sabato 5 marzo 2016

I GHETTI EBRAICI

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Quasi sempre, nella storia, gli ebrei sono stati vittime di pregiudizi, perseguitati e costretti a lasciare la propria terra per spostarsi alla ricerca, vana, di un po’ di tranquillità. Ma la persecuzione di gran lunga più grave appartiene alla storia recente: uno dei genocidi più terrificanti dell’umanità, quello che sterminò poco meno di sei milioni di ebrei, operato dal nazifascismo tra il 1940 e il 1945, durante il secondo conflitto mondiale.
Dopo essere stati oggetto di persecuzione e discriminazione per secoli e secoli, dopo aver visto i propri diritti calpestati dalla bolla Cum nimis absurdum di papa Paolo IV Carafa, nel 1555, e dopo essere stati costretti alla convivenza in quartieri separati chiamati ghetti, gli ebrei abitanti nel regno di Sardegna ottennero finalmente, nel 1848, l’eguaglianza dei diritti con gli altri cittadini per iniziativa del re Carlo Alberto di Savoia; sarebbero stati poi in molti a partecipare al processo di unificazione nazionale.

Il ghetto è un'area nella quale persone considerate (o che si considerano) di un determinato retroterra etnico, o unite da una determinata cultura o religione, vivono in gruppo, volontariamente o forzosamente, in un regime di reclusione più o meno stretto. In realtà il termine nasce per indicare il quartiere ebraico, quella zona della città in cui gli ebrei erano anticamente confinati ad abitare, e completamente rinchiusi durante la notte. Modernamente è chiamato ghetto anche la parte malfamata della città

Il termine ghetto deriva dall'omonimo quartiere di Venezia del XIV secolo. Prima che venisse designato come parte della città riservata agli ebrei (essi infatti risiedevano anteriormente nel Sestiere della Giudecca), era una fonderia di ferro: il nome del quartiere deriva dal veneziano geto, pronunziato ghèto dai locali ebrei Aschenaziti di origine tedesca, inteso come getto, cioè la gettata (colata) di metallo fuso.

Il nome era stato prima utilizzato nella cittadina di Antrodoco (provincia di Rieti) nella seconda metà del XIII secolo e stava ad indicare la parte più alta della cittadina; essa fu la prima parte della cittadina ad essere edificata proprio da una famiglia ebrea, da cui il termine Ghetto.

Dall'esempio del Ghetto di Venezia il nome venne trasferito ai vari quartieri ebraici. In Castiglia erano chiamati Judería e nei paesi catalani call. Vale la pena di notare che il quartiere ebraico di Venezia (il Ghetto), era una parte ricca della città, abitata da mercanti e prestatori di denaro. Ai non ebrei non era permesso di vivere nel Ghetto di Venezia e i suoi cancelli venivano chiusi di notte. A differenza della vicina Mantova, dove più di 2.000 ebrei venivano rinchiusi la sera nel ghetto, Vespasiano I Gonzaga a Sabbioneta dette rifugio alla popolazione di religione ebraica, non ghettizzandola.

Nel Medioevo non c'era obbligo, per gli Ebrei, di risiedere nel ghetto. Preferibilmente vivevano in quartieri chiamati Giudecca. La differenza tra Giudecca e Ghetto era che la prima era una residenza preferenziale, legata a motivi di sicurezza e salvaguardia culturale, il secondo invece un domicilio coatto.

In vari luoghi, inoltre, come ad esempio a Forlì, potevano possedere terreni e fabbricati. Col Cinquecento, la possibilità si restrinse ai soli fabbricati. Solo successivamente, dunque, ghetto andò a indicare un quartiere povero.

La comunità ebraica, pur rappresentando una percentuale molto piccola della popolazione italiana, è stata ininterrottamente presente nella nostra penisola da circa 2200 anni. Nell’antica Roma, all’incirca nel 4 a. C., su un totale di 800 mila persone si stimava che ci fossero 40 mila ebrei:

molto tempo prima della distruzione del tempio di Gerusalemme a opera di Tito nel 70 d. C., molto tempo prima che i successori di Pietro facessero di Roma la città santa del cristianesimo, una colonia ebraica si era insediata sulle rive del Tevere. Infatti lo storico Giuseppe ricorda che almeno ottomila ebrei vi vivevano la Sinagoga precedette il Vaticano”.

