domenica 21 giugno 2015

CAVARGNA E LA VALLE

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Cavargna è un comune della provincia di Como ed è il più alto comune della provincia.
Il territorio di Cavargna è attraversato dal fiume Cuccio.
Il Cuccio nasce dal Pizzo di Gino, nel comune di San Nazzaro Val Cavargna e scorre in direzione nord-sud nella Val Cavargna, sfociando nel lago di Lugano a Porlezza. Attraversa i comuni di San Nazzaro Val Cavargna, Cavargna, San Bartolomeo Val Cavargna, Cusino, Carlazzo, Corrido e Porlezza. Particolarmente scenografico l'orrido che si estende fra l'abitato di Carlazzo e di Corrido e che è pienamente godibile dal Ponte del Saltone sulla strada carrozzabile che unisce le due località. Violentissima e particolarmente distruttiva fu l'alluvione che nel 1911 colpì la zona e il conseguente straripamento del Cuccio che provocò la distruzione del Mulino Mambretti (ricostruito nel 1912) e danni ingentissimi a Porlezza.
La portata del Cuccio è sfruttata a fini idroelettrici dall'impianto di San Pietro Sovera.

Secondo una statistica del Centro Studi Sintesi di Mestre, che ogni anno stila una classifica in base alla "ricchezza" dei comuni italiani in base al reddito, Cavargna è risultato il paese più povero d'Italia nel 2006, con un reddito medio pro capite di circa 2.000 Euro. Questo però non è dovuto alla povertà del paese, ma al fatto che, essendo al confine con la Svizzera, la quasi totalità degli abitanti lavora in territorio elvetico e lì paga le tasse.

La Val Cavargna, sita nel territorio delle Alpi Lepontine, dista solo 50 chilometri da Como e si colloca tra il Lago di Como e il Lago di Lugano (tra Menaggio e Porlezza), da 600 m sopra il livello del mare. Il suo territorio, confinante con le valli Rezzo e Sanagra, si estende su un intervallo altitudinale di oltre 1500 m. La valle si imbocca presso una svolta, in località “Ponte di Pino” (Carlazzo), raggiungibile salendo da Menaggio o venendo dalla Svizzera (Lugano).
In questa ampia vallata sono dislocati quattro piccoli comuni composti complessivamente da meno di 2300 abitanti; lungo la strada che giunge a Vegna (frazione di Cavargna) incontriamo in ordine: Cusino (800 m), San Bartolomeo (850 m), San Nazzaro (995 m) e Cavargna (1070 m); tutti centri dispersi lungo l’asse vallivo del Cuccio. La zona, attorniata da splendide montagne che conferiscono al paesaggio un aspetto aspro e selvaggio, rievoca nella mente dei visitatori immagini del passato.
L’asperità dell’ambiente e le difficili, se non inesistenti vie di comunicazione, (soprattutto nella stagione invernale), nei tempi passati, hanno fatto della valle, un luogo chiuso in se stesso ma altrettanto ricco di tradizioni e di costumi così cari agli abitanti.
Qui, infatti, durante alcune feste popolari, si può ancora respirare un’aria tutta antica e unica difficilmente riscontrabile in altre località. La valle, comunque, e in particolare il Passo S. Lucio, fu un’importante via di comunicazione nel corso dei secoli già a partire dall’epoca romana, in quanto è possibile spostarsi lungo il crinale che giunge al passo S. Jorio e da qui scendere fino a Musso e a Dongo.
Allo stato attuale nessuno storico e nessun reperto ricorda la Val Cavargna e i suoi antichi visitatori. Resti neolitici trovati in Valsolda e in Val Menaggio prospettano comunque la presenza dell'uomo in questa zona già da migliaia di anni. E' interessante notare come il nome Cavargna abbia una base linguistica antecedente l'ario-europeo: cab o gab col suffisso forse ligure arn, nel totale Cabarnus, Cabarnia che identifica una località preromana situata presso un passo montano. Si puo' quindi pensare che nella nostra valle esistesse qualche insediamento pre-romano di popolazioni celto-galliche e che uno di questi fosse con ogni probabilità il passo di San Lucio, già allora usato come valico. Alcuni reperti di età preromana sono stati inoltre ritrovati a Cima di Porlezza (monete d'argento di età gallica e scritte in caratteri nord-etruschi).
Nel 196 a.C. i Romani conquistarono la Gallia Cisalpina Transpadana e nel 42 a. C. Giulio Cesare concesse la cittadinanza romana alle sue popolazioni. Una tradizione afferma che all'epoca della conquista romana le nostre zone fossero abitate dai celti Gauni, fondatori di Lugano.
Le valli entrarono quindi a far parte dell'Impero Romano e ne seguirono le vidende. A quei tempi la gestione amministrativa della Val Cavargna era affidata al pagus di Porlezza, centro amministrativo e religioso (prima pagano e poi cristiano verso la fine del secolo V). Con la fine dell'Impero Romano d'Occidente (476 d. C.) le nostre zone furono dominate dai regni romano-barbarici (prima gli Eruli, poi gli Ostrogoti ed infine i Longobardi). L'isolamento ha molto probabilmente preservato la nostra valle dalle scorrerie barbariche principali.

