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mercoledì 1 giugno 2016

IL BIAFRA

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La Repubblica del Biafra ebbe una vita breve come stato secessionista nel sud-est della Nigeria. Esistette dal 30 maggio 1967 al 15 gennaio 1970. Il Capo di Stato Maggiore annunciò formalmente la capitolazione il 12 gennaio. Il paese prese nome dal Golfo del Biafra, sul quale si affacciava.

Il Biafra fu riconosciuto solo da un piccolo numero di paesi durante la sua esistenza: Gabon, Haiti, Costa d'Avorio, Tanzania, Israele e Zambia. Malgrado la mancanza di un riconoscimento ufficiale, altri paesi fornirono assistenza militare al Biafra e in modo particolare Francia, Rhodesia e Sudafrica. L'aiuto del Portogallo fu cruciale per la sopravvivenza della repubblica. L'allora colonia portoghese di Sao Tomè e Principe divenne un centro di raccolta degli aiuti umanitari. La moneta del Biafra fu stampata a Lisbona, che era anche sede dei principali uffici d'oltremare del Biafra.

Nel gennaio 1966, ci fu in Nigeria un tentativo di colpo di Stato, che fu sanguinoso ma di breve durata. Dal momento che quasi tutti gli ufficiali igbo (o ibo) dell'esercito nigeriano erano sopravvissuti, si sospettò che fossero stati proprio loro a provocare il colpo di Stato, e nei mesi di maggio e settembre 1966, gli ibo immigrati nel nord della Nigeria furono vittime di uccisioni di massa. Quasi tutta la popolazione ibo, stimata allora in 11 milioni, viveva in quello che era la regione est della Nigeria, amministrata da un governatore militare ibo, il tenente colonnello Chukwuemeka Odumegwu Ojukwu. Egli dichiarò la regione uno stato indipendente con capitale Enugu e le sue truppe iniziarono a confiscare le risorse federali, come per esempio i veicoli postali in entrata.

La Nigeria rispose inizialmente con un blocco economico e invase il territorio il 6 luglio 1967. Nella successiva guerra civile, le truppe del Biafra compirono delle incursioni a ovest, in territorio nigeriano, nei mesi di luglio e agosto. Le truppe nigeriane, però, si difesero e contrattaccarono, avanzando in Biafra e obbligando il governo a trasferire ripetutamente la capitale da Enugu ad Aba e poi a Umuahia verso la fine dell'anno, e infine a Owerri nel 1969. Sempre in quell'anno, il 9 maggio vi fu una strage presso una base ENI, dove morirono 10 tecnici italiani e uno arabo.

Dal 1970, il Biafra è stato sconvolto dalla guerra e si trovò ad avere una grande necessità di viveri. In pieno collasso militare ed economico, Chukwuemeka Odumegwu Ojukwu fuggì dal paese e il resto del territorio della repubblica fu reincorporato nella Nigeria. Si ritiene che circa un milione di persone siano morte nel conflitto, soprattutto a causa della fame e delle malattie.

Dopo la guerra, per cancellarne anche il nome, il governo nigeriano rinominò il Golfo del Biafra come Golfo di Bonny. La Nigeria non concesse l'indipendenza perché è in questa regione sud-orientale che esistono i maggiori giacimenti di petrolio del Paese. Si può notare inoltre che molti Stati hanno cercato di impadronirsene così da poter avere guadagni superiori alla ricchezza dello Stato.



Nel 1999 il giornale Guardian of Lagos riferì che il Presidente Olusegun Obasanjo commutò in pensionamento il congedo di tutti i militari che avevano combattuto per la secessione del Biafra. In una trasmissione su una rete televisiva nazionale, disse che la decisione si fondava sulla convinzione che la giustizia deve sempre essere temperata dalla misericordia. Si deve anche considerare il fatto che durante l'anno precedente questa dichiarazione c'era stato un ritorno del sentimento pro-Biafra in una parte della popolazione igbo che sosteneva di essere stata emarginata nella federazione nigeriana.

Ridimensionato il problema di Boko Haram, chissà poi quanto, il nuovo problema per il governo della Nigeria si chiama Biafra ed è, in realtà, una questione mai risolta.

Recentemente il Biafra è nuovamente tornato agli onori delle cronache, anche internazionali, per le proteste della popolazione contro il governo centrale di Abuja e si è riaccesa quella fiamma secessionista della Repubblica del Biafra, già teatro dal 1967 per tre anni di una sanguinosa guerra civile. Nel 1999 Olusegun Obasanjo vinse le elezioni presidenziali grazie anche a un supporto consistente da parte delle regioni di etnia Igbo ma oggi la Nigeria è un paese molto diverso da quello di 16 anni fa: Boko Haram è costata molto in termini economici e militari al governo nigeriano e la guerra contro l'estremismo islamista nel nord del Paese ha lasciato indietro alcune questioni che erano solo “in sospeso”, tra cui proprio l'autonomia della regione del Biafra.

Il Biafra, tra l'altro, è la regione della Nigeria più ricca di risorse naturali, leggasi petrolio, e come è facile immaginare buona parte delle frizioni tra la popolazione del Biafra e Nigeria riguardano proprio lo sfruttamento, la gestione e la ripartizione dei benefici economici dell'estrazione petrolifera. Il leader separatista del Biafra Nnamdi Kanu è stato accusato dalla polizia segreta nigeriana e dalle autorità di Abuja di “incitamento alla rivolta etnica”, per questo più volte arrestato, e può vantare un seguito non indifferente tra la popolazione della regione nigeriana. “Il principe” Kanu, come viene chiamato per via del suo sangue blu, è il leader riconosciuto dei Popoli Indigeni del Biafra (IPOB) e attualmente è imprigionato dal 14 ottobre 2015 dal governo federale della Nigeria e accusato di tradimento, cosa che alimenta fortemente le tensioni nel Biafra.

Il Biafra è una polveriera fin troppo dimenticata e che potrebbe presto trasformarsi in un vero e proprio conflitto: è quindi importante vigilare attentamente affinché entrambe le parti diano chiare garanzie sul rispetto dei principi umanitari essenziali, senza i quali l'escalation di violenza potrebbe diventare tanto repentina quanto pericolosa per l'intera zona.


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sabato 18 aprile 2015

PERSONE DI ANGERA : PALMIRO TOGLIATTI

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Palmiro Togliatti (Genova, 26 marzo 1893 – Jalta, 21 agosto 1964) è stato un politico italiano e primo presidente della Repubblica Popolare Italiana.

Fu uno dei membri fondatori del Partito Comunista d'Italia, e, dal 1927 fino alla morte, segretario e capo indiscusso del Partito Comunista Italiano e del Governo della Repubblica Popolare Italiana. Nel 1947 rifiutò la carica di segretario generale del Cominform, la più potente organizzazione comunista internazionale, offertagli direttamente da Stalin, preferendo restare alla testa del partito in Italia.

Dal 1944 al 1945 ricoprì la carica di vice Presidente del Consiglio del Regno d'Italia e nel 1945 venne messo a capo della neonata repubblica dell'Italia Centrale nonostante egli stesso fosse inizialmente contrario ad una separazione dal resto della penisola. Restò in carica fino alla morte avvenuta nel 1964.

Il padre di Palmiro Togliatti, Antonio, nacque nel 1852 a Coassolo, in provincia di Torino. La famiglia avrebbe voluto destinarlo alla carriera ecclesiastica ma Antonio, dopo il seminario a Giaveno, non volle prendere i voti e si trasferì a Torino, si diplomò maestro e dopo un periodo d’insegnamento s’impiegò dapprima come istitutore e poi come contabile nell’amministrazione dei Convitti nazionali del Regno, sposando una maestra elementare torinese, Teresa Viale, che divenne «la figura centrale della famiglia».

Il lavoro del padre costrinse i Togliatti a frequenti spostamenti in diverse città. La madre dovette lasciare l'insegnamento per occuparsi esclusivamente della famiglia che intanto andava crescendo: il primogenito Eugenio nacque a Orbassano nel 1890, Maria Cristina e Palmiro a Genova, nella casa di via Albergo dei Poveri 9, rispettivamente nel 1892 e nel 1893, mentre l’ultimo figlio Enrico nacque a Torino nel 1900. I genitori erano religiosi senza essere bigotti: «Per abitudine si andava a messa tutte le domeniche, ma non sentii mai il problema religioso con troppa intensità».

Nel 1897, a Novara, dove intanto la famiglia si era trasferita, Palmiro frequentò insieme con la sorella la prima elementare, ma proseguì gli studi a Torino; poi, dal 1902 fu a Sondrio, dove conseguì la licenza ginnasiale, e dal 1908 frequentò il Liceo classico «Azuni» di Sassari, dove risultò con la sorella il migliore dell'Istituto, ottenendo così entrambi la «licenza d'onore», che li esonerava dall'obbligo di sostenere l'esame finale di maturità.

Il padre Antonio, malato di cancro, si era intanto dovuto ricoverare in ospedale a Torino, morendovi il 21 gennaio 1911: la famiglia, già di condizioni modeste, cade in serie ristrettezze economiche. Trasferita la famiglia nell'estate del 1911 nella casa torinese di Lungodora Firenze 55, la madre Teresa si diede a lavorare di cucito mentre Eugenio, studente dell’ultimo anno di matematica, dava lezioni private, unitamente a Palmiro e Maria Cristina, che pure studiavano per superare il concorso con il quale il Collegio Carlo Alberto metteva a disposizione 65 borse di studio di 70 lire mensili per frequentare l'Università di Torino. Nell'ottobre 1911 entrambi superarono gli esami: Palmiro si classificò secondo e Maria Cristina undicesima: al nono posto figurò un giovane venuto dalla Sardegna, Antonio Gramsci, futuro compagno di Togliatti nelle lotte politiche. Gramsci si iscrisse, come Maria Cristina, alla Facoltà di Lettere, mentre Palmiro, che avrebbe voluto seguire i corsi di Filosofia, per decisione dei famigliari dovette iscriversi alla Facoltà di Giurisprudenza.

Non è chiaro il preciso percorso intellettuale del giovane Togliatti: nel clima culturale di quegli anni stavano ormai prevalendo sul vecchio positivismo le correnti neo-idealistiche che andavano dal magistero di Benedetto Croce fino alle espressioni più esasperate di nazionalismo e di spiritualismo. Se a queste ultime Togliatti dichiarerà sempre di essere rimasto estraneo, è certo che il Croce soprattutto, e poi La Voce di Prezzolini, il Salvemini e il Rolland ebbero non poca parte sulla sua formazione giovanile, mentre il primo accostamento al marxismo sarebbe avvenuto soprattutto tramite gli scritti del Labriola. Ma due furono gli elementi decisivi che portarono Togliatti al socialismo marxista: l'amicizia di Gramsci e la concreta realtà sociale torinese, che vedeva allora lo sviluppo di un forte e organizzato movimento operaio.

Togliatti si iscrisse al Partito socialista nel 1914, anche se non frequentò la vita di partito per diversi anni, e allo scoppio della Prima guerra mondiale si dichiarò favorevole all'intervento dell'Italia a fianco dell'Intesa, secondo una considerazione politica, presente anche se minoritaria fra gli stessi socialisti, che portava a distinguere «fra la guerra imperialista e le giuste rivendicazioni nazionali contro i vecchi imperialismi. Non ritenevano giusto che alcune province italiane rimanessero sotto il dominio di uno Stato straniero, per di più reazionario».