E, se ci spingiamo un millennio più avanti, ci accorgiamo che su un numero molto incrementato di abitanti (circa 10 milioni negli spazi italiani), c’erano soltanto diecimila ebrei in più. Questo numero era destinato a crescere grazie all’arrivo degli ebrei espulsi espulsi dalla Spagna in seguito al provvedimento messo in atto da Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia nel 1492 (la cosiddetta “Cacciata dei Marrani”).

In Italia, gli ebrei sono sempre vissuti in gruppi con riti e tradizioni diversi, a seconda della loro provenienza e delle loro origini: italiani, sefarditi (provenienti dalla Spagna) e ashkenaziti (di provenienza tedesca), ai quali, dopo la seconda guerra mondiale e la Shoah, e durante tutti gli anni ’50, si sono aggiunti altri ebrei di origine persiana, libanese, egiziana e libica.

Proprio negli anni successivi a quelli della deportazione e dello sterminio, la comunità ebraica è andata consolidandosi: oggi nel nostro paese sono presenti circa 30 mila ebrei disseminati in 21 comunità riconosciute dallo Stato italiano.

Tuttavia, con la salita al potere del fascismo, si raggiunse un livello insopportabile:gli ebrei non potevano sapere che cosa sarebbe accaduto, ma già con il concordato del 1929 con il Vaticano l’unica religione di stato diventava il cattolicesimo.

Fu con l’avvicinarsi della guerra, nel 1938, che furono presi i primi provvedimenti legislativi antisemiti: il fascismo promulgò le leggi razziali, che escludevano gli ebrei dall’esercizio delle professioni, dalla scuola e dalle università e limitavano ogni diritto di proprietà:

come emerge chiaramente da una lettera del camerata A.G. di Roma apparsa  ne “La difesa della razza”, essi fanno, secondo l’ideale fascista, “praticamente parte dell’esercito nemico!” L’ebreo “è un soldato nemico che noi ospitiamo e che, lungi dal rinchiuderlo nei pur confortevoli (troppo!) nostri campi di concentramento, lasciamo a piede libero, senza sorveglianza, colmandolo di sorrisi, di attenzioni, di gentilezze, offrendogli spesso complicità immonde”.

Al termine della seconda guerra mondiale, gli ebrei in Italia erano 21.000, mentre prima del conflitto erano circa 50.000: in molti erano emigrati, ma più di ottomila erano stati deportati nei campi di concentramento nazisti; di questi, soltanto pochissimi furono i superstiti.

Le persecuzioni cessarono, ma è soltanto con la legge d’Intesa (in ottemperanza agli articoli 8 e 19 della costituzione italiana) firmata nel febbraio del 1987 tra lo Stato italiano e l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, che gli ebrei si vedono i loro diritti pienamente riconosciuti:

art 8: “Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze.

Art 19: “Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purchè non si tratti di riti contrari al buon costume.