Nel caos amministrativo dovuto alla caduta dell'impero di Roma, anche nella zona prese sempre piu' importanza la pieve ecclesiastica. Queste istituzioni religiose dal punto di vista geografico ricalcavano i pagi, nacque quindi nella seconda metà del quinto secolo la pieve di Porlezza. Essa faceva parte della diocesi di Milano e comprendeva approssimativamente le località di Porlezza, Osteno, Claino, Carlazzo, Corrido, Buggiolo e la Val Cavargna.
Nel 951 nacque la corte di Porlezza, i cui confini erano praticamente gli stessi della pieve ecclesiastica. La corte - che comprendeva i diritti sui boschi, sui prati e sulla pesca - appartenne al Monastero del Senatore di Pavia fino alla prima metà del secolo XII e poi a quello Maggiore di Milano fino al 1210, quando fu venduto a tale Albero de Domo di Varenna. Divenne infine un dominio dell'arcivescovo di Milano e poi della famiglia Visconti nei secoli XIII-XIV.

Nei primi secoli dopo il Mille all'aspetto religioso della pieve ecclesiastica e a quello feudale della corte si affiancò anche quello amministrativo della pieve civile. Più precisamente si utilizzò la struttura pievana per la riscossione delle tasse, Porlezza divenne così anche il centro amministrativo della zona. E' noto che nel secolo XII la pieve di Porlezza apparteneva al contado di Lecco e tra le sue località é nominata Cavarnia. Questo é probabilmente il primo sicuro riferimento storico ad un luogo della Val Cavargna giunto ai nostri giorni. Nel periodo comprendente il XIII-XIV secolo la pieve fu un dominio dell'arcivescovo di Milano e poi della famiglia Visconti, allo stesso modo della corte. Nel 1395 entrambe entrarono a far parte del ducato di Milano.
Per quanto riguarda la pieve ecclesiastica soltanto verso la fine del XII secolo troviamo un elenco preciso delle località con chiese: tra di esse vi sono Cavargna, San Bartolomeo, San Nazzaro (col vecchio nome Burena), ma non Cusino.
Durante il XIII secolo nell'Italia Settentrionale si fa sempre piu' importante la venerazione di San Lucio di Cavargna. Nel 1280 era infatti già venerato nella collegiata di Lugano ed é noto che nel secolo XV affluivano al santuario sul passo omonimo pellegrini provenienti anche da terre lontane come il Pavese.

Col concilio di Trento (1545-1563) furono istituite le parrocchie, che sostituirono le pievi ecclesiastiche. In questo periodo nacquero quindi anche le parrocchie della Val Cavargna.