Dopo un brillante percorso di studi concluso con la media del 30, Togliatti si laureò nel novembre 1915 con la tesi Il regime doganale delle colonie, discussa con Luigi Einaudi. Seguendo la sua primitiva inclinazione, s'iscrisse anche alla facoltà di Lettere e Filosofia, ma la guerra prima e l'attività politica poi gli impedirono di conseguire la seconda laurea. Infatti, pur riformato per la forte miopia, nel 1915 si arruolò volontario nella Croce Rossa, prestando servizio in diversi ospedali, anche al fronte. Nel frattempo, le necessità belliche indussero i Comandi militari a rivedere i criteri di arruolamento, così che nel 1916 Togliatti fu dichiarato abile e arruolato nel 54° Reggimento Fanteria per poi passare, su sua richiesta, al 2° Reggimento Alpini. Nel 1917 venne ammesso al corso allievi ufficiali di Caserta che superò senza però ottenere la nomina a ufficiale a causa di una grave pleurite intervenuta nel frattempo: caporal maggiore alla sanità, nel dicembre del 1918, allo scadere di una lunga licenza, fu congedato.

Dopo la laurea in Giurisprudenza avrebbe voluto (appassionato di Hegel, Marx, Labriola e Croce) conseguire quella in Filosofia, ma lo scoppio della Prima guerra mondiale lo indusse (riformato per miopia al corso allievi ufficiali), ad arruolarsi volontario, prima nella Croce Rossa e poi (ancora le origini montanare), negli Alpini.
Nel 1918, Togliatti (congedato), è a Torino, dove collabora al Grido del Popolo, il settimanale socialista diretto da Gramsci ed è cronista e redattore dell'edizione torinese dell'Avanti!. Nel 1919 pubblica su L'Ordine Nuovo recensioni e cronache culturali e nello stesso anno dirige la Sezione socialista torinese. Gramsci l'ha incaricato di assicurare l'uscita de L'Ordine Nuovo, divenuto quotidiano. Quando la scissione si compie, sotto la testata de L'Ordine Nuovo compare la scritta "Quotidiano comunista", che diventa poi "Quotidiano del Partito comunista". Nell'ottobre, l'organo del nuovo partito diventa Il Comunista e Togliatti, che ne è il redattore capo a Roma, si becca qui dai tipografi (per la sua esile corporatura), l'appellativo di "Ercole", che il futuro capo dei comunisti italiani conserverà (trasformandolo in "Ercole Ercoli"), come nome di battaglia durante la lunga lotta contro il fascismo.
Dopo la "marcia su Roma", soppresso Il Comunista, soppresso a Torino anche L'Ordine Nuovo, Togliatti torna nel capoluogo piemontese per organizzarvi un giornale clandestino.

Il 28 ottobre 1922 una squadra fascista penetrò nella tipografia dove si stampava «Il Comunista»: vi era anche Togliatti, che riuscì a fuggire. Il quotidiano cessò le pubblicazioni il 31 ottobre, con un ultimo appello all'attività illegale. A Torino, ci aveva pensato il 29 ottobre il questore Benedetto Norcia a chiudere provvisoriamente L'Ordine Nuovo, imitato dal collega di Trieste che aveva sospeso le pubblicazioni dell'altro quotidiano comunista «Il Lavoratore».

Minimizzava intanto, come la maggioranza del gruppo dirigente del Partito, il significato politico dell'avvento dei fascisti al governo: «non hanno profondamente modificato la situazione interna italiana il governo fascista, che è la dittatura della borghesia, non avrà interesse di liberarsi di alcuno dei tradizionali pregiudizi democaratici».

Togliatti ritornò a Torino dove, 7 novembre, tenne un comizio in celebrazione dell’anniversario della Rivoluzione russa; nel dicembre successivo Torino fu sconvolta dalla strage del 18 dicembre, quando gli squadristi comandati dal console della Milizia Pietro Brandimarte devastarono la Camera del Lavoro e la sede de L'Ordine Nuovo, uccidendo impunemente 22 persone. Dopo questo avvenimento Togliatti si distaccò dall'attività politica, per motivi non chiariti: per una malattia, per una crisi sentimentale, per paura delle rappresaglie fasciste o forse perché «per Togliatti la politica era arte di governo, non milizia rivoluzionaria. Forse gli si presentò in quella e in altre occasioni il problema se dovesse veramente abbandonare i suoi studi per dedicarsi unicamente alla politica». Non fu nemmeno coinvolto dall'ondata di arresti ordinati nel febbraio del 1923 da Mussolini: oltre ai delegati comunisti di ritorno dal IV Congresso dell'Internazionale, che aveva imposto la fusione dei partiti socialista e comunista, furono arrestati più di 5.000 dirigenti comunisti di vario livello; tra le maggiori personalità, sfuggirono all'arresto, a parte Gramsci, rimasto a Mosca, e Tasca, che si trovava in Svizzera, soltanto Terracini, Camilla Ravera e lo stesso Togliatti.

L'operazione poliziesca coordinata da De Bono era del tutto illegale e infatti tutti saranno prosciolti in istruttoria o assolti alla fine dell'anno nel processo da una magistratura non ancora o non tutta asservita al potere politico, ma raggiunse lo scopo di allontanare dal Partito i militanti meno decisi e di sconvolgere l'organizzazione, costringendola all'illegalità. In aprile Togliatti riprese i contatti con il Partito, entrando a far parte del Comitato esecutivo: assunto lo pseudonimo di Paolo Palmi, si trasferì nella nuova sede clandestina costituita ad Angera, sul Lago Maggiore.

Erano i giorni in cui l'Internazionale, con un atto d'imperio, aveva imposto al Partito italiano la formazione di un nuovo esecutivo costituito da tre esponenti della maggioranza di sinistra, Togliatti, Scoccimarro e Fortichiari, e da due della minoranza di destra, Tasca e Vota, con il compito di portare a effetto la fusione con la frazione del Partito socialista aderente all'Internazionale, guidata da Serrati. Togliatti, ancora legato a Bordiga, il quale era nettamente contrario all'operazione, esitava, dichiarandosi disposto ad accettare la carica a condizione di sviluppare «una polemica aperta con l'Internazionale e con la minoranza del partito» e denunciando a Gramsci quello che riteneva essere il tentativo, da parte della minoranza, di liquidare l'«esperienza del movimento politico proletario che ha portato alla creazione del partito comunista».

Tre mesi di carcere a "San Vittore", poi il ritorno in libertà; la nascita de l'Unità; la campagna elettorale che porterà alla nomina a deputato di Antonio Gramsci e al suo rientro da Mosca; l'Aventino; l'arresto di Togliatti come "comunista pericoloso"; l'amnistia dopo 4 mesi di carcere; il matrimonio con Rita Montagnana; l'arresto di Gramsci, nel novembre del 1926, mentre Togliatti è a Mosca. Il suo esilio durerà diciotto anni e vedrà il dirigente dei comunisti italiani attivo in Svizzera, in Francia, in Unione Sovietica, in Spagna (dove, durante la guerra civile, sotto il nome di copertura di "Alfredo", rappresenterà nelle Brigate Garibaldi l'Internazionale comunista (che, negli anni lo ha visto parlare a suo nome in Belgio, in Jugoslavia, in Germania, in Cina, ecc.). È il 27 marzo del 1944 quando "il Migliore" (come, riconoscendone la statura intellettuale, lo avrebbero chiamato gli avversari politici), rimette piede in Italia. Togliatti promuove quella che passerà alla storia italiana come "la svolta di Salerno". I partiti antifascisti mettono da parte la questione istituzionale, che sarà risolta dopo la Liberazione, per dare maggiore vigore alla Resistenza. L'unità dei partiti e delle formazioni armate consente l'inserimento del Comitato di Liberazione Nazionale nel secondo governo Badoglio e determinerà il riconoscimento, come struttura militare, del Corpo Volontari della Libertà (Togliatti porterà poi sempre all'occhiello il nastrino con la stella d'oro del CVL), da parte degli Alleati.
Liberata Roma dai nazifascisti, nasce il governo Bonomi (Togliatti ne fa parte come ministro senza portafoglio), e viene istituita la Luogotenenza del regno. Nel secondo governo Bonomi, Togliatti è vice presidente del Consiglio e sarà ministro di Grazia e Giustizia nel governo Parri e nel primo governo De Gasperi.
In tale ruolo, quando il voto popolare risolverà a favore della Repubblica la questione istituzionale, concede quella che va sotto il nome di "amnistia Togliatti". Il provvedimento, che voleva essere di pacificazione nazionale, è usato da magistrati ancora legati al vecchio regime, per rimettere in libertà anche i peggiori aguzzini fascisti.
Eletto all'Assemblea Costituente nel 1946 e confermato deputato nella II, III e IV legislatura, Togliatti contribuisce all'elaborazione della Costituzione, soprattutto per la parte programmatica. Si impegna anche per l'approvazione dell'articolo 7, che include nella nostra Costituzione i cosiddetti "Patti Lateranensi".
L'estromissione dei comunisti dal governo nel 1947, porta Togliatti ad organizzare, con Nenni, l'opposizione di sinistra alla DC; ma nelle elezioni politiche del 1948, la lista del Fronte Democratico Popolare raccoglie soltanto il 30,9% dei voti. Sono le 11,30 del 14 luglio 1948 quando Togliatti, all'uscita da Montecitorio con Nilde Iotti, (con la quale si era unito dopo essersi separato, nel 1947, da Rita Montagnana), è colpito dalle rivoltellate sparate dal liberal-qualunquista Antonio Pallante. Sarà proprio il ferito (i proiettili calibro 38 lo hanno raggiunto alla nuca e alla schiena), a raccomandare ai dirigenti del PCI di non lasciarsi sfuggire di mano la situazione. Violentissime manifestazioni di protesta si sarebbero comunque svolte in tutta Italia e in particolare a Roma, La Spezia, Abbadia San Salvatore (SI), Torino, Milano, con morti a Napoli, Genova, Livorno e Taranto). Seguì la repressione scelbiana, ma Togliatti, guarito, poté tornare alla guida del PCI e proseguire sulla "via italiana al socialismo", continuando a svolgere un ruolo importante sulla scena internazionale.
I moti operai di Poznan e la rivolta ungherese furono da Togliatti sbrigativamente interpretati come manifestazioni anarcoidi e "provocazioni dell'imperialismo". Nel giugno del 1956, neanche la clamorosa divulgazione del "rapporto segreto di Krusciov" sui crimini dello stalinismo, gli fece perdere il controllo della situazione. Dopo la caduta, nel luglio 1960, del governo clerico-fascista capeggiato da Tambroni e dopo l'avvio, da parte della DC, della politica di coinvolgimento del PSI in quella che Togliatti ebbe a definire "una manovra destinata ad assorbire il PSI nel centrismo, senza alcun sbocco riformatore", orientò il suo partito nella lotta per la pace.
Nel marzo del 1963, a Bergamo, Togliatti reiterò l'appello per "un accordo fra comunisti e cattolici per salvare la civiltà umana". Il 21 agosto del 1964, poche ore prima di essere colto dal malore che l'avrebbe portato alla morte, Togliatti consegnò a Nella Marcellino, perché lo battesse a macchina, il documento riservato che, dopo la sua pubblicazione (decisa da Luigi Longo), sarebbe stato chiamato Memoriale di Yalta. Il documento avrebbe, negli anni successivi, ispirato i comunisti italiani nella loro politica estera.
La bibliografia di e su Palmiro Togliatti è vastissima. A lui sono stati intitolati, in tutta Italia, Circoli culturali, sezioni di partito, strade e piazze. Dal 2007 una stazione della linea ferroviaria metropolitana di Roma, FR2, è chiamata, appunto, Stazione di Roma Palmiro Togliatti. Porta il suo nome anche una città della Russia (conosciuta erroneamente in Italia come "Togliattigrad"), nella quale sorge uno stabilimento automobilistico impiantato dalla Fiat.