Queste forme di "giudeofobia" si manifestarono solo in piccola parte durante il Medioevo poichè la separazione degli ebrei dai non ebrei era improponibile da parte della chiesa che voleva garantire la libertà di culto al popolo giudaico in quanto testimone vivente del messaggio divino. Un'alta esigenza era di vitale importanza per la società medioevale: gli ebrei erano abili operatori economici e quindi risultava estremamente dannoso privare la collettività di quei servizi fiscali necessari effettuati per la maggior parte dal popolo ebreo. Se queste esigenze non potevano essere compromesse allora si fece ricorso ad altri mezzi: gli ebrei dovevano portare un segno di riconoscimento, non si potevano sposare o avere relazioni sessuali con i cristiani e addirittura gli venne impedito di frequentare gli stessi luoghi pubblici, gli ebrei dovevano restare rinchiusi durante i giorni della Settimana Santa, e così via.
Le prescrizioni contro gli ebrei aumentarono significativamente sia nel mondo cristiano che in quello islamico trasformando in obbligo la loro libera scelta di installarsi in un determinato quartiere. Anche se la segregazione degli ebrei avveniva sotto costrizione, nel Medioevo non si verificò mai una vera e propria ghettizzazione, infatti la clausura non era controllata dall'esterno e alcuni vivevano ancora in quartieri popolati perlopiù da cristiani e conservando i propri luoghi di culto.
Certamente la pressione della Chiesa per una più accurata separazione tra Ebrei e Cristiani andava accentuandosi, il passo decisivo fu compiuto con il concilio di Breslavia (1266) che, a Gniezno, istituì il primo quartiere fisicamente separato per gli ebrei. Comunque le richieste dei pontefici per la clausura obbligatoria non vennero soddisfatte ovunque, ma là dove non arrivava la Chiesa i "ghetti" venivano istituiti dai poteri civili sotto la spinta delle masse popolari o sollecitati dal clero locale.
Ormai le segregazioni coatte di ebrei si assomigliavano sempre più a quelle che sarebbero state realizzate nel sedicesimo secolo. In Spagna già dal duecento iniziarono a sorgere quartieri ebraici distinti: nel 1243 Giacomo di Aragona ordinò agli ebrei di Terragona di concentrarsi in un unico quartiere. Di lì a poco in tutta la penisola iberica si accentuarono le persecuzioni, le prime espulsioni di massa fino ad arrivare ad una vera e propria "ghettizzazione" che fu promulgata nel 1480 da Ferdinando il Cattolico e Isabella. Dodici anni più tardi gli ebrei furono espulsi dalla Spagna o costretti a convertirsi. Come in Spagna anche gli ebrei tedeschi e francesi seguirono la stessa sorte evitando, però, l'espulsione.
Nei paesi arabi, al contrario di quelli europei, non si era quasi mai sostenuto l'esigenza di separare gli "infedeli" sebbene esistessero "quartieri ebraici" (così definiti solo perché la maggioranza della popolazione che vi risiedeva era costituita da ebrei), venivano chiamati "shara" in Tunisia e Algeria e "mahallat Yahud" in Persia. Questi non erano circondati da mura e non escludevano la mescolanza di ebrei con il resto della popolazione. Solo nella prima metà del 1400 comparvero nei paesi arabi i veri e propri ghetti, ma si trattava comunque di casi isolati (Marrakesh, Mekness, Fez e alcune città dello Yemen).
Il nome ghetto fu "coniato" a Venezia nel 1515 quando gravi tensioni interne avevano condotto i veneziani a porsi il problema dell'eccessiva presenza ebraica in città. dato che era sconveniente ricorrere all'espulsione, si pensò di creare un quartiere ebraico come era avvenuto nelle colonie dell'Egeo. Naturalmente l'opposizione degli ebrei fu vana e, per la paura di un'espulsione di massa, accettarono di essere raccolti in un'area a loro destinata: il quartiere di Cannaregio. Il ghetto di Venezia conobbe un incredibile aumento della popolazione che portò la popolazione ad effettuare notevoli ampliamenti, qui non c'erano solo gli ebrei ma tutti coloro che non erano accettati dalla società perchè giudicati pericolosi o diversi.
