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venerdì 1 luglio 2016

LA PROVINCIA DI PAVIA

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La provincia di Pavia confina a nord con la città metropolitana di Milano, a est con la provincia di Lodi, con l'exclave di San Colombano al Lambro (città metropolitana di Milano) e con l'Emilia-Romagna (provincia di Piacenza), a sud-ovest, a ovest e nord-ovest con il Piemonte (provincia di Alessandria, provincia di Vercelli, e provincia di Novara).

Attraversata dai due maggiori fiumi italiani per portata, il Po e il Ticino, che confluiscono quasi nel suo centro, la provincia di Pavia appare, a seconda dei punti di vista, divisa o unita da questi fiumi. Superficialmente si direbbe divisa, e tale fu storicamente quando il suo destino fu deciso da forze esterne, per le quali un fiume poteva essere un comodo confine amministrativo o politico-militare. Al contrario, quando furono le forze locali a poter giocare un ruolo determinante, prevalse la tendenza all'unione delle terre lungo i fiumi, principali vie di comunicazione nella pianura, e motivo di coesione. Così i Romani, che divisero il territorio addirittura fra tre regioni diverse, non tennero in alcun conto le precedenti aggregazioni etniche, che - come diremo - appaiono organizzate lungo i fiumi. Nel Medioevo fu la città di Pavia ad aggregare di nuovo il territorio, ma nel XVIII secolo, nel dominio assoluto delle cancellerie europee, esso fu smembrato tra stati diversi, e Napoleone, padrone di tutte queste aree, non volle accondiscendere al desiderio delle popolazioni di essere riunite. Va dunque ascritto a merito del governo sabaudo, nel 1859, di aver riunito definitivamente il territorio pavese, anche a costo di modificare l'assetto amministrativo precedente.

Gli scarsi cenni, ricavabili dagli autori antichi e dalla toponomastica, sulle popolazioni che abitavano il territorio attorno alla confluenza del Ticino nel Po, ci consentono di avere un pur vago disegno del quadro etnografico fino al II secolo a.C.

Il popolo più importante era probabilmente quello dei Marici, citati da Plinio che ne fa, assieme ai Levi, i fondatori di Pavia (Ticinum). Entrambi erano di stirpe ligure: i Marici si distendevano lungo il Po nelle province di Pavia e Alessandria, i Levi lungo il Ticino. Proprio alla confluenza dei due fiumi questi popoli confinanti fondarono Pavia, probabilmente come loro mercato e luogo di incontro.

Più a ovest, a nord del Po, si trovavano i Libìci (Lebeci secondo Polibio), che occupavano la Lomellina occidentale e l'adiacente Vercellese. Non sembra avere invece consistenza storica il fantomatico popolo degli Iriati, nato dall'arbitraria correzione del nome degli Iluati, citati da Livio, per ottenere una suggestiva ma superflua connessione con il nome della città di Iria, Voghera.

I Romani giunsero nella provincia di Pavia nel III secolo a.C., al tempo delle guerre contro i Galli e i Cartaginesi. Nel 222 a.C. sconfissero gli Insubri a Clastidium, nell'Oltrepò Pavese, uno dei principali villaggi dei Marici loro alleati. Nel 218 a.C. furono sconfitti da Annibale presso il Ticino. La successiva colonizzazione ebbe come centro propulsore la vicina colonia latina di Piacenza, la cui centuriazione si distese su tutta la pianura dell'Oltrepò.

La fondazione, attorno al 120 a.C., della colonia di Tortona, determinò il passaggio all'area di influenza di tale città della parte occidentale dell'Oltrepò Pavese (Voghera). La colonizzazione di Pavia (187 a.C.) fu pure realizzata con la centuriazione della pianura a nord del Po e ad est del Ticino, mentre la parte a ovest del Ticino non conserva tracce di centuriazione (se non attorno a Vigevano, dove giungeva la colonizzazione di Novara), per cui è da ritenersi che nella Lomellina, come forse nella parte collinare dell'Oltrepò, più a lungo si mantenesse l'elemento indigeno. La zona a nord del Po, nella suddivisione dell'Italia in regioni operata da Augusto, fu attribuita alla Transpadana, mentre l'Oltrepò fu suddiviso tra l'Emilia e la Liguria lungo il confine tra le aree di influenza di Piacenza e Tortona.

Nel 572 Pavia fu conquistata dai Longobardi, che ne fecero la loro capitale. I Longobardi organizzarono le loro conquiste in ducati, ma la geografia amministrativa del territorio pavese in questo periodo non è nota. Il re Rotari nel 643 emise il celebre editto e si ebbe una rinascita religiosa, con la fondazione del Monastero di San Pietro in Ciel d'Oro.

Nella successiva età carolingia il territorio venne diviso in contee: nella provincia di Pavia furono istituite quelle di Pavia, di Lomello (da cui si originò la Lomellina), a nord del Po. Il territorio a sud del fiume apparteneva nella parte occidentale alla contea di Tortona, nella parte centrale e orientale (ecclesiasticamente nella diocesi di Piacenza) rimase forse nel territorio piacentino, come in epoca romana. La città era attraversata dalla "Roggia Carona, che permise con le sue acque la nascita di diverse attività artigianali.

Nel 996 è conte di Lomello Cuniberto; lascia la contea ai figli Aginulfo e Ottone I, che nel 1001 concentra nelle sue mani anche le cariche di Conte di Pavia e di Conte Palatino (la maggiore carica giudiziaria del Regno), con sede nel Sacro Palazzo (Palazzo Reale) di Pavia. Nel 1024, alla morte dell'Imperatore Enrico II, i Pavesi distrussero questo palazzo, e i Conti Palatini si ritirarono in Lomellina, loro dominio originario, dove resistettero alle pressioni del nascente comune pavese; furono infine sottomessi e costretti a stabilirsi in città. Nello stesso tempo il Comune di Pavia cominciò a estendere la propria influenza sull'Oltrepò, dove già il Vescovo e vari monasteri della città avevano la signoria su numerosi paesi.

La città di Pavia stava quindi nuovamente unificando il territorio di quei popoli che l'avevano fondata molti secoli prima. Questo stato di fatto fu ufficializzato nel 1164 da Federico I, che attribuì a Pavia l'intera Lomellina e gran parte dell'Oltrepò. Rimaneva indipendente la zona meridionale dell'attuale provincia. Per il possesso di queste terre Pavia dovette lottare a lungo con i Comuni vicini, specie con Piacenza, raggiungendo infine una certa stabilità di confini. Ma la più pericolosa nemica di Pavia fu senza dubbio Milano, che le contese a lungo il possesso della Lomellina.

I Pavesi esercitarono sul loro territorio un potere signorile, mantenendo per secoli una condizione di privilegio rispetto agli abitanti rurali. I nobili pavesi vi possedevano la maggior parte dei beni fondiari, e questa situazione ancora sussisteva nel XVIII secolo. Dal punto di vista amministrativo, l'area soggetta a Pavia era divisa in quattro zone molto disuguali, convergenti sulla città, secondo i punti cardinali, ovvero le porte da cui tali zone si raggiungevano:
a nord la Campagna Soprana (da porta Laudense);
a est la Campagna Sottana (da porta Oria);
a ovest la Lomellina (da porta Marica);
a sud l'Oltrepò con il Siccomario (da porta del Ponte).
Nei primi secoli del dominio pavese avvenne una sorta di osmosi tra le famiglie nobili di origine cittadina, che acquisivano terre, castelli e signorie nel territorio soggetto alla città, e le famiglie signorili locali di tale territorio, che si stabilivano in città, confondendosi con le prime. In tal modo si formò un'omogenea classe dominante, di famiglie che non mancavano d'avere un piede in città e uno nel contado, di qui una torre, di là un castello. In tal modo le lotte politiche interne alla città, che videro schierarsi le maggiori famiglie, ebbero immediata ripercussione nel dominio pavese.

Tra queste famiglie dobbiamo ricordare in particolare:
i Conti Palatini, da cui discesero i Langosco, gli Albonese, gli Sparvara e i Gambarana, capi della parte guelfa;
i Sannazzaro, anch'essi di parte guelfa;
i Beccaria, capi della parte ghibellina;
i Belcredi, di parte ghibellina;
i Giorgi, di parte ghibellina, ma spesso nel ruolo di pacieri.
La lotta si focalizzò sulle casate dei Langosco e dei Beccaria, che avevano i loro punti di forza rispettivamente in Lomellina e nell'Oltrepò. Alla fine però ebbero la meglio i Visconti di Milano, che presero la città nel 1359, dopo aver assoggettato tutto il territorio. Quando i domini viscontei furono elevati a Ducato con decreto imperiale (1395), il territorio pavese prese il nome di Contea di Pavia, ed era appannaggio del Duca di Milano o del suo erede.

