sabato 17 ottobre 2015

LA MALEDUCAZIONE



Sino a poco tempo fa -e per “poco tempo” intendiamo trent’anni circa- i rapporti tra gli  individui appartenenti alle varie fasce della società erano disciplinati da regole non scritte ma universalmente valide che miravano a sottolineare l’appartenenza dei soggetti protagonisti a determinati ruoli  dai quali non era facile staccarsi o a cui poteva far comodo rimanere legati come ad un’assicurazione che garantiva privilegi e meriti di carattere economico-sociale.

Sempre più spesso si levano voci di dissenso nei confronti di comportamenti che vorrebbero essere disinvolti e che invece denunciano un reale disagio  a causa della consapevolezza di trovarsi in una condizione che non si accetta  e che si tenta di ignorare rivolgendosi agli altri come ad esseri inferiori per sentirsi-erroneamente- gratificati e automaticamente promossi ad un livello giudicato superiore rispetto a quello del prossimo.

Comunemente, chi si rivolge ad un suo simile (a qualunque classe sociale appartenga e qualunque sia il suo ruolo, qualunque il suo sesso) in maniera scorretta ed arrogante, viene detto scortese, sgarbato, insolente, villano, cafone: in una parola, maleducato.

Ma nella parola “maleducato”, per la valenza che essa aveva in tempi passati, era implicito un giudizio negativo sulle capacità educative di chi aveva allevato sin dalla prima infanzia chi si era comportato male, e, nel far ciò, si liberava in certo qual modo il suddetto dalla totale responsabilità  di un comportamento asociale attribuendone l’onere ad altri.

Oggi non è necessario invocare responsabilità altrui nei comportamenti di individui  adulti e consapevoli: ci si può forse riferire alla famiglia quando si tratta di minori,  ma non lo si può certamente fare superata una certa età, che , data la precocità  dell’inserimento dei giovani nella parte attiva della società, si può stimare inizi tra i sedici e i diciotto anni al massimo.

E mentre prima  parlando di “maleducazione” ci si riferiva, seppure velatamente, alle origini sociali di soggetti che ignoravano le regole del vivere civile perché appartenevano a fasce inferiori della società che venivano ritenute comunemente incapaci di avere un comportamento urbano e di conoscere le buone maniere solitamente considerate appannaggio della “gente-bene”, ora purtroppo la scortesia è praticata indifferentemente  da chiunque e spesso mascherata da disinvoltura.

Non c’è bisogno di uscire dalle mura domestiche per cercare esempi di sgarbataggine se non addirittura di volgarità e villania.
Si confonde spesso, infatti, la familiarità con l’eccesso di confidenza e con la mancanza di rispetto.

E’ il caso del rapporto fra coniugi, allorquando, passato un certo tempo dal giorno delle nozze,ritenendo che lo stare sotto lo stesso tetto renda inutile qualsiasi forma di gentilezza e di cortesia nei confronti dell’altro, finisce col diventare un rapporto sbilanciato, dove il più debole, di solito la donna, viene trattato dall’altro come uno schiavo che deve occuparsi delle necessità primarie del consorte e della famiglia, quali  la pulizia della casa,la preparazione del cibo, la cura dei figli.

Il tutto senza mai una parola gentile di ringraziamento, anzi, spesso, subendo richieste esose e pressanti formulate con arroganza e senza tener conto delle condizioni e delle possibilità fisiche dell’altro.
Non di rado le separazioni coniugali avvengono anche per il desiderio di essere rispettati come persone e per  recuperare una dignità che appare conculcata dall’inciviltà del compagno della propria vita.

Qualcosa di simile avviene coi membri più anziani della famiglia, spesso emarginati, mal sopportati e trattati sgarbatamente mostrando apertamente di considerarli non graditi.

Quanto ai bambini, nei loro confronti si diramano messaggi apertamente  e nascostamente, che però i piccoli leggono  con uguale capacità di comprensione. Mentre infatti a parole si tenta di insegnare loro come comportarsi correttamente, con i fatti ci si comporta male e sarà sempre l’esempio concreto quello che insegnerà loro qualcosa, non le regole esposte verbalmente.

Il massimo della capacità di sopportazione è però necessario quando si viene a contatto con gli estranei, nei locali pubblici, sui mezzi di trasporto, negli uffici, sul posto di lavoro.



Sono tutte situazioni che ormai sono ampiamente note a chiunque: dal “mobing”, che spesso si esercita servendosi anche di maniere volgari e impositive, ai comandi espressi dai superiori  con arroganza, alle confidenze che si prendono i colleghi, al “tu” ingiustificato che ormai è entrato nell’uso comune nei rapporti anche con persone sconosciute o che s’incontrano per la prima volta, quasi a volere istituire subito una  forma d’intimità dalla quale può nascere poi qualsiasi tipo di rapporto.
E’ anche un segno di maleducazione mettere in difficoltà un/una collega rilevandone l’incapacità a svolgere un determinato lavoro davanti ai superiori cercando di trarne un vantaggio personale.