Durante tutto il seicento la pressione della Chiesa sugli stati italiani per l'adesione al programma di segregazione del popolo ebraico si fece sempre più inevitabile per mantenere la propria autonomia, le proprie tradizioni religiose, cosicchè vennero realizzati numerosi nuovi ghetti su tutto il territorio italiano: a Ferrara, Urbino,Padova, Verona. I casi più in vista furono Mantova, Modena, Reggio e Livorno, dove la popolazione ebraica era molto più numerosa che in tutte le altre città italiane.
A Mantova Clemente ottavo impose l'istituzione di un nuovo ghetto al duca Vincenzo primo che si decise ad aprire trattative con gli ebrei. Questi ultimi non si opposero poichè lo videro come uno strumento di protezione ma dovettero provvedere a tutte le spese per la sistemazione del ghetto.
A Modena e a Reggio i ghetti furono meno opprimenti infatti i mercanti vennero autorizzati a tenere alcune botteghe fuori del perimetro e ci furono progressivi adeguamenti dello spazio man mano che la popolazione aumentava.
A differenza di tutte le città citate fino ad adesso Livorno presenta un'eccezione, infatti i Granduchi di Toscana concessero ospitalità a tutti gli stranieri (Ebrei compresi) al fine di trasformare Livorno in un importante centro commerciale. Non si assistette, quindi alla fondazione di un nuovo ghetto ma semplicemente ad un libero insediamento.
In quasi tutti gli stati italiani i ghetti non si limitarono alle grandi città ma vennero fondati anche nelle minuscole localita' di confine, nei piccoli borghi e nei centri agricoli. Il ghetto divenne in Italia l'unico scenario della vita quotidiana della grande maggioranza degli Ebrei.
Un caso isolato è quello del Piemonte. Quello di Torino fu il primo vero ghetto dello stato di Savoia, già dal Quattrocento c'erano state iniziative di segregazione degli ebrei in Piemonte e il vescovo di Alessandria tentò di far istituire il ghetto nella sua città ma solo a Torino nel 1621 si arrivò alla realizzazione. Sotto la reggenza di Maria Giovanna Battista di Nemours, moglie del defunto Carlo Emanuele secondo, scelse come area di insediamento l'Ospedale di Carità, un'istituzione già destinata alla segregazione di poveri e malati. Con la nascita del Regno di Sardegna Amedeo II estese l'obbligo di risiedere nei ghetti a tutti i sudditi ebrei.
Ancora una volta gli ebrei non si opposero alla loro segregazione, intimoriti dall'ostilità cristiana.
La segregazione degli ebrei nei ghetti ebbe perlopiù una funzione protettrice, per questo non si verificarono quasi mai resistenze violente, infatti l'istituzione dei "recinti" non era legata a ragioni ideali bensì a ragioni pratiche. Il ghetto godeva di ampia autonomia e si autogovernava attraverso leggi religiose.
Anche se nei ghetti vigevano leggi ferree che assicuravano un'esistenza tranquilla e pacifica ai suoi abitanti, non mancavano di certo pericoli che potevano mettere a rischio l'intera comunità. Questi rischi provenivano sopratutto dall'esterno. Alla fine del settecento, in Italia, si era diffusa la convinzione che gli ebrei stessero dalla parte della "rivoluzione" e questo indusse le masse popolari ad aggredire i ghetti e a massacrarne gli abitanti, ma questo accadde anche perchè alcuni ghetti vennero aperti senza gradualità e quindi senza che le autorità avessero ancora preso le contromisure necessarie per un pacifico reinserimento degli ebrei nella società che ormai da secoli era abituata a tenerli fisicamente separati.
L'altro grave problema riguardava le condizione di degrado in cui vivevano gli abitanti del ghetto, infatti l'intrico delle abitazioni esponeva gli ebrei ad una maggior propagazione delle epidemie, senza pensare poi a quello che poteva accadere in caso di inondazioni, terremoti, incendi e più in generale tutte le calamità naturali.