Nel 1499 il territorio pavese, passato con Milano agli Sforza, ebbe dall'imperatore la qualifica di Principato, che lo poneva al secondo posto dopo il Milanese tra le province sforzesche. Nel 1535 passò con Milano alla Spagna. Nel 1564 il governo spagnolo, riconosciuta l'iniquità dei privilegi fiscali dei cittadini pavesi rispetto ai rurali, promosse la costituzione di congregazioni con la finalità principale di distribuire equamente tra le comunità il carico fiscale. Le congregazioni ebbero più in generale funzioni di coordinamento amministrativo e rappresentanza delle istanze locali di fronte al potere centrale.

Non erano elette direttamente dalla popolazione, ma formate dai rappresentanti dei comuni principali; erano quattro, una per ognuna delle zone in cui era diviso il Principato; al di sopra si poneva la Congregazione generale del Principato, formata da 21 rappresentanti (7 per l'Oltrepò, 7 per la Lomellina, 4 per la Campagna Sottana e 3 per la Campagna Soprana), da cui era eletta una giunta formata da cinque sindaci, i quattro a capo delle congregazioni locali e il Sindaco generale. Nel secolo XVII la congregazione della Lomellina si staccò da quella generale del Principato; quest'ultima ebbe 24 delegati (12 per l'Oltrepò e 6 per ciascuna delle Campagne pavesi), e altrettanti ne ebbe la Congregazione della Lomellina.

Il Principato di Pavia non aveva esattamente la stessa estensione dell'attuale Provincia. Comprendeva le seguenti zone:
la città di Pavia;
il Parco Vecchio, situato a nord della città, cinto da mura e comprendente la parte originaria dell'antico parco visconteo;
il Parco Nuovo, tra il Parco Vecchio e la Certosa;
il Vicariato di Settimo, cuneo del territorio milanese tra la Campagna Soprana e Sottana e il Parco Nuovo, amministrato da Pavia, comprendente Bornasco e Zeccone;
la Campagna Soprana, a nordovest dei territori precedenti, fino al Ticino;
la Campagna Sottana, a sudest dei medesimi, fino al Po;
l'Oltrepò, che a sud giungeva fino a una linea comprendente Rivanazzano, Torrazza Coste, Montalto Pavese, Rocca de' Giorgi e Canevino, e isolati a sud di tale linea Montesegale, Torre degli Alberi e Pizzocorno; inoltre comprendeva a nord del Po il Siccomario e Mezzana Bigli, e infine Sale, Piovera e Guazzora (attualmente in provincia di Alessandria);
aggregate al territorio pavese, le giurisdizioni situate a sud dell'Oltrepò nella Contea di Bobbio: Fortunago, Godiasco, Varzi, Cecima, Cella, Pregola, Zavattarello, e infine Trebecco e Bobbio (ora in provincia di Piacenza);
la Lomellina, cioè la zona tra Po e Ticino a ovest del Siccomario, che comprendeva anche Bastida Pancarana a sud del Po, e inoltre Valenza e Bassignana (attualmente in provincia di Alessandria).
Non comprendeva invece:
la provincia del Vigevanasco, formata da due gruppi di paesi attorno a Vigevano e Robbio;
il territorio di Landriano, Bascapè e Torrevecchia Pia, e quello di Vidigulfo e Siziano, appartenenti al milanese (Vicariato di Binasco e Pieve di San Giuliano); essi furono uniti al territorio pavese nel 1786;
la signoria di Bagnaria, feudo imperiale;
Monticelli Pavese, nel ducato di Piacenza.

Nel XVIII secolo avvenne lo smembramento del territorio pavese: nel 1707 la Lomellina, e nel 1744 l'Oltrepò con il Siccomario furono annessi al Piemonte, cui fu ceduto anche il Vigevanasco. La Lomellina, il Vigevanasco e l'Oltrepò Pavese divennero province piemontesi con capoluoghi rispettivamente Mortara, Vigevano, Voghera e Bobbio. La provincia di Lomellina aveva però perso Valenza, Bassignana e cinque piccole terre lungo il Tanaro, unite ad Alessandria. A Pavia rimase un piccolo territorio, appartenente alla Lombardia austriaca, col nome di Principato prima e di Provincia dal 1786. Nel periodo napoleonico (1797 - 1814) l'unione del territorio pavese non venne ripristinata.

È significativo come, essendo stato richiesto agli abitanti dell'Oltrepò con un referendum a quale territorio volessero essere uniti, e avendo essi risposto che volevano tornare con Pavia, la loro volontà sia stata semplicemente ignorata dal governo francese. La divisione pertanto continuò: Pavia con le Campagne fu annessa al Dipartimento d'Olona, la Lomellina e il Siccomario al Dipartimento dell'Agogna, che furono parte della Repubblica Italiana e del Regno d'Italia; l'Oltrepò, aggregato prima al Dipartimento di Marengo (Alessandria) e poi al Dipartimento di Genova, fece parte della Repubblica e poi Impero Francese. I confini furono rettificati, e fatti coincidere con linee naturali (in particolar modo il Po divenne confine di Stato: così l'Oltrepò perse Mezzana Bigli ma acquistò Bastida Pancarana).

Nel 1814, con il ritorno degli antichi regimi, le precedenti suddivisioni furono ripristinate, ma ben presto furono operate alcune modifiche per razionalizzare i confini. La provincia di Pavia, appartenente al Regno Lombardo-Veneto, fu ingrandita con i territori attorno ad Abbiategrasso (antiche pievi milanesi di Corbetta e Rosate), e inoltre con Monticelli Pavese ceduto dal Ducato di Parma e Piacenza (già dal 1786 alla provincia di Pavia era stato unito il Vicariato di Binasco ex milanese, e parte della pieve di San Giuliano). La Lomellina e il Vigevanasco (tranne Vinzaglio) furono uniti in una sola Provincia, appartenente alla divisione di Novara; l'Oltrepò invece fu diviso in due province, facenti capo a Voghera e a Bobbio, e appartenenti rispettivamente alle divisioni di Alessandria e Genova. L'Oltrepò perse Sale, Piovera e Guazzora, uniti alla provincia di Alessandria, ma acquistò Bagnaria, staccato da Tortona.

All'alba dell'unità d'Italia, nel 1859, l'amministrazione piemontese fu riformata (Decreto Rattazzi del 23 ottobre 1859): le province furono ridotte a circondari di nuove più ampie province coincidenti per lo più con le vecchie divisioni; i territori piemontesi dell'attuale provincia dunque erano destinati ad essere uniti alle province di Novara, Alessandria e Genova; ma l'annessione della Lombardia al regno di Sardegna permise di unire le tre ex province di Lomellina, Voghera e Bobbio alla provincia di Pavia. Quest'ultima peraltro restituì a Milano la zona di Abbiategrasso e Binasco, ma conservò a Pavia quella di Vidigulfo e Landriano.

Le variazioni non erano però finite: nel 1923 la città di Bobbio con buona parte del suo circondario comprendente anche i comuni di Trebecco, Caminata, furono unite alla provincia di Piacenza e in minor misura a quella di Genova; alcuni comuni tra cui Zavattarello, Ruino, Romagnese, ritornarono a Pavia due anni dopo. Dopo di allora si sono avute solo modifiche marginali.

Nel 1936 venne aggregato alla provincia di Pavia l'ex comune di Cantonale, già appartenente alla provincia di Milano.


È percorsa dai fiumi Ticino e Po, che si incontrano 4 km a sud del capoluogo e che la dividono in tre zone: il Pavese, totalmente in Pianura Padana, a nordest, la Lomellina, anche questa totalmente in Pianura Padana, a nordovest, tra Ticino e Po, e l'Oltrepò, in territorio appenninico, a sud. Il territorio del Siccomario, alla confluenza dei due fiumi, si troverebbe in Lomellina, ma, per motivi storici, è considerato parte del Pavese.

