possesso di Mussolini e i gerarchi al momento della cattura. Tali beni sono stati parzialmente inventariati il 28 aprile 1945 nel Municipio di Dongo, dalla partigiana Giuseppina Tuissi "Gianna" e dall'impiegata comunale Bianca Bosisio. Nel tardo pomeriggio del medesimo giorno, il capo di stato maggiore della brigata, Luigi Canali, nome di battaglia “Capitano Neri”, firma un ordine di consegna temporaneo di tutti i beni recuperati ed inventariati dalla Tuissi, alla federazione comunista di Como, di cui Gorreri è responsabile. L'utilizzazione fatta di tali valori, è tuttora oggetto di congetture.

Il 7 maggio 1945, il “Capitano Neri” scompare misteriosamente e il suo corpo non sarà più ritrovato. Il 22 giugno successivo, la "Gianna", dopo essere stata diffidata dall'intraprendere ricerche sulla fine dell'ex-comandante, nonché minacciata da Dante Gorreri e da Pietro Vergani, comandante delle formazioni garibaldine della Lombardia, è uccisa e gettata nel Lago di Como nei pressi di Cernobbio. Anche il suo corpo non sarà più ritrovato. Il 5 luglio riemerge invece dal lago il corpo di Anna Maria Bianchi, amica e confidente della Tuissi, annegata dopo essere stata torturata e ferita con due colpi di rivoltella.

Nel 1946 Gorreri è eletto all'Assemblea Costituente, sui cui banchi siederà sino al 1948.

Il 12 dicembre 1949 Dante Gorreri è rinviato a giudizio in qualità di mandante dell'omicidio del “Capitano Neri” e con l'accusa di peculato per aver preso in consegna il cosiddetto “oro di Dongo” e averlo successivamente fatto sparire; insieme a lui sono incriminati: Pietro Vergani, per aver organizzato l'uccisione del Canali, e in qualità di mandante degli omicidi della Tuissi e della Bianchi; Domenico Gambaruto quale esecutore materiale dell'uccisione del “Capitano Neri”; Maurizio Bernasconi "Mirko", per l'uccisione della "Gianna"; Natale Negri ed Ennio Pasquali per quello della Bianchi. Gorreri è arrestato e resta in carcere quattro anni; nel 1953 è eletto deputato nelle liste del PCI e, avvalendosi dell'immunità parlamentare viene liberato.

Il 29 aprile 1957, presso la Corte d'Assise di Padova si apre il processo per la sparizione dell'"oro di Dongo" e i collegati delitti sopra riportati. In tale sede è ascoltato Enrico Mattei, responsabile amministrativo di tutte le formazioni partigiane durante la Resistenza, il quale testimonia che "il bottino delle azioni di guerra apparteneva alle formazioni che lo catturavano, e poteva essere messo a disposizione dei comandi". È sentito anche Luigi Longo, vicesegretario del PCI e, all'epoca, vicecomandante del Corpo volontari della libertà. L'esponente comunista afferma di non ritenere "esatto che al partito comunista siano arrivati dei valori; essi giunsero invece a un comando garibaldino autorizzato a disporre per i suoi reparti delle prede belliche". Il documento di consegna alla federazione del partito, firmato da Canali e controfirmato anche dai partigiani Michele Moretti e Urbano Lazzaro, tuttavia, recita diversamente.

Il 24 luglio successivo, uno dei giurati è ricoverato in ospedale e il processo è rinviato al 5 agosto. Tra le due date, il giurato ricoverato si suicida in ospedale e il processo è rinviato a nuovo ruolo. Non verrà più ripreso. Nel frattempo scatterà il meccanismo della prescrizione, assicurando a Gorreri l'impunità.

Il 4 maggio 1945 era pervenuto sul tavolo di Gorreri tutto il materiale cartaceo contenuto in due borse in possesso di Mussolini e requisito dai partigiani della 52ª Brigata Garibaldi al momento della sua cattura, a cui erano stati uniti altri documenti di Mussolini provenienti da una terza borsa sequestrata a Marcello Petacci, temporaneamente trattenuti da Aldo Lampredi.

Al comando comasco, il materiale è esaminato da una commissione formata, oltre che da Gorreri, anche dal nuovo prefetto di Como, Virginio Bertinelli, che verificano trattarsi di un carteggio comprendente 62 lettere, di cui 31 a firma del Primo ministro britannico Winston Churchill e 31 a firma Mussolini.