Solo nell'ottocento si arrivò alla cancellazione dei ghetti, già durante il settecento le concessioni si erano moltiplicate e poi in molte città la clausura venne abolita, ma questo accadde solo nell'Europa occidentale, perchè in quella orientale, e soprattutto in Germania, la dottrina antisemita assunse i toni più virulenti.
Tra la fine dell'ottocento e gli inizi del novecento in Germania la diversità dell'ebreo fu avvertita come diversità nazionale, il che portò il paese ospitante a sospettare di infedeltà al popolo tedesco. Ciò accadde soprattutto dopo la sconfitta della prima guerra mondiale e le drammatiche vicende della repubblica di Weimar.
La popolazione ebraica fu colpita da una serie di limitazioni crescenti e dall'odio di una nazione che si preparava ad una dittatura in nome del mito della razza ariana.
Con l'invasione della Polonia, i nazisti si trovarono di fronte ad una popolazione ebraica di gran lunga più numerosa che in occidente, i provvedimenti di discriminazione apparvero irrealizzabili e per questo si passò alla segregazione coatta degli ebrei all'interno di una serie di quartieri cittadini. Queste zone vennero chiamate ghetti e all'inizio non ci furono resistenze da parte degli ebrei, anche perchè era ancora inimmaginabile il folle progetto di Hitler (la soluzione finale ).
Nel ghetto nazista gli ebrei erano visti come prigionieri (come negli Shtetl dell'ottocento ) e perdevano qualsiasi diritto.
L'occupazione tedesca della Polonia implicò la costruzione di numerosi ghetti, con il consenso del popolo polacco, qualsiasi forma di resistenza venne schiacciata con la violenza.
Nel giro di un anno i ghetti vennero sigillati e l'operazione proseguì anche quando i nazisti optarono per l'eliminazione fisica di tutti gli ebrei (e di tutti quelli considerati un "pericolo" per la stabilità del regime ), si iniziò con le fucilazioni di massa per poi passare alle camere a gas.
Dalla fine del 1941 iniziarono le evacuazioni forzate, gli ebrei venivano prelevati dai ghetti per essere portati verso nuove terre di insediamento o verso campi di lavoro che in realtà erano campi di sterminio. Quindi il ghetto non era più uno strumento per segregare gli ebrei, come era stato ad esempio in Italia, bensì una trappola per illuderli e condurli al massacro senza opposizione.
Molte rivolte si scatenarono contro i nazisti e tra queste la più conosciuta è certamente quella del ghetto di Varsavia, dove è stato ritrovato un archivio clandestino costituito da un gruppo di storici che vivevano in questo ghetto.
La vita nel ghetto di Varsavia era disumana, dai tedeschi dipendeva tutto, anche le razioni di cibo o la possibilità di lavoro. La popolazione era decimata dalla fame e dalle epidemie e nonostante tutto c'era chi trattava affari con i tedeschi e collaborava nelle spietate repressioni. Nei ghetti tradizionali la vita si svolgeva pienamente attorno alla religione, diversamente a Varsavia si era creata una fiorente attività politica e culturale. Le varie organizzazioni politiche trovarono un accordo nella rivolta contro i nazisti, poichè presero coscienza di quello che stava succedendo e lo scopo delle evacuazioni forzate. Si venne così a formare un ampio fronte antinazista che condusse in accordo con la resistenza polacca per convincere gli ebrei di quello che i tedeschi avevano in mente, per fare arrivare in Occidente le prove di quanto stava accadendo e per fornirsi di armi in vista di uno scontro violento.
Il primo scontro armato avvenne il 18 gennaio 1943 ma la vera rivolta esplose il 19 aprile dello stesso anno quando ormai tutti gli abitanti avevano preso coscienza di quello che li aspettava. La rivolta durò diversi giorni fino a che i tedeschi non si decisero a distruggere il ghetto e a deportare tutti gli abitanti. Dopo alcuni mesi dalla distruzione i piccoli gruppi di resistenti sopravvissuti continuavano a combattere fino alla morte o alla loro cattura.