Un altro importante corso d'acqua della provincia è l'Olona. Si tratta di un colatore alimentato da rogge e risorgive che trae origine nelle campagne attorno a Bornasco, attraversa la campagna pavese e confluisce nel Po presso San Zenone. Tale corso d'acqua non è da confondersi con l'omonimo fiume che nasce nelle Prealpi Varesine, e confluisce a Milano nel Lambro Meridionale. Prima delle deviazioni operate dai Romani i due fiumi costituivano un unico corso d'acqua, da cui deriva l'omonimia mantenutasi sino ai giorni nostri.

Per un breve tratto interessa la provincia anche il fiume Lambro. Maggiore è il tratto compiuto nella provincia dal suo affluente colatore Lambro meridionale, derivato dall'Olona a Milano, riceve le acque in eccesso dei navigli, e scorre al confine tra le province di Pavia e di Lodi.

La Staffora è il maggior fiume dell'Oltrepò Pavese e confluisce nel Po, dopo un percorso di 58 km. Altri corsi d'acqua dell'Oltrepò sono i torrenti Coppa, Scuropasso, Tidone, Versa e Avagnone (che confluisce nel Trebbia).

Nella parte più meridionale dell'Oltrepò Pavese il confine è segnato in val Trebbia per una piccola porzione dal fiume Trebbia, il punto più a sud è posto nel comune di Brallo di Pregola accanto alla frazione emiliana di Ponte Organasco (Cerignale - provincia di Piacenza).

Nella Lomellina scorrono la Sesia, al confine con le province di Alessandria e Vercelli e, paralleli a questa e al Ticino, i piccoli fiumi Agogna e Terdoppio, provenienti dal Novarese.

La provincia è in gran parte pianeggiante. La pianura a nord del Po ha una base sabbiosa, specialmente in Lomellina, ove affiorano alcuni sabbioni (resti di antiche dune) un tempo assai più numerosi. Nell'Oltrepò la poca pianura presente è prevalentemente argillosa; a sud della limitata fascia pianeggiante l'Oltrepò presenta un'ampia area collinare facente parte della catena Appenninica che lentamente si innalza in modeste montagne (tutte sotto i 1000 m). Solo all'estremità meridionale, a sud di Varzi, quasi all'improvviso le montagne si fanno più impervie e raggiungono altitudini considerevoli con alcune delle maggiori vette dell'Appennino Ligure: il Monte Lesima (la maggiore elevazione della provincia con i suoi 1724 m), il Monte Chiappo (1700 m), la Cima Colletta (1494 m), il Monte Bogleglio (1492 m) e il Monte Penice (1460 m).

La Lomellina è la terra del riso per antonomasia, dal momento che sulla superficie di quasi 1065 chilometri quadrati vi è una concentrazione eccezionale di campi nei quali si coltiva il cerale più diffuso al mondo.

Tutti portiamo nella mente le fotografie in bianco e nero delle mondine che lavoravano nelle risaie con l'acqua fino alle ginocchia, intente ad intonare i loro celebri canti.

Molto tempo è passato ed oggi la Lomellina presenta punte d'eccellenza in diversi settori industriali, anche se la coltivazione del riso è tuttora la più significativa attività produttiva.

L'Oltrepò costituisce la zona più meridionale della provincia, incuneata tra il Piemonte e l'Emilia Romagna. Un territorio di circa 1100 chilometri quadrati che racchiude vaste pianure, colline e montagne.

L'Oltrepò è sinonimo di ottimi vini con le dolci colline costellate di ordinati filari di uve che donano i pregiati vini DOC rossi, bianchi e rosati.

Bellissime vallate, tra le quali le celebri Valle Staffora e Val Tidone, che mantengono vive le tradizioni del passato nell'equilibrio tra la protezione della natura e lo sviluppo industriale.



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martedì 10 marzo 2015

BASILICA DI SAN PIETRO IN CIEL D' ORO - PAVIA -

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La basilica di San Pietro in Ciel d'Oro (in coelo aureo) è una basilica situata a Pavia, eretta in epoca longobarda (VIII secolo) e in seguito ricostruita in stile romanico (XII secolo). Consacrata da Papa Innocenzo II nel 1132, la basilica vanta grande prestigio e notorietà nel mondo cattolico in quanto ospita, da oltre un millennio, le spoglie di sant'Agostino da Ippona. Insigne esempio di architettura romanica lombarda, ricordato da Dante, Boccaccio e Petrarca, l'antichissimo tempio è generalmente considerato, insieme alla basilica di San Michele Maggiore, il più importante monumento religioso medievale della città di Pavia.

La tradizione vuole che la basilica sia stata fondata dal re longobardo Liutprando per ospitare le spoglie di sant'Agostino, custodite fino al 722 a Cagliari nella omonima cripta, ove giunsero nel 504 da Ippona, attualmente in Algeria, al seguito di san Fulgenzio di Ruspe, esiliato assieme ad altri vescovi del Nord Africa dal re Vandalo Trasamondo. Il re Liutprando, infatti, temeva che i saraceni potessero trafugare una così importante reliquia nel corso delle loro frequenti scorrerie.

Da giovane studiò e si formò come monaco Paolo Diacono, storico e poeta dei Longobardi.

Dopo il 1000, in epoca comunale i monaci lasciarono il cenobio pavese a causa dei disordini e si trasferirono sull'Appennino ligure, dando vita al monastero di Pietramartina di Rezzoaglio; a Pavia rimasero attive due chiese dedicate al santo irlandese Colombano fino al XVI secolo.

Successivamente passò ai monaci agostiniani.

Come gran parte delle chiese pavesi, fu ricostruita in epoca romanica, alla fine del XII secolo. Si trovava nella parte nord del centro storico, all'interno di una zona chiamata Cittadella, cinta da mura, che serviva per attività militari (la zona si trova molto vicina al Castello Visconteo). Il nome della basilica è dovuto al fatto che la copertura dell'originaria chiesa, probabilmente a cassettoni o a capriate lignee a vista, presentava una sontusa decorazione a foglia d'oro. Ai lati della chiesa si trovavano due conventi; quello a nord era occupato dai canonici lateranensi, quello a sud dai monaci agostiniani.

Nel 1796 le truppe al seguito di Napoleone Bonaparte entrarono in città e spogliarono la chiesa, che fu sconsacrata e usata come stalla o deposito, mentre i frati venivano cacciati ed i conventi affidati ai militari. L'Ottocento fu deleterio per l'edificio ormai all'abbandono: la navata destra e la prima campata della navata centrale crollarono e l'aula rimase aperta all'esterno, con gravissimi danni per gli affreschi sopravvissuti. Di fronte a questo stato, la "Società Pavese per l'arte Sacra" trattò con l'esercito il riacquisto della basilica e dell'antico convento degli agostiniani, avvenuto nel 1884. I lavori di restauro durarono molti anni e riportarono il prestigioso complesso romanico all'antico splendore, ricostruendo le navate mancanti, la cripta ed eliminando altre manomissioni che nei secoli precedenti erano state perpetrate all'impianto medievale della basilica. Le opere si conclusero nel 1901, con la riconsacrazione della basilica, finalmente restituita al culto ed all'arte. Le spoglie di sant'Agostino, che erano state trasferite nel Duomo, furono riportate nella chiesa, assieme all'arca trecentesca destinata ad accoglierle. Attualmente, la chiesa è officiata dai monaci agostiniani, che sono tornati ad occupare l'antico convento.

Della chiesa longobarda rimangono pochissimi resti, nascosti sotto la ricostruzione romanica. San Pietro in Ciel d'Oro si presenta, così, come molte altre chiese pavesi dell'epoca: un edificio in mattoni, a tre navate con transetto, abside e cripta.

La facciata a capanna è scandita da due contrafforti che la dividono in tre zone, corrispondenti alle navate interne; il contrafforte di destra, più spesso, ospita una scala interna che permette di accedere al tetto. La sommità è coronata da una loggetta cieca e da un motivo ad archi intrecciati. La pietra (arenaria) è usata solo per le parti più importanti, come il portale, le finestrelle e gli occhi di bue. Lungo i contrafforti si notano le tracce di un antico nartece, o forse di un quadriportico, che precedeva l'ingresso alla chiesa.