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martedì 7 aprile 2015

LA REPUBBLICA BRESCIANA

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La Repubblica bresciana sorta nel 1797 fu uno stato preunitario, a carattere provvisorio, di epoca napoleonica comprendente il territorio dell'attuale provincia di Brescia.

A seguito della vittoria presso Lodi (10 maggio 1796), alcune colonne dell'Armata d'Italia entrarono nel territorio della Repubblica di Venezia allo scopo di inseguire l'esercito austriaco sconfitto. Il generale francese Jean-Baptiste Dominique Rusca si incontrò il 25 maggio con il Capitano e Vice-Podestà di Brescia Pietro Alvise Mocenigo presso Coccaglio. Mocenigo accordò a Rusca e ai suoi ufficiali l'ingresso in città a patto che l'esercito francese fosse rimasto all'esterno della cinta muraria. La sera stessa i generali francesi furono ospitati nelle case dei nobili locali, mentre l'esercito si accampò a Canton Mombello. Tuttavia molti soldati francesi scalarono le mura, dato che le porte erano state sbarrate, ed entrarono in città. Due giorni dopo Napoleone Bonaparte fece il suo ingresso a Brescia intrattenendosi con il rappresentante veneto per circa un'ora.

L'occupazione della fortezza di Peschiera da parte delle forze austriache comandate dal Generale Liptay e l'ospitalità che Verona diede al "nemico della Repubblica francese, il fratello del condannato Re" servirono a pretesto per occupare militarmente la città il 30 maggio. Al fine di limitare i danni, il Collegio dei Savi propose Francesco Battagia nel ruolo di Provveditore straordinario di Terraferma visto il ruolo svolto da questi come commissario presso l'esercito francese e per la fiducia che Bonaparte pareva riconoscergli.

All'inizio del 1797 i Domini di Terraferma della repubblica di Venezia che erano posti oltre il Mincio (Brescia, Bergamo e Crema) erano quindi occupati militarmente dalle forze francesi, mentre l'amministrazione era affidata al Provveditore Straordinario Battagia pur con i limiti dovuti alla presenza dell'esercito straniero.

Al fine di risolvere l'impasse, ufficiali dell'esercito francese si mostrarono propensi ad appoggiare militarmente qualunque dichiarazione di autonomia proveniente dai nobili locali. I proclami e le lettere che Napoleone Bonaparte scrisse al fine di propagandare gli ideali della Rivoluzione francese alimentarono ulteriormente gli animi. Il 12 marzo ci fu la rivolta a Bergamo, comandata da Pietro Pesenti e da alcuni nobili e sostenuta dall'emissario francese Lhermite e dal colonnello delle forze armate transalpine Faivre.

A Brescia l'organizzazione della rivolta fu affidata ad alcuni giovani nobili che si riunirono presso Palazzo Lechi la sera del 17 marzo. Nei giorni precedenti fu mandato un emissario a Milano al fine di ottenere dalla Repubblica Transpadana una forza di combattenti che sostenesse militarmente la rivolta. Questa colonna sarebbe arrivata presso la porta di San Giovanni al mattino del 18 e avrebbe avvisato della sua presenza con un colpo di cannone. Al segnale, i congiurati uscirono dal Palazzo in direzione del Broletto, da secoli sede del Podestà veneto e in quel periodo residenza del Provveditore Straordinario. In testa al drappello, vi furono Giuseppe Lechi, futuro generale di Napoleone Bonaparte, e Francesco Fillos, che reggeva il tricolore verde, bianco e rosso. Battagia accolse i congiurati nella sala delle udienze. Stando al Da Como, il colonnello Miovilovich, a capo delle forze venete in città, aveva predisposto un piano di resistenza, ma il Provveditore, anche per la presenza delle forze francesi che occupavano il Castello e che fino a quel momento non erano intervenute, decise di arrendersi per evitare spargimenti di sangue. Si verificò un solo incidente, presso il quartiere di San Giuseppe, nel quale fu ferito un rappresentante di Bergamo. In conseguenza di questo episodio, Battagia fu arrestato e portato in custodia presso il comandante francese in Castello, per poi essere ricondotto nelle segrete del Broletto e, nei giorni successivi, portato al confine del territorio veronese assieme alle forze rimaste fedeli a Venezia.

Gli insorti istituirono una municipalità provvisoria composta da quaranta individui e presieduta da Pietro Suardi che ebbe il compito di calmare gli animi, organizzare il governo in città ed estendere gli effetti della rivolta su tutto il territorio provinciale. Il 24 marzo, con Decreto n. 72, la Municipalità provvisoria decadde e fu sostituita da un governo provvisorio, composto da quarantadue membri e sempre presieduto dal Suardi. Nello stesso periodo, i quattro quartieri della città furono costituiti in municipalità e il Palazzo del Broletto fu ribattezzato Palazzo Nazionale.

Nei giorni successivi all'insediamento, la municipalità e il governo provvisorio ottennero l'appoggio del Vescovo di Brescia Giovanni Nani. Col decreto 22 marzo 1797, n. 60, si concesse il mantenimento degli incarichi ai soggetti incaricati di amministrare i comuni e i reggimenti presenti sul territorio. Negli stessi giorni si ottenne la fedeltà delle municipalità di Orzinuovi e di Lonato con le relative fortezze.

Nella Valle Sabbia e lungo la Riviera di Salò vi furono le prime resistenze. Giacomo Pederzoli di Gargnano, tentò di eleggere una deputazione che si recasse a Brescia per entrare nel nuovo governo, ma non ottenne appoggi. Nei giorni successivi, i sostenitori di un ritorno alla Serenissima si coagularono a Salò, attorno al nobile Gianbattista Fioravanti, e in val Sabbia, attorno al sacerdote Andrea Filippi. Nei confronti di Salò, il governo provvisorio mandò un'ambasciata, senza ottenere successo. I resistenti costituirono a Nozza di Vestone un esercito con a capo Filippi. Di risposta, il governo provvisorio mandò una colonna di soldati al comando del generale Fantuzzi che però fu sconfitta al primo scontro con le forze valsabbine.

Il primo insuccesso militare del governo provvisorio convinse alcuni abitanti della Val Trompia, le cui municipalità avevano già dichiarato la propria fedeltà alla Repubblica, a ribellarsi: fu istituito un quartier generale a Carcina e fu nominato Pietro Paolo Moretti a capo delle forze armate. Per evitare ulteriori estensioni della rivolta, nell'aprile intervenne l'esercito francese comandato da La Hoz che sconfisse i ribelli valtrumpini nei pressi del loro quartier generale.

Sul finire del mese di aprile, fu la volta di Salò che fu occupata e saccheggiata. Ai primi di maggio l'esercito francese al comando del generale Landrieux salì la Val Sabbia. Odolo e Preseglie furono risparmiate in quanto si presentarono agli ufficiali con bandiera bianca e nastro tricolore, mentre Bagolino ottenne lo stesso risultato offrendo 500 zecchini; il resto degli abitati valsabbini fu devastato e saccheggiato tra il 3 e il 4 maggio. Con il Decreto 7 maggio 1797, n. 364, il Governo provvisorio comunicò la cessazione delle ostilità.

Il 1º maggio 1797 si ridefinì l'assetto della Repubblica riorganizzando il territorio in dieci cantoni, i quali sostituirono i Reggimenti e le quadre d'istituzione veneta, e determinando il nuovo assetto giudiziario. Fu decretato inoltre che i membri del Governo provvisorio fossero nominati a base rappresentativa.

Nei pochi mesi d'attività, il Governo provvisorio si distinse per l'abolizione del Fedecommesso e per aver introdotto il calendario rivoluzionario e la suddivisione della giornata in ventiquattr'ore di uguale durata.

Il 17 ottobre 1797 fu firmato il Trattato di Campoformio tra la Repubblica francese e gli Asburgo d'Austria. In esso si riconosceva il passaggio dei territori della Repubblica di Venezia ad est del Lago di Garda e del fiume Adige alla casa d'Austria, mentre questa riconosceva autonomia alla Repubblica cisalpina, che nel Trattato era considerata comprendente non solo i territori dell'ex Lombardia austriaca, ma anche il Cremasco, il Bergamasco, il Bresciano, il Mantovano e Peschiera.

Solo il 4 novembre il testo del Trattato fu reso noto all'opinione pubblica bresciana attraverso il giornale "Democratico" curato da Giovanni Labus. La conferma arrivò nei giorni seguenti: il Governo provvisorio ricevette una lettera del Ministero degli affari esteri della Cisalpina in cui veniva informato del necessario ingrandimento della nuova repubblica con l'ingresso del Sovrano popolo bresciano. Il passaggio fu accettato dal Governo provvisorio con il Decreto 27 Brumale del VI anno Repubblicano (17 novembre 1797), n. 779. In esso si stabiliva la cessazione delle funzioni governative per l'ultimo del mese di Brumale (20 novembre), mentre dal primo Frimaio (21 novembre) si sarebbero attivate le nuove autorità dipartimentali.

Il territorio della repubblica fu quindi suddiviso nei vari dipartimenti del nuovo stato:
la città, la Bassa, la Valle Trompia, la Val Sabbia, il Sebino e la Franciacorta entrarono nel dipartimento del Mella;
la Riviera Gardesana, Desenzano, Lonato, Montichiari e Asola fecero parte del dipartimento del Benaco;
la Valcamonica fu tripartita:
la parte settentrionale della valle confluì nel Dipartimento dell'Adda e dell'Oglio;
la riva destra dell'Oglio entrò nel Dipartimento del Serio;
la riva sinistra, invece, fu compresa nel dipartimento del Mella.
La perdita dell'autonomia governativa fu compensata dall'assunzione di incarichi nel nuovo stato. Molti rappresentanti del'ex Governo provvisorio divennero seniori e juniori dei nuovi dipartimenti, mentre Gianbattista Savoldi entrò nel Direttorio e Giuseppe Lechi fu nominato Generale di Brigata.

Il 20 novembre, ultimo giorno di attività del Governo provvisorio, le truppe bresciane furono spostate a Rimini, probabilmente a scopo cautelativo, mentre in città furono presenti una colonna di francesi e una di cisalpini, quest'ultima originaria di Cremona. Il passaggio di consegne si verificò senza problemi: i membri della nuova amministrazione e della nuova municipalità lessero i primi proclami e le prime consegne da applicare nei territori della cessata repubblica che entrava dunque a far parte della Cisalpina.

La forma di stato assunta fu quella di tipo liberale. Il Decreto del 19 marzo 1797, n. 14, riconosceva la libertà dell'individuo, chiamato ora cittadino, e degli altri diritti umani, stabilendo che ogni limitazione di questi sarebbe stata definita dalla legge. Lo stesso decreto garantiva l'inviolabilità della religione cattolica e della proprietà.

La forma di governo fu di tipo direttoriale, sulla falsariga della Repubblica francese. Il carattere di provvisorietà che contraddistinse la Repubblica bresciana per tutta la sua breve storia impedì la formazione di un parlamento che assumesse il potere legislativo. Di conseguenza esso fu esercitato dagli organi di governo tramite l'emanazione di decreti. Al fine di garantire una rappresentanza a tutte le forze territoriali, il Decreto 1º maggio 1797, n. 337, stabilì che il governo fosse composto da sessanta membri, sei per ognuno dei dieci cantoni in cui fu diviso il territorio dello stato.

Nel Decreto 1º maggio 1797 si elencarono i vari centri abitati, definiti Luoghi, che il Governo intendeva porre sotto la sua amministrazione. Il territorio corrispondeva a quello dell'attuale provincia di Brescia, ad eccezione degli attuali comuni di Magasa e Valvestino, all'epoca appartenenti al Principato vescovile di Trento, e Sirmione, all'epoca appartenente al territorio veronese, quindi rimasto soggetto alla Repubblica di Venezia; appartenevano alla Repubblica Bresciana anche Asola, Casaloldo, Casalmoro e Casalpoglio (oggi in provincia di Mantova) e Rogno (oggi in provincia di Bergamo).

