giovedì 30 aprile 2015

LA CHIESA DEI SS. PRIMO E FELICIANO A LEGGIUNO

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La chiesa, originariamente dedicata a San Siro, venne eretta nel IX secolo dal franco Eremberto, vassallo regio che svolgeva delicati incarichi di controllo militare sulle vie di comunicazione lungo il Lago Maggiore. L'edificio mutò dedicazione nel settembre 846 quando vi vennero traslate le reliquie dei due santi donate a Eremberto da papa Sergio II a seguito di un pellegrinaggio a Roma. La costruzione altomedioevale venne dotata in seguito di campanile e sottoposta a profonde modifiche nel XV secolo che le diedero l'attuale configurazione gotica.

Nella chiesa, in origine dedicata al vescovo pavese san Siro,  sono custodite dall’anno 846 d.C. le reliquie dei due santi soldati, martiri sotto Diocleziano,  che furono donate da papa Sergio II al dignitario regio, come attesta un documento dell’epoca.
L’edificio   ha una caratteristica singolare: costituisce infatti un piccolo museo di lapidi, sia all’interno che all’esterno. Infatti  per la  sua balaustra furono  riutilizzate le pareti marmoree di un sarcofago romano finemente intagliato  (II secolo d. C.) di provenienza orientale, tre segmenti di marmo bianco con decorazioni a colonne ed arcate e un’iscrizione in splendide lettere in capitale quadrata: riporta il nome del committente, Caius Iulius Grattianus. Il suo utilizzo come balaustra è documentato almeno dal 1569. Invece   ai lati della porta d’ingresso vennero poste due colonne romane con eleganti  capitelli corinzi. Ancora memorie dell’antichità si possono ammirare nello spiazzo antistante la chiesa, ritrovate nei dintorni del paese e qui collocate dopo la metà dell’800: si tratta di due grandi  are romane (ai lati del portale ) e altri frammenti appoggiati alle strutture architettoniche. Sulla facciata della chiesa a sinistra  si trova poi una pietra di colore giallognolo, in due pezzi, ritrovata durante gli scavi effettuati sotto l’altare  nel 1920: si tratta della lastra tombale del fondatore della chiesa stressa,  Eremberto, databile alla fine del IX secolo. Sul muretto a destra della facciata sta una seconda epigrafe alto medievale, sempre della stessa epoca,  recentemente reinterpretata da uno studioso di origine leggiunese, il professor Marco Petoletti.
La facciata, a capanna, presenta un portale gotico sovrastato da un rosone, in cotto, aperto probabilmente nel secolo XVII, quando si costruì la sacrestia sul lato sud della chiesetta.

L’edificio presenta un’ unica navata a forma di rettangolo irregolare, divisa in due campate. Due sono le  pareti affrescate in discrete condizioni, risalenti a periodi diversi. La parete sud del presbiterio conserva ancora un  dipinto datato 1488 – opera di Joannes Bernardinus de Laveno- che rappresenta nella parte superiore una bella Natività, con una città turrita sullo sfondo e nella fascia inferiore tre santi, in tre scomparti ornati da finte tappezzerie: S. Primo, S.Siro  e S.Feliciano. Si possono distinguere anche alcuni stemmi nobiliari.
L’abside invece è affrescata con un trittico, realizzato nel 1633 a mo’ di pala d’altare su committenza della famiglia Luini. Raffigura la Madonna con Bambino tra i santi Primo e Feliciano, ai lati dei quali, in due finte  nicchie, stanno  san Carlo Borromee e san Giovanni Battista. L’opera,  attribuita alla scuola del Morazzone,  fu  in parte rovinata da maldestri ritocchi ottocenteschi.
Sulla parete settentrionale, a sinistra entrando,  si vede una Madonnina con Bambino, affrescata, dalle origini incerte (si ipotizza una mano quattrocentesca o secentesca). In ogni caso  presenta nella parte inferiore un rifacimento grossolano.
La decorazione più antica si trova sulla medesima parete, verso l’altare, ed è  una croce “di consacrazione”  risalirebbe ad epoca romanica, come le tracce di intonaco bianco lucido e la banda grigio scuro che contorna il rosone sopra l’ingresso.
Sia i costoloni delle volte (costruita probabilmente in un secondo tempo rispetto alla chiesa, che in origine doveva avere una capriata a vista in legno) che le lesene rivelano ugualmente un colore grigio scuro, che accostato al bianco dell’intonaco sono tipici  della  decorazione romanica.
Importantissima la lapide  murata a destra dell’altare, nella parete absidale,  che commemora la traslazione delle reliquie dei martiri Primo e Feliciano da Roma a Leggiuno nell’anno 846 per opera di Eremberto.
 
