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L’uccisione di un bambino – e peggio ancora di un neonato – per mano di sua madre è un gesto così violento che è impossibile giustificarlo. Ma bisogna giustificarlo, oppure tentare di capirlo perché sia più facile prevenirlo.
E’ così frequente leggere nel giornale trafiletti che parlano di omicidi, incidenti, drammi della vita, e poi continuare per la propria strada dimentichi delle brevi righe appena lette.
Il malessere provocato dall’arrivo di un figlio non è un fenomeno raro. Abbiamo la capacità di fare qualcosa, di mostrarci creativi, di imporre non solo che le madri siano curate, ma che ci si prenda cura di loro.
Per nascere madre non basta mettere al mondo un figlio, è necessario che si metta in moto tutta una serie di processi. Una madre deve vivere la propria condizione con un senso di sicurezza e di fiducia, sentirsi parte di una storia familiare positiva, aver concepito il bambino in un contesto di attesa affettiva, in una speranza di progetto parentale.
La madre compie l’omicidio per sottrarlo ai mali del mondo, per salvarlo dalla sofferenza di esistere, per preservarlo da reali o presunte difformità. Impulsi irrazionali e convinzioni religiose possono confluire in uno stato depressivo in cui la sofferenza interiore, l’angoscia e il mal di vivere concorrono alla messa in atto di un gesto irreversibile, forse incubato e fantasmato da tempo.
Il fattore scatenante della dinamica omicidiaria non è necessariamente di carattere patologico o psicotico, anche se può essere ascritto a una malattia mentale pregressa.
Esistono, anche da parte degli studiosi del fenomeno, considerazioni di tipo biopsicosociale, che non ignorano gli aspetti biochimici ma anche di adattamento sociale.
Un cedimento nervoso, una malattia fisica, l’abuso di medicinali, l’insonnia cronica, la frustrazione esistenziale possono essere infine fra i detonatori di questo terribile atto privo di segni premonitori. Non di rado all’omicidio del bambino segue il suicidio della madre.
Il figlicidio a elevata componente psicotica si verifica quando il genitore uccide in preda a un raptus, ad allucinazioni imperative in forma di comando, sdoppiamento della personalità, turbe sociali, demonizzazione del figlio, depressione post-partum, scompensi ormonali, malinconia psichica, frustrazione individuale.
Si può inserire nella presente catalogazione lo stress; ovvero un insieme di fattori stressanti, nel quale confluiscono eventi dovuti anche a gravi perdite affettive – dal lutto alla separazione – capaci di giungere fino alla violenza domestica e all’omicidio.
La madre, normalmente avversa alla violenza sul figlio, può causarne la morte con un gesto impulsivo ma irrazionale, spesso conseguenti a pianti e urla del piccolo. In diversi episodi queste donne presentano un comportamento irritabile e impulsivo, o sono affette da disturbi della personalità definiti patologici, anche se non permanenti. Tale categoria complessa assume comportamenti alterati a causa dell’assunzione di droghe o alcool.
Alla morte di infanti e adolescenti può contribuire anche, come è stato osservato clinicamente, l’atteggiamento di madri ansiose e insicure che prodigano apparentemente cure affettuose ai figli ma in realtà li stanno uccidendo o, comunque, non consentono loro di vivere normalmente. Somministrare sostanze dannose ai figli, inventarne sintomi patologici esponendoli a esami e interventi pericolosi, rientra nella cosiddetta “Sindrome di Munchausen per procura”, studiata da Asher nel 1951. L’eccesso di amore o la sua mancanza inconsapevole, la paura di perdere l’essere generato che era in sé o il considerarlo un prolungamento del proprio io generante, può annientarli entrambi.
Capita di rado che con un solo atto omicidiario vengano uccisi più figli. Si tratta di una categoria composita che non ha basi motivazionali ma operazionali. Si tratta di infanticidi, o meglio di neonaticidi sequenziali, perpetrati in periodi ed età materne differenti. Non si può parlare di “madri killer”, dato che l’assassinio seriale codificato presenta caratteristiche a componente sadica, sessuale o simbolica.