Le caratteristiche dei ghetti hanno subito molte variazioni con il passare del tempo. In alcuni casi, il ghetto era un quartiere ebraico con una popolazione relativamente benestante (ad esempio il ghetto ebraico di Venezia). In altri casi i ghetti connotavano impoverimento (ad esempio quello di Roma).

Gli ebrei non potevano acquisire terreni al di fuori del ghetto, e spesso nemmeno in quello. Dovevano in ogni caso vivere confinati all'interno dei ghetti, quindi durante i periodi di crescita della popolazione le case, spesso ormai piene, dovevano essere rialzate sempre di più. I ghetti avevano quindi strade strette e case alte e affollate. Ma la cosa più terribile era che il recinto del ghetto (proprio così veniva spesso chiamato) era chiuso da una o più porte. Queste venivano chiuse al calar del sole, per essere riaperte solo all'alba. Durante le ore buie gli ebrei non potevano per nessuna ragione allontanarsi dal ghetto. Spesso i residenti necessitavano di un visto per poter uscire dai limiti del ghetto anche durante il giorno.

I residenti del ghetto avevano il loro sistema giudiziario indipendente, come se si trattasse di una vera e propria piccola città nella città.

Le caratteristiche dei ghetti hanno subìto notevoli variazioni nei secoli e anche in tempi relativamente brevi: poiché gli ebrei non potevano acquisire terreni al di fuori del ghetto durante i periodi di crescita demografica, i ghetti avevano strade anguste e case alte e affollate. Ogni abitante del ghetto rispettava le leggi di un ben preciso sistema giudiziario interno e, poiché spesso c’era bisogno di un visto per lasciare il ghetto, era raro che potesse passarne i confini, delimitati da mura sistematicamente chiuse la notte e durante le feste.

I quartieri separati per gli ebrei vennero poi aboliti, in un primo tempo durante la rivoluzione francese, poi, progressivamente, nel corso del secolo XIX. In Italia, l’ultimo ghetto ad essere demolito fu quello di Roma, nel 1870.

Tuttavia, con la seconda guerra mondiale i ghetti diventano di nuovo tristemente famosi: durante la guerra, i ghetti servirono come contenitori in un forzoso processo di concentramento della popolazione ebraica, che ne facilitava il controllo da parte dei nazisti. Gli abitanti dei ghetti dell’Europa Orientale, trasportati da varie regioni europee, privati di ogni diritto e sottoalimentati, venivano progressivamente deportati nei campi di sterminio durante l’olocausto.

Sicuramente più di uno storico ha sottolineato le condizioni di vita disperate dei ghetti. Significative sono le parole di Anna Foa: “la vita nel ghetto non doveva essere assolutamente facile e di sicuro la filosofia del quartiere ebraico era del tutto cambiata rispetto alla mentalità originaria”. O quelle di Renzo De Felice: ”la vita nel ghetto era difficile e degradante”. Questa degradazione emerge chiaramente dal suggestivo quadro che ci dà la storica italo-americana Susan Zuccotti:

in molte città gli ebrei potevano lavorare soltanto come ambulanti, straccivendoli, mercanti di oggetti di seconda mano e prestatori di denaro su pegno. Le donne, cui era vietato confezionare o vendere indumenti nuovi, rammendavano abiti vecchi che poi venivano venduti dagli uomini. La miseria era endemica. Gli alloggi poverissimi, il lezzo terribile  le costruzioni che venivano innalzate per sopperire alle necessità di dare alloggio a tutti, a volte crollavano e lasciavano molta gente per strada.

Gli ebrei del ghetto affrontavano i problemi organizzando associazioni assistenziali per ogni aspetto della vita quotidiana. C’erano società che aiutavano i poveri, fornivano dote alle ragazze, assistevano le partorienti e i malati, finanziavano i funerali, provvedevano agli orfani. Gli ebrei lottavano contro l’isolamento e la disperazione acquisendo un’istruzione.

In Italia gli ebrei pagavano tasse e tributi esosi, senza speranza di appello. La Polizia poteva entrare nelle case confiscare ogni suppellettile; punivano i cristiani che accendevano il fuoco del sabbath il sabato, accusandoli di lavorare illegalmente per gli ebrei.  Negli stati pontifici la polizia, dove il sistema del ghetto era più repressivo, perseguiva inoltre gli ebrei quando eludevano l’obbligo di assistere ai sermoni interminabili tenuti da preti zelanti  che spesso erano loro stessi convertiti e che avevano appunto lo scopo di sollecitare le conversioni.