Dopo la visione degli stessi, si decide di commissionare la fotoriproduzione di tutti i documenti alla Fototecnica Ballarate di Como. Ne sono effettuate alcune copie, di cui l’originale rimane in possesso di Dante Gorreri, e una copia viene consegnata a Bertinelli, che la nasconderà all’interno di un "cavallo con maniglie" di una palestra di Como; un’altra copia è riposta da Gorreri nella cassaforte della federazione.

Il 2 settembre 1945, a nemmeno due mesi dalla conclusione della guerra in Europa, dopo aver perso le elezioni politiche e non più Primo ministro, Winston Churchill si reca sul lago di Como, a trascorrere una breve vacanza dietro il falso nome di colonnello Waltham e fa contattare Dante Gorreri dal capitano dei servizi segreti britannici Malcolm Smith.

Il 15 settembre 1945, nella trattoria “La pergola” di Como, Dante Gorreri consegna gli originali delle 62 lettere del carteggio Churchill-Mussolini al capitano Smith, in cambio della somma di due milioni e mezzo di lire in contanti. Le copie del carteggio in possesso del prefetto Virginio Bertinelli erano già state recuperate dal capitano inglese, il precedente 22 maggio.

La copia del carteggio riposta da Gorreri nella cassaforte della federazione comunista sarà trafugata nel 1946 da Luigi Carissimi Priori, ex capo dell’ufficio politico della questura di Como. In un’intervista rilasciata nel 1998 al giornalista Roberto Festorazzi, Carissimi Priori dichiarerà di aver consegnato il plico contenente le 62 lettere al presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, resistendo ad un'offerta di 100.000 sterline di alcuni agenti segreti inglesi.






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martedì 10 marzo 2015

BASILICA DI SAN PIETRO IN CIEL D' ORO - PAVIA -

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La basilica di San Pietro in Ciel d'Oro (in coelo aureo) è una basilica situata a Pavia, eretta in epoca longobarda (VIII secolo) e in seguito ricostruita in stile romanico (XII secolo). Consacrata da Papa Innocenzo II nel 1132, la basilica vanta grande prestigio e notorietà nel mondo cattolico in quanto ospita, da oltre un millennio, le spoglie di sant'Agostino da Ippona. Insigne esempio di architettura romanica lombarda, ricordato da Dante, Boccaccio e Petrarca, l'antichissimo tempio è generalmente considerato, insieme alla basilica di San Michele Maggiore, il più importante monumento religioso medievale della città di Pavia.

La tradizione vuole che la basilica sia stata fondata dal re longobardo Liutprando per ospitare le spoglie di sant'Agostino, custodite fino al 722 a Cagliari nella omonima cripta, ove giunsero nel 504 da Ippona, attualmente in Algeria, al seguito di san Fulgenzio di Ruspe, esiliato assieme ad altri vescovi del Nord Africa dal re Vandalo Trasamondo. Il re Liutprando, infatti, temeva che i saraceni potessero trafugare una così importante reliquia nel corso delle loro frequenti scorrerie.

Da giovane studiò e si formò come monaco Paolo Diacono, storico e poeta dei Longobardi.

Dopo il 1000, in epoca comunale i monaci lasciarono il cenobio pavese a causa dei disordini e si trasferirono sull'Appennino ligure, dando vita al monastero di Pietramartina di Rezzoaglio; a Pavia rimasero attive due chiese dedicate al santo irlandese Colombano fino al XVI secolo.

Successivamente passò ai monaci agostiniani.

Come gran parte delle chiese pavesi, fu ricostruita in epoca romanica, alla fine del XII secolo. Si trovava nella parte nord del centro storico, all'interno di una zona chiamata Cittadella, cinta da mura, che serviva per attività militari (la zona si trova molto vicina al Castello Visconteo). Il nome della basilica è dovuto al fatto che la copertura dell'originaria chiesa, probabilmente a cassettoni o a capriate lignee a vista, presentava una sontusa decorazione a foglia d'oro. Ai lati della chiesa si trovavano due conventi; quello a nord era occupato dai canonici lateranensi, quello a sud dai monaci agostiniani.