Tentando poi di chiarire la psicologia e i problemi sociali delle madri, ci si può trovare di volta in volta di fronte a disturbi della personalità, percezione fantasmatica, contrapposizione a volte cruenta tra madre e figlio, oppure a paure economiche reali o immaginarie.
L’infanticidio è stato per lungo tempo strumento di controllo demografico, sia in termini di eliminazione degli storpi ( si pensi all’antichissima rupe tarpea, dalla quale venivano gettati i bambini con malformazioni), sia nei termini del contenimento delle nascite o della selezione del sesso. La Cina ne è il più famoso esempio; addirittura agli aborti forzati si associano politiche che incoraggiano l’infaticidio.
La condotta, considerata non solo criminale, ma anche particolarmente odiosa nelle società moderne, è stata invece pratica comune nel passato, ad esempio in forma di sacrificio rituale o a causa di deformità.
Varia è la considerazione giuridica e criminologica dell'infanticidio, a seconda del soggetto che compie l'azione (spesso, ma non sempre, la madre), delle circostanze temporali e di altre condizioni. In diritto penale, l'uccisione di un bambino si considera il più delle volte un omicidio comune. L'infanticidio si potrebbe quindi intendere in senso etimologico (uccisione dell'infante, colui che non sa ancora parlare), ma non è esattamente così: per varie ragioni, gli ordinamenti considerano meno gravi, rispetto all'omicidio, i reati speciali individuati come infanticidio, e le delimitano in un ambito molto stretto. L'Infanticide Act britannico, ad esempio, chiama infanticidio un delitto specifico, che può essere commesso solo dalla madre nel primo anno di vita del bambino. Il codice penale italiano individua una sola ipotesi: quella dell'infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale (art. 578 c.p.) commesso dalla madre durante il parto (feticidio) o immediatamente dopo. In tutti gli altri casi, l'uccisione di un bambino è semplicemente reato di omicidio. L'art. 578 prevede infatti una pena più lieve (da 4 a 12 anni di reclusione) solo in ragione delle particolari condizioni emotive della puerpera; il trattamento di favore non si estende nemmeno a coloro che eventualmente concorrano nel reato, puniti con la stessa pena prevista per l'omicidio (non meno di 21 anni). Analoga soluzione è accolta da altri ordinamenti, come quello brasiliano attuale (art. 123 c.p.). In alcuni paesi (ad esempio di lingua spagnola) hanno rilevato o rilevano ulteriori elementi. Può essere disposto un preciso limite temporale (24 ore, 72 ore, 7 giorni) dal parto oppure, soprattutto in passato, sono stati inclusi nella previsione altri consanguinei (oltre alla madre), specie in relazione a motivi d'onore. Anche l'ordinamento italiano dava rilievo alla causa d'onore prima che la legge 442 del 1981 la espungesse definitivamente. Al termine tecnico infanticidio, con valenza giuridica limitata ai casi esposti, si sovrappongono talvolta nozioni come neonaticidio e figlicidio, che di tale valenza sono invece completamente prive. La seconda è ad esempio individuabile nelle aggravanti degli artt. 576 e 577 c.p. italiano, che peraltro corrispondono al concetto più generale di parricidio.
Quando una madre uccide il proprio figlio suscita sicuramente orrore ma anche emozioni diverse, forti legate all’immagine di fragilità del bambino che da lei dipende e che invece in lei trova la morte. Certo notizie del genere colpiscono. In parte l’effetto è sicuramente dovuto alle modalità che i media hanno di proporre l’argomento.
Pare infatti che l’uccisione dei figli sia fenomeno di oggi. Eppure basta uno sguardo alla letteratura per scoprire che è cosa che accade dalla notte dei tempi. Si potrebbe pensare allora che oggi si verifichi una confusione tra ciò che si conosce e ciò che esiste e accade. L’inghippo starebbe nel fatto che questo fenomeno accadeva già, solo non compariva sui giornali, non esistevano cioè i mezzi di comunicazione di massa che ne hanno fatto patrimonio di conoscenza comune.