L'interno è scandito da cinque campate, rettangolari nella navata centrale e quadrate nelle navate laterali. Rispetto al San Michele Maggiore si percepiscono immediatamente le diverse proporzioni della navata centrale, più larga, più lunga e meno slanciata, la più rigorosa successione dei pilastri, tutti grossolanamente a medesima sezione anziché alternati come nell'altra chiesa, e l'assenza dei matronei. Le campate dalla seconda alla quinta sono coperte da volte a crociera; la prima, più alta, in funzione quasi di atrio interno (endonartece) o addirittura di falso transetto, è coperta da volta a botte. Essa svolge anche funzioni statiche poiché serve come appoggio per la facciata. Il diverso schema di coperture è percepibile anche all'esterno, osservando il differente andamento delle falde. La volta a crociera della navata centrale fu rifatta nel 1487 da Giacomo da Candia. Le prime due campate della navata sinistra sono decorate da interessanti affreschi cinquecenteschi. Dopo l'arco trionfale, si apre il transetto, che, contrariamente a quello di San Michele Maggiore non sporge rispetto al corpo principale, ma occupa la profondità delle tre navate. Le tre navate sono chiuse, ad est, da absidi decorate esternamente con una loggetta cieca, similmente alla facciata, come d'uso nell'architettura romanica; il catino di quella centrale, più grande delle altre due, è decorato da un affresco del Loverini (1900) che riprende un antico mosaico, distrutto nel 1796. All'incrocio tra la navata centrale e il transetto si eleva la cupola ottagonale su pennacchi di tipo lombardo, racchiusa esternamente dal tiburio in cotto.

La cripta, rifatta durante i restauri ottocenteschi sulle tracce esistenti, occupa lo spazio del presbiterio e del coro ed è collegata alla navata principale ed alle due laterali da quattro scale; chiusa ad est da un'abside, è spartita in cinque navate da ventiquattro colonne che reggono volte a crociera, le quali sostengono, a loro volta, il pavimento dei due ambienti superiori. La cripta ospita le spoglie di Severino Boezio. Addossato alla parete di fondo, si nota l'antico pozzo, di cui si narravano proprietà curative, già esistente nel XII secolo e ripristinato nel corso dei restauri di fine Ottocento.

Dalla navata sinistra si accede alla Sacrestia Nuova, ampio ed arioso ambiente rettangolare in schietto stile rinascimentale, con volte a vela ottimamente affrescate.

Nel presbiterio, prima del coro, si trova l'Arca di Sant'Agostino, un capolavoro marmoreo del Trecento, scolpito dai maestri comacini. Si tratta di un'opera gotica, divisa in tre fasce: in basso, uno zoccolo contenente l'urna con i resti del santo; al centro, una fascia aperta, con la statua di Sant'Agostino dormiente e, in alto, l'ultima fascia, poggiata su pilastrini e coronata da cuspidi triangolari. L'intera opera è decorata da più di 150 statue, che raffigurano angeli, santi, e vescovi, e da formelle con la vita del santo.

Oltre a quella di sant'Agostino, la chiesa ospita le tombe del mercenario condottiero Facino Cane, di Severino Boezio nella cripta come già accennato, e di re Liutprando, alla base dell'ultimo pilastro della navata destra.

Della presenza del corpo di Boezio presso San Pietro in Ciel d'Oro tratta Dante nel canto X del Paradiso, ove si trova scritto:

« Lo corpo ond’ella fu cacciata giace
giuso in Cieldauro; ed essa da martiro e da esilio venne a questa pace »

Nella chiesa vi è un pregevole organo a canne Lingiardi costruito nel 1913, modificato da Mascioni nel 1978 e restaurato nel 1990 dalla ditta Inzoli. Lo strumento è a due tastiere e pedaliera ed è contenuto in una sontuosa cassa in stile neogotico.

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lunedì 9 marzo 2015

CASTELLO VISCONTEO DI PAVIA

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Il castello Visconteo di Pavia fu costruito nel 1360 da Galeazzo II Visconti. I Visconti vollero anche disegnare un grandioso parco di caccia, che si estendeva originariamente per una decina di chilometri, fino alla Certosa di Pavia; oggi parte del territorio del parco è ancora presente, ma non più collegato al castello, e chiamato Parco della Vernavola.

La costruzione di una “cittadella” fortificata a ovest del nuovo edificio, sull’area limitrofa a S. Pietro in Ciel d’Oro, permise di sviluppare gli aspetti residenziali anziché quelli militari: in effetti, più che una fortezza, il Castello di Pavia fu soprattutto la splendida sede di una corte raffinata, come è ancora possibile intuire dalle grandi bifore esterne, dall’aereo loggiato del cortile e dagli affreschi delle sale interne, elementi che rispecchiano il gusto del gotico internazionale. Nella seconda metà del XIV e nel XV secolo il maniero fu un importante centro di produzione artistica. Di particolare bellezza il decoro con imprese viscontee sul cielo stellato della “Sala Azzurra”, le figure del Cristo morto e dei Santi nell’originaria cappella a piano terreno, i motivi a tappezzeria e le immagini muliebri su sfondo di rose.

Teatro della celebre battaglia che si combatté nel Parco nel 1525, mutilato nel lato nord dalle artiglierie francesi nel 1527 durante il sacco della città e successivamente divenuto caserma, il Castello di Pavia è stato acquistato dal Comune, restaurato negli anni ’20 e ’30 del XX secolo e, a partire dal secondo dopoguerra, è divenuto sede dei Musei Civici e ospita a la civica Pinacoteca Malaspina.


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giovedì 5 marzo 2015

PONTI SUL TICINO : IL PONTE COPERTO DI PAVIA

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Il Ponte Coperto (detto anche Ponte Vecchio) è un ponte sul fiume Ticino a Pavia, che collega il centro storico cittadino e il resto della città (situato sulla riva sinistra del Ticino), con il pittoresco quartiere, originariamente fuori dalle mura periferiche della città, di Borgo Ticino. Il ponte è molto caratteristico, ha cinque arcate ed è completamente coperto con due portali alle estremità e una piccola cappella religiosa al centro. Sebbene il ponte attuale sia stato costruito nel 1949, esso ripropone le forme dell'antico Ponte Coperto, risalente al XIV secolo.

Già in epoca romana, nell'antica città di Ticinum era presente un primo ponte che collegava le due rive del fiume all'altezza del moderno Ponte Coperto. Di questo ponte rimane, facilmente visibile nei periodi di magra, la base di un pilone centrale, in trachite dei colli Euganei. La direzione del pilone (WNW), leggermente disassata rispetto a quella dei ponti medievale e moderno, indica che in epoca romana la direzione della corrente del fiume era diversa. Un altro pilone del ponte romano si poteva vedere fino a pochi anni fa presso la sponda sinistra, ma è stato coperto di terra per ampliare la riva. La costruzione del ponte romano si fa risalire all'epoca di Augusto.

Nel 1351 fu costruito sui ruderi del ponte romano un nuovo ponte, su progetto di Giovanni da Ferrera e di Jacopo da Cozzo. Il ponte, completato nel 1354, era coperto e dotato di dieci arcate irregolari e di due torri alle estremità, che servivano per la difesa; l'aspetto di questo ponte, anche se con sole sei arcate, è visibile negli affreschi di Bernardino Lanzani (1524 circa) all'interno della chiesa di San Teodoro. Durante la costruzione delle mura spagnole, nel XVII secolo, la prima arcata e mezza verso la città e la prima arcata dal lato del borgo furono comprese nei bastioni e, quindi, chiuse. Successivamente furono aggiunti un portale d'ingresso dalla parte del Borgo Ticino (1599), una cappella al centro del ponte in onore di San Giovanni Nepomuceno (XVIII secolo) e infine anche un portale di ingresso dalla parte del centro storico, eretto dall'Amati (1822).

Nel Palazzo Mezzabarba, la sede del Comune di Pavia, salone ufficio anagrafe, è presente un modello in legno del ponte trecentesco, realizzato nel 1938.

I bombardamenti delle forze alleate nel settembre 1944, durante la seconda guerra mondiale, danneggiarono l'antico ponte trecentesco e ne fecero crollare un'arcata. Alla fine della guerra si svolse un aspro dibattito sull'opportunità di ripristinare il vecchio ponte o di demolirlo. Per timore di crolli che avrebbero potuto far straripare il Ticino e per lo scarso rispetto dell'epoca verso i monumenti storici, nel febbraio 1948, il Ministero dei Lavori Pubblici fece demolire con la dinamite l'antico manufatto.

Alcuni resti dei piloni del vecchio ponte sono visibili nelle acque del fiume; è rimasta anche la base del portale parzialmente interrato sulla riva sinistra.

Nel 1949 si iniziò la costruzione del nuovo ponte, che fu inaugurato nel 1951. Sul portale d'ingresso dalla parte della città un'epigrafe cita: "Sull'antico varco del ceruleo Ticino, ad immagine del vetusto Ponte Coperto, demolito dalla furia della guerra, la Repubblica Italiana riedificò".

