martedì 19 maggio 2015

I PAESI DELLA BRIANZA : FINO MORNASCO

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Fino Mornasco è un comune italiano della provincia di Como in Lombardia.

Fino fu avamposto romano fortificato. Le prove di questa presenza sono il ritrovamento di una tomba romana e di altri oggetti, durante gli scavi di Socco (1879).
Ai tempi di Plinio, lungo la Valle del Seveso, passava una delle cinque più importanti strade dell’impero romano (Decumana), che proveniente da Mediolanum (Milano), toccava Comum (Como) per poi proseguire lungo la sponda del lago sino alla Valtellina.
Alla fine del IX secolo è certa l’esistenza di insediamenti di mulini, lungo le sponde del torrente Seveso e di cascinali sulle alture che avevano vista sulla pianura.
Il termine confine e limite sono la chiave dell’origine del toponimo finese. L’ipotesi più accreditata dell’origine del nome è legata ad un fatto d’indicazione territoriale. Essere un territorio al limite o a confine. Il termine Mornasco viene aggiunto dopo l’unità d’Italia.
Già intorno al 1000 si ha conferma dell’esistenza di una contrada.
La culla della contrada restò per moltissimi secoli la valle. La dove l’acqua del Seveso muoveva le pale dei mulini e dove passavano le polverose carrozze dei signorotti del tempo. Una valle di origine morenica, ricca di cascatelle e canaletti, all’ombra di gelsi e castani, animate dai mulinari de Fini.

Nel 1594, le anime della contrada erano 1078.La società era tipicamente agricola, costituita da cascinali sparsi, da mulini e da un agglomerato stretto attorno alla Chiesa.
Con la pace di Radstadt (1714) il territorio fu assegnato all’Austria.
La quasi totalità dei finesi dipendeva, per lavoro, dai proprietari terrieri che erano il marchese Odescalchi, il conte Lambertenghi, le monache Cappuccine di Como, il Collegio Gallio, i Canonici della Prepositurale e le famiglie Raimondi, Aliverti, Cattaneo. In questi anni l’attività riformistica degli austriaci provoca un sensibile risveglio dei commerci che migliorano le condizioni di vita delle popolazioni.
Lentamente si faceva largo la diversificazione del lavoro a seguito delle nuove attività seriche e laniere che prelevavano la manodopera dai campi, mentre l’impulso dato al commercio favoriva la moltiplicazione dei traffici.
Attraversati gli anni delle alterne dominazioni austriache e spagnole, subentrò la repubblica Cisalpina nel 1799.
Gli anni che corrono dal 1800 rispecchiano la fortuna politica e militare di Buonaparte. È il periodo dell’impulso edilizio e di una urbanistica proiettata decisamente verso la modernità. Nel 1808 si apre il nuovo tronco della strada napoleonica che congiungerà la città di Como con la Cà Merlata e notevoli saranno le migliorie alla strada postale che passava da Fino per la Porta Comasina a Milano. La disfatta di Waterloo (1815) riporterà le terre di Fino sotto il duro dominio dell’impero austriaco.
Con l’unificazione del regno d’Italia e la riorganizzazione amministrativa territoriale, Fino viene eretto in Comune stabile del 3° Circondario Mandamentale di Como. Nel 1860 si riunisce il primo Consiglio comunale presieduto dal sindaco Giulio Porro Lambertenghi.

Il Consiglio Comunale del 23 novembre 1862, su proposta del Consigliere Primavesi, delibera che a Fino si aggiunga Mornasco, per non confonderlo con Fino al Monte (Bg).