Il neonaticidio individua la morte del neonato subito dopo il parto o del feto durante il parto. Contrariamente a quanto ci si possa aspettare, oggigiorno l’infanticidio e il neonaticidio non sono più fenomeni legati a gravi situazioni di emarginazione, ignoranza e precarietà economica. Sono in vero fenomeni più facilmente riscontrabili con madri di giovane età, non sposate e che presentano fenomeni di negazione della gravidanza. Alla negazione si associa il fenomeno della razionalizzazione dei sintomi, con il risultato che per queste giovani donne i mutamenti corporei della gravidanza hanno una spiegazione alternativa assolutamente ragionevole. A causa della negazione della gravidanza, spesso per queste giovani madri il parto è talmente inaspettato da non riconoscerlo nei sintomi. È quindi tanto inatteso quanto stupefacente. Capita allora di frequente che queste partoriscano nei bagni perché colte da improvvisi e inspiegabili dolori addominali e che al bambino non vengano prestate le adeguate prime cure, mancando anche tutta l’ideazione e l’investimento affettivo che la madre avrebbe dovuto già aver costruito nella gravidanza. Cioè in quel momento quel bambino partorito nella toilette non ha lo statuto di bambino per la madre, ma di impiccio di cui liberarsi.
Non deve stupire che casi come questi siano passati anche al vaglio di medici, i quali non hanno potuto diagnosticare la gravidanza perché instradati su sintomi incoerenti con la diagnosi. Spesso infatti la diagnosi è accidentale, per esempio nel caso di radiografie per motivi diversi (ad es. alla schiena…). La negazione della gravidanza non è tanto (quantomeno non solo) associata a patologia della madre quanto alla presenza di stressor sociali quali religione, rigida etica morale, bigottismo, rigidità dell’ambiente, mancanza di supporti intra ed extra familiari etc, che concorrono a creare in queste giovani donne la paura di essere escluse dal proprio ambiente sociale e a ridurre la loro capacità di pianificare un futuro. Interessante sarebbe capire quale tipo di immagine corporea abbiano le mamme.
Il figlicidio invece individua l’uccisione del figlio che ha superato l’anno di età.
Il neonaticidio è quindi caratterizzato dal fatto che il bambino non sia ancora stato investito di quella complessa costellazione affettiva che chiamiamo istinto materno, ma sia considerato un oggetto prodotto del corpo della madre, su cui quindi ella ha piena disponibilità.
Fenomeno ben diverso è il figlicidio. Secondo Merzagora Betsos, se si escludono i casi di uccisione dei figli per vendetta nei confronti del partner e della SPM (Munchausen per procura), si possono descrivere una serie di situazioni tipo lungo un continuum dall’assenza di patologia alla franca patologia.
Le madri che sono solite maltrattare i figli e che li uccidono in un atto impulsivo: è quest’atto una estrema conseguenza della battered child syndrome (bambini che presentano lesioni interne, tagli, contusioni ustioni, bruciature; che vengono portati in ritardo in pronto soccorso; per le ferite dei quali i genitori hanno una spiegazione plausibil; bambini che manifestano comportamenti devianti) e sono madri, queste, spesso caratterizzate da disturbi di personalità, scarsa intelligenza, irritabilità, con famiglie numerose e spesso a loro volta vittime nell’infanzia di violenza.
Le madri che uccidono per brutalità (descritte da De Greef) di fronte al pianto del bambino.
Le madri passive e negligenti che uccidono i propri figli con il loro agire omissivo. La morte del bambino può derivare dalla mancanza di cure e di attenzioni da parte della madre che vive le esigenze del bambino come qualcosa di strano e di minaccioso. Sono madri spesso con problemi psicotici, che temono la fusione con il bambino e quindi l’annientamento. I bambini in questi casi muoiono per scarsa alimentazione, per mancato trattamento delle malattie o per incidenti che paiono sfortunate fatalità.