Il ponte attuale è stato costruito circa 30 metri più a valle rispetto al precedente, ed è più largo e più alto rispetto a quello antico. Le arcate sono più larghe, quindi inferiori in numero: cinque anziché sette. Il ponte è ora anche più corto in quanto è posizionato in maniera esattamente perpendicolare alla corrente del fiume, mentre quello antico seguiva completamente la linea che congiunge Strada Nuova (dalla parte del centro) con Piazzale Ghinaglia (dalla parte del Borgo Ticino). Le modifiche attuate al progetto avevano lo scopo di migliorare la viabilità sul ponte (aumento di dimensioni in larghezza e altezza) e facilitare al contempo lo scorrimento delle acque (spostamento del percorso e allargamento delle arcate).

La qualità della realizzazione è però decisamente inferiore al ponte trecentesco, tant'è che il cemento delle arcate è già crepato a soli 64 anni dalla realizzazione, e dev'essere periodicamente monitorato per scongiurare il pericolo di crollo. Per ridurre le vibrazioni, la viabilità del ponte è stata ristretta, a eccezione dei mezzi pubblici e delle moto, a un unico senso di marcia (dalla città verso il Borgo), e per entrare in città è necessario usufruire del Ponte della Libertà (detto anche Ponte dell'Impero).

Nel 2005, in occasione del 50º anniversario della morte di Albert Einstein, nella parte centrale del ponte è stata posta una targa con queste parole: "Die schöne Brücke in Pavia habe ich oft gedacht" ("Ho spesso pensato a quel bel ponte di Pavia"), iscrizione che riporta una frase scritta dal grande scienziato in una lettera del 1947 indirizzata a un'amica italiana e che si riferiva al periodo da lui trascorso, quindicenne, a Pavia. La famiglia Einstein si era trasferita nel 1894 dalla Germania dapprima a Milano (in via Bigli, 21) e poi a Pavia (in via Ugo Foscolo, 11 - Casa Cornazzani) dove aveva trascorso circa un anno.

Il quartiere di Pavia al di là dal Ponte Coperto, sulla riva destra del Ticino, è chiamato Borgo Ticino. La parte più caratteristica del quartiere è quella situata sull'argine basso del fiume; la si raggiunge, dopo aver attraversato il ponte provenendo dal centro storico, girando subito a sinistra in via Milazzo. Subito dopo il ponte si trova un monumento in bronzo: una statua che ritrae una lavandaia, una delle donne che nei secoli scorsi lavavano i panni dei cittadini nel Ticino. Più avanti si trovano le case basse caratteristiche del Borgo Basso (Burg-à-bass in dialetto pavese), soggette a sporadici allagamenti in corrispondenza delle esondazioni del fiume, in piena mediamente ogni decina d'anni.


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PONTI SUL TICINO : PONTE DELLA BECCA

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Il Ponte della Becca è un ponte della provincia di Pavia, costruito nel 1912 sulla confluenza tra i fiumi Ticino e Po. Parzialmente distrutto a seguito di bombardamenti subiti durante la seconda guerra mondiale, fu ricostruito nel 1950.

Il ponte è costruito con un'armatura in ferro che lo avvolge completamente. La strada che lo percorre è la Strada statale 617 Bronese, che percorre la tratta Broni-Pavia. È lungo in totale 1,081 km.

Alla fine del lato pavese del ponte è sorto, a partire dagli anni 1990, un complesso turistico estivo la cui finalità è lo sviluppo della navigazione fluviale. A causa delle frequenti esondazioni da parte dei due fiumi, che spesso sommergono completamente la zona durante la stagione fredda, l'unica attività consentita alla base del fiume è proprio quella basata sulla navigazione. Peraltro, i due fiumi non sono balneabili, a causa dei gorghi che tendono a formarsi proprio in prossimità dei plinti del ponte e, ovviamente, dell'inquinamento delle acque.

Il 28 novembre 2010 viene rilevato un cedimento di 4 centimetri di un giunto della struttura: a seguito di questo il ponte fu dichiarato non carrabile e quindi chiuso al traffico. Tale è rimasto fino al 30 dicembre dello stesso anno, quando il transito è stato riaperto ai soli mezzi più leggeri di 35 quintali (trasporti pubblici esclusi), a seguito di una parziale ristrutturazione.

Il 17 marzo 2011 si ha un nuovo incidente: durante un periodo di piena del Po, crolla improvvisamente il pilone 9 del ponte, che viene perciò dichiarato nuovamente inagibile e quindi chiuso ancora al traffico veicolare. Dopo aver riparato il pilone e anche provveduto all'installazione di barriere limitatrici di larghezza in cemento con sbarre per impedire fisicamente il transito al traffico pesante, dato che i precedenti divieti erano stati continuamente infranti, il ponte viene nuovamente riaperto al solo traffico leggero a senso unico alternato.

Tra il 6 e 7 giugno 2011 vengono eseguiti dei rilievi sul letto del fiume, per determinare quanto fosse profonda la probabile buca che ha causato il cedimento e il conseguente crollo del pilone 9. I dati ottenuti affermano che la buca che ha provocato il crollo del pilone 9 si sta allargando ed è arrivata a minacciare anche la base del pilone 8. Infatti il pilone 8 è sporgente in modo anomalo: penetra nel fondo per soli 2 metri, mentre gli altri piloni sono a 11 metri.

Altri lavori sono stati effettuati nel corso del 2011.

A oggi il ponte è transitabile dai soli veicoli inferiori ai 35 quintali, è stato ripristinato il doppio senso di circolazione e sono state installate nuove barriere limitatrici in larghezza in cemento.


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I LONGOBARDI

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I Longobardi furono una popolazione germanica, protagonista tra il II e il VI secolo di una lunga migrazione che la portò dal basso corso dell'Elba fino all'Italia. Il movimento migratorio ebbe inizio nel II secolo, ma soltanto nel IV l'intero popolo avrebbe lasciato il basso Elba; durante lo spostamento, avvenuto risalendo il corso del fiume, i Longobardi approdarono prima al medio corso del Danubio (fine V secolo), poi in Pannonia (V secolo), dove consolidarono le proprie strutture politiche e sociali, si convertirono - solo parzialmente - al cristianesimo ariano e inglobarono elementi etnici di varia origine, germanici per la massima parte.

Entrati a contatto con il mondo bizantino e la politica dell'area mediterranea, nel 568, guidati da Alboino, si insediarono in Italia, dove diedero vita a un regno indipendente che estese progressivamente il proprio dominio sulla massima parte del territorio italiano continentale e peninsulare. Il dominio longobardo fu articolato in numerosi ducati, che godevano di una marcata autonomia rispetto al potere centrale dei sovrani insediati a Pavia; nel corso dei secoli, tuttavia, grandi figure di sovrani come Autari, Agilulfo (VI secolo), Rotari, Grimoaldo (VII secolo), Liutprando, Astolfo e Desiderio (VIII secolo) estesero progressivamente l'autorità del re, conseguendo progressivamente un rafforzamento delle prerogative regie e della coesione interna del regno. Il Regno longobardo, che tra il VII e l'inizio dell'VIII secolo era arrivato a rappresentare una potenza di rilievo europeo, cessò di essere un organismo autonomo nel 774, a seguito della sconfitta subita a opera dei Franchi guidati da Carlo Magno.

Nel corso dei secoli, i Longobardi, inizialmente casta militare rigidamente separata dalla massa della popolazione romanica, si integrarono progressivamente con il tessuto sociale italiano, grazie all'emanazione di leggi scritte in latino (Editto di Rotari, 643), alla conversione al cattolicesimo (fine VII secolo) e allo sviluppo, anche artistico, di rapporti sempre più stretti con le altre componenti socio-politiche della Penisola (bizantine e romane). La contrastata fusione tra l'elemento germanico longobardo e quello romanico pose le basi, secondo il modello comune alla maggior parte dei regni latino-germanici altomedievali, per la nascita e lo sviluppo della società italiana dei secoli successivi.

È lo stesso Paolo Diacono, che con la sua Historia Langobardorum ("Storia dei Longobardi") è la principale fonte di conoscenza della storia longobarda, a fornire l'etimologia dell'etnonimo "Longobardi" (Langbärte in antico germanico, latinizzato in Langobardi).