Dagli uffici alla strada il passo è breve: tutti ci ritroviamo ,se siamo al volante, ad aver attraversata la strada da un motorino che per poco non investiamo pur senza volerlo, o da una motocicletta che pretende di non restare, come gli automobilisti, bloccata nel traffico e che cerca di svignarsela salendo su un marciapiedi senza osservare i diritti dei pedoni.

Ma questo è niente di fronte al maleducato che posteggia la sua macchina in seconda fila davanti alla tua che hai sistemato faticosamente munendola dell’apposita scheda-orario e poi scompare lasciandoti ad aspettare che si degni di tornare per liberarti, oppure dinanzi ad un  automobilista che non solo ti sorpassa da destra , ma per giunta ti insulta perché a suo dire gli sbarri la strada, e se sei donna il complimento più gentile è un invito ad occuparti delle faccende domestiche anziché della guida di un’auto.
Abbiamo più volte sottolineato la cattiva educazione delle commesse nei negozi,che danno del tu a tutte le giovani-e meno giovani- che entrano per fare acquisti, o la scortesia delle infermiere degli ospedali e degli ospizi per anziani che si rivolgono ai loro pazienti come a dei bambini scemi chiamandoli “nonnetto, nonnetta” e dando sempre del tu, ammiccando tra loro per prendere in giro le persone che dovrebbero assistere con pietà e rispetto e che invece diventano lo zimbello del personale addetto all’assistenza e alle pulizie.

Maleducati sono quelli che, se tu stai aprendo una porta o un portone, ne approfittano ed entrano prima di te che resti a tenergli aperta la porta per non fargliela sbattere addosso  (e se lo meriterebbero) oppure quelli che hanno bussato a casa tua e quando tu apri entrano senza salutare proseguendo per l’interno della tua casa senza preoccuparsi di chiudere la porta.
Grossolani e villani sono quelli che parlano perennemente in modo sboccato per darsi delle arie, infilando una parolaccia ogni tre, bestemmiando senza risparmio ogni pie’ sospinto, senza preoccuparsi se ci siano d’intorno bambini a sentire.

Peggiore è la volgarità del mezzo televisivo, che lascia liberi attori e conduttori di abbandonarsi al turpiloquio, al massimo fingendo disappunto per qualche vocabolo  che sfugge al controllo.

Senza dubbio uno dei motivi per cui si è giunti alla totale mancanza di freni nei comportamenti della vita quotidiana odierna è stato il rifiuto globale dell’eccessiva quantità di precetti  educativi che la società del Novecento –erede peraltro di quella ottocentesca- imponeva  a tutti gli strati sociali, codificandone i rapporti con la stretta osservanza di regole  complesse, che  abbiamo in altra sede riconosciute come ereditate per molteplici e intricate vie dall’Inghilterra vittoriana.

Diversi avvenimenti di carattere storico, sociale e culturale hanno accelerato un processo che si potrebbe chiamare di destrutturazione ricostruttiva, se si ritiene che la progressiva sparizione delle regole  che fissavano i cardini del comportamento in società  sia stata o sarà in qualche modo sostituita da altri canoni  che caratterizzano le relazioni umane dei nostri giorni.

Le due guerre mondiali, la diffusione dell’equalitarismo facilitata dal propagarsi delle idee socialcomuniste, la sempre più estesa affermazione della mentalità americana che rispecchiava una realtà sociale costituita da individui di varia provenienza e condizione  (il ben noto “melting pot”), l’adozione pressoché universale dell’ ”american way of life”, e, per finire, la rivoluzione culturale del ’68 che aveva rifiutato negandolo il principio di autorità, furono tutti momenti decisivi per abbattere i paraventi di cui la società si circondava onde creare sottili divisioni ed argini al dilagare di comportamenti un po’  troppo spontanei e disinvolti che col passar del tempo sono diventati confidenziali ed eccessivamente incivili.



A ciò si è aggiunta l’eccessiva importanza che via via si è andata attribuendo alle nuove generazioni a discapito della generazione degli anziani, giudicati un peso dalla società perché ormai improduttivi dal punto di vista economico, e della generazione degli adulti che costituiva un freno all’espandersi incontrollato della presenza giovanile in tutti gli ambiti delle attività sociali e lavorative.

