lunedì 16 febbraio 2015

KAMIKAZE IERI E OGGI

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Tutti  i giorni o quasi telegiornali e giornali ne parlano : conosciamoli meglio.

Kamikaze (神風) è una parola giapponese, di solito tradotta come vento divino (kami significa "divinità" — un termine fondamentale nello shintoismo — e kaze sta per "vento"; ka significa inspirare e ze significa espirare). È il nome dato a un leggendario tifone che si dice abbia salvato il Giappone da una flotta di invasione Mongola inviata da Kublai Khan nel 1281. In Giappone la parola "kamikaze" viene usata solo per riferirsi a questo tifone. Internazionalmente questa parola viene generalmente riferita agli attacchi suicidi eseguiti dai piloti giapponesi (su aerei carichi di esplosivo) contro le navi alleate verso la fine della campagna del pacifico nella seconda guerra mondiale.

Gli attacchi aerei furono l'aspetto predominante e meglio conosciuto di un uso più ampio di attacchi — o piani — suicidi da parte di personale giapponese, inclusi soldati che indossavano esplosivo ed equipaggi di navi cariche di bombe. In giapponese il termine usato per le unità che eseguivano questi attacchi è tokubetsu kōgeki tai (特別攻撃隊, letteralmente "unità d'attacco speciale"), solitamente abbreviato in tokkōtai (特攻隊). Nella seconda guerra mondiale le squadre suicide provenienti dalla Marina Imperiale Giapponese furono chiamate shinpū tokubetsu kōgeki tai (神風特別攻撃隊), dove shinpū è la lettura-on (cinese) dei kanji che formano la parola "kamikaze".

Dalla fine della seconda guerra mondiale, la parola kamikaze è stata applicata a una varietà più ampia di attacchi suicidi, in altre parti del mondo ed in altre epoche. Esempi di questi includono Selbstopfer nella Germania nazista durante la seconda guerra mondiale ed attentati suicidi di natura terroristica e militare. L'uso internazionale corrente del termine kamikaze per identificare attentati suicidi di natura terroristica - o di qualsiasi altra natura - non viene adottato dalla stampa nipponica, che invece preferisce jibaku tero (自爆テロ), abbreviazione della locuzione anglo-giapponese jibaku terorisuto (自爆テロリスト, "terroristi autoesplodenti").