Il medesimo decreto suddivideva il territorio in dieci cantoni:
cantone dell'Alto Oglio (capoluogo: Chiari)
Adro, Berlingo, Borgonato, Bornato, Calino, Camignone, Capriolo, Castelcovati, Castrezzato, Cazzago, Chiari, Clusane, Coccaglio, Cologne, Colombaro, Erbusco, Iseo, Marocchina, Monterotondo, Nigoline, Paderno, Palazzolo, Paratico, Passirano, Pilzone, Pontoglio, Provaglio, Rovato, Timoline, Torbiato, Urago d'Oglio
cantone del Basso Oglio (capoluogo: Verolanuova)
Alfianello, Bassano, Boldeniga, Breda Libera, Cadignano, Castelletto di Leno, Castelletto di Quinzano, Cignano, Cigole, Faverzano, Ghedi, Leno, Manerbio, Mezzullo, Milzanello, Milzano, Monticelli, Oflaga, Pavone, Pontevico, Porzano, Quinzanello, Quinzano, San Gervasio, Scorzarolo, Seniga, Verolanuova, Verolavecchia
cantone del Benaco (capoluogo: Salò)
Agnosine, Bagolino, Barghe, Benaco (Salò), Bione, Bogliaco, Cacavero, Casa d'Idro, Centenaro, Cisano, Clibbio, Degagna, Fasano, Gaino, Gardone del Benaco, Gargnano, Gavardo, Gazzane, Hano, Idro, Limone, Maderno, Manerba, Muscoline, Odolo, Pieve, Polpenazze, Portese, Prabello, Prandaglio, Preseglie, Provaglio di Sopra, Provaglio di Sotto, Puegnago, Raffa, Sabbio, San Felice, Sopraponte, Soprazzocco, Teglie, Tignale, Toscolano, Tremosine, Treviso, Vallio, Villa, Villanuova, Vobarno, Volciano
cantone del Clisi (capoluogo: Asola)
Acquafredda, Asola, Calvisano, Carpenedolo, Casalmoro, Casaloldo, Casalpoglio, Castelnuovo del Clisi, Corvione, Fiesse, Gambara, Gottolengo, Isorella, Malpaga, Mezzane, Pralboino, Remedello di Sopra, Remedello di Sotto, Visano
cantone dei Colli (capoluogo: Lonato)
Arzago, Bedizzole, Calcinato, Calvagese, Carzago, Castrezzone, Chizzoline, Desenzano, Esenta, Lonato, Maguzzano, Mocasina, Moniga, Montichiari, Padenghe, Pozzolengo, Rivoltella, Soiano, Venzago
cantone di Garza Orientale (capoluogo: rione Torrelunga di Brescia)
"Chiusure a mattina della Garza", ovvero quartieri di Brescia posti ad est del torrente Garza: Aspes, Chiaviche, Conicchio, Folzano, parte delle Fornaci, Mompiano, Pontevica, San Francesco di Paola, San Polo, Verziano
comuni di Bagnolo, Borgosatollo, Botticino sera, Botticino mattina, Castenedolo, Caionvico, Ciliverghe, Goglione di sopra, Goglione di sotto, Mazzano, Montirone, Nuvolento, Nuvolera, Paitone, Rezzato, Serle, San Zeno, Sant'Eufemia, Virle
cantone di Garza Occidentale (capoluogo: rione Pallata di Brescia)
"Chiusure a sera della Garza", ovvero quartieri di Brescia posti ad ovest del torrente Garza: Borgo Pile, Borgo San Giacomo, Borgo San Giovanni, Bottonaga, Casa d'Esimo, Fiumicello, Fontanelle e Serpente, parte delle Fornaci, Mandolossa, Roncadelle e Caselle, San Bartolomeo, parte di Urago, parte del quartiere Violino
comuni di Azzano, Borgo Poncarale, Bovezzo, Caino, Capriano, Casaglio, Castegnato, Castelnuovo di Pallade, Cellatica, Coler, Collebeato, Corticelle, Cortine, Flero, Gussago, Mairano, Nave, Onzato, Ospitaletto, Pievedizio, Poncarale, Pontegatello, Rodengo, Ronco, Saiano, Sale di Gussago, Torbole, Travagliato, Urago di Mella, Valenzano
cantone del Mella (capoluogo: Gardone)
Alone, Anfo e Rocca, Avenone, Bovegno, Brione, Brozzo, Carcina, Carzano e Novale, Casto, Cesovo, Cimmo, Civine, Collio San Colombano e Memmo, Comero, Concesio, Forno d'Ono, Gardone, Inzino, Irma e Magno, Lavenone, Lavino, Levrange, Livemmo, Lodrino, Lumezzane Sant'Apollonio, Lumezzane Pieve, Magno d'Inzino, Malpaga, Marasino, Marcheno, Marmentino, Marone, Monte d'Isola, Monticelli Brusati, Mura, Navono, Nozza, Odeno, Ome, Ono, Peschiera, Pezzaze, Pezzoro, Polaveno, Posico, Prato, Presegno, Provezze e Fantecolo, Sale Marasino, San Vigilio, Sarezzo, Siviano, Sulzano, Tavernole, Vestone e Promo, Vello, Villa e Cailina, Zone
cantone della Montagna (capoluogo: Breno)
Anfurro, Angolo, Artogne, Berzo, Berzo Demo, Bienno, Borno, Braone, Breno, Capo di Ponte, Cemmo, Cerveno, Ceto, Cevo, Cedegolo, Cimbergo, Cividate, Cortenedolo, Corteno, Darfo, Demo, Do e Ono, Edolo, Erbanno, Esine, Gianico, Gorzone, Grevo, Incudine, Losine, Loveno, Lozio, Malegno, Malonno, Mazzunno, Monno, Mù, Nadro, Niardo, Osimo, Paisco, Paspardo, Pezzo, Pisogne, Ponte di Legno, Prestine, Piano, Pontagna, Rogno, Santicolo, Saviore, Sciano, Sellero, Sonico, Temù, Terzano, Vezza, Villa, Vione
cantone delle Pianure (capoluogo: Orzinuovi)
Acqualunga, Barbariga, Barco, Bargnano, Brandico, Breda Maggia, Castelgonelle, Cizzago, Comezzano, Coniolo e Rossa, Corzano, Cosirano, Cremezzano, Dello, Farfengo, Frontignano, Gabbiano, Gerola, Lograto, Longhena, Ludriano, Maclodio, Meano, Mottella, Ognato, Ovanengo, Oriano, Orzinuovi, Orzivecchi, Padernello, Pedergnaga, Pompiano, Pudiano, Roccafranca, Rudiano, Scarpizzolo, Trenzano, Trignano, Villachiara, Villagana, Zurlengo
L'unità amministrativa di base era il Comune, retto da una municipalità. Un singolo luogo poteva istituire una municipalità se aveva almeno duemila abitanti, altrimenti era invitato a unirsi con altri luoghi. Nel comune doveva funzionare un Giudice di Pace con il compito di amministrare la giustizia civile e commerciale in primo grado.

La città di Brescia fu suddivisa in quattro rioni, ognuno dei quali ebbe una propria municipalità.

I comuni erano poi riuniti in un Cantone. Il primo ed il secondo rione della città, posti ad occidente, fecero parte del Cantone della Garza Occidentale, mentre il terzo ed il quarto appartennero al Cantone della Garza Orientale. Nel capoluogo di cantone risiedevano:
il Commissario Nazionale che, nominato dal Governo provvisorio, aveva il compito di corrispondere con le municipalità per conto dello stesso;
il Tribunale Civile d'Appello o Tribunale Civile del Cantone che aveva il compito di amministrare la giustizia civile e commerciale in secondo grado;
il Tribunale Criminale, che amministrava la giustizia penale;
una colonna mobile della Guardia Nazionale.
Presso la sede del Governo provvisorio, stabilita nel Palazzo Nazionale del Broletto, risiedevano anche il Tribunale Nazionale Civile, giudice di terza istanza nelle cause civili e commerciali, e il Tribunale Nazionale Criminale.

La raccolta dei decreti del Governo provvisorio bresciano fu edita dalla Tipografia dipartimentale di Brescia nel 1804.
Voluta da Nicolò Bettoni, risulta la fonte principale delle decisioni assunte dal Governo provvisorio. Sono venuti infatti a mancare i verbali delle adunanze e altri documenti pubblici a causa sia della successiva occupazione della città di Brescia da parte delle forze Austro-Russe (1798-99) sia della decisione dell'amministrazione del Lombardo-Veneto di liberarsi degli atti dell'epoca napoleonica (1849-50).
I decreti furono raccolti in quattro volumi, rispettando l'ordine cronologico di emissione.
La municipalità provvisoria fu istituita nelle ore successive all'assalto del Broletto e all'arresto del Provveditore Straordinario Battagia con apposito Decreto 18 marzo 1797, n. 2. Fu composto da quaranta membri ai quali si aggiunsero il Presidente Pietro Suardi e due municipalisti, affiancanti la Presidenza nel ruolo di segretario. I membri della Municipalità provenivano tutti dal notabilato locale, sebbene avessero tutti rinunciato al titolo nobiliare e si facessero chiamare cittadini. Soltanto alcuni di essi avevano partecipato alla congiura e all'assalto di quella mattinata, il resto provenne da precedenti esperienze nel campo dell'amministrazione locale.

La municipalità si organizzò in sei comitati, ognuno composto da cinque membri: di Vigilanza, Militare, d'Istruzione Pubblica, di Finanza, ai Viveri, di Custodia de' Pubblici Effetti. Il ruolo dei comitati fu quello di emanare e firmare decreti nella fattispecie di competenza. I Decreti e i comunicati presi a nome dell'intera municipalità furono firmati dal Presidente.

La sede fu posta inizialmente presso la Loggia, denominato Palazzo di Città, per poi essere trasferita il 20 in Broletto, a sua volta definito Palazzo Nazionale.

Tra le decisioni prese dalla Municipalità provvisoria vi fu quella di nominare Giuseppe Lechi "Generale in Capo" della forza armata della Repubblica e responsabile della sua organizzazione e quella di distruggere i simboli marmorei della Serenissima. Fu inoltre imposto il canto del Te Deum laudamus allo scopo di "rendere all'Altissimo le dovute grazie per la ricuperata Libertà"; l'evento si tenne nella chiesa dei Santi Faustino e Giovita il 22.
Il Governo provvisorio si sostituì alla Municipalità il 24 marzo 1797. Fu composto da quarantadue membri ai quali si aggiunsero il Presidente, il Vicepresidente e il Segretario del Governo provvisorio. Il Governo organizzò i suoi componenti in sei comitati: di Vigilanza e Polizia, Militare, d'Istruzione Pubblica, di Finanza, dei Viveri, Custodia de' Pubblici Effetti. Due vicesegretari si affiancavano al Segretario, mentre il comitato di Vigilanza e Polizia fu affiancato da tre commissari. Ogni comitato aveva il proprio segretario, in certi casi anche un vicesegretario, mentre quello dei Pubblici Effetti fu affiancato da un ragioniere.

Con la riorganizzazione del 1º maggio, si stabilì che il numero dei componenti del Governo salisse a sessanta, in maniera da permettere ad ogni cantone in cui fu suddiviso il territorio della repubblica di essere rappresentato da sei membri. Tuttavia, il Governo stesso si limitò a nominare quindici nuovi membri, provenienti dalla provincia, i quali si aggiunsero ai quarantacinque già in essere. Stando a documenti privati presentati dal Da Como (1926), durante la breve vita della repubblica vi furono due dimissioni e cinque destituzioni nel Governo, ma non si verificarono rimpiazzamenti.