Il secolo XIX si affaccia su un paese di 2486 abitanti in grande espansione; la ferrovia nazionale (che collegherà Milano alla Svizzera) fa scalo in Valle Mulini; il centro è attraversato dalla linea a vapore Saronno-Como, gestita dall’Anonima Tramway. Sono operanti le prime cooperative edilizie e di consumo, la Società di Mutuo Soccorso fra operai e la Mutua Bestiame. Si affermano le prime industrie stabili. Dal 1910 al 1914 si verificano i primi scioperi dei tessitori che rivendicano una regolamentazione del proprio lavoro. Nel 1934 viene posta la prima pietra della nuova chiesa prepositurale di S. Stefano. Nel 1936 la popolazione raggiunge le 3200 unità. L’evento bellico del 1915, nonostante i dissensi politici, troverà tutta la comunità finese concorde nel grande sforzo per completare l’unità nazionale. 40 i figli di Fino caduti sul campo. Da tempo Fino Mornasco è un centro di rilevante interesse nell’ambito dell’economia lariana. Basti pensare alle numerose aziende tessili, metalmeccaniche, chimiche e a quelle che si dedicano alla lavorazione della gomma e della pelle. È presente pure una azienda florovivaistica (d’importanza internazionale). Nell’ambito della tessitura della seta che, per reggere di fronte alla concorrenza, sta puntando sull’ottima qualità del prodotto e soprattutto su una raffinata ricerca artistica.

Nel 1700 il centro abitato di Fino, con esclusione delle frazioni, era sviluppato lungo due direttive: una era interna, cioè l’attuale Via Raimondi; l’altra di collegamento, cioè la “strada Regia da Milano a Como”, ora Via Garibaldi.
Il piccolo paese, che consisteva in un susseguirsi di corti contadine ancora oggi facilmente identificabili nel tessuto urbano, era delimitato a Sud dall’imponente costruzione degli Odescalchi (attuale Villa Tagliaferri) e a Nord dal vicino complesso parrocchiale. Oltre la chiesa e l’antistante cimitero, in direzione Como esisteva un unico edificio, la cascina Briccoletta.
Dalla mappa del Catasto Teresiano del 1721 si può ricavare inoltre che i terreni su cui sorgono la Villa comunale (ex villa Mambretti) e il magnifico parco erano di proprietà della Prepositura di Fino e solo in parte degli Odescalchi, del Conte Cesare Lambertenghi e dei Raimondi. Erano campi lavorati per la coltivazione dei cereali e dell’uva, ma vi erano tenuti con cura anche dei gelsi, tanto preziosi da essere censiti . Il mappale più consistente era il 484, che aveva un’estensione di 21 pertiche.
Le proprietà della Parrocchia di Fino erano certamente il frutto di secolari donazioni a cui è difficile risalire. È sicuro, invece, che poco più di un secolo dopo, nel 1857 (anno di rilevazione del “Cessato”), essa continua a figurare proprietaria e ancor più importante, avendo acquisito la porzione dei Porro Lambertenghi; agli Odescalchi subentrarono i Raimondi, nella persona del Marchese Giorgio, il futuro sfortunato suocero di Garibaldi.
Nel marzo 1888 il signor Giuseppe Guggiari acquistò dal Beneficio parrocchiale alcuni appezzamenti di terreno, che si affacciavano sulla via Odescalchi (attuale via Garibaldi) e vi costruì immediatamente due edifici, il più piccolo dei quali consistente in poco più di un rustico con portico, ben rappresentati in una mappa di fine secolo.
Attorno al 1890, quindi, fu edificato il primo nucleo di quella che sarebbe diventata la Villa Mambretti.
Il Guggiari, dodici anni dopo, vendette la proprietà a un possidente cinquantenne di Cadorago, Luigi Verga detto “Santirana”, che l’anno successivo aggiunse una porzione di terreno con l’evidente scopo di creare un giardino nella parte più alta della proprietà.
La consistenza degli immobili si evince dall’istrumento del 10 luglio 1902 n°1468 di Rep. a rogito del dott. Gaetano Maspero, notaio in Lurate Abbate, ove si parla di “villa ad uso villeggiatura di quattro piani e quattordici vani con annessi rustici e giardino”.
Il Verga, tuttavia, non optò per il domicilio finese, ma è probabile che tenne a sua disposizione una parte di fabbricato, affittando il rimanente a una o più famiglie; sicuramente ai Mambretti, che erano tra l’altro imparentati con i Guggiari e perciò conoscevano già la bellezza del luogo. Fu Francesco Mambretti a trasferirsi qui, con la moglie Margherita Salmoiraghi, anche perché aveva costituito un’importante e redditizia impresa per l’elettrificazione di Fino e di molti altri paesi del Comasco.
Dallo stato civile del Comune di Fino risulta che nell’agosto del 1907 nell’abitazione di via Odescalchi nacque Giovanni (Nino), il futuro fondatore dell’USAP.
Nell’ottobre del 1915 si verifica finalmente il passaggio di tutte le proprietà dal Verga a Francesco Mambretti per la cifra di 16.300 lire. Come risulta dall’atto di vendita, le costruzioni sono due, separate, così come le aveva volute il Guggiari. A tutto ciò il Mambretti aggiunse i mappali circostanti per la realizzazione della Villa con il parco, che già prefigurava; confinanti risultavano le proprietà Pozzi e degli eredi Rossi.
Per realizzare il suo progetto, Mambretti si affidò a un architetto di grido e molto importante nei primi decenni del secolo, Federico Frigerio, che si interessò anche del giardino, per la cui mirabile costruzione fece parecchi sopralluoghi, come ricorda Mario Negretti, dal 1933 e per quattro decenni custode della Villa.
Il progettista della ristrutturazione o meglio del rifacimento pensò bene di utilizzare l’esistente, ampliando l’edificio principale con sale e scaloni e collegandolo ad secondo, procedendo a decorare il tutto con affreschi e graffiti, con stucchi e marmi di pregio, nel modo ancora visibile, anche se deteriorato.