L'etimologia proposta dallo storico è stata accolta anche dalla moderna ricerca, che conferma come l'acconciatura tradizionale fosse a sua volta avvalorata da una forma rituale di culto al dio Odino. Al contrario, la storiografia ha ormai abbandonato l'ipotesi alternativa che spiegava l'etnonimo come popolo "dalle lunghe lance", dall'alto tedesco antico "barta" ("lancia").

I Longobardi si definivano «gens Langobardorum»: una gens, quindi, ovvero un gruppo di individui che aveva ben chiara la consapevolezza di formare una comunità e convinto di condividere un'ascendenza comune. Questo, tuttavia, non significava che i Longobardi fossero un gruppo etnicamente omogeneo; durante il processo migratorio inclusero al loro interno individui isolati o frammenti di popoli incontrati durante i loro spostamenti, soprattutto attraverso l'inserimento di guerrieri. Per accrescere il numero di uomini in armi ricorsero spesso all'affrancamento degli schiavi. La maggior parte degli individui via via inclusi era probabilmente composta da elementi germanici, ma non mancavano origini etniche diverse (per esempio, Avari del ceppo turco) e perfino Romani del Norico e della Pannonia.

I Longobardi erano un popolo in armi guidato da un'aristocrazia di cavalieri e da un re guerriero. Il titolo non era dinastico ma elettivo: l'elezione si svolgeva nell'ambito dell'esercito, che fungeva da assemblea degli uomini liberi (arimanni). Alla base della piramide sociale c'erano i servi, che vivevano in condizioni di schiavitù; a livello intermedio si trovavano gli aldii, che avevano limitata libertà ma una certa autonomia in ambito economico. Al momento dell'invasione dell'Italia (568), il popolo era suddiviso in varie fare, raggruppamenti familiari con funzioni militari che ne garantivano la coesione durante i grandi spostamenti. A capo di ogni fara c'era un duca.

In Italia le fare si insediarono sul territorio ripartendosi tra gli insediamenti fortificati già esistenti e una prima fase respinsero ogni commistione con la popolazione di origine latina (i Romanici), arroccandosi a difesa dei propri privilegi. Minoranza, coltivarono i tratti che li distinguevano sia dai loro avversari Bizantini sia dai Romanici: la lingua germanica, la religione pagana o ariana, il monopolio del potere politico e militare. L'irruzione dei Longobardi sulla scena italiana sconvolse i rapporti sociali della Penisola. La maggior parte del ceto dirigente latino (i nobiles) fu uccisa o scacciata, mentre i pochi scampati dovettero cedere ai nuovi padroni un terzo dei loro beni, secondo il procedimento dell'hospitalitas.

Anche una volta insediati in Italia, i Longobardi conservarono il valore attribuito all'assemblea del popolo in armi, il "Gairethinx", che decideva l'elezione del re e deliberava sulle scelte politiche, diplomatiche, legislative e giudiziarie più importanti. Con il radicarsi dell'insediamento in Italia, il potere divenne territoriale, articolato in ducati. Gli sculdasci governavano i centri più piccoli, mentre i gastaldi di nomina regia amministravano la porzione dei beni dei longobardi assegnati, a partire dall'elezione di Autari (584) al sovrano.

Una volta stabilizzata la presenza in Italia, nella struttura sociale del popolo iniziarono a manifestarsi segnali di evoluzione, registrati soprattutto nell'Editto di Rotari (643). L'impronta guerriera, che portava con sé elementi di collettivismo militaresco, lasciò progressivamente il passo a una società differenziata, con una gerarchia legata anche alla maggiore o minore ampiezza delle proprietà fondiarie. L'Editto lascia intendere che, anziché in fortificazioni più o meno provvisorie, i Longobardi vivessero ormai nelle città, nei villaggi o - caso forse più frequente - in fattorie indipendenti (curtis). Con il passare del tempo anche i tratti di segregazione andarono stemperandosi, soprattutto con il processo di conversione al cattolicesimo avviato dalla dinastia Bavarese. Il VII secolo fu segnato da questo progressivo avvicinamento, parallelo a un più ampio rimescolamento delle gerarchie sociali. Tra i Longobardi vi fu chi discese fino ai gradini più bassi della scala economico-sociale, mentre al tempo stesso cresceva il numero dei Romanici capaci di conquistare posizioni di prestigio. A conferma della rapidità del processo c'è anche l'uso esclusivo della lingua latina in ogni scritto.

Sebbene le leggi rotariane proibissero, in linea di principio, i matrimoni misti, era tuttavia possibile per un longobardo sposare una schiava, anche romanica, purché emancipata prima delle nozze. Gli ultimi re longobardi, come Liutprando o Rachis, intensificarono gli sforzi d'integrazione, presentandosi sempre più come re d'Italia anziché re dei Longobardi. Le novità legislative introdotte dallo stesso Liutprando mostrano anche il ruolo sempre più rilevante rivestito da nuove categorie, come quelle dei mercanti e degli artigiani. Con l'VIII secolo, i Longobardi erano in tutto adattati agli usi e ai costumi della maggioranza della popolazione del loro regno.

Giunti in Italia, il processo di conversione al cattolicesimo si intensificò al punto da indurre Autari a vietare espressamente ai Longobardi di far battezzare con rito cattolico i propri figli. Anche in questo caso, più che mossa da interessi spirituali, la misura mirava evitare spaccature politiche tra i Longobardi e a scongiurare i pericoli di assimilazione da parte dei Romanici. Già con il suo successore Agilulfo, tuttavia, l'opposizione al cattolicesimo si fece meno radicale, soprattutto per influsso di Teodolinda, cattolica. Dopo un iniziale appoggio allo Scisma tricapitolino, la regina (che era in corrispondenza con papa Gregorio Magno) favorì sempre più l'ortodossia cattolica. Un segnale decisivo fu il battesimo cattolico impartito, nel 603, all'erede al trono Adaloaldo.

Rimaneva comunque costante lo scarso coinvolgimento spirituale di gran parte dei Longobardi nelle controversie religiose, tanto che la contrapposizione tra cattolici, da un lato, e pagani, ariani e tricapitolini, dall'altro, assunse ben presto valenze politiche. I sostenitori dell'ortodossia romana, capeggiati dalla dinastia Bavarese, erano politicamente i fautori di una maggior integrazione con i Romanici, accompagnata da una strategia di conservazione dello status quo con i Bizantini. Ariani, pagani e tricapitolini, radicati soprattutto nelle regioni nord-orientali del regno ("Austria"), si facevano invece interpreti della conservazione dello spirito guerriero e aggressivo del popolo. Così, alla fase "filo-cattolica" di Agilulfo, Teodolinda ed Adaloaldo seguì, dal 626 (ascesa al trono di Arioaldo) al 690 (sconfitta definitiva dell'antire Alachis), una lunga fase di ripresa dell'arianesimo, incarnato da sovrani militarmente aggressivi come Rotari e Grimoaldo. Tuttavia la tolleranza verso i cattolici non venne mai messa in discussione dai vari re, salvaguardata anche dall'influente apporto delle rispettive regine (in gran parte scelte, per motivi di legittimazione dinastica, tra le principesse cattoliche della dinastia Bavarese).

Con il progredire dell'integrazione con i Romanici, il processo di conversione al cattolicesimo divenne di massa, soprattutto grazie alla sempre più stabile convivenza sullo stesso territorio e, al tempo stesso, del progressivo allontanamento delle province italiane dall'Impero bizantino (veniva così meno uno dei principali motivi politico-diplomatici di avversione al cattolicesimo). Ancora nel VII secolo, nel ducato di Benevento, si ha notizia di una diffusione ancora molto ampia, almeno nell'ambito aristocratico - nominalmente convertito - di riti che comprendevano sacrifici animali o idolatria (per lo più di vipere) e competizioni rituali di carattere chiaramente germanico, che venivano praticati in piccoli boschi sacri che daranno origine alle leggende sul noce di Benevento.

L'intero popolo divenne, almeno nominalmente, cattolico sul finire del regno di Cuniperto (morto nel 700), e i suoi successori (su tutti, Liutprando) fecero coscientemente leva sull'unità religiosa (cattolica) di Longobardi e Romanici per ribadire il loro ruolo di rex totius Italiae. All'interno del ceto guerriero, particolarmente diffusa era la devozione all'arcangelo Michele, il "guerriero di Dio", al quale furono intitolate numerose chiese.