Le madri che uccidono i figli non voluti: in questi casi il bambino evoca nella mente della madre il ricordo di momenti particolarmente difficili, piuttosto che solitudine o violenza e le madri hanno spesso personalità impulsive e antisociali e precedenti di abuso di sostanze.
Le madri che uccidono il figlio trasformandolo in capro espiatorio di tutte le loro frustrazioni: esse sono convinte che il figlio abbia deformato loro il corpo, che le abbia costrette a vivere dove non vogliono e con chi non vogliono. Sono madri dalla personalità insicura e con tratti borderline, spesso con vere e proprie malattie mentali con elementi persecutori e paranoidei.
Madri che uccidono i loro figli per motivi di convenienza sociale: fortunatamente oggi sempre più rare, data anche la disponibilità di escamotage anche legali diversi, per esempi l’affidamento al padre in caso di divorzio o il parto in ospedale con l’abbandono del minore.
Madri che uccidono i loro figli per motivi ideologici: è il caso di quelle madri che appartengono a sette religiose che vietano le trasfusioni e il ricorso ai medicinali.
Madri che hanno subito violenza dalla propria madre: queste spostano la loro aggressività dalla propria madre cattiva al figlio. Sono donne che hanno sperimentato l’inadeguatezza materna, la mancanza di protezione, che per anni hanno vissuto frustrazioni continue e ripetute nella famiglia d’origine, per le quali la violenza è la quotidiana forma di risoluzione dei conflitti: tutto questo ha compromesso in loro la capacità di attivare una qualunque forma di attaccamento nei loro figli.
Madri che uccidono nell’ambito di psicopatologie puerperali: si tratta di madri che presentano tre diverse forme di depressione di diversa gravità: maternity blues, depressione post partum e psicosi puerperale.
Madri che vogliono uccidersi e che uccidono anche il figlio, madri che uccidono il figlio per non farlo soffrire, madri che uccidono il figlio perché pensano di salvarlo: tutte queste sono madri che presentano gravi problemi di depressione, ma non legata come lo era per le precedenti all’evento del parto. Sono cioè madri alle quali la diagnosi di depressione era stata fatta magari in tempi molto antecedenti la gravidanza, o che presentano depressione psicotica. In questi casi sono molto accentuate le tematiche di inadeguatezza nello svolgere il ruolo materno, di preoccupazioni irrealistiche sulla salute del figlio, rimuginii circa la possibilità di nuocergli. Particolare attenzione è prescritta per madri depresse che presentino ideazione suicidaria. Queste possono, in preda ad un delirio per il quale sentono di dover sottrarre alla pena della vita anche le altre persone a lei più care, uccidere il loro bambino prima di suicidarsi, come se il figlio non fosse un’entità autonoma con vissuti diversi dai suoi. Spesso in realtà dietro a questo gesto insistono anche motivi egoistici come la paura di affrontare la morte da sola o il pensare di essere indispensabile alla vita del figlio.
Il complesso di Medea è usato a indicare il caso in cui la madre uccide il o i propri figli per vendicarsi dell’abbandono, definitivo o meno, del coniuge e risolvere le derivanti tensioni. I figli diventano strumento per infliggere sofferenza all’altro e per attirarne le sue attenzioni. Si tratta di madri sempre affette da un certo delirio di onnipotenza nei confronti dei figli per il quale così come hanno dato loro la vita, si sentono in diritto di togliergliela, estromettendo definitivamente il padre in un patologico desiderio di completo possesso.
La sindrome di Munchausen per procura invece individua un disturbo psichiatrico per il quale le madri affette lamentano a carico dei propri figli disturbi o sintomi fittizi, spesso incompatibili con patologie reali. In molti casi esse arrivano a procurare ai propri figli i sintomi somministrando loro sostanze ad hoc. Sono madri che paiono estremamente attente al figlio, fino all’eccesso, ed hanno una qualche conoscenza medica. In realtà queste madri hanno necessità di attenzione che ottengono attraverso il ruolo della madre gentile e affabile, tanto buona cui è capitata la disgrazia della strana malattia del figlio. Spesso la somministrazione di sostanze o le cure mediche stesse si rivelano mortali per i figli.
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