L'ufficio di Presidenza fu svolto per i primi due mesi da Pietro Suardi, già Presidente della Municipalità provvisoria. Successivamente, il 19 di ogni mese il Governo procedeva a nominare un nuovo Presidente che rimaneva in carica un mese.

All'indomani dell'insurrezione, la Municipalità provvisoria decretò la sospensione per una settimana di tutte le cause in attesa di giudizio presso il foro. Tre giorni dopo, fu istituita la magistratura del Giudice di Pace con il compito di dirimere le questioni civili e commerciali che sotto la Repubblica di Venezia facevano capo al Pretore. Il giudizio sui delitti furono invece competenza di una Commissione Criminale che avrebbe funzionato a titolo provvisorio fino alla costituzione di un Codice Criminale regolante la materia penale. La Commissione fu istituita con Decreto 25 marzo 1797, n. 76, all'interno del quale fu stabilito anche il divieto della tortura quale strumento per ottenere prove e confessioni.

La riorganizzazione del 1º maggio estese l'istituto del Giudice di Pace su tutto il territorio della Repubblica. Ogni municipalità doveva essere dotata di un magistrato il quale doveva essere eletto dal "Popolo radunato nelle Parrocchia", formula generica che lasciava le modalità di elezione alla libera autonomia delle municipalità stesse. Le sentenze del Giudice si consideravano definitive se la somma in questione era inferiore alle Lire 100, mentre le altre potevano essere appellate al Tribunale Civile d'Appello entro tre giorni dalla sua data di emanazione.

Il Tribunale Civile d'Appello risiedeva presso il Luogo Centrale del Cantone, da cui anche il nome alternativo di Tribunale Civile di Cantone. Era composto da tre magistrati, nominati dal Governo provvisorio, che giudicavano collegialmente le sentenze che venivano loro appellate. Il loro compito era quello di confermare la sentenza del Giudice di Pace oppure di annullarla; in quest'ultimo caso la nuova sentenza d'appello sarebbe stata emessa dal Tribunale Civile Nazionale, sedente a Brescia.

Anche il Tribunale Criminale risiedeva presso il Luogo Centrale cantonale. Esso sostituiva la precedente Commissione Criminale e era composto da tre giudici di cui uno avrebbe svolto il ruolo di Presidente. Quest'ultimo fungeva da Giudice correzionale, emanando sentenze relative a carcerazioni che non si fossero estese oltre dieci giorni: se vi era necessità di emettere una pena detentiva più lunga, il Presidente doveva convocare il Tribunale nella sua forma collegiale. Le sentenze erano definitive, quindi senza possibilità di appello. Sia il Tribunale Criminale sia il Tribunale Civile d'Appello erano dotati di una colonna mobile della Guardia Nazionale, allo scopo di garantirne l'autorità.

Il Tribunale Civile Nazionale doveva giudicare in appello le sentenze annullate dai tribunali cantonali, mentre il Tribunale Nazionale Criminale aveva il compito di sentenziare sui Delitti di lesa nazione. Entrambi avevano la sede a Brescia. La loro composizione era strettamente interdipendente. I due organi collegiali, infatti, dovevano essere composti in totale da dieci magistrati, ognuno proveniente da un diverso Cantone della Repubblica. Sette di questi, a sorte, sarebbero entrati nel tribunale civile, mentre gli altri tre sarebbero diventati membri del tribunale criminale. Per garantire l'esercizio delle loro funzioni, i due tribunali nazionali erano dotati di una colonna della Guardia Nazionale.


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LA SERENISSIMA

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La Serenissima, è la Repubblica veneziana, uno degli stati italiani più potenti. La sua flotta di navi dominava tutto il mar Mediterraneo.

Nota anche come Repubblica di San Marco, è sovente indicata col semplice appellativo di Serenissima.

Lo Stato includeva, nel XVIII secolo e sino alla sua caduta, gran parte dell'Italia nord-orientale, nonché dell'Istria e della Dalmazia e oltre a numerose isole del Mare Adriatico (il Golfo di Venezia) e dello Ionio orientale. Al massimo della sua espansione, tra il XIII e il XVI secolo, comprendeva il Peloponneso (Morea), Creta (Candia) e Cipro, gran parte delle isole greche, oltre a diverse città e porti del Mediterraneo orientale.

La Repubblica nacque nel IX secolo, dai territori greco-bizantini della Venetia maritima, dipendenti dall'Esarcato di Ravenna fino alla conquista di questa città da parte dei Longobardi nel 732. La tradizione vuole che il primo doge, Paulicio Anafesto, fosse eletto nel 697 dai Venetici, tuttavia la nascita del ducato è da inquadrarsi nella riforma delle province italiche di Bisanzio promossa dall'imperatore Maurizio Tiberio, con la nomina a capo di queste di duces (dux o dukas, δούκας in greco-bizantino), cioè comandanti militari (di nomina imperiale per tramite dell'esarca ravennate), nel tentativo di arginare l'invasione longobarda. La figura del dux bizantino, divenuto nei secoli doge, conquistò quindi una sempre maggiore autonomia, attuando una politica via via sempre più indipendente. La capitale del nuovo ducato venne originariamente posta nella città di Eracliana.

Nel 726 l'estensione all'Italia dei provvedimenti iconoclasti dell'imperatore Leone III provoca la reazione del Papa e il diffondersi di rivolte in tutti i territori bizantini d'occidente (come del resto in quelli d'oriente): nella Venezia il popolo e il clero in rivolta prevaricano il diritto imperiale alla nomina del Dux, tuttavia, nonostante la ribellione, la Venezia interviene a sostegno dell'Esarcato contro i Longobardi. Tra il 737 e il 741 i Bizantini riportano il governo della provincia nelle mani di magistrati elettivi annuali, i Magistri Militum, fino a che nel 742 l'imperatore concesse al popolo la nomina del Dux. Nello stesso anno la capitale venne traslata a Metamauco.

La definitiva perdita bizantina di Ravenna, nel 751, e la conquista del regno longobardo da parte dei Franchi di Carlo Magno nel 774, con la successiva creazione del Sacro Romano Impero nella notte di Natale dell'anno 800, mutano definitivamente il contesto circondante il Ducato di Venezia. Franchi e Bizantini se ne contesero il dominio, mentre all'interno ci si divise tra il partito filofranco, capeggiato dalla città di Equilio, e quello filobizantino, con roccaforte ad Eracliana: nell'805 l'aperto conflitto esploso tra i due centri spinse il doge Obelerio Antenoreo a raderli al suolo e deportarne la popolazione a Metamauco. Messa così a tacere ogni opposizione il doge si risolse nell'806 a porre il ducato sotto la protezione di Carlo Magno, ma un blocco navale bizantino lo convinse ben presto a rinnovare la propria fedeltà all'imperatore d'Oriente, trasformando il ducato in una base per le azioni militari bizantine in Italia.

Nell'809, in risposta alle aggressioni condotte dai Bizantini su Comacchio, l'esercito franco comandato da Pipino invase la Venetia, assediando Metamauco e costringendo il Dux a rifugiarsi nelle isole interne della laguna, presso la città di Rivoalto. Il conflitto ebbe termine nell'810, quando la flotta veneziana riuscì a intrappolare e distruggere quella franca nelle secche tra Metamauco e Popilia. La vittoria portò al potere il partito filobizantino, che approfittò immediatamente dell'occasione per sbarazzarsi dell'odiato Antenoreo e a sostituirlo con il nobile eracleense Angelo Partecipazio, il quale, nell'812 trasferì definitivamente la capitale a Rivoalto, decretando così l'effettiva nascita di Venezia.

Al sicuro nella nuova città il ducato veneziano rimane un'isola bizantina nel mare del Medioevo feudale d'occidente. Tuttavia nei due secoli successivi le istituzioni e la politica veneziane si distaccheranno progressivamente sempre più dalle vicende di un impero sempre più lontano, la cui sovranità si farà sempre più meramente formale (nell'840, ad esempio, il doge di propria iniziativa promulgherà il Pactum Lotharii con il Sacro Romano Impero). È in questo periodo che, a fianco dei tentativi di costituire un sistema politico su modello imperiale bizantino (con il tentativo di rendere ereditaria la carica ducale tramite l'adozione del sistema di associazione al trono di un erede "co-Dux"), si viene sviluppando un sistema di famiglie patrizie in concorrenza per il potere (segno ne sono le frequenti rivolte e deposizioni dei "Dogi", tonsurati, accecati ed esiliati), nucleo della futura oligarchia mercantile a capo dello Stato.

Nel basso medioevo, Venezia divenne estremamente ricca, grazie al controllo dei commerci con il Levante, e iniziò ad espandersi nel Mar Adriatico e oltre. Questa fase d'espansione ebbe inizio a partire dall'anno 1000, quando la flotta guidata dal doge Pietro II Orseolo per combattere i pirati Narentani che opprimevano con le loro incursioni le coste veneziane ricevette la sottomissione delle città costiere istriane e dalmate e il successivo riconoscimento da parte dell'imperatore bizantino del titolo di duca della Venezia e della Dalmazia (Dux Venetiae et Dalmatiae).

Nel 1071 la lotta per le investiture tra Gregorio VII ed Enrico IV era già in atto, ma Venezia, rimanendo fedele alla sua politica di equilibrio tra le grandi potenze, non parteggiò né per il pontefice, né per l'imperatore. Nel sud dell'Italia i Normanni erano diventati i veri protagonisti. Dapprima i Veneziani avevano allacciato buoni rapporti con gli Altavilla; ma allorché essi cominciarono ad intervenire nell'Adriatico avvenne la rottura.

L'occupazione normanna di Durazzo e di Corfù indusse i Veneziani all'azione armata. La guerra durò più di due anni e le operazioni navali e terrestri non furono favorevoli agli alleati veneto-bizantini. Quando Roberto il Guiscardo moriva il suo esercito abbandonava le posizioni raggiunte per ritornare in Puglia.

Con la scomparsa del normanno, Venezia riuscì ad ottenere da Costantinopoli quanto aveva desiderato. La Crisobolla (o "Bolla Aurea") del maggio 1082, con cui l'Imperatore d'Oriente concedeva ai suoi mercanti ampi privilegi ed esenzioni in tutta la Romània: questa iniziale concessione venne poi successivamente più volte ampliata ed affiancata da altri atti con cui gli imperatori via via premiarono e poi pagarono il sostegno navale dei loro ex-sudditi.

L'accresciuta potenza e l'alto numero di privilegi misero nel tempo in rotta Bizantini e Veneziani, portando ad un succedersi di contrasti, con le guerre del 1122-1126 e del 1171-1175, che favorirono l'espansione commerciale genovese in Oriente.

Meno sforzi profuse Venezia per aiutare le prime crociate: intervenne per favorire la presa di Gerusalemme quando la Prima Crociata era già avviata, non partecipò alla Seconda Crociata, ma inviò una flotta al seguito della Terza Crociata, che procurò notevoli vantaggi commerciali sia a lei, sia alle rivali Pisa e Genova.

Nel 1148 venne istituita la Promissio Ducale, il giuramento di fedeltà costituzionale del Doge, che da quel momento, continuamente rinnovata ad ogni nuova elezione, limitò progressivamente sempre più i poteri del principe, ponendo le basi di sviluppo delle altre istituzioni repubblicane.

Nell'ultimo ventennio del XII secolo Venezia fu impegnata contro l'Ungheria nella guerra di Zara per il controllo della Dalmazia, conclusasi nel 1202 con la presa della città.