Nel 1978 la Villa veniva sottoposta a vincolo, in quanto pone la realizzazione dell’opera, in stile “eclettico”, all’inizio del secolo, mentre è inconfutabile che l’acquisto avvenne solo nel 1915 e nello stato di fatto precedentemente descritto. L’ampliamento e la decorazione della Villa ebbero luogo tra il 1920 e il 1930, come conferma  l’indicazione del 1929 dipinta su un soffitto della dipendenza e impressa nel caminetto dell’attuale Ufficio Anagrafe. Più o meno contemporaneamente si procedette per il parco che comprendeva il canile (i Mambretti erano amanti della caccia) e un rustico edificato nello stesso stile della Villa, ricoperto in parte di legno e con il tetto di paglia, come si usa nel Nordeuropa. Questa costruzione, che aveva la funzione di pollaio, con galline, anatre, fagiani e un pavone, era il risultato di un capriccio della signora Margherita e fu abbattuta agli inizi degli anni Sessanta per far posto al campo da tennis.
Vennero impiantate anche delle bellissime serre, tedesche e garantite contro la ruggine, in cui il Negretti coltivava con cura stupende orchidee e altri fiori, destinati ad arricchire i colori delle aiuole. Con le vicine stalle caddero in disuso e ora in quell’area vi sono l’Ottagono e i parcheggio.
Quando i lavori furono ultimati, il colpo d’occhio era sorprendente, soprattutto per l’armonia tra elementi architettonici e naturali, per la disposizione delle essenze pregiate in rapporto ai colori e alle parti di terreno lasciate a prato, con i dislivelli appositamente creati.
Con la Seconda Guerra mondiale e i bombardamenti su Milano, la residenza di Fino divenne la principale, e anche la dipendenza ospitò degli sfollati, tra cui la pittrice Cia Bassani, che poi si stabilì definitivamente nel paese, nella più modesta Villa Bolchesi.
Roberto Mambretti diventò in seguito il proprietario unico della Villa, che cedette tra il ’70 e il ’72 al Baserga, il quale non vi abitò mai, però riuscì a lasciare un’indelebile traccia del suo passaggio, per cui oggi non possiamo ammirare, se non in fotografia, lo scalone di marmo, i ritratti dei giovani Mambretti, il camino del salone e molte altre decorazioni interne, inopportunamente rimosse o cancellate da un uniforme strato di bianco. Nel frattempo la Villa entrò tra gli obiettivi degli amministratori pubblici, che nel 1980, avuta la disponibilità alla vendita da parte dei proprietari, iniziarono una lunga e laboriosa trattativa. Fu avviata addirittura la procedura di esproprio, ma tutto si concluse in via bonaria nel 1985: per un miliardo e duecentottantaquattro milioni l’Amministrazione Comunale - sindaco era Guido Mancina e assessore ai lavori pubblici Mario Riva – acquisiva la Villa, che successivamente venne ristrutturata e adibita a Municipio e parco pubblico, a cui si aggiunse il salone polivalente denominato Ottagono.