Nel 1796 le truppe al seguito di Napoleone Bonaparte entrarono in città e spogliarono la chiesa, che fu sconsacrata e usata come stalla o deposito, mentre i frati venivano cacciati ed i conventi affidati ai militari. L'Ottocento fu deleterio per l'edificio ormai all'abbandono: la navata destra e la prima campata della navata centrale crollarono e l'aula rimase aperta all'esterno, con gravissimi danni per gli affreschi sopravvissuti. Di fronte a questo stato, la "Società Pavese per l'arte Sacra" trattò con l'esercito il riacquisto della basilica e dell'antico convento degli agostiniani, avvenuto nel 1884. I lavori di restauro durarono molti anni e riportarono il prestigioso complesso romanico all'antico splendore, ricostruendo le navate mancanti, la cripta ed eliminando altre manomissioni che nei secoli precedenti erano state perpetrate all'impianto medievale della basilica. Le opere si conclusero nel 1901, con la riconsacrazione della basilica, finalmente restituita al culto ed all'arte. Le spoglie di sant'Agostino, che erano state trasferite nel Duomo, furono riportate nella chiesa, assieme all'arca trecentesca destinata ad accoglierle. Attualmente, la chiesa è officiata dai monaci agostiniani, che sono tornati ad occupare l'antico convento.

Della chiesa longobarda rimangono pochissimi resti, nascosti sotto la ricostruzione romanica. San Pietro in Ciel d'Oro si presenta, così, come molte altre chiese pavesi dell'epoca: un edificio in mattoni, a tre navate con transetto, abside e cripta.

La facciata a capanna è scandita da due contrafforti che la dividono in tre zone, corrispondenti alle navate interne; il contrafforte di destra, più spesso, ospita una scala interna che permette di accedere al tetto. La sommità è coronata da una loggetta cieca e da un motivo ad archi intrecciati. La pietra (arenaria) è usata solo per le parti più importanti, come il portale, le finestrelle e gli occhi di bue. Lungo i contrafforti si notano le tracce di un antico nartece, o forse di un quadriportico, che precedeva l'ingresso alla chiesa.


L'interno è scandito da cinque campate, rettangolari nella navata centrale e quadrate nelle navate laterali. Rispetto al San Michele Maggiore si percepiscono immediatamente le diverse proporzioni della navata centrale, più larga, più lunga e meno slanciata, la più rigorosa successione dei pilastri, tutti grossolanamente a medesima sezione anziché alternati come nell'altra chiesa, e l'assenza dei matronei. Le campate dalla seconda alla quinta sono coperte da volte a crociera; la prima, più alta, in funzione quasi di atrio interno (endonartece) o addirittura di falso transetto, è coperta da volta a botte. Essa svolge anche funzioni statiche poiché serve come appoggio per la facciata. Il diverso schema di coperture è percepibile anche all'esterno, osservando il differente andamento delle falde. La volta a crociera della navata centrale fu rifatta nel 1487 da Giacomo da Candia. Le prime due campate della navata sinistra sono decorate da interessanti affreschi cinquecenteschi. Dopo l'arco trionfale, si apre il transetto, che, contrariamente a quello di San Michele Maggiore non sporge rispetto al corpo principale, ma occupa la profondità delle tre navate. Le tre navate sono chiuse, ad est, da absidi decorate esternamente con una loggetta cieca, similmente alla facciata, come d'uso nell'architettura romanica; il catino di quella centrale, più grande delle altre due, è decorato da un affresco del Loverini (1900) che riprende un antico mosaico, distrutto nel 1796. All'incrocio tra la navata centrale e il transetto si eleva la cupola ottagonale su pennacchi di tipo lombardo, racchiusa esternamente dal tiburio in cotto.

La cripta, rifatta durante i restauri ottocenteschi sulle tracce esistenti, occupa lo spazio del presbiterio e del coro ed è collegata alla navata principale ed alle due laterali da quattro scale; chiusa ad est da un'abside, è spartita in cinque navate da ventiquattro colonne che reggono volte a crociera, le quali sostengono, a loro volta, il pavimento dei due ambienti superiori. La cripta ospita le spoglie di Severino Boezio. Addossato alla parete di fondo, si nota l'antico pozzo, di cui si narravano proprietà curative, già esistente nel XII secolo e ripristinato nel corso dei restauri di fine Ottocento.