Sotto il dogado di Enrico Dandolo, la partecipazione alla Quarta Crociata fu fondamentale per la presa di Zara (1202) e nel sacco di Costantinopoli (1204), che portò a Venezia anche grandi tesori rapinati a Costantinopoli e causò grandi distruzioni nella città imperiale e l'indebolimento definitivo di Costantinopoli quale presidio della cristianità in Oriente. La crociata pose temporaneamente fine all'impero Bizantino e originò l'Impero Latino d'Oriente, che assumeva le forme istituzionali caratteristiche della feudalità occidentale. I territori dell'Impero bizantino vennero spartiti in quattro tra l'Imperatore Baldovino di Fiandra, il Marchese del Monferrato, i principi e i baroni franchi e la Serenissima. Venezia guadagnò molti territori nel Mar Egeo, tra cui le isole di Candia (Creta) ed Eubea, e numerosi porti e piazzeforti nel Peloponneso, oltre ad una posizione di assoluta preminenza nell'effimero Impero Latino creato dai crociati, dove venne riservato al doge veneziano il titolo di Signore di un quarto e mezzo dell'Impero Romano d'Oriente, che comportava anche la facoltà di nominare il Patriarca latino di Costantinopoli e di avere un proprio rappresentante (bailo o podestà) a Costantinopoli.

La conquista di Candia, in particolare, impegnò intensamente la Repubblica, richiedendo quasi l'intera prima metà del Duecento.

Tra il 1255 e il 1270 la Repubblica si scontrò poi duramente con Genova nella guerra di San Saba per riaffermare il proprio predominio nei mercati levantini. Mentre la riconquista bizantina di Costantinopoli, modificando nuovamente l'assetto politico dell'Oriente, fornì presto l'occasione per nuovi scontri tra le marinerie italiane.

Precluso, a partire dalla Serrata del Maggior Consiglio del 1297, a nuove famiglie l'accesso al governo, sopravvissuta lo Stato alla grave minaccia rappresentata dalla congiura del Tiepolo del 1310, Venezia si diede la definitiva forma di Repubblica oligarchica, governata da un Patriziato mercantile.

La Repubblica si espanse nei secoli successivi, in molte isole e territori dell'Adriatico e del Mar Mediterraneo, venendo a comprendere per secoli quasi tutte le coste orientali dell'Adriatico (interamente noto come "Golfo di Venezia"), ma anche le grandi isole di Creta ("Candia" per i veneti) e Cipro, gran parte delle isole greche e del Peloponneso ("Morea" per i veneti). Le sue propaggini arrivano a più riprese fino al Bosforo. Il complesso di questi vasti domini insulari e costieri venne a costituire quello che i veneziani chiamavano lo Stato da Màr (lett. lo "Stato marittimo", contrapposto ai "Domini di Terraferma" e al "Dogado").

La mutilazione dei domini dalmati a seguito della pace di Zara del 1358 spinse la Repubblica a riaffermare il proprio dominio sull'Adriatico combattendo, tra il 1368 e il 1370, la guerra di Trieste per punire la città giuliana delle minacce rivolte alle proprie rotte commerciali.

Nel 1379, però, Venezia venne gravemente minacciata proprio nell'Adriatico da Genova durante la guerra di Chioggia che, dopo aver posto la Serenissima in stato d'assedio nelle sue stesse lagune, terminò con un nulla di fatto e l'indebolimento della rivale.

Tra il 1409 e il 1444, infine, Venezia riacquisì il dominio sulla Dalmazia, grazie ai trattati stipulati con i sovrani ungheresi.

Per secoli la Repubblica è stata primariamente uno stato composto di isole e fasce costiere, che costituivano il cosiddetto Stato da Màr. Solo limitate inclusioni di aree del retroterra lagunare erano state effettuate per costituire capisaldi difensivi contro l'espansione di città come Padova e Treviso. All'inizio del XV secolo, i veneziani iniziarono tuttavia ad espandersi notevolmente anche nell'entroterra, in risposta alla minacciosa espansione di Gian Galeazzo Visconti, duca di Milano dal 1395.
Nel 1410, Venezia aveva già conquistato gran parte dell'odierna regione italiana del Veneto, comprese importanti città come Verona e Padova, e dieci anni più tardi assoggettava il Friuli. La Repubblica arrivò a comprendere il territorio di quella che era stata la X regione augustea della penisola italica (Venetia et Histria). Nel 1428 divennero veneziane pure le città oggi lombarde di Bergamo, Brescia e Crema con i relativi contadi. Un ruolo importante in queste campagne militari lo giocò il condottiero Bartolomeo Colleoni. Nel 1489 fu annessa l'isola di Cipro, precedentemente uno stato crociato, ceduto dalla sua ultima sovrana, la veneziana Caterina Cornaro (in ven. "Cornèr"). Nel 1495 Venezia riuscì ad espellere Carlo VIII dall'Italia grazie alla battaglia di Fornovo, respingendo il primo di una serie di assalti francesi. Temporaneamente ad inizio del XVI secolo furono venete pure Cremona, Forlì, Cesena, Monopoli, Bari, Barletta, Trani ecc.

Con tale espansione i veneziani entrarono però in conflitto con lo Stato Pontificio per il controllo della Romagna. Questo portò nel 1508 alla formazione della Lega di Cambrai contro Venezia, nella quale il Papa, Re di Francia, Imperatore del Sacro Romano Impero e il Re d'Aragona si unirono per distruggere Venezia. Anche se nel 1509 i francesi furono vittoriosi nella Battaglia di Agnadello, le armate della lega dovettero arrestarsi ai margini della laguna: la coalizione si ruppe ben presto, e Venezia si ritrovò salva senza aver subito gravi perdite territoriali; la flotta fu però quasi completamente distrutta nella battaglia di Polesella alla fine di quell'anno, sotto il fuoco dell'artiglieria degli Estensi. La Repubblica dovette rinunciare ad esercitare la propria pressione politica sul piccolo ducato ma i confini rimasero assestati su quelli segnati alla fine della Guerra del Sale nel 1484. Il conflitto si protrasse sino al 1516, quando Venezia, passata all'alleanza con la Francia, sconfisse le forze della Lega Santa, riprendendo il pieno possesso della Terraferma.
Col Trattato di Noyon (1516) la Serenissima perse l'alta valle del fiume Isonzo (Gastaldia di Tolmino con Plezzo ed Idria) a favore della Contea di Gorizia e Gradisca, ma manteneva Monfalcone.

Dall'inizio del XV secolo un altro pericolo minacciava la repubblica: l'espansione dell'Impero ottomano nei Balcani e nel Mediterraneo orientale. Nel secolo XVI il successore di Solimano sul trono ottomano, Selim II, riprese le ostilità nei confronti dei superstiti domini veneziani nell'oriente attaccando l'isola di Cipro, che cadde dopo una lunga ed eroica resistenza. Venezia reagì inviando una flotta nell'Egeo e allacciando rapporti con Pio V allo scopo di creare una Lega santa per sostenere lo sforzo bellico della Serenissima.

Essa, formatasi il 25 maggio del 1571, vedeva riunite le forze di Venezia, Spagna, Papato e Impero, sotto il comando di Don Giovanni d'Austria, fratello di Filippo II di Spagna. Le duecentotrentasei navi cristiane riunitesi nel golfo di Lepanto si scontrarono con le duecentottantadue navi turche comandate da Capudan Alì Pascià. Era il 7 ottobre del 1571 e la Battaglia di Lepanto, combattuta da mezzogiorno al tramonto, si risolse con la vittoria della Lega santa.
Nonostante la vittoria di Lepanto, di fronte alla scarsa volontà di Filippo II di continuare ad aiutare la Repubblica e alle esauste casse dello Stato, prosciugate dal conflitto e dalla crisi dei commerci, Venezia fu costretta a firmare un trattato di pace e a cedere agli Ottomani l'isola di Cipro ed altri possedimenti sulle coste della Morea. Quel trattato iniziava la decadenza militare e marittima della Serenissima.

Nel XVII secolo, dopo un lungo conflitto (1645-1669), venne persa anche Candia, dopo un assedio durato circa 24 anni. Venezia riuscì tuttavia a riconquistare ancora nel 1683-87 l'intera Morea (l'odierno Peloponneso), grazie all'abilità del suo ultimo grande condottiero, Francesco Morosini in seguito alla pace di Carlowitz del 1699; la Morea fu però presto riconquistata dall'Impero ottomano nel 1718, a causa anche dello scarso appoggio delle popolazioni greche, che non vedevano di buon occhio i veneziani.

Con la Pace di Passarowitz del 1718, Venezia dovette cedere ai Turchi le ultime piazzeforti che ancora possedeva presso Candia e rinunciare alla Morea (l'antico possedimento del Peloponneso, perso con le campagne del 1715), ma poté conservare le Isole Ionie ed estendere i propri domini in Dalmazia.

Nel XVIII secolo la Repubblica, persa progressivamente la propria potenza, si adagiò nel perseguire una politica di conservazione e neutralità. A questo si accompagnava un sempre più ridotto dinamismo del ceto politico, sempre più legato ai crescenti interessi fondiari in terraferma del patriziato veneziano. Questo, poi, subì una sempre più massiccia immissione di nuove famiglie nel corpo aristocratico, volto a sostenere l'economia dello Stato (grazie al ricco pagamento fornito dai nuovi nobili all'atto dell'iscrizione al libro d'oro del patriziato) e a rinsaldare i legami coi ceti dirigenti della terraferma.

Tuttavia in questo periodo la "Serenissima" - anche se ormai politicamente sulla via del tramonto - brillava ancora dal punto di vista del profilo culturale, basti ricordare al riguardo i nomi di Vivaldi nella musica, Goldoni nella letteratura e Tiepolo ed il Canaletto nella pittura.

Non mancavano poi gli interventi militari, soprattutto contro la pirateria barbaresca, con le spedizioni del 1766 e 1778 contro Tripoli e quella più massiccia del 1786-1787, quando alla guida di Angelo Emo vennero bombardate Sfax, Tunisi e Biserta.

Alla vigilia del nuovo XIX secolo, la vita pubblica veneziana venne infine agitata da travagli politici interni, provocati dalle nuove idee introdotte dalla Rivoluzione francese, cui il governo, pur arroccandosi su posizioni rigidamente conservatrici, non seppe fornire un'efficace reazione. Tale situazione favorì la caduta finale della Repubblica, di cui non fu secondaria causa il diffuso timore da parte della classe aristocratica dello scoppio di rivolte giacobine, che in realtà non si realizzarono mai.

Nonostante la propria dichiarata neutralità durante la campagna d'Italia condotta dalla Francia rivoluzionaria, la Repubblica venne invasa dalle truppe francesi di Napoleone Bonaparte (1797), che occuparono la terraferma, giungendo ai margini della laguna. A seguito delle minacce francesi di entrare in città, nella seduta del 12 maggio 1797, il Doge e i magistrati deposero le insegne del comando, mentre il Maggior Consiglio abdicò e dichiarò decaduta la Repubblica. Il potere di governo passò a una Municipalità provvisoria posta sotto il controllo del comando militare francese, nel terrore generale di rivolta suscitato dalle salve di saluto dei fedeli soldati "schiavoni" (istriani e dalmati), che obbedirono all'ordine di evacuazione impartito per evitare scontri.

Napoleone entrò così a Venezia senza quasi che fosse sparato un solo colpo, se non una salva d'artiglieria ordinata dal Forte di Sant'Andrea che distrusse la fregata francese "Le Libérateur d'Italie" mentre tentava di forzare l'ingresso in laguna. Poco dopo anche l'Istria e la Dalmazia, ormai caduta la madrepatria, si consegnarono ai francesi.