Il diritto longobardo, a lungo tramandato oralmente nelle Cawarfidae, iniziò a svilupparsi realmente a partire dal regno di Autari, per poi trovare una prima sistematizzazione con l'Editto di Rotari, promulgato nel 643. Accanto alla conferma della personalità della legge (il diritto longobardo era cioè valido per i soli Longobardi, mentre i Romanici rimanevano soggetti al diritto romano), l'Editto introdusse significative novità, come la limitazione della pena capitale e della faida, sostituita con risarcimenti in denaro (guidrigildo). Il corpus delle leggi longobarde fu in seguito ampliato e aggiornato, evolvendosi verso una maggiore integrazione con il diritto romano e con quello canonico, da diversi sovrani (particolarmente estesa fu l'azione di Liutprando).

Tra le figure fondamentali del diritto civile longobardo spicca il mundio, ovvero il diritto di protezione-tutela accordato al capo di una fara e che portava tutti gli altri componenti del gruppo famigliare (in particolare le donne) a essere sottoposti alla sua autorità. Dal punto di vista penale, invece, particolare rilievo aveva il guidrigildo: sostituendosi alla faida come strumento di riparazione delle offese personali, questo istituto giuridico era regolato da una minuziosa elencazione, più volte rimaneggiata nel tempo, dell'esatto ammontare in denaro che doveva corrispondere ai danni arrecati. Particolarmente significativo, poi, l'estrema rarità del ricorso alla pena di morte tra i Longobardi, che ne ritenevano passibili soltanto i più gravi reati di tradimento (regicidio, congiura contro il re, sedizione, diserzione, uxoricidio).

Durante la lunga fase nomade, l'economia dei Longobardi si basava su rudimentali forme di allevamento e agricoltura, senza che fossero presenti differenziazioni di ceto significative. La continua conflittualità con altri popoli vicini aggiungeva poi le risorse derivanti dalle razzie.

Il processo di crescita del rilievo economico e sociale dei guerrieri crebbe considerevolmente durante le ultime fasi della migrazione, con lo stanziamento in Rugilandia, nel Feld e soprattutto in Pannonia: le necropoli di questo periodo attestano infatti la presenza di ricchi corredi funebri composti soprattutto di armi e di oggetti d'oreficeria. I Longobardi inglobarono le popolazioni romanizzate della Pannonia e ne assimilarono quindi anche le pratiche economiche, con un'agricoltura stanziale e sviluppata. Diversi guerrieri servirono, in qualità di mercenari, l'Impero bizantino

In Italia, i Longobardi si imposero in un primo momento come casta dominante al posto di quella di ascendenza romana preesistente, soppressa o scacciata. I prodotti della terra venivano ripartiti con i sudditi romanici che la lavoravano, riservando ai Longobardi un terzo (tertia) dei raccolti. I proventi non andavano a singoli individui, ma alle fare, che li amministravano nelle sale. Il sistema economico della tarda antichità, imperniato su grandi latifondi lavorati da contadini in condizione semi-servile, non fu rivoluzionato, ma solo modificato affinché avvantaggiasse i nuovi dominatori.

Nei secoli seguenti la struttura socio-economica del regno si modificò progressivamente. La crescita demografica favorì la frammentazione dei fondi, tanto che crebbe il numero dei Longobardi che cadeva in stato di povertà, come attestano le leggi mirate ad alleviare le loro difficoltà; per contro, anche alcuni Romanici cominciarono ad ascendere nella scala sociale, arricchendosi con il commercio, con l'artigianato, con le professioni liberali o con l'acquisizione di terre che i Germani non avevano saputo amministrare proficuamente. Liutprando riformò la struttura amministrativa del regno, anche liberando dagli obblighi militari i Longobardi più poveri.

L'VIII secolo, apogeo del regno, fu un periodo di benessere anche economico. L'antica società di guerrieri e sudditi si era trasformata in una vivace articolazione di ceti e classi, con proprietari fondiari, artigiani, contadini, mercanti, giuristi; conobbero grande sviluppo, anche economico, le abbazie, soprattutto benedettine, e si espanse l'economia monetaria, con la conseguente creazione di un ceto bancario. Dopo un primo periodo durante il quale la monetazione longobarda coniava esclusivamente monete bizantine d'imitazione, i re di Pavia svilupparono una monetazione autonoma, aurea e argentea. Il ducato di Benevento, il più indipendente dei ducati, ebbe anche una propria monetazione autonoma.

I Longobardi parlavano originariamente una lingua germanica; probabilmente apparteneva al gruppo orientale ed era affine al gotico. Non esistono testimonianze scritte del longobardo, se non alcune parole sporadicamente contenute in testi giuridici, come l'Editto di Rotari, o storici (soprattutto l'Historia Langobardorum di Paolo Diacono).

L'uso del longobardo declinò rapidamente dopo l'insediamento in Italia, soppiantato fin dai primi documenti ufficiali dal latino. Anche nell'uso quotidiano l'idioma germanico, parlato da un'esigua minoranza della popolazione italiana dell'epoca, si perse nel volgere di pochi decenni. Non si trattò tuttavia di una dissoluzione nel nulla; anzi, l'influsso germanico ha significativamente contribuito, soprattutto nel lessico, al passaggio dal latino volgare ai vari volgari italiani, che si sarebbero poi evoluti nei vari dialetti e nella stessa lingua italiana. La prima attestazione del volgare italiano, l'Indovinello veronese, risale alla fine dell'VIII secolo.

Non ci sono pervenute testimonianze originali della cultura letteraria germanica, propria dei Longobardi. Il patrimonio delle saghe, tramandato oralmente, è andato perduto, eccezion fatta per quanto conservato nel testo, redatto in latino, della Origo gentis Langobardorum, conservato in alcuni manoscritti delle Leges Langobardorum e quanto tramandato in forma di aneddoti, o addirittura ridicolizzato come «ridiculam fabulam», da Paolo Diacono.

In seguito all'integrazione tra Longobardi e Romanici, avviata con decisione a partire dagli inizi del VII secolo, risulta difficile isolare i contributi propri dell'una o dell'altra tradizione nella produzione letteraria dell'Alto Medioevo italiano (inclusi gli anni successivi alla caduta del Regno longobardo, nel 774, che non comportò la sparizione del popolo). Esemplare di questa commistione è la più alta figura della cultura longobarda: Paolo Diacono. Originario del Ducato del Friuli, orgogliosamente longobardo, adottò tuttavia nelle sue opere (su tutte, la capitale Historia Langobardorum) la lingua latina.

Durante la lunga fase nomade (I-VI secolo), i Longobardi svilupparono un linguaggio artistico che aveva molti tratti in comune con quello delle altre popolazioni germaniche dell'Europa centro-settentrionale. Popolo nomade e guerriero, non poté dedicarsi allo sviluppo di tecniche artistiche che presupponessero un insediamento stanziale e l'uso di materiali di difficile trasporto. Nelle loro tombe troviamo quasi solo armi e gioielli, che rappresentano l'essenza della creazione artistica materialmente eseguita da artefici longobardi. La situazione si modificò con l'insediamento in Pannonia prima e, soprattutto, in Italia poi, quando i Longobardi vennero a contatto con l'influsso classico e si avvalsero di maestranze romaniche, quando non addirittura di artisti bizantini. Il risultato, al di là dell'appartenenza etnica degli artisti, è stata comunque una produzione artistica per molti versi di sintesi, sviluppata con tratti anche originali durante l'epoca del regno longobardo lungo l'intera Penisola.

L'attività architettonica sviluppata in Langobardia Major è andata in gran parte perduta, per lo più a causa di successive ricostruzioni degli edifici sacri e profani eretti tra VII e VIII secolo. A parte il Tempietto longobardo di Cividale del Friuli, rimasto in gran parte intatto, gli edifici civili e religiosi di Pavia (il Palazzo Reale, la chiesa di Sant'Eusebio, la basilica di San Pietro in Ciel d'Oro), Monza (la Residenza estiva, la basilica di San Giovanni) o altre località sono stati ampiamente rimaneggiati nei secoli seguenti. Ancora integre rimangono così soltanto poche architetture, o perché inglobate negli ampliamenti successivi (la chiesa di San Salvatore a Brescia, la Basilica Autarena a Fara Gera d'Adda, la chiesa di Santo Stefano Protomartire a Rogno), o perché periferiche e di modeste dimensioni (la chiesa di Santa Maria foris portas a Castelseprio). Testimonianze maggiormente fedeli alla forma originale si ritrovano, invece, nella Langobardia Minor: a Benevento si conservano la chiesa di Santa Sofia, un ampio tratto delle Mura e la Rocca dei Rettori, unici esempi superstiti di architettura militare longobarda, mentre altre testimonianze si sono conservate in centri minori del ducato beneventano e in quello di Spoleto (la chiesa di San Salvatore a Spoleto, il Tempietto del Clitunno a Campello sul Clitunno).