Un malinteso sistema educativo basato sull’assoluta libertà dei piccoli durante l’età evolutiva proveniente ancora una volta dagli USA e diffusosi nella seconda metà del Novecento ha avuto un relativo ma non indifferente influsso sulla decodificazione dei comportamenti all’interno e all’esterno della famiglia: lo stesso autore della teoria in proposito, il celebre dott. Spock, ha ritrattato le sue idee quando ha avuto l’occasione di verificarne l’insuccesso sul campo.

I mass-media, ma sopra tutto il cinema e la televisione, hanno fatto il resto, mettendo sotto gli occhi di tutti esempi concreti di volgarità, prepotenza, arroganza, sfrontatezza, insolenza, villania, e di tutti i sostantivi che possano rappresentare le infinite sfumature della maleducazione, a cui noi tutti assistiamo, resi impotenti dalla generale incapacità di reagire.

Secondo un sondaggio pubblicato da Le Figaro, il 65 per cento dei francesi ritiene che nel loro Paese si sia accentuata negli ultimi anni la mancanza di civismo, inteso in primo luogo come rispetto degli altri e delle norme che regolano la vita collettiva. Da italiani potremmo quasi interpretare un dato delgenere in senso positivo, come una sollecitazione a non buttarci troppo giù alla luce appunto del vecchio adagio «mal comune mezzo gaudio». Tanto più che sullo stesso giornale Luc Ferry, filosofo ed ex ministro dell’Educazione, riconduce la maleducazione generalizzata e la mancanza di civismo a una causa di fondo - la «decostruzione dei valori tradizionali e dell’autorità in nome dell’individualismo» - che non è specificamente francese o italiana. 

In realtà, proprio di fronte a processi del genere, abbiamo tutti la sensazione che, se effettivamente non interessano solo l’Italia, è vero però che da noi spesso assumono forme più accentuate e gravi, come se i virus di certe malattie sociali nel nostro Paese trovassero un terreno particolarmente favorevole. È probabile, nel caso specifico, che questo avvenga perché in Italia il patrimonio di cultura civica non è mai stato abbondantissimo, anzitutto per i tempi e i modi in cui si è formato lo Stato nazionale, come hanno osservato uno stuolo di storici e politologi, ma come pensavano già gli uomini 
del Risorgimento (a cominciare da d’Azeglio e dalle sue famose osservazioni sulla necessità di «fare gli italiani»). E tuttavia, a quei fattori di predisposizione alla malattia tante volte evocati, ha finito con l’aggiungersene almeno un altro. 
Vediamo come quotidianamente la politica dia un pessimo spettacolo di sé, mettendo in scena quella mancanza di rispetto dell’altro, quella lotta contro il «nemico», quella propensione a urlare più che a ragionare, che con la mancanza di civismo hanno evidentemente parecchio a che fare. E ci sono pochi dubbi sul fatto che il cattivo esempio fornito dai politici abbia conseguenze negative in una società democratica. 
Che i processi di livellamento verso il basso, di abbassamento qualitativo nelle aspirazioni e nei comportamenti, di conformistico adeguamento agli usi e costumi delle maggioranze (siano pure i peggiori) facciano intrinsecamente parte delle società democratiche lo scriveva Ortega y Gasset nella Ribellione delle masse del 1930. Ma già un secolo prima lo aveva osservato Tocqueville, con la sua acutissima percezione del futuro della democrazia. Tra ciò che poteva contrastare le tendenze negative della società democratica Tocqueville individuava anche la possibilità di far rivivere, trasformati, 
alcuni elementi di tipo aristocratico. Egli stesso nobile, riteneva infatti che l’aristocrazia avesse spesso saputo dar prova di quella dedizione all’interesse generale, di quella conservazione di valori slegati dalla ricerca del benessere materiale, di quel senso della misura che l’individualismo della società democratica tende a penalizzare. 




Per un tratto della sua storia - per tutto il cinquantennio liberale, ma anche per i primi decenni della Repubblica - la classe politica italiana ha avuto, forse inconsapevolmente o forse no, alcuni di quei comportamenti e caratteri «aristocratici». 

Non escluso il comunista Togliatti, il quale - come è noto - aveva modi e linguaggio tutt’altro che plebei. È rimasta famosa l’algida risposta che diede a un giovane militante il quale aveva osato rivolgersi a lui con il «tu»: «Quand’è - così pressa poco gli disse - che io e lei ci siamo conosciuti?». L’Italia povera e per molti aspetti arretrata di allora non può essere rimpianta. Ancor meno possono esserlo molte delle idee e dei programmi dei partiti dell’epoca (a cominciare da quelli del Pci di Togliatti). Ma non sarebbe male se i nostri politici riscoprissero almeno un po’ lo stile e i toni dei loro colleghi di cinquant’anni fa.


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