Dal punto di vista dei possedimenti terreni la corte di Porlezza scompari' per dar vita ad un nuovo elemento - sempre appartenente al ducato di Milano - : il feudo di Porlezza. Esso nacque nel 1470 ed era costituito dalle terre di Tavordo, Piano, Corrido, Carlazzo, Gottro, Cusino, San Nazzaro e Cavargna. In seguito apparirà nell'elenco dei suoi domini anche San Bartolomeo.
Per quel che riguarda le condizioni di vita dei valligiani esse erano molto arretrate, il lavoro infatti scarseggiava e gli uomini erano costretti ad emigrare per guadagnarsi da vivere come magnani, stagnando pentole e tegami nei borghi della Brianza e nel Bergamasco. Questi artigiani già all’età di dodici anni erano in grado di lavorare e insieme a qualche anziano partivano per diversi mesi all’anno portandosi dietro gli indispensabili attrezzi.
Ma la povertà a volte spinge anche a diventare banditi e pirati, é quanto accadde nel XVI secolo quando alcuni abitanti della valle, spinti dalle disagevoli condizioni di vita, calarono sul lago di Como seminando terrore con atti pirateschi e saccheggiando numerose ville. Furono infine sconfitti ad Asso nel 1591 e sommariamente giustiziati a Milano.
Nel 1552 il feudo divenne dominio della famiglia estense che lo possedette fino alla sua fine (1752).
La pieve civile di Porlezza continuò invece la sua attività tributaria fino al 1785, anno in cui Giuseppe II d'Austria soppresse questa istituzione. Nel 1814 si suddivisero le nostre terre in Comuni. Nacquero cosi' i quattro comuni della Val Cavargna: Cavargna, Cusino, San Bartolomeo e San Nazzaro.
Nel 1859 la valle entro' a far parte della nazione italiana con tutta la Lombardia e comincio' a seguirne le vicende che la contraddistinsero. Come nel resto d'Italia, anche in Val Cavargna - durante i decenni a cavallo del 1900 - l'emigrazione portò tante famiglie valligiane a spostarsi all'estero (principalmente in Francia) per cercare lavoro e standard di vita migliori. Nello stesso periodo si sviluppo' la pratica del contrabbando delle merci con la vicina Svizzera.
Per contrastare questo fenomeno, lo Stato Italiano costrui' svariate caserme sul confine italo-elvetico al fine di controllare piu' saldamente il territorio e prevenire gli spostamenti dei contrabbandieri, piu' precisamente in Val Cavargna furono costruite due caserme-rifugio al passo di San Lucio e sotto la cima del monte Garzirola.
Nel 1948 iniziarono i lavori per collegare con una strada carrozzabile i quattro comuni della Val Cavargna al fondovalle: l'isolamento era finito. La vicinanza con la Svizzera portò e porta ancora molta ricchezza agli abitanti della valle, in gran parte lavoratori frontalieri. Questo fatto ha portato la Val Cavargna a non avere un proprio sviluppo di tipo industriale o turistico, ma anche a mantenere intatte molte sue bellezze naturali.
Per fermare nel tempo le testimonianze di un passato, raccogliendo ed analizzando tradizioni, usi e costumi della Val Cavargna, è sorto nel 1982, il "Museo della Valle", fondato da Don Federico Scanziani, compianto parroco di Cavargna dal 1957 al 2004, dove gli oggetti raccolti con paziente opera di ricerca, sono stati collocati, ricostruendo il loro originario contesto ambientale:"Non una semplice raccolta di cose, ma come rivivere la propria storia, soprattutto attraverso il lavoro dell'uomo".