Oltre ai grandi ghetti dei capoluoghi, nella nostra penisola, in molti piccoli paesi e nei centri di provincia ne esistevano di importanti per la loro cultura e storia. Ne è un esempio quello del paese di Alessano, centro più importante del Salento, nella parte più a sud della Puglia, terra che da sempre è crocevia di popoli, tradizioni ed etnie diverse: greci e arabi, ebrei e cattolici. E proprio nelle vie di questo borgo sorse, nell’epoca aragonese (soprattutto fra il XV e il XVI secolo), un ghetto, che da quel momento fu ininterrottamente abitato e, durante il secondo conflitto mondiale, fu quartiere di reclusione degli ebrei:

il ricordo della presenza ebraica ad Alessano rivive in un toponimo molto significativo: via Della Giudecca. Il piccolo quartiere appare periferico rispetto all’antico nucleo cittadino e quasi sua appendice, per cui la sua costruzione non dovrebbe essere anteriore al XV secolo. Questo periodo d’altronde, è nel suo insieme uno dei più felici del regno di Napoli, dove accorsero numerosi i profughi ebrei della Germania, della Provenza e della penisola Iberica.

Ma ciò che di particolare c’è riguardo a questo ghetto è il mistero che da sempre aleggia intorno ad esso: camminando per le sue strade e accostando gli edifici di pietra, si respira un’aria misteriosa e leggendaria, a partire dalla prima sinagoga, poi interrata chissà quando e da chi e mai scoperta e della quale si hanno informazioni confuse e fonti non certe.

Tradizioni millenarie, come quella ebraica, sono state compromesse e soppresse dal nazifascismo, e tutto nel giro di pochi anni.

Accanto a questi quartieri di veneranda memoria, nacquero, verso la metà del Ventennio fascista, anche i cosiddetti “campi di internamento civile”, nei quali vennero internati i perseguitati politici e, in seguito, gli ebrei. Ne è un esempio quello, divenuto piuttosto grande, di Civitella del Tronto, in provincia di Teramo, che sorge però ancora sulla riva marchigiana dell’omonimo fiume che segna il confine fra le due regioni.

“il campo di Civitella del Tronto, entrò in funzione nei primi giorni del 1940  e inizialmente gli internati alloggiarono nell’ex convento francescano di Santa Maria dei Lumi.

Le condizioni di vita, a parte l’umidità degli edifici, l’affollamento abitativo e la carenza di riscaldamento, non furono particolarmente dure. Tuttavia, gli internati a Civitella rimanevano poco poiché venivano subito diretti prima a Fossoli e poi smistati nei vari campi nazisti.”

Il campo di Civitella fu attivo fino al maggio del ‘44, con un continuo passaggio di uomini, soprattutto “sudditi nemici” .

Molti dei ghetti furono abbandonati dalla popolazione ebraica e caddero in una situazione di degrado e abbandono, altri rimasero il centro (non più coatto) della vita della comunità locale. A cavallo tra Ottocento e Novecento molti dei ghetti furono interessati dall'opera di risanamento di cui furono oggetto molti degli antichi centri storici delle città italiane. Alcuni ghetti furono totalmente demoliti (Firenze), in altri casi largamente rimaneggiati con demolizioni e sventramenti (Roma, Mantova). In altri casi il ghetto si è conservato pressoché integro (Venezia).

Oggi è in molti casi ancora possibile riconoscere l'area dei vecchi ghetti, il luogo dove erano collocate le porte, le abitazioni con i loro cortili e passaggi interni, le sinagoghe che di regola dovevano essere nascoste e prive di segni esteriori di riconoscimento. In anni recenti, i ghetti sono diventati una attrazione turistica e sforzi sono stati compiuti da alcune amministrazioni locali per preservarne le tracce rimaste e farne parte fruibile di itinerari turistici. La logica della preservazione della memoria e della conservazione di ambienti anche non monumentali ma di interesse storico sta sostituendosi alla politica dell'abbandono e dell'incuria che specie nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale ha causato perdite inestimabili al patrimonio storico, artistico e culturale italiano.



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