mercoledì 1 luglio 2015

LA CHIESA DI SANT'ANTONIO A BRENO

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L'origine di Sant'Antonio è nel testamento di Giovanni fu Girardo Marone Ronchi, rogato ad Iseo il 13 novembre 1334 dal notaio Corrado de Sabio, con il quale il nobile brenese lasciò alcuni suoi beni per la costruzione di una "ecclesiam vel aliquod alium oratorium" invitando i frati di Sant'Antonio di Vienne o, in subordine, gli "huomines de Breno" a compiere l'opera;  Particolare del Presbiterio la chiesa attuale sorse tra il 1467 e il 1516 sulla prima cappella con una serie di interventi successivi che portarono alla costruzione di un edificio ad aula unica, diviso in tre campate trapezoidali, molto irregolari, che si allargano in direzione del presbiterio; le campate sono ricoperte da volte a crociera che si collegano alle pareti laterali con archi acuti, mentre la parete di fondo  è a tutto sesto.
Non conosciamo esattamente l'anno in cui Romanino arrivò a Breno, ma tutti gli studiosi sono sempre stati concordi nell'affermare che gli affreschi di Sant'Antonio vengono dopo quelli di Santa Maria della Neve e li datano intorno al 1535. Lo accompagnava un garzone, Daniele Mori, che già era stato con lui a Pisogne e lo seguirà anche a Bienno. È difficile però identificare la mano del giovane allievo sulle pareti affrescate o, per lo meno, su quello che oggi resta della decorazione e il valore della presenza del Mori ci sfugge del tutto. Per la chiesa di Sant'Antonio la decadenza in cominciò già alla fine del XVII secolo; sconsacrata nel 1880, fu utilizzata come caserma e anche come cinematografo; quando, all'inizio del nostro secolo, venne riaperta al culto e dichiarata monumento nazionale i guasti erano ormai irreparabili.

La volta a crociera del presbiterio tardoquattrocentesca con i Dottori della Chiesa e gli Evangelisti sullo sfondo di un cielo stellato e la pala di Callisto Piazza, del 1527, al centro della parete di fondo. Intorno al 1535, dopo l'impresa che lo ha visto impegnato a Pisogne, Romanino risolverà la difficoltosa impaginazione delle pareti del presbiterio di S. Antonio, semplicemente utilizzando elementi architettonici che dividano gli spazi in due registri sovrapposti: la parte superiore si affolla di personaggi-spettatori che assistono alle scene sottostanti dove si animano più storie. Predomina su tutto un gusto teatrale, molto vivo in Romanino.
Nella parete destra sono raccontate vicende tratte dal Libro di Daniele: Nabuconodosor ordina al popolo di adorare un idolo d'oro e condanna i tre compagni di Daniele che si rifiutano di obbedire ad essere arsi nella fornace; ma essi ne escono indenni, mentre bruciano i soldati e il baluginio delle fiamme si riverbera sulle armature delle sventurate vittime. E dall'alto domina l'austera figura di S. Antonio "il grande Vecchio padrone del fuoco" spesso invocato in Valcamonica, terra di fucine.
Sulla parete di fondo un possibile "Convito di Baldassarre", sulla parete sinistra "Daniele nella fossa dei leoni". Questi ultimi dipinti sono di difficile lettura e non hanno ancora trovato un'unanime identificazione. Dall'insieme si può comunque dedurre una vivace vena narrativa, accompagnata dal gusto del dettaglio che si riflette nella tipicizzazione dei personaggi, nel cangiantismo delle vesti di alcuni protagonisti, nel panno drappeggiato che scende dalla loggia della parete di fondo. Queste pagine pittoriche sprigionano comunque una straordinaria immediatezza e coinvolgono al punto che è possibile confondersi nel ruolo di spettatori con quelli, dipinti, che dominano dall'alto delle scene.


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