Un museo di tipo etnografico voluto, non come una semplice raccolta di oggetti, da conservare ed esporre, ma per testimoniare le manifestazioni di una popolazione portatrice e custode delle tradizioni e della cultura storica locale.
Dopo un'introduzione storico-geografica della Val Cavargna, l'esposizione museale presenta i vari settori: il lavoro dei magnani, del contadino allevatore, della donna, del boscaiolo, il fenomeno del contrabbando, le testimonianze delle antiche attività minerarie e siderurgiche, della religiosità popolare e della devozione a San Lucio, patrono degli alpigiani e dei casari, presso l'oratorio montano a lui dedicato, il costume tradizionale.
Stagnini, calderai, ramai, magnani sono le diverse denominazioni di questi ambulanti spesso emigranti stagionali, che lavoravano il rame, riparando recipienti per uso domestico, rivestendone la superficie interna con un sottile strato di stagno, o rappezzando buchi, o livellando ammaccature.
In Val Cavargna l'attività del magnano era diffusissima, fino a pochi decenni fa nei paesi di S. Nazzaro, di Cavargna e della sua frazione Vegna.
Il fenomeno ormai decaduto ha lasciato tracce e ricordi notevoli, nonché un gergo particolare il rungin.
I magnani uscivano dalla valle e andavano girando per i paesi del Bergamasco, della Brianza e del Lodigiano, ma anche più oltre.
Il bagaglio di strumenti che portavano appresso era contenuto nella trida, una cassetta di legno, munita di coperchio e di una cinghia per poterla portare a spalla e comprendeva il martello per battere le lastre di rame, la mazzuola per togliere le ammaccature, le forbici per tagliare la lamiera, la ciodera, un attrezzo di ferro con buchi di diverso diametro, usato per confezionare i chiodi ricavati da pezzetti di rame, l'incudinella, piccola incudine d'acciaio fissata su un pezzo di legno, appoggiata per terra era tenuta tra le ginocchia, il polso, attrezzo di ferro, vagamente a forma di fungo, per ribattere i chiodi, la tenaglia, per mettere o togliere dal fuoco l'oggetto da riparare, il mantice, per ravvivare il fuoco necessario alle operazioni di saldatura e di stagnatura, oltre allo stagno, all'acido muriatico, all'ovatta e così via.
Il "Museo della Valle" non raccoglie solo gli attrezzi e le testimonianze del contadino allevatore, del magnano, degli addetti ai lavori tradizionali della Val Cavargna, ma espone anche i reperti e le testimonianze della religiosità popolare, che raccoglie arredi liturgici e oggetti sacri, provenienti dalla vecchia chiesa parrocchiale di San Lorenzo M. di Cavargna e una serie di posters fotografici dei dipinti murali ad affresco recentemente restaurati dell'oratorio montano di San Lucio, posto a 1500 mt. s.l.m.
L'abito femminile sul finire dell'Ottocento, a S. Bartolomeo, si presentava secondo il seguente ordine: sulla pelle la camicia di cotone, o di canapa bianca grezza, che si portava di giorno e di notte, con manica a tre quarti, scollo quadrato, rifinito con pizzo all'uncinetto di cotone bianco.
In genere le donne possedevano due vestiti: uno per tutti i giorni e uno per la festa.
Quello per tutti i giorni era composto da una gonna arricciata in vita, lunga fino alla caviglia, a volte sostenuta da bretelle incrociate sulla schiena e pettorina davanti ed era indossata sulla camicia descritta prima.
La gonna, di canapa o di lana grezza dai colori scuri era rifinita per 20 o 30 centimetri da una stoffa di colore contrastante, con motivi floreali o rappresentanti dei frutti, definita gonna orlata.
Questo tipo di confezione consentiva di poter cambiare solo l'orlo consumato o di allungarla per le giovani in crescita.
Il vestito era poi completato da un grembiule, arricciato, di cotone a colori scuri, con una fettuccia in vita per legarlo sul davanti, senza tasche.