Notevole, in ambito religioso, fu l'impulso dato da diversi sovrani longobardi (Teodolinda, Liutprando, Desiderio) alla fondazione di monasteri, strumenti al tempo stesso di controllo politico del territorio e di evangelizzazione in senso cattolico di tutta la popolazione del regno. Tra i monasteri fondati in età longobarda, spicca l'abbazia di Bobbio, fondata da san Colombano.

La scultura longobarda rappresenta una delle più eleganti manifestazioni dell'Arte altomedievale. Tipici della scultura longobarda sono le rappresentazioni zoomorfe e il disegno geometrico; tra le sue manifestazioni sopravvissute fino ai nostri giorni, si annoverano pannelli d'altare, fonti battesimali e soprattutto splendide lapidi dai bassorilievi fitomorfi. Ne sono un esempio i Plutei di Teodote, entrambi conservati a Pavia: si tratta di due lastre tombali risalenti alla prima metà dell'VIII secolo che rappresentano, rispettivamente, l'albero della vita tra draghi marini alati e pavoni che bevono da una fonte sormontata dalla Croce (simbolo della fonte della Grazia divina). Sempre a Pavia è custodita la Lastra tombale del duca Adaloaldo, risalente al 718 e recante una lunga iscrizione arricchita da bassorilievi a soggetto vegetale, mentre mirabile è la raffinatezza esecutiva della Lastra tombale di san Cumiano, presso l'abbazia di Bobbio: risalente agli anni del regno di Liutprando, reca anch'essa un'iscrizione centrale, racchiusa da una doppia cornice a motivi geometrici (serie di croci) e fitomorfi (tralci di vite).

Tra le opere scultoree sopravvissute fino ai nostri giorni, spicca, nel Tempietto longobardo di Cividale del Friuli, l'Altare di Rachis, tipico esempio artistico della "Rinascenza liutprandea": la tendenza, nota appunto a partire dal regno di Liutprando, volta a integrare l'arte longobarda con gli influssi romani. L'altare, realizzato nella prima metà dell'VIII secolo, è decorato da alcuni pannelli scolpiti a bassorilievo che riportano scene della vita di Gesù. Sempre a Cividale è conservato, presso il Museo archeologico nazionale, il Fonte battesimale del patriarca Callisto, anch'esso risalente all'VIII secolo; ottagonale, reca alcuni eleganti bassorilievi nella parte inferiore (la Croce, i simboli degli evangelisti) ed è sormontato da un tegurio. Anch'esso ottagonale, questo è sostenuto da colonne corinzie ed è scandito da ampi archi a tutto sesto, a loro volta adornati da iscrizioni e da motivi vegetali, animali e geometrici.

Tra i rari esempi di arte di epoca longobarda sopravvissuti ai secoli, spiccano gli affreschi della chiesa di Santa Maria foris portas a Castelseprio, in provincia di Varese. Anche se è improbabile l'origine etnica longobarda dell'autore, la sua opera, compiuta nell'VIII o nel IX secolo, resta un'alta e originale espressione dell'arte sviluppata nel regno longobardo. Gli affreschi, rinvenuti casualmente nel 1944, rappresentano scene dell'infanzia di Cristo ispirate, sembra, soprattutto ai Vangeli apocrifi. Sorprendente è la tecnica compositiva, che lascia emergere una sorta di schema prospettico di diretta ascendenza classica, oltre a un chiaro realismo nella rappresentazione di ambienti, figure umane e animali. Il ciclo di affreschi testimonia così la permanenza, in tarda età longobarda, di elementi artistici classici sopravvissuti all'innesto della concezione germanica dell'arte, priva di attenzione ai risvolti prosepttici e naturalistici e più concentrata sul significato simbolico delle rappresentazioni. Anche dal punto di vista dei contenuti simbolici il ciclo esprime una visione della religione perfettamente congruente con l'ultima fase del regno longobardo; eliminata - almeno nominalmente - la concezione di Cristo ariana, quella messa in luce dagli affreschi di Castelseprio è specificamente cattolica, poiché insiste nel ribadire la consustanzialità delle due nature - umana e divina - del Figlio di Dio.

Diversi esempi di pittura di epoca longobarda si sono conservati anche in Langobardia Minor. Una testimonianza è costituita dal ciclo pittorico nella cripta del monastero di San Vincenzo al Volturno (fondato alla fine dell'VIII secolo), risalente al tempo dell'abate Epifanio (797-817). Altri esempi di pittura nell'area beneventana si trovano nella chiesa di san Biagio a Castellammare di Stabia, nella chiesa dei Santi Rufo e Carponio a Capua, nella Grotta di San Michele a Olevano sul Tusciano, nella chiesa di Santa Sofia a Benevento e nella cripta del peccato originale a Matera.

La branca artistica della quale si sono conservate le più note e abbondanti testimonianze di età longobarda è l'oreficeria, che annovera tra gli altri capolavori come la Chioccia con i pulcini, la Croce di Agilulfo (o di Adaloaldo), la Corona Ferrea o l'Evangeliario di Teodolinda. L'oreficeria era l'arte prediletta dei Germani che, come tutti i nomadi e guerrieri, potevano portare con sé solo armi adorne di metalli preziosi e ornamenti per il corpo o per la cavalcatura; oggetti piccoli, dotati di valore intrinseco, sempre a portata di mano per un dono o per uno scambio, facili da portar via in caso di fuga. Di conseguenza, l'arte orafa può essere vista come in gran parte eseguita da artigiani o artisti di etnia longobarda. Elementi fondamentali dell'arte orafa dei maestri longobardi sono l'uso della lamina d'oro, della lavorazione a sbalzo e delle pietre preziose e semipreziose. Tra i numerosi reperti orafi longobardi, si contano fibule, orecchini, guarnizioni da fodero in lamina d'oro lavorata a giorno degli scramasax (la tipica spada longobarda, corta e dritta a un solo taglio), guarnizioni di sella, piatti di legatura, croci e reliquiari.

L'oreficeria e l'artigianato longobardi, ben rappresentati dai numerosi reperti tombali, mostra un processo evolutivo evidente. Nel VI secolo, fino agli inizi del VII, predominano gli elementi della tradizione germanica, soprattutto bestie mostruose che testimoniano la percezione di una natura ostile e minacciosa. A partire dalla metà del VII secolo, invece, prendono rapidamente il sopravvento motivi simbolici più eleganti e leggeri, con influenze mediterranee. Uno degli esempi più noti dell'oreficeria longobarda di questo periodo è la Lamina di re Agilulfo, frontale di elmo che reca una rappresentazione simbolica del potere sovrano, ma che attinge a una simbologia tipicamente romana. A partire dalla fine del VII secolo gli elementi di distinzione tra l'arte longobarda e quella romano-bizantina si affievoliscono fino quasi a scomparire, tanto che il termine stesso di "arte longobarda" assume il significato più ampio di arte creata nel regno longobardo, indipendentemente dall'origine etnica e linguistica degli artisti e degli artigiani.

Un elemento caratteristico dell'arte orafa longobarda è costituito dalle crocette in foglia d'oro. Di origine bizantina, le croci erano tagliate in lamine d'oro; venivano poi cucite ai vestiti o deposti nelle tombe. Nel corso del VII secolo, di pari passo con la conversione al cattolicesimo dei Longobardi, le crocette presero il posto delle monete bratteate di ascendenza germanica, già ampiamente diffuse come amuleti. Le croci che le sostituirono mantennero, accanto a quello devozionale cristiano, lo stesso valore propiziatorio; dal punto di vista formale, mostrano elementi ornamentali che rielaborano antichi elementi provenienti dalla mitologia pagana, segno di una fase sincretista nel passaggio dal paganesimo al cristianesimo.

La miniatura in età longobarda conobbe, soprattutto all'interno dei monasteri, un particolare sviluppo, tanto che è definita Scuola longobarda (o "franco-longobarda") una peculiare tradizione decorativistica. Questa espressione artistica raggiunse la più alta espressione nei codici redatti nei monasteri dalla seconda metà dell'VIII secolo, mentre nel Ducato di Benevento la Scuola beneventana sviluppò caratteri propri, visibili anche in varie opere pittoriche dell'epoca.

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