L’alta e robusta torre di pietre  a vista  che affianca la chiesa è caratterizzata da  feritoie irregolari  che si aprono sui lati (due sul lato della facciata) e quattro strette bifore su ciascun lato della cella campanaria. Fu aggiunta in un secondo tempo, intorno al secolo XI.

Nel 1920 si effettuò un consolidamento e un restauro generale della chiesa, ad opera dell’architetto Ferdinando Reggiori, con il pieno sostegno del prevosto don Antonio Masciocchi. Scoperchiato il pavimento, si trovarono quattro tombe scavate tra il muro frontale e un muro trasversale sotterraneo; sotto il mastodontico altare del tempo, accostato alla parete dell’abside, fu poi  scoperta un’urna contenente  le reliquie dei martiri Primo e Feliciano, come già si presumeva dallo studio degli antichi documenti. L’altare fu rifatto ex novo, di dimensioni ridotte, lasciando a vista la colonnina che metteva in contatto il reliquiario con la mensa dell’altare stesso.

Fondamentale importanza, naturalmente, rivestono le iscrizioni antiche e medievali custodite in S. Primo con la loro testimonianza. Due ponderose are romane campeggiano ai lati della facciata; altri frammenti, di più dubbia identificazione, sono appoggiati alle strutture architettoniche. Ma le due are adesso menzionate sono per così dire elementi estranei, perché a metà dell’Ottocento si trovavano presso la chiesa prepositurale di S. Stefano. Cesia Ortensia eresse la prima, sulla sinistra, per il proprio carissimo marito Lucio Virio Viniciano; l’altra, sulla destra, ornata sui lati da raffinati vasi con racemi di vite, fu dedicata da Lucio Virio Viniciano alla memoria del suo eccellente padre Lucio Virio Frontino, pontefice della Colonia Elia Augusta, nome assegnato a Milano dall’imperatore Elio Adriano dal 130 dopo Cristo.

Un’iscrizione del IX secolo permette di illustrare la storia di questo antico edificio: è attualmente sulla parte di fondo a destra e ha avuto l’onore di numerose edizioni a stampa. Eccone il testo originale, seguito da una traduzione in lingua italiana:

Hic s(an)c(t)i Primi martyris corpus / venerandum in Christo humatu(m) quiescit, / quod D(e)o dignus Sergius papa iunior / Eremberto inlustri viro concessit / ab urbe Roma cum hymnis ac laudibus sp(irit)alibusq(ue) canticis dum esset translatum. / Quem inter s(an)c(t)os eius sp(iritu)s teneat primatum in multis virtutibus et signis est declaratum. / Reconditum est corpus beati Primi martyris / cum reliquis s(an)c(t)i Feliciani anno incarnationis / D(omi)ni n(ost)ri Iesu Christi DCCCmoVIto k(a)l(endis) aug(usti) indic(tione) VIIII, ordinante dom(no) / Angilb(er)to archiep(iscop)o anno XXIII; passio s(an)c(t)or(um) V id(us) iun(ii).

Qui riposa sepolto nel nome di Cristo il venerabile corpo di san Primo martire, che papa Sergio II, degno di Dio, concesse a Eremberto, uomo illustre, affinché fosse traslato dalla città di Roma con inni e lodi e cantici spirituali. Quale primato il suo spirito detenga tra i santi è manifestato in molte virtù e segni. Il corpo del beato Primo martire con le reliquie di san Feliciano fu deposto nell’anno dell’incarnazione del Signore nostro Gesù Cristo 806 il primo giorno di agosto, nella nona indizione, su ordine dell’arcivescovo Angilberto nell’anno ventitreesimo del suo episcopato. La passione dei santi (si celebra) il 9 giugno.

La scrittura è una bella capitale e presenta una notevole armonia, soprattutto nelle prime cinque righe. Si impone subito una precisazione d’ordine temporale; gli studiosi che si sono occupati del monumento hanno più volte rilevato come la data incisa sulla pietra, 806, si debba considerare un errore del lapicida per 846, come è confermato dagli altri elementi cronologici: l’indizione e l’anno di pontificato di Angilberto II, arcivescovo di Milano, che cominciò a guidare la chiesa ambrosiana nell’824. Per di più un documento risalente al settembre 846 certifica questa datazione. Il testo di questa epigrafe, pur essendo in prosa, è ravvivato da vere e proprie rime bisillabiche: translatum, primatum, declaratum. Piuttosto evidente un ricordo dalla Bibbia. Cum hymnis ac laudibus spiritalibusque canticis riprende quanto si legge in san Paolo, Eph 5, 19: «intrattenendovi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore»; quasi la stessa espressione è anche in Col 3, 16: «La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente; ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapiènza, cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali». Più nascosto, ma altrettanto affascinante, è un riferimento all’antichità pagana. L’espressione Deo dignus, qui riservata a papa Sergio, affonda le proprie origini nella poesia di Virgilio; Evandro, civilizzatore del Lazio, così si rivolge a Enea nel libro VIII dell’Eneide: «Osa spregiare le ricchezze, ospite, e renditi degno del dio» (vv. 364- 365: Aude hospes contemnere opes et te quoque dignum finge deo). Filtra poi nella poesia posteriore, anche cristiana.