Le aspettative degli illuministi italiani, illusi che l'arrivo delle truppe napoleoniche avrebbe fatto trionfare anche in Italia gli ideali di libertà affermatisi oltre le Alpi con la rivoluzione francese, furono traditi da Napoleone. Nel trattato di Campoformio firmato il 17 ottobre 1797, la Francia si spartì il Nord-Italia con l'Arciducato d'Austria, al quale furono riconosciuti Venezia ed i suoi territori, decretando in tal modo la fine della Repubblica Veneta. Dopo la definitiva sconfitta di Napoleone, al congresso di Vienna del 1814 fu istituito il Regno Lombardo-Veneto, assoggettato all'Impero Austriaco, comprendente grossomodo i territori degli odierni Veneto, Lombardia e Friuli.

Durante i moti risorgimentali del 1848, di cui Venezia fu grande animatrice sotto la guida di Daniele Manin, vi fu un breve tentativo di restaurare l'antica repubblica contro la dominazione dell'Impero austriaco. Nella generale insurrezione del Veneto contro la dominazione asburgica, Venezia insorse contro gli austriaci il 17 marzo 1848, occupando l'Arsenale e costringendo le truppe imperiali ad abbandonare la città. Alla guida di Daniele Manin e Niccolò Tommaseo, fu proclamata la Repubblica di San Marco che, al procedere della repressione austriaca sulla terraferma, si appellò ai piemontesi chiedendo un'unione col Regno di Sardegna.
Nel generale fallimento dei moti insurrezionali della penisola italiana e dovendo accantonare momentaneamente i sogni di unificazione nazionale, Venezia resistette all'assedio del maresciallo Radetzky fino al 22 agosto 1849, quando dovette capitolare.

La sovranità apparteneva formalmente al popolo veneziano, che sino al Quattrocento si riuniva nell'assemblea della Concio. Il popolo esercitava tradizionalmente il proprio potere nel momento dell'approvazione del Doge, eletto con un complicato sistema, elaborato per impedire brogli: nelle epoche più antiche l'approvazione rappresentava una vera e propria conferma da parte dei cittadini liberi dell'elezione del "Dux" veneto-bizantino da parte dei patrizi e del clero, poi, con il progressivo instaurarsi della forma oligarchica della Repubblica, il residuo dell'antico potere venne a sedimentarsi nella tradizionale acclamazione del popolo al nuovo Doge.

Il Doge rappresentava formalmente la sovranità e la maestà della Repubblica, ma aveva scarso potere (essenzialmente il diritto di guidare in guerra l'esercito e la flotta, se non venivano nominati specifici "Capitano/i de tera" o "Capitano/i de mar") ed era coadiuvato e controllato nelle proprie funzioni da sei consiglieri, coi quali costituiva il Minor Consiglio (o Serenissima Signoria). La sovranità risiedeva invece nel Maggior Consiglio, l'organo fondamentale dello Stato (esso rappresentava fino alla "Serrata del Maggior Consiglio" i notabili della città, poi i membri della sola aristocrazia), al quale appartenevano di diritto i membri maschi e maggiorenni delle grandi famiglie patrizie, mediamente circa un migliaio di individui. Il Maggior Consiglio esercitava poi la propria sovranità attraverso dei Consigli minori di sua emanazione: il Collegio, cioè il governo della Repubblica, il Senato (o Consiglio dei Pregadi), responsabile per la politica estera, il Consiglio dei Dieci, responsabile della sicurezza dello Stato, e i tribunali della Quarantia. In particolare il Consiglio dei Dieci venne nel tempo a costituirsi come un organismo quasi onnipotente, baluardo delle istituzioni repubblicane e dell'ordinamento oligarchico.

Un capitolo a parte merita l'amministrazione della Giustizia, ammirata per secoli in tutto il mondo tanto da meritare alla Repubblica il titolo di Serenissima, proprio per la tolleranza (verso stranieri e verso nuove ideologie, ecc.) derivante dalla maniera equilibrata di fare giustizia. Essa si basava su un ridotto ruolo degli avvocati, su giudici non di carriera (aristocratici nominati per 1 o 2 anni, anche nelle alte gerarchie), e soprattutto per il modo di applicare le leggi al singolo caso concreto, che teneva conto delle decisioni precedenti (giurisprudenza) ma soprattutto mirava a realizzare la giustizia sostanziale, anche negando l'applicabilità di certe leggi se queste ledevano i principi superiori di giustizia, ossia la verità, il buon senso, la fede e l'equilibrio naturale delle cose.

Le istituzioni del Governo della Repubblica di Venezia erano strutturate su più livelli. Alla base c'era il Maggior Consiglio, detentore del potere sovrano, e al vertice il Doge, immagine della maestà dello Stato.
Supremo magistrato della Repubblica, era eletto a vita e dal momento dell'elezione, che avveniva con un complicatissimo sistema di votazioni e ballottaggi (estrazioni a sorte), e dell'incoronazione davanti al popolo, con la pronuncia della Promissione Ducale, risiedeva nel Palazzo Ducale, ricevendo onori e circondandosi di un cerimoniale fastoso e solenne che doveva manifestare la gloria e la potenza della Repubblica. Doveva tuttavia provvedere da sé al sostentamento proprio e della propria famiglia; i suoi unici poteri consistevano nella nomina del Primicerio e dei canonici della Basilica di San Marco e la facoltà di condurre in guerra l'armata.

Il Minor Consiglio si componeva dei sei Consiglieri ducali: coadiuvava e sorvegliava strettamente l'operato del Doge, per limitarne i poteri e curarne finanche la corrispondenza. Il più anziano dei sei consiglieri sostituiva il "Serenissimo Principe" nei casi d'assenza o di impedimento. Il Minor Consiglio e i Tre Capi della Quarantia, costituivano, assieme al Doge, la Serenissima Signoria, organo di presidenza di tutte le assemblee dello Stato.

Il Collegio dei Savi costituiva in pratica il consiglio dei ministri della Repubblica. Si componeva di sei Savi Grandi, cinque Savi agli Ordini e cinque Savi de Teraferma, che disponeva in materia di politica estera, finanze e affari militari, stabilendo l'agenda dei lavori del Senato: nei casi in cui veniva presieduto dalla Signoria il Collegio assumeva il nome di Pieno Collegio.

Noto anche come Consiglio dei Pregadi (lett. di coloro che venivano "pregati" di fornire il proprio consiglio al Doge), il Senato della Repubblica si componeva del Pien Collegio e di sessanta senatori, cui si aggiungevano i sessanta membri della Zonta (lett. "aggiunta"). A questi senatori di diritto potevano aggiungersi ex officio funzionari, ambasciatori, comandanti militari, etc., di volta in volta convocati per riferire delle loro missioni o per fornire il proprio parere nelle questioni trattate. Il Senato era infatti l'organo deliberativo della Repubblica, che si occupava di discutere della politica estera e dei problemi correnti, per i quali si configurava come un organismo decisionale più snello rispetto al Maggior Consiglio.

Il Consiglio dei X era composto di dieci membri con incarico annuale, dotati di ampi poteri al fine di garantire la sicurezza della Repubblica e del suo governo. Ad essi si affiancava il più snello magistrato dei Tre inquisitori di Stato, incaricato di proteggere il segreto di Stato. L'attività di tali organi era legata in particolare all'uso delle Denunzie Segrete dalle quali si originavano spesso i procedimenti di tali organismi, che giudicavano poi con giudizio esecutivo, inappellabile e, all'occorrenza, segreto. Nato formalmente il 20 luglio 1335 come istituzione provvisoria, venne poi resa permanente e durerà fino alla fine della Repubblica di Venezia nel 1797. Il ruolo dei "Tre inquisitori di Stato" venne però col tempo ad oscurare la tolleranza e la vantata equanimità delle funzioni giudiziarie: essi infatti potevano sostituirsi ai giudici ordinari, procedevano spesso in segreto e senza possibilità di difesa alcuna, con largo uso della tortura e con la facoltà di fatto di spaziare su qualunque materia in nome della difesa dello Stato anche da ideologie ritenute perniciose, da reati verso persone importanti, da presunte intelligenze con lo straniero, ecc.

Il Consiglio dei XL era organo sovrano nella programmazione finanziaria e nel governo della Zecca, operando inoltre come Supremo Tribunale nei procedimenti ordinali civili e penali, suddiviso nelle tre sezioni della Quarantia Criminale, della Quarantia Civil Vecchia e della Quarantia Civil Nuova.

Il Maggior Consiglio era l'organo sovrano dello Stato veneziano, cui appartenevano, automaticamente e di diritto tutti i membri maschi e maggiorenni delle famiglie patrizie: tale assemblea coincideva in pratica con la Repubblica stessa, avendo competenza illimitata in qualunque materia e procedendo all'elezione di tutti gli altri consigli e magistrature.

A vigilare sull'ordine pubblico erano due Magistrature : i "Signori di notte" e gli "Esecutori contro la bestemmia". A vigilare sulla sicurezza sanitaria era il Magistrato di Sanità, il quale, dopo un decreto del 1588, poteva valersi di deputazioni di patrizi e di cittadini per ogni contrada, sino a che poi fu costituita una Magistratura di Sanità composta da diversi Provveditori, che avevano sorveglianza anche sull'Albergo universale dei mendicanti e sfaccendati, istituito nel 1753.

A partire dall'iniziale nucleo territoriale del Dogado cioè il ristretto territorio metropolitano di Venezia e delle lagune, i domini veneziani si espansero sia oltremare che in terraferma attraverso conquiste militari, investiture feudali e dedizioni. Questo diede vita ad un'organizzazione territoriale piuttosto eterogenea, legata alle condizioni storiche e politiche in cui o vari territori, città, castelli o isole erano entrate nel possesso della Repubblica.
Nel tempo tuttavia tutti finirono per essere in generale amministrati da funzionari eletti con vario titolo dal Maggior Consiglio ed inviati nei possedimenti per amministrarli per un periodo detto reggimento.

Il Dogado, anticamente governato come sorta di confederazione di città, ciascuna amministrata da propri tribuni, con il rafforzamento del potere centrale, passò ad essere suddiviso in distretti retti da podestà inviati dalla capitale. Unica eccezione era Grado, che, espropriata nel X secolo all'amministrazione del Patriarca, era amministrata da un funzionario avente il titolo di conte.

Nel corso della loro espansione i Veneziani costituirono in tutto il Mediterraneo Orientale una serie di colonie, cioè di stabili insediamenti commerciali di propri cittadini, spesso separati dal resto delle città ospitanti e cinti da mura, che godevano di particolari privilegi e autonomie concesse dagli Stati ospitanti (particolarmente dall'Impero d'Oriente).

Dal 1204 al 1261 il Podestà di Costantinopoli, cioè della colonia di Costantinopoli, fu il rappresentante del governo veneziano in tutta la Romània: assistito da un consiglio di sei membri, da 5 giudici e 2 camerarii (per le questioni economiche), da lui dipendevano tutti i cittadini veneziani in oriente, tutti i possedimenti e le colonie compresa Candia. Dal 1277 in poi la colonia sul Corno d'Oro fu retta dal Bailo di Costantinopoli (carica biennale). In generale il bailo o balio (dal latino baiolus, portatore, reggitore) era un ambasciatore residente con autorità su una colonia e sui cittadini veneziani presenti nella nazione o territorio ad essa collegato. Baili veneziani risiedettero ad Acri, Tiro, Aleppo, Laodicea, Patrasso, Tenedo, Cipro, Negroponte e Aiazzo.