Fino Mornasco è stato teatro di un matrimonio storico: quello fra Giuseppe Garibaldi e la nobildonna finese Giuseppina Raimondi, figlia del marchese Giorgio, il 24 gennaio 1860. Un matrimonio fallito nel volgere di un’ora, ma pur sempre un evento che ha pesato sulla storia, se non nazionale certamente in quella dell’eroe dei due mondi. Garibaldi aveva conosciuto la “coraggiosa e avvenente fanciulla”, come egli la definisce, il 1° giugno del 1859. La giovane era nata dall’unione illegittima del marchese Raimondi e di Livia Giannoni; era cresciuta in un ambiente di cospiratori ed aveva colpito Garibaldi per il suo coraggio, oltre che per la sua bellezza. Il Generale, a cui era morta dieci anni prima Anita, ha 54 anni, Giuseppina 18: tra i due una appassionata frequentazione e un caldo rapporto epistolare. Innamorato come un giovane studente così scriveva in una lettera:
“Madonna, la Vostra lettera fu per me un balsamo e ve ne sono riconoscente. Voi mi avete colpito dal vivo con le vostre reminescenze.
Lago!…Remi…Maestro Vostro nel veleggiare…Parole scritte da voi, per cui ho pianto di commozione. Dunque giacché mi accettate come maestro e io alunno che amo! E come! Vi devo una verità che Voi in nome di quella stima che mi avete professato vorrete tenere per Voi sola; e quando vi darà la smania di dividere il segreto con alcuno me ne chiederete il permesso; non è vero?…bene! Che io Vi amo…e che vorrei vedere chi fosse capaci di avvicinare Voi senza amarvi…Dunque… io vi amo!…amor d’uomo non poteva pogiarsi su più bella, più preziosa, più attraente creatura!… il desiderio di possedervi aveva seguito l’affetto che mi ispirò la vostra prima visita:…Un giorno – di Dio - …io, nel premermi la bella mano con le labbra – vi dissi: io voglio appartenervi a qualunque costo!… e io assuefatto alle imprese ardue:…io coll’audacia del soldato… avrei gettato ai vostri piedi una sentenza che si sarebbe infranta, non accetta! Coll’anima vostra di italiana…Non avreste calpestato il cuore di Garibaldi, che si votava a Voi con lo stesso fervore con cui si vota all’Italia per l’intera sua vita!…Ma io retrocessi…perché quando vi dissi che volevo appartenervi avevo pronunciato uno scongiuro!…
In altra circostanza mi accorsi che Voi, bella Giuseppina, pagavate l’affetto mio con amicizia ma non con amore: il mio amor proprio ne fu mortificato; ma non mancai di dire a me stesso: io non ho meritato altro! Ora voi dovete scrivermi…Madonna! E dirmi che mi basta un po’ d’amicizia…Io me ne contenterò come prezioso affetto…Ma non dite – per Dio – che vi sono indifferente! Io ne sarei disperato!…Un saluto di cuore alla famiglia. Vostro per la vita”.
La famiglia caldeggia l’unione: avere una figlia moglie dell’eroe dei due mondi non è cosa da poco. Le risposte di Giuseppina sono positive, così Garibaldi alla fine del 1859 si reca per un soggiorno breve a Villa Raimondi: un soggiorno che si protrae in modo più interessato del previsto.
Il Natale viene trascorso a Fino, mentre si continua a parlare dell’imminente matrimonio.
L’annuncio formale viene dato alla stampa, al Corriere del Lario, il 6 gennaio 1860. Il matrimonio è ufficiale e si farà il 24 gennaio, dopo che Giuseppina si è rimessa da una brutta malattia.
Tutto bene dunque? Non proprio. Il fatto è che Giuseppina ha un altro spasimante, un giovane ufficiale, che non si dà affatto per vinto. Ma tant’è: arriva il grande giorno. Gli invitati allo storico evento sono circa 200, provenienti da ogni parte d’Italia: tra essi la figlia del generale e di Anita, Teresita.
Testimoni degli sposi sono Lorenzo Valerio, Prefetto di Como e il Conte Giulio Porro Lambertenghi, patriota e buon amico di Silvio Pellico.
Il matrimonio viene celebrato nella chiesetta immersa nel verde del parco di Villa Raimondi. Finita la cerimonia arriva un messaggero che consegna una lettera al Generale. Mentre Garibaldi legge si rabbuia e diventa rosso per la collera. Si avvicina alla moglie, l’afferra per un braccio e la trascina nel belvedere che è dietro la Villa.
“Leggete!”. Giuseppina appena inizia la lettera ha un fremito. “È vero?” incalza il marito. Giuseppina, già debilitata per la malattia, alza gli occhi e sussurra “Sì, ma…”. Il Generale non le dà il tempo di spiegarsi e le sbatte davanti lo sferzante epiteto “Signora voi siete una puttana!”.
La ragazza con un sussulto d’orgoglio risponde allora per le rime: “Pensavo di essermi sacrificata per un eroe, invece non siete che un rozzo soldato!”.
Comunque sia Garibaldi se ne va lasciando nello sconcerto e nella vergogna commensali e famiglia Raimondi.
Ma cosa c’era scritto su quel biglietto?
Probabilmente comunicava un incontro avvenuto tra la neosposa e il suo vecchio spasimante, qualche giorno prima. Il fatto è che il matrimonio appena celebrato va in frantumi nel giro di un’ora. La sentenza d’annullamento, patrocinatore legale di Garibaldi Francesco Crispi, viene emessa il 25 dicembre 1879.
Su quel biglietto si fecero diverse congettura, sino al punto che alcuni pensarono anche ad una montatura politica per denigrare pubblicamente Garibaldi. Si pensò addirittura ad un’azione degli stessi garibaldini, preoccupati che il matrimonio potesse ostacolare l’imminente spedizione dei Mille. Ma qui siamo sul terreno della congettura, appunto, senza riscontro.
Arduino Francescucci