Dalla navata sinistra si accede alla Sacrestia Nuova, ampio ed arioso ambiente rettangolare in schietto stile rinascimentale, con volte a vela ottimamente affrescate.

Nel presbiterio, prima del coro, si trova l'Arca di Sant'Agostino, un capolavoro marmoreo del Trecento, scolpito dai maestri comacini. Si tratta di un'opera gotica, divisa in tre fasce: in basso, uno zoccolo contenente l'urna con i resti del santo; al centro, una fascia aperta, con la statua di Sant'Agostino dormiente e, in alto, l'ultima fascia, poggiata su pilastrini e coronata da cuspidi triangolari. L'intera opera è decorata da più di 150 statue, che raffigurano angeli, santi, e vescovi, e da formelle con la vita del santo.

Oltre a quella di sant'Agostino, la chiesa ospita le tombe del mercenario condottiero Facino Cane, di Severino Boezio nella cripta come già accennato, e di re Liutprando, alla base dell'ultimo pilastro della navata destra.

Della presenza del corpo di Boezio presso San Pietro in Ciel d'Oro tratta Dante nel canto X del Paradiso, ove si trova scritto:

« Lo corpo ond’ella fu cacciata giace
giuso in Cieldauro; ed essa da martiro e da esilio venne a questa pace »

Nella chiesa vi è un pregevole organo a canne Lingiardi costruito nel 1913, modificato da Mascioni nel 1978 e restaurato nel 1990 dalla ditta Inzoli. Lo strumento è a due tastiere e pedaliera ed è contenuto in una sontuosa cassa in stile neogotico.

LEGGI ANCHE : http://asiamicky.blogspot.it/2015/03/lombardia-la-regione-che-ospita-expo.html

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giovedì 5 marzo 2015

IL TICINO

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Il Ticino è un importante fiume della Svizzera meridionale e dell'Italia settentrionale, il principale affluente del Po per volume d'acqua e in assoluto il secondo fiume italiano per portata d'acqua dopo quest'ultimo. Il Ticino misura complessivamente 248 km di lunghezza ed è uno dei fiumi meno inquinati d'Italia.Il corso del Ticino è tradizionalmente diviso in tre parti: la parte montana (Ticino Superiore), che scorre in territorio svizzero; la parte lacuale, che riguarda il Lago Maggiore e la parte pianeggiante (Ticino Inferiore), che vede il Ticino scorrere in Italia, nella tratta compresa tra Sesto Calende e il Po. La lunghezza complessiva del fiume è di 248 km, dei quali 91 km percorsi a monte del Lago Maggiore, 47 km percorsi nel Verbano e 110 km percorsi da Sesto Calende al Po, attraverso la Pianura Padana tra Piemonte e Lombardia.

Il tratto di fiume compreso tra le sorgenti e l'immissione nel Lago Maggiore può essere chiamato anche Ticino Superiore. Esso scorre in territorio svizzero, nel Canton Ticino e scaturisce da due sorgenti. La principale si trova sul Passo della Novena non lontano dal confine tra il Canton Ticino (al quale il Ticino dà il nome), l'estrema punta settentrionale della provincia del Verbano Cusio Ossola (Formazza) ed il Canton Vallese. L'altra sorgente, di portata più modesta, si trova, invece, nei pressi dell'Ospizio del Passo del San Gottardo, ad Airolo.

Il ramo di Ticino proveniente dal Passo della Novena, solca la Val Bedretto e ad Airolo si unisce con il ramo proveniente dal Passo del San Gottardo. Qui il fiume inizia a percorrere la Val Leventina, dove scorre spesso incassato tra le rocce (gole di Stalvedro e del Monte Piottino). In questo tratto è, inoltre, ingrossato da un notevole numero di piccoli affluenti.

A Biasca, il Ticino riceve da sinistra il fiume Brenno ed inizia a scorrere in Valle Riviera. Successivamente lambisce Bellinzona, nei pressi di cui riceve da sinistra il Moesa e il Morobbia. Il Moesa, che percorre la Val Mesolcina, nel Canton Grigioni, rappresenta il maggior tributario del Ticino Superiore. In seguito il fiume sbocca nel Piano di Magadino, dove scorre incanalato fin quasi al piccolo delta con cui sfocia nel Lago Maggiore. Poco prima di immettersi nel lago, il Ticino riceve le acque di un buon numero di affluenti minori. Il Ticino Superiore misura 91 km, percorsi totalmente in territorio svizzero e la sua portata media allo sbocco nel Lago Maggiore è di 69 m³/s.