Con il passare del tempo i baili vennero sostituiti dalla figura del console, cioè del funzionario incaricato di amministrare la colonia e di rappresentare gli interessi dei mercanti. La rappresentanza diplomatica venne invece affidata ad ambasciatori appositamente inviati. Unica eccezione rimase il caso di Costantinopoli, dove dal 1322 il bailo aveva, come in precedenza il podestà, la giurisdizione generale su tutto l'oriente, si trattasse di colonie o possedimenti. Consoli veneziani risiedettero a Corfù, Zante, Cefalonia, Santa Maura, Cerigo, Giannina, Prevesa, Arta, Lepanto, Patrasso, Nauplia, Atene, Tessalonica. Altri ancora risiedettero in Occidente, come a Napoli, Cadice e altrove. Numerosissime località minori furono sede di viceconsoli. Sempre col trascorrere del tempo tutte queste cariche divennero prerogativa dei cittadini, mentre il solo Bailo di Costantinopoli fu scelto tra i nobili.

Col titolo di castellano erano invece designati i governatori militari delle fortezze, come le due importanti città di Corone e Modone, principali basi d'accesso per il controllo dell'Egeo e definite Venetiarum Ocellae (gli occhi di Venezia).

In seguito i possedimenti veneziani passarono sempre più sotto il controllo di Provveditori o Provveditori Generale, cioè di funzionari della Repubblica inviati nei territori sotto la diretta amministrazione di Venezia (ad esempio la Morea fu retta da provveditori nel periodo 1685-1715).

Le principali città della terraferma, come Padova, Vicenza, Verona, Brescia, Bergamo, erano rette da una coppia di funzionari: un Podestà e da un Capitano, il primo responsabile civile, il secondo responsabile militare e per l'ordine pubblico. Nei centri minori, quali Crema, Rovigo, Treviso, Feltre e Belluno erano invece un Rettore, responsabile unico civile e militare. Il Friuli, invece, era considerato un territorio autonomo, governato da un Provveditore Generale (similmente ai domini marittimi), da cui dipendevano i vari rettori.

L'amministrazione della Serenissima si assicurava comunque di rispettare le leggi ed i costumi delle varie città, a lei vincolate da un giuramento di fedeltà: la nobiltà locale ed i rappresentanti delle corporazioni affiancavano infatti i magistrati veneziani, con diritto di voto nei giudizi, salvo alcuni settori ben definiti questo secondo la legge del luogo. In caso di contrasti era possibile il ricorso in appello al tribunale della Quarantìa.

Principali possedimenti di terraferma furono i territori del Padovano, della Marca, del Vicentino, del Veronese, del Bresciano, del Bergamasco, del Cremonese, del Friuli, del Polesine e del Cadore.

Per secoli legata esclusivamente alla potenza della propria flotta, costituita da un corpo di cittadini-mercanti che in caso di necessità potevano trasformarsi in marinai-soldati, con la conquista dello Stato da Mar, la Repubblica poté far leva anche su forze reclutate nei domini oltremarini.
Nel Quattrocento, poi, l'espansione e la conquista della Terraferma resero necessario il ricorso a compagnie di ventura e mercenari per potersi dotare di forze terrestri, che però rimasero organizzativamente e dimensionalmente sempre secondarie rispetto all'organizzazione navale.
Nel Cinquecento si procedette alla costituzione di milizie territoriali, le cernide o craine, per consentire una maggiore capacità di risposta alle sempre più frequenti incursioni dei Turchi e per la difesa dei possedimenti terrestri e marittimi. Il Seicento vide, poi, la riforma della flotta, con la creazione di una vera e propria marina da guerra, che verso la fine del secolo venne separata tra una componente tradizionale a remi, l'Armada sottile, e una nuova componente di grandi navi a vela, l'Armada Grossa.
Il Settecento vide infine il tentativo di creazione di un esercito regolare, che venne però bruscamente interrotto dalla caduta della Repubblica.

I due massimi gradi militari, rispettivamente quello di Capitan General da Mar per la flotta e di Capitan General di Teraferma, erano riservati, il primo, esclusivamente a patrizi veneziani e, il secondo, prevalentemente ad esperti mercenari. Entrambi risultavano comunque, almeno formalmente, subordinati al Doge, in qualità di supremo comandante militare dello Stato. Inoltre, la repubblica serenissima faceva ampio ricorso a comuni delinquenti per i suoi assassinii di Stato.

A partire dal Duecento la società veneziana si venne definitivamente a cristallizzare in classi sociali ben definite:

il Patriziato, formato dai maggiorenti della città, partecipi di diritto al potere politico;
i Cittadini, distinti tra i cittadini originarii, cioè i nativi da famiglie veneziane, cioè di coloro che godevano della piena cittadinanza ed avevano accesso alle cariche riservate al corpo sociale dei cives, i cittadini de intra et de extra ("dentro e fuori"), cioè i nuovi arrivati che godevano però della piena cittadinanza e della garanzia dello Stato sia dentro che fuori dai confini ed infine i cittadini de intus tantum ("solo dentro"), cioè di coloro che erano garantiti dallo Stato nel proprio territorio, ma non potevano accedere ai privilegi riservati ai Veneziani fuori dai confini;
i Foresti, cioè gli stranieri di passaggio o recentemente inurbati o appartenenti al basso popolino: accedevano alle garanzie legali, ma non ai privilegi di cittadinanza, e la loro presenza doveva essere regolarmente registrata e sorvegliata dai Capisestiere.
L'aristocrazia veneziana era una categoria sociale relativamente aperta: ad essa si poteva accedere per grandi meriti e servigi offerti alla Repubblica. In pochi casi, per rimpinguare le finanze in tempo di guerra, la Repubblica vendette l'iscrizione al "libro d'oro" dell'aristocrazia. L'aristocrazia non era solo una classe di privilegiati, ma anche di servitori professionisti dello Stato, educati nell'università di Padova. Infatti i nobili veneziani lavoravano nell'amministrazione anche come segretari di ufficio, contabili, capitani di porto, e anche giudici. Per impedire il concentrarsi del potere in poche mani, garantire un certo ricambio e consentire al maggior numero di aristocratici di avere un impiego, tutte queste cariche erano di breve durata, spesso di un solo anno. Erano spesso mal pagate, tanto che molti nobili sopravvivevano grazie all'assistenza pubblica per gli aristocratici poveri.

I cittadini trovavano invece i propri centri di aggregazione nelle Scholae, le confraternite religiose o di mestiere.

Alla base del successo e dell'ascesa politica di Venezia durante tutto il Medioevo si trovava l'eccezionale floridezza dei suoi commerci. Fin dalle sue origini, infatti, la città vantava uno speciale legame con l'Oriente, che l'aveva resa per l'intera Europa occidentale, una porta privilegiata verso il Levante e tramite verso tutto quel sistema commerciale che si fondava sulla ricchezza delle merci in viaggio lungo la Via della Seta.
I privilegi ottenuti nel corso dei secoli dall'Impero Bizantino (in primis la Bolla D'Oro del 1082) avevano reso infatti la città monopolista in molti mercati orientali e principale attore del commercio in quell'area.

Spezie, sete, profumi, legnami pregiati transitavano così da Venezia diretti verso il continente e in cambio Venezia ne riceveva in pagamento oro e argento o materie prime e armi per alimentare il commercio con l'Oriente.
A ciò si aggiungevano i preziosi prodotti locali, come i vetri di Murano e i tessuti ricavati dai panni grezzi d'importazione.
Il mercato di Rialto diveniva così il fulcro di questi intensi traffici, il luogo d'incontro tra domanda e offerta, dove si battevano i prezzi di merci che viaggiavano per migliaia di chilometri, dalla Cina e dall'India, dall'Arabia sino a Londra e alle Fiandre e dove erano ospitate le botteghe delle Arti come quelle dei fruttaroli (o fruttivendoli), degli erbarali (venditori di erbaggi), dei naranzèri (venditori di arance e agrumi in genere).

Per secoli, la base di questa complessa organizzazione economica venne rappresentato dai convogli navali, le cosiddette Mude: vere e proprie carovane marine, organizzate e controllate dallo Stato, che con periodica costanza collegavano i lontani porti di Alessandria, Acri, Costantinopoli e di Crimea con Venezia e poi questa con, Aigues Mortes, Londra e Bruges.
Era per garantire porti sicuri, punti d'appoggio e protezione a tali convogli che la Repubblica si spinse sino a creare la propria rete di possedimenti, colonie e feudi in Oriente.

Sulla base di questa stessa ricchezza mercantile si fondavano poi le fortune del Patriziato veneziano, contribuendo così a plasmare la stessa organizzazione della società e dello Stato.
Il declino stesso della Repubblica finì infatti per coincidere col declino dei commerci, dettato prima, nel XV secolo, dall'apertura delle nuove rotte marine attorno all'Africa e, con il crescere della aggressiva potenza ottomana, dalla progressiva scomparsa dei tradizionali referenti commerciali, e poi dalla scoperta delle Americhe, con il conseguente spostamento dell'asse commerciale dal mar Mediterraneo all'Atlantico.
Il progressivo inaridirsi dei commerci spinse Venezia a rivolgersi verso la Terraferma, trasformandosi sempre più in una potenza continentale.

Per la rilevante importanza commerciale dello Stato veneziano, grande fu la diffusione e l'influenza della sua produzione monetaria in Europa e nel bacino del Mediterraneo. Le monete veneziane erano caratterizzate dal recare sul dritto l'effigie del doge regnante recante lo stendardo e inginocchiato davanti a San Marco. Il conio a partire dal Cinquecento avveniva in un apposito edificio affacciato sul molo marciano, la sansoviniana Zecca, sulla cui attività vigilava rigidamente la Quarantia.

Nel corso della millenaria storia della Repubblica vennero coniati numerosi tipi di monete, i più importanti dei quali furono il Ducato d'argento o Matapan, il Soldo d'argento, la Lira d'argento o Lira Tron, lo Zecchino d'argento e soprattutto il Ducato d'Oro o Zecchino.

Fin dal trafugamento del corpo dell'Evangelista da Alessandria d'Egitto nell'828 ed il suo arrivo a Venezia, lo Stato lagunare costituì uno speciale e particolarissimo rapporto con il proprio patrono. Questo legame, causato dalla particolare importanza della reliquia e soprattutto dal particolare legame esistente tra il Santo e le Chiese dell'Italia nord-orientale che alla sua predicazione facevano risalire la propria origine, portò a far considerare il santo patrono come custode della sovranità dello Stato, assurgendone a simbolo. La Repubblica amava così farsi chiamare Repubblica di San Marco e le sue terre furono di frequente note come Terre di San Marco. Il leone alato, simbolo dell'Evangelista, compariva così nelle sue bandiere, negli stemmi e nei sigilli, mentre gli stessi Dogi erano raffigurati nell'incoronazione inginocchiati, nell'atto di ricevere dal Santo il gonfalone.

Viva San Marco! fu il grido di battaglia della Repubblica di Venezia, utilizzato fino alla sua dissoluzione nel 1797, causata dalla campagna italiana di Napoleone, e nella rinata Repubblica retta da Daniele Manin e Niccolò Tommaseo. L'ultima volta che fu usata fu nella Battaglia di Lissa nel 1866, quando la flotta austriaca (dove erano presenti equipaggi di varie nazionalità, fra cui anche veneti, giuliani e dalmati) sconfisse la flotta italiana e al momento dell'annuncio della vittoria da parte dell'ammiraglio Von Tegetthoff i marinai e soldati risposero festanti. Il grido "San Marco!" viene oggi utilizzato dal personale militare del Reggimento lagunari "Serenissima" in ogni attività o cerimonia ufficiale, poiché gli odierni lagunari dell'esercito italiano hanno ereditato le tradizioni dei "Fanti da Mar" della Serenissima Repubblica di Venezia.



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