La Val Mulini è nota per alcuni recentissimi ritrovamenti, risalenti alla prima età del bronzo e relativa alla presenza di insediamenti abitativi. Per quanto concerne invece l’età del ferro, in Fino Mornasco è venuta alla luce, sul finire dell’ottocento, una piccola necropoli di incinerati.

La villa Odescalchi (prima Raimondi e, in seguito, Tagliaferri) occupa la sommità di una collinetta. Col passaggio ai Raimondi, la villa viene trasformata con l’aggiunta di un’ala sontuosa e con la facciata monumentale che guarda il parco all’inglese. I rimaneggiamenti sono opera dell’architetto neoclassico Simone Cantoni. Nel parco esistono una torre con merli e una chiesetta, famosa perché vi fu celebrato il matrimonio fra Giuseppe Garibaldi e la giovane marchesina Giuseppina Raimondi.
Nella chiesa parrocchiale di Santo Stefano si conserva un bell’affresco quattrocentesco, l’unica testimonianza dell’antica chiesa (le cui origini risalgono, probabilmente, ad un epoca anteriore al 1000) che venne demolita in parte nel 1934 e in parte nel 1956 e, in seguito, totalmente riedificata.

Le origini del cesello si perdono nei secoli: già i babilonesi ne erano maestri. L’arte di incidere sui metalli fu portata alla perfezione in Italia e in Germania nel Rinascimento e in Francia fra il secolo XVII e il XVIII. Un’arte strettamente artigianale, tramandata di generazione in generazione, da padre in figlio.
Del cesello finese si incomincia a parlare, in una forma molto vaga, intorno al 1800 e poi, in modo più chiaro e consistente, in occasione del trasferimento da Milano a Fino della Ditta Orazio Del Bò, specializzata nella lavorazione dell’arredo sacro, con annessa fonderia e coniatura di medaglie e distintivi. In quel periodo Fino era ancora un paese prevalentemente agricolo. Il nuovo complesso Del Bò iniziò il reclutamento di molti giovani finesi che venivano affiancati agli specialisti anziani. Fra questi giovani, Stanislao e Cornelio borghi e Alberto Clerici che sarebbero diventati gli artefici del cesello finese. I fratelli Borghi, acquistata una certa abilità, attraverso la frequentazione di scuole milanesi, riuscirono ad impiantare un’officina artigianale del cesello, la prima a Fino, dove coltivarono sotto la loro guida numerosi giovani volenterosi.
Nella famosa crisi del 1928-32, gran parte di questi giovani cesellatori furono costretti ad abbandonare il mestiere ed adattarsi ad altri lavori. Continuarono in privato i più abili che con sacrificio e dedizione perfezionarono la propria tecnica di lavoro. Superata la congiuntura sfavorevole, sorsero in paese diversi laboratori con criteri di conduzione familiare che, con il passare degli anni, assunsero livelli artigianali di prim’ordine, indiscutibile punto di riferimento nazionale.