Nel tratto lacuale riceve il contributo di svariati affluenti direttamente sfocianti nel lago, alcuni importanti come la Maggia, il Toce (suo principale tributario), la Verzasca, il Tresa (che drena tutta la zona del lago di Lugano) e il Bardello, emissario del Lago di Varese. Il percorso del Ticino nel Lago Maggiore è di 47 km.

Il Ticino Inferiore costituisce l'unico emissario del Lago Maggiore. Il suo percorso inizia al ponte di Sesto Calende. Da qui il fiume si dirige in direzione sud est, segnando tra l'altro, anche il confine tra il Piemonte e la Lombardia.

Oltrepassato l'abitato di Sesto Calende, il Ticino incontra lo sbarramento artificiale della Miorina, che ne regola il deflusso dal Lago Maggiore. Poco più a valle, si trova la Diga di Porto della Torre, dove il Ticino cede parte della sua portata al Canale Regina Elena, che irriga le campagne del Novarese. Immediatamente dopo, nel territorio di Somma Lombardo, si trova lo sbarramento del Panperduto. Qui gran parte delle acque del Ticino vengono incanalate e vanno ad alimentare il Canale Villoresi ed il Canale Industriale.

Il fiume, privato di buona parte delle sue acque, scorre in un vasto alveo, alimentando alcune rogge molinare, sia in Piemonte, che in Lombardia, le quali un tempo muovevano le pale dei mulini, oggi dismessi.

Al Ponte di Oleggio si trova la Diga Paladella, oggi dismessa, che un tempo era l'incile del Naviglio Grande. Oggi questo primo tratto di naviglio non è più utilizzato e resta tutto l'anno secca, come alveo storico. Attualmente la portata del Naviglio Grande viene immessa a Turbigo, e proviene dal Canale Industriale, che prima di cedere buona parte delle sue acque al Naviglio Grande, aziona le centrali idroelettriche di Vizzola (a Vizzola Ticino), di Tornavento (a Lonate Pozzolo) e Castelli (a Turbigo). La portata residua del Canale Industriale che non viene immessa nel Naviglio Grande, torna al Ticino, alimentando, però, un'altra centrale idroelettrica: la centrale di Turbigo Inferiore.

Poco prima di ricevere la portata residua del Canale Industriale, il Ticino alimenta il Naviglio Langosco, che scorre in Piemonte. Proseguendo di qualche chilometro, sempre in sponda piemontese, il Ticino alimenta il Naviglio Sforzesco. Questo, dopo aver azionato la centrale idroelettrica di Vigevano, si divide in due rami, uno va a portare acqua alle campagne, mentre l'altro torna al fiume.

Presso Abbiategrasso, il Ticino entra interamente in Lombardia, non segnando più il confine col Piemonte. A destra del Ticino si trova ora la Lomellina, un vasto territorio della Lombardia, di cui il Ticino lambisce la città più importante: Vigevano.

Più a valle, presso Motta Visconti, il fiume torna a scorrere a corso unico, dopo che dal Ponte di Oleggio fino a qui, le sue acque si erano divise, naturalmente, in una moltitudine di rami secondari e meandri, creando anche le cosiddette lanche: antichi rami del Ticino, che col passare del tempo il fiume non ha più percorso. Questi ambienti si sono così trasformate in zone umide in cui la fauna e la flora sono lussureggianti.

Tornato a corso unico, il fiume prosegue verso sud est. A Bereguardo il fiume è scavalcato da un famoso ponte di barche, l'unico rimasto sul Ticino. Poco più a sud il Ticino attraversa la città di Pavia, separando il centro storico dalla frazione di Borgo Ticino. Il Ticino confluisce, infine, da sinistra nel Po nel territorio comunale di Linarolo, e precisamente al Ponte della Becca.