Con il termine “kamikaze” infatti ci si dovrebbe riferire esclusivamente a quelli che erano i kamikaze giapponesi, combattenti che avevano tutt’altra impostazione e tutt’altra modalità d’agire rispetto ai terroristi odierni. Kamikaze, infatti, nella cultura nipponica significa “vento divino” e i kamikaze giapponesi erano spinti nel loro agire dal senso dell’onore: tale sentimento li portava ad una difesa disperata del loro paese, difesa che nel loro caso aveva un significato religioso e non opportunista. I kamikaze giapponesi erano assimilabili a sacerdoti che si immolavano per il bene della loro patria: quindi i “veri” kamikaze del passato erano diversi da quelli odierni, che invece si chiamare uomini-bomba, perché questi ultimi, a differenza dei loro predecessori giapponesi, non utilizzano uno strumento in cui loro per primi muoiono ma fanno uso invece del loro corpo per ottenere un effetto mortale per i propri nemici. Questi uomini-bomba, tuttavia, sono stati presenti non soltanto fra i musulmani ma anche, per esempio, fra gli indù (l’uccisione di Rajiv Gandhi è stata portata a termine, infatti, con un uomo-bomba) e proprio in quelle aree anche in passato ci sono già stati diversi precedenti. Successivamente questo tipo di comportamento si è diffuso maggiormente, in particolare tra i palestinesi, ed oggi è utilizzato anche in settori arabi molto diversi fra loro anche se tutti comunque facenti capo nella cosiddetta “Jihad”: l’uomo-bomba è dunque divenuto uno strumento abituale della guerra santa che la nazione araba fa nei confronti dei propri nemici, in particolar modo degli “invasori” israeliani, americani ed occidentali in genere, che da loro sono visti come dei crociati che cercano di invadere il sacro suolo dell’Islam. Quello che li porta a questo tipo di comportamento è la disperazione e la frustrazione: da quasi cento anni, infatti, gli arabi non riescono ad essere nazione, a trovare una unità, a superare militarmente i loro nemici e quindi, in sostanza, non riescono a ritrovare un identità che si è ormai offuscata fortemente e che in taluni casi tende ad essere perduta. Questo, in particolari condizioni, spinge dei giovani, e talvolta anche dei giovanissimi, donne, a compiere quest’azione finale che li trasforma in martiri.Il concetto di martire nel modo islamico è infatti molto importante: i martiri sono quelli che vanno direttamente in paradiso dove sono accolti da vergini e da situazioni di grande piacere, ma soprattutto sono coloro che possono portare con loro in paradiso anche dei parenti, degli amici o comunque quelle persone che loro ritengono le più “degne”. In altri termini i martiri sono qualcosa di più di un sacerdote: in una religione monoteistica, che non ha i suoi santi, essi rappresentano in pratica proprio qualcosa di assimilabile ai santi. D’altra parte, anche la nostra religione ha reso santi i martiri della fede: noi abbiamo avuto dei santi che venivano dalle repressioni di epoca romana, epoca in cui si uccidevano tutti quelli che volevano testimoniare la loro nuova confessione. Ci fu invece un tempo, tra il cinquanta ed il sessanta, in cui si diffuse il movimento dei cosiddetti “non allineati”, movimento che raggruppava molti paesi in via di sviluppo, soprattutto arabi e del Sud America, e che costituiva una minima forza politica che si intrometteva tra il nord ed il sud del mondo e tra l’occidente e l’oriente militarizzati e dotati di Bomba atomica: tale movimento e tali paesi, anche arabi, al tempo, avevano una loro influenza sui destini del mondo ed infatti i leader del movimento dei “non allineati” erano, non a caso, Nasser, il leader degli egiziani, e Neru, il leader dell’India, ovvero i capi di paesi molto popolosi. Poi però il mondo è cambiato perché la cortina di ferro si è divisa con la storica separazione tra Cina e Russia, gli Usa hanno cominciato a giocare su più tavoli, ci fu la guerra fredda ed il successivo superamento della guerra fredda, poi lo sgretolamento della cortina di ferro ed il passaggio da un mondo bipolare ad un mondo in cui c’erano molti poli di riferimento, fino ad arrivare al mondo d’oggi, monopolare, in cui c’è il controllo di un solo impero che, perciò, è stato colpito con tanta brutalità da attacchi, questi sì, kamikaze e che ha risposto dichiarando guerra al terrorismo.
La psicologia dell’uomo-bomba è caratterizzata dall’essere pronto al martirio, e quindi al sacrificio della propria vita. Questo però ha spostato la guerra dal campo militare al campo civile, anche se, per altro, già sappiamo che i bombardamenti non guardano in faccia a nessuno: nelle guerre, ad esempio, non vengono bombardate solo le postazioni militari ma anche quelle civili, spesso anche gli ospedali, e frequentemente non si tratta di errori ma di effetti voluti per terrorizzare ulteriormente le popolazioni. Questi ragazzi-bomba sono persone che, naturalmente fanatizzate da una cultura che affida soltanto alla religione il proprio riscatto e la propria identità, generalmente hanno sofferto nella loro vita di un episodio tragico che li ha colpiti molto da vicino (un fratello, un amico che è morto per mano avversaria) e che hanno introiettato un senso di colpa perché loro sono vivi mentre il fratello o l’amico sono morti; contemporaneamente hanno anche bisogno di vedere un riscatto della propria causa a qualunque costo ed hanno formato la coscienza, la consapevolezza, ottenuta attraverso un indottrinamento speciale, di poter con il loro sacrificio costituire un’arma fortissima, forse più forte dei missili costosissimi con cui gli israeliani, gli americani possono rispondere. Tramite l’autoscarificio, quindi, gli uomini-bomba sperimentano il sentirsi per la prima volta capaci di fare un danno serio al nemico, un danno che non può essere ignorato. Se uniamo a queste motivazioni anche la possibilità di migliorare economicamente la situazione della propria famiglia ed il raggiungimento di obbiettivi, nell’altro modo, spirituali e trascendenti, allora otteniamo un profilo psicologico completo dell’uomo-bomba. Di persone che vivono questa disperazione, purtroppo, se ne formano tutti i giorni attraverso gli atti di vendetta che vengono compiuti da parte di stati che, invece, dovrebbero ragionare e capire meglio le conseguenze delle proprie azioni: ogni volta che un carro armato israeliano va a spianare una cittadina della Palestina si formano due, tre, cinque, dieci uomini-bomba che poi saranno pronti ad assalire le linee nemiche dall’interno obbligando il nemico stesso a costruire dei muri: ogni muro che si costruisce però non fa altro che rinforzare un odio ormai insuperabile e costruire quel clima generale da cui poi nascono altri uomini-bomba.
Uno dei grandi misteri della criminologia è capire perché le donne, che nella criminalità non riescono a superare in nessuna delle culture, il dieci percento rispetto agli uomini, nei gruppi terroristici arrivino, invece, al venti, al trenta e, talvolta, anche al trentacinque percento. Questo accade per tutti i gruppi terroristici e in tutti i gruppi rivoluzionari. Abbiamo avuto donne nella rivoluzione francese, abbiamo avuto donne nella resistenza al nazismo in vari paesi, abbiamo avuto donne nei partigiani di tutti i paesi europei, abbiamo avuto donne nei gruppi terroristici rivoluzionari del Sud America, abbiamo avuto donne nelle Brigate Rosse, abbiamo avuto donne nei gruppi rivoluzionari giapponesi, che pure considerano la donna un po’ diversamente da noi, così come le abbiamo avute, sin dall’inizio, nei gruppi terroristici palestinesi. Quindi la presenza dell’elemento femminile in questi gruppi è alquanto importante e continua ad esserlo anche nelle vicende degli uomini-bomba. Quando la guerra diventa una guerra disperata per la salvezza della propria identità anche le donne la sentono come un loro dovere ed escono da quella posizione ancillare all’uomo intervenendo da protagoniste.
Una definizione internazionale di terrorismo non esiste e questo è grave perché questo impedisce di perseguire il fenomeno per come questo dovrebbe essere considerato, ovvero per un delitto contro l’umanità. La cosa strana è che il terrorismo in tempo di guerra è considerato un delitto contro l’umanità mentre in tempo di pace questo non avviene. Si oppongono a questo gli Stati Uniti, la Russia e la maggior parte degli stati del Consiglio di Sicurezza dell’ONU i quali temono che, qualora si costituisse una definizione condivisa ed universale di terrorismo, qualunque essa fosse, questa potrebbe interessarli in prima persona, allo stesso modo in cui di terrorismo sono stati accusati Milosevic, Saddam Hussein e tutti coloro che hanno fatto uso del terrore ed il terrorismo come strumento politico.

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