Da questi laboratori finesi sono uscite vere opere d’arte a soggetto religioso e sacro, opere sparse in chiese e cattedrali di tutto il mondo, ceselli a carattere decorativo che ornano chiese e ville tra le più rinomate: veri e propri gioielli eseguiti con materiali preziosi, di cui a Fino si conservano solo delle fotografie.
Opere uscite dalle abili mani di maestri come Alberto Clerici, Cesare Cristiani, Alfonso Melli, Sergio Bionda e altri che la storia più recente si farà carico di ricordare. Una scuola tutta finese servì a perfezionare giovani che si dedicarono all’incisione su rame, argento e oro: la Scuola di Disegno della Società di Mutuo Soccorso, oggi chiusa e i cui resti sono stati ceduti al Comune.
Quanti sono i cesellatori finesi? Difficile dirlo. Furono certamente tanti. Una ventina sono i laboratori di impiego giornaliero, altri e diversi sono quei piccoli laboratori d’impiego serale, dopo le normali ore di lavoro. Una storia, quella del cesello finese, ricca e complessa perché è una storia d’arte. E come tutte le storie d’arte è intima, personale, gelosamente custodita da ogni artista che l’ha vissuta.
Il cesello finese è conosciuto in tutto il mondo e vanta una ricercata tradizione artistica pregevole sia nel campo religioso che in quello profano e commerciale.
Una tradizione che agli occhi dei finesi più giovani risulta nascosta e poco conosciuta.

Persone legate a Fino Mornasco:
Augusto Introzzi (1913-1954), ciclista
Francesco Mambretti è legato a Fino Mornasco perché investì i suoi cospicui guadagni nella costruzione della Villa di Fino dove risiedette fino alla sua morte e per aver creato a Fino Mornasco la sua azienda: la "Mambretti Elettrica". Fu anche membro del Consiglio comunale di Fino, partecipando a numerose commissioni. L'anno seguente, a testimonianza del suo impegno civico, decideva di presentarsi come candidato alle elezioni amministrative di Milano. È sepolto nella cappella di famiglia del cimitero di Fino.
Giovanni Battista Scalabrini (Fino Mornasco, 8 luglio 1840 - Piacenza, 1º giugno 1905), beato della Chiesa Cattolica, vescovo di Piacenza, fondatore della Congregazione dei missionari di San Carlo - "Scalabriniani". Nasce nel 1839 in una casa all'angolo della piazza del sagrato del borgo dei "mulinari de Fini", dove il padre Luigi gestiva una bottega di vini. L'edificio è tutt'oggi esistente, ben conservato, all'incrocio della via Garibaldi con la via che porta il suo nome. È noto per la sua attività pastorale volta a creare società di soccorso e strutture sociali in aiuto degli operai.
Stefano Casiraghi (1960-1990), consorte della principessa Carolina di Monaco, tragicamente deceduto durante una gara di off shore.
Erika Fasana, Martina Rizzelli e Sofia Busato, ginnaste nazionale sono tesserate presso la Polisportiva Carnini; gareggiano in Serie A1 come prestito alla Brixia Brescia.
Giuseppe Garibaldi, che nel paese ebbe incontri amorosi con Giuseppina Raimondi, fino al matrimonio del 16 gennaio 1860, poi fallito.


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