Il grande protagonista dell’iscrizione è Eremberto. Un documento del 22 settembre 846, salvato solamente da trascrizioni tarde – è infatti perduto l’originale – informa che, mentre regnavano Lotario imperatore e il figlio Ludovico re d’Italia, Eremberto, vasso regio, legava molti beni alla chiesa di S. Siro, vescovo di Pavia, da lui fondata a Leggiuno, dov’era proprietario di terre: questo edificio religioso, a seguito della traslazione delle preziose reliquie, fu poi indicato col titolo dei ss. Primo e Feliciano. Nell’antica carta dell’846 Eremberto ricorda di aver edificato de propriis rebus meis, cioè a sue spese, la chiesa di S. Siro. In seguito si recò a Roma; lì con il consenso del santo padre Sergio II prese le reliquie dei venerati martiri Primo e Feliciano e le portò a Leggiuno, dove dispose che fossero custodite. In rimedio dei peccati commessi da lui, dal padre Ermenulfo e dal diletto fratello Ermenfredo donò alla predetta chiesa una serie di beni terrieri che si trovavano nella zona. Questo documento, ove per la prima volta si accenna alla pieve di S. Stefano a Leggiuno, è sottoscritto oltre che da Eremberto dai suoi quattro figli:Ermenulfo, Appo, Ermenefredo chierico ed Eremberto iunior.

La testimonianza incrociata delle iscrizioni di S. Primo e di alcuni documenti permette di fornire qualche altra notizia su Eremberto e la sua famiglia. Nel 1920, in occasione dei restauro della chiesa ad opera di Ferdinando Reggiori, tra il materiale che costituiva il massiccio altare del Seicento, smembrato per far posto all’attuale struttura di forme più sobrie, fu trovata una pietra di colore giallognolo, in stato frammentario e spezzata in due: era la lastra tombale di Eremberto che evidentemente desiderò venire sepolto nella chiesa da lui beneficiata nell’846. Questa preziosa epigrafe fu quindi murata, non proprio adeguatamente, sulla facciata della chiesa a sinistra, dove ancor oggi si trova. Il testo, prosastico, è vergato in capitale. Per questa seconda iscrizione una corretta valutazione della scrittura è in parte ostacolata dal precario stato di conservazione; comunque la tecnica di esecuzione appare meno raffinata rispetto a quella dell’epigrafe all’interno della chiesa. Propongo un’edizione e una traduzione della parte meglio leggibile:

H(oc) i(n) s(epulcro) d(epositus) e(st) Erember(tus). Vixit in praesenti saeculo annis quinquaginta. Deposito (su)o ergastul(o cor)poreo immor(ta)le‹m› suscepit vita‹m›. Obiit autem xiii k(a)l(endas) aug(usti) indiction(e) pri(ma). Pro cuius anima…

In questo sepolcro è stato deposto Erernberto; visse in questo mondo cinquant’anni. Abbandonata la prigione corporea entrò nella vita immortale. Morì dunque tredici giorni prima delle calende di agosto (20 luglio), nella prima indizione. Per la sua anima.

Questa lastra tombale attesta che Eremberto lasciò questo mondo all’età di 50 anni, 13 giorni prima delle calende di agosto, ovvero il 20 luglio, di un anno indicato soltanto ricorrendo alla datazione per indictionem: i calcoli e le prove documentarie, tra cui assume rilievo assoluto un documento di Ermenulfo, figlio di Eremberto, datato 14 agosto 865, da cui si ricava che il padre era allora già defunto, consentono di concludere che il nostro vasso regio morì il 20 luglio 853, e di conseguenza nacque nell’803. Dunque nell’846 all’età di 43 anni fu promotore della solenne traslazione.