Gli affluenti del Ticino Inferiore sono pochi e in genere di scarsa portata. Essi sono: il torrente Lenza, a Sesto Calende; il torrente Strona a Somma Lombardo; il torrente Arno a Castano Primo; il Canale del Latte a Turbigo; il Canale Cavour a Galliate; la Roggia Cerana a Cerano; il Canale Scolmatore di Nord Ovest (che raccoglie le acque in eccesso dei fiumi Olona e Seveso) ad Abbiategrasso; il Naviglio di Bereguardo a Bereguardo; il Naviglio Pavese, Canale Gravellone e Roggia Vernavola a Pavia.

Il Ticino Inferiore misura 110 km e la sua portata media alla confluenza col Po è di 350 m³/s; conta 10 affluenti ed interessa il territorio di quattro province: (Varese, Novara, Milano e Pavia). Inoltre è un ambiente di straordinaria biodiversità nelle acque del fiume sono presenti quasi 40 specie ittiche sebbene alcune di esse come trota marmorata e temolo siano in stato di pericoloso declino. Le specie autoctone sono: alborella, anguilla, barbo canino, barbo comune, bottatrice, carpa, cavedano, cobite comune, cobite mascherato, ghiozzo padano, gobione, lampreda padana, lasca, luccio, panzarolo, persico reale, pigo, sanguinerola, savetta, scardola, scazzone, spinarello, storione cobice, temolo, tinca, triotto, trota marmorata, vairone.

Mentre quelle alloctone sono: abramide, aspio, barbo europeo, carassio, cobite di stagno orientale, gambusia, lucioperca, persico sole, persico trota, pseudorasbora, rodeo, rutilo, siluro, trota iridea.

Il Ticino, grazie alla copiosità delle sue acque ha grande importanza per l'irrigazione ed è un'importante fonte di energia elettrica. Se infatti, fra gli affluenti del Po, occupa solo il 4º posto per lunghezza dopo Adda, Oglio e Tanaro, ed il 3º per superficie di bacino dopo Tanaro e Adda, è però di gran lunga quello più ricco d'acque in ogni stagione, sia come portata media alla foce (ben 350 m³/s), sia come portata minima (54 m³/s), sia come portata massima (5.000 m³/s), al punto che il suo contributo idrico ed il suo regime sono assolutamente determinanti per il Po, rappresentandone da metà ad 1/5 della portata.

In territorio italiano alimenta vari canali artificiali, tra cui il Naviglio Grande che fin dall'epoca medioevale ha avuto grande importanza per i trasporti, oggi non è usato per i trasporti ma per la produzione elettrica, con il Canale Industriale, a cui è collegato, permette il funzionamento di varie centrali idro e termoelettriche garantendo circa il 30% del fabbisogno energetico lombardo. Per gli usi irrigui il Ticino alimenta, tra gli altri, il Canale Regina Elena nella parte piemontese e il Canale Villoresi nella parte lombarda. Altro canale del Ticino, che a dispetto delle ridotte dimensioni, ha avuto rilevanza economica per l'Alto Milanese è la Gora Molinara, che come dice il nome azionava diversi mulini lungo il suo corso.

Il percorso italiano del fiume è interamente protetto da due parchi regionali, che formano nell'insieme il più grande parco fluviale d'Europa:

il Parco Lombardo della Valle del Ticino, creato nel 1974, copre 91.140 ettari, di cui 21.740 urbanizzati dove l'azione del parco è limitata;
il Parco Naturale della Valle del Ticino, creato nel 1978, copre 6.250 ettari formanti una banda stretta lungo la riva destra del fiume.
In Svizzera, invece, all'immissione nel Lago Maggiore il fiume forma le Bolle di Magadino, area naturalistica protetta ricca di flora e di fauna tipiche della zona.