Qualche notizia si può allegare su un figlio di Eremberto, Ermenulfo, personaggio di primo rango incardinato nelle gerarchie franche ai tempi di Ludovico II. Nel già menzionato documento del 14 agosto 865, conservato nell’Archivio di Stato a Parma, il conte Ermenulfo si rivolge all’imperatrice Angilberga; ricorda di aver chiesto alla sovrana di intercedere presso Ludovico II al fine di ottenere i beni legati al monastero di Massino. A questa condizione promette di cedere ad Angilberga le sue proprietà, eccetto cinquanta servi e i beni mobili, con riserva di usufrutto vita natural durante per sé e la moglie Teuta. Ermenulfo fu quindi in stretti rapporti con un’altra prestigiosa istituzione del Lago Maggiore, Massino, sopra Lesa, che effettivamente finì tra le pertinenze di Angilberga almeno dall’anno 877. Nel così detto Chronicon Casauriense, che illustra le vicende del monastero benedettino di S. Clemente a Casauria in Abruzzo, oggetto della munificenza di Ludovico II che lo fondò nell’873, si ricorda sotto l’anno 866 come il serenissimo imperatore inviasse a Roma il conte Ermenulfo, suo familiare, con una grande quantità di denaro; costui versò 800 libbre d’argento al console romano Pietro, figlio di Carlo, in cambio di alcune proprietà site a Roma, compresa una cappella in onore di san Biagio, e sul lago di Bracciano. Un documento del 5 aprile 868 conferma la notizia. Un Ermenulfo compare con la qualifica di missus, ovvero di legato imperiale, in un atto non datato, ma posteriore al 24 gennaio 835: si tratta di un elenco delle cose e delle famiglie della corte di Limonta sul lago di Como riservate a S. Ambrogio di Milano. Nulla osta a identificare il familiare di Ludovico II, impegnato per conto del sovrano a Roma, e il protagonista di quest’ultima carta con il figlio di Eremberto.

Una terza epigrafe altomedievale conservata presso S. Primo è oggi all’esterno della chiesa fissata su un muretto a destra. In precedenza la pietra si trovava all’interno della chiesa e costituiva la mensa dell’altare allestito nel XVII secolo sopra le reliquie dei martiri. Questa «mastodontica struttura», per usare le parole di Ferdinando Reggiori, fu smantellata nel 1920, quando si procedette al restauro dell’edificio. Il testo, in distici elegiaci, è allo stato attuale frammentario:

(t)umulum precibus memi(nisc)e sep(ul)tum / hic mole sub ista iacet / m lector bonis cumul(av)it opimis /  v(e)nia‹m› cum pietate roga(t).

Su base paleografica penso che quest’iscrizione vada cronologicamente collocata nel IX secolo, forse nella seconda metà. La scrittura è una buona capitale. Nel 1861 il coadiutore di Leggiuno, Giovanni Gatti, in seguito parroco di Mombello, si interessò della tavola e ne trascrisse quanto poteva leggere. Della scoperta fu informato chi allora costituiva a Milano un’autorità vivente di archeologia cristiana, monsignor Luigi Biraghi. In una lettera del 17 giugno 1861  Biraghi comunicava una proposta di supplemento per le parti mancanti. Infatti la lastra, probabilmente in occasione della fabbricazione dell’altare secentesco, fu tagliata per far fronte alle nuove esigenze e una parte andò irrimediabilmente perduta. La ricostruzione ipotetica del Biraghi è stata universalmente accettata:

Qui venis ad tumulum precibus meminisce sepultum. / Devotus Volric mole sub ista iacet. / Ecclesiam lector bonis cumulavit opimis. Peccatis veniam cum pietate rogat.

Tu che giungi a questa tomba, ricordati con preghiere di chi qui è sepolto. Il devoto Volric giace sotto questa pietra. Egli, che fu lector, colmò la chiesa di abbondanti beni. Chiede perdono e pietà per i peccati.

Quest’iscrizione altro non sarebbe che l’epitaffio di un lector, cioè di un ecclesiastico chiamato Volric, di origine longobarda, che donò in abbondanza beni alla chiesa. Bisogna però dissolvere questo fantasma leggiunese: alla magniloquente e affascinante figura del misterioso Volric, dietro il cui velame evocativo sembrano celarsi i segreti di un riposto passato, è necessario e giusto sostituire il più prosastico, ma veritiero avverbio di luogo hic, ‘qui’. Il nome del defunto a cui l’epigrafe era riferita è invece perduto per sempre a seguito della frattura della lastra tombale: si può in via ipotetica avanzare la candidatura di un membro della schiatta di Eremberto. Inoltre credo che il sostantivo lector non si riferisca alla carica ecclesiastica ricoperta dal defunto, ma vada interpretato come appello al lettore-viandante affinché, commosso, si soffermi sulle parole incise e magari pronunci una preghiera di intercessione.



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