Nonostante il Ticino sia uno dei fiumi più puliti della Lombardia e del Piemonte, dal 2000, le sue acque risentono di un serio problema, noto come problema Arno. La questione ruota tutta attorno al torrente Arno, modesto corso d'acqua del Varesotto e dell'Alto Milanese, le cui acque sono tra le più sporche di Lombardia e non solo. Il torrente anticamente sfociava nel Ticino presso Turbigo, dove ora si trova la cosiddetta Roggia Arno, a causa, però, dell'alta permeabilità del suo alveo a valle di Gallarate, il torrente perdeva le sue acque, spagliando nella campagna tra Lonate Pozzolo, Castano Primo, Nosate e Vanzaghello. Nel Novecento, a causa dei liquami riversati nell'Arno, l'alveo del torrente si è impermeabilizzato, causando sempre più sovente allagamenti che determinavano anche una situazione di degrado ambientale alle campagne circostanti. Nel 2000 si è così proceduto a bonificare l'area di spagliamento e a realizzare dei vasconi per lo spagliamento controllato tra Castano, Nosate e Lonate Pozzolo. I lavori prevedevano che a causa di portate elevatissime del torrente l'acqua in eccesso andasse nel Canale Marinone e quindi nel Ticino. I lavori non vennero però svolti nella maniera più opportuna e questo causò l'impermeabilizzazione dei vasconi, determinando l'afflusso dell'Arno nel Ticino molto spesso. Questa situazione influisce molto negativamente sulla qualità delle acque del fiume, che pur restando di grado buono manifestano un notevole peggioramento a valle di Lonate Pozzolo, soprattutto in tempo di pioggia.

Altro serio problema di cui soffrono le acque del fiume Ticino, è rappresentato dal Canale Scolmatore di Nord Ovest, realizzato tra gli anni sessanta e ottanta, per ovviare ai frequenti allagamenti di cui soffre l'area milanese. Il canale venne realizzato per impedire gli allagamenti causati dal fiume Seveso a Milano. Questo piccolo fiume, è però uno dei più inquinati della Lombardia, e nei tempi di pioggia, riversa nello scolmatore una notevole quantità di liquami, che finiscono poi nel Ticino presso Abbiategrasso. Nei momenti di forti e prolungate piogge il canale accoglie anche la portata in eccesso del fiume Olona, altro fiume la cui qualità delle sue acque è scadente.

Il fatto è che oltre a scaricare nel Ticino le luride acque del Seveso, il canale si è pure sovente rivelato insufficiente ad evitare le inondazioni. Ad esempio nel novembre 2002, le forti e continue piogge causarono lo straripamento del Ticino, dell'Olona, del Seveso ed anche dello Scolmatore di Nord Ovest, che inondò le campagne di Abbiategrasso. Queste situazioni hanno da sempre causato le proteste degli ambientalisti, che hanno contestato il canale fin dalla sua costruzione.

A partire dall'età del bronzo la Valle del Ticino fu culla di un importante civiltà nota come cultura di Golasecca. Inoltre il Ticino fu il teatro di una vittoria di Annibale nella seconda guerra punica (218 a.C.), e nel 1810 vi si suicidò il patriota e letterato Francesco Lomonaco.

Nel 1848 della prima mossa del regio esercito piemontese contro l'Austria, che diede inizio alla prima guerra d'indipendenza italiana.

Nel 2002 la Valle del Ticino è stata istituita quale "Riserva della Biosfera " all'interno del programma Man and Biosphere dell'UNESCO, pertanto è annoverato tra i beni o Patrimoni dell'Umanità da tutelare.

Come tutti i fiumi che corrono ai piedi di catene montuose, anche il Ticino è un bacino nel quale è possibile trovare dell'oro.

Gli antichi Romani lo sapevano molto bene, e lo avevano capito al punto da impiegare, come ci descrive Plinio il Vecchio, una forza lavoro pari a 5.000 schiavi per l'estrazione del prezioso metallo dai bacini fluviali della Bassa Gallia (Piemonte e Lombardia occidentale); ancora oggi, non a caso, lungo il corso del fiume è possibile individuare enormi cumuli di massi ammonticchiati conosciuti come vie Aurifodine, testimonianze di antiche miniere d'oro a cielo aperto distribuite lungo un percorso di quasi due km nel territorio di Varallo Pombia.

L'oro è presente in forma di pagliuzze generalmente non più lunghe di un millimetro, e la potenzialità aurifera del Ticino è calcolata essere di 6-8 grammi per tonnellata di sabbia setacciata.

La ricerca dell'oro alluvionale è oggi soltanto un'attività naturalistico-amatoriale, non remunerativa ma fonte di emozioni e divertimento; questa passione accomuna numerose associazioni soprattutto nella provincia di Pavia.

Nel 1997, il Ticino è stato sede di un'edizione del Campionato Mondiale di ricerca dell'oro.


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