Il vestito della festa verso la fine dell'Ottocento comprendeva una gonna arricciata in vita, di colore nero, che per andare in chiesa veniva completata con una giacchetta, detta corsetto, abbottonata davanti con maniche lunghe e spalle arricciate.
Dopo alcune modifiche, la gonna viene attaccata al corsetto, divenendo un abito.
Sulle spalle un piccolo scialle di cotone nero lavorato all'uncinetto, con motivo finale di colore contrastante, rosso, rosa, viola, azzurro, con alte frange ancora di colore nero.
D'inverno lo scialle poteva essere anche di lana. In testa le donne portavano il foulard, di tipo diverso secondo l'impiego, per la festa o per il lavoro nei campi.
Si portavano calze di lana di pecora, lunghe fin sopra il ginocchio, di colore nero con la soletta di lana bianca attaccata alla calza, per permettere un facile ricambio.
Ai piedi zoccoli di legno: il corpo di legno di tiglio o acero, con due alette di cuoio legate con fettuccia nera o rossa, quelli d'inverno erano costellati di punte di ferro, per non scivolare sulla neve e sul ghiaccio.

L'abito maschile era molto più semplice, senza molti cambiamenti nel tempo. Anche gli uomini possedevano due abiti: uno da lavoro e uno della festa.

Sulla pelle la camicia bianca, di canapa, successivamente di cotone, manica a tre quarti, scollo quadrato.
Il gilet era indossato sempre, anche durante il lavoro nei campi: era di lana molto grezza, il dorso di canapa.
I pantaloni erano lunghi fino alla caviglia per la festa, più corti e legati al ginocchio per il lavoro.
La giacca era corta, sempre di lana grezza, tipo panno, completata per la festa da una camicia bianca con il collo appena accennato e chiusa da un nastrino, tipo cravatta.
Durante il lavoro nei campi gli uomini portavano al collo un fazzoletto per il sudore ed in testa cappelli di paglia.

Il Sentiero delle quattro valli è lungo complessivamente 45 Km ed è diviso in tre tratti che richiedono un totale di percorrenza di circa 20 ore. La prima tappa del sentiero si snoda tra il Parco della Val Sanagra e l’agglomerato montano di Oggia, sito nel comune di San Bartolomeo Val Cavargna.Il collegamento fondamentale tra queste località si trova a Malè (anche nota come Lugone) (1114 metri), in territorio di Cusino, poco oltre l’Alpe Logone (1184 metri).

La collocazione strategica di Malè e la rilevanza naturalistico-ambientale del luogo hanno spinto il comune di Cusino a dotare l’area di opportuni bivacchi per l’escursionista che voglia affrontare il percorso senza necessariamente dipendere dai paesi a valle. Per questi motivi sono stati attrezzati due “roccoli”, aree di sosta utilizzata dagli abitanti a scopo ricreativo in occasione di feste e ricorrenze, un tempo utilizzata dai cacciatori come postazione di sosta per sorprendere i volatili e per questo circondata da grossi esemplari di faggio. Persa l’originale funzione, il roccolo più grande, collocato ai piedi del Motter dove sorge la Chiesetta della Madonna della Salute, è stato attrezzato con panche, tavoli, barbecue, fontana e servizio igienico, diventati utili per il turista che vuole sostare anche solo per una breve pausa in piena armonia con l’ambiente naturale.

Il paesaggio e l’ambiente naturale offerti dai monti di Cusino sono davvero notevoli; di fronte si scorge il contrasto geomorfologico tra le aspre bastionate dolomitiche del Monte Pidaggia e i dolci pascoli di Malè, le dense faggete con alberi di dimensioni ragguardevoli e la veste rurale del paesaggio.
Un altro elemento di rilevanza del territorio di Malè è la presenza di 4 "nevere": particolari costruzioni che fungevano da luoghi per conservare e mantenere gli alimenti; all’interno veniva deposta la neve che creava un microclima adeguato allo scopo. Sono spesso costruite in prossimità degli alpeggi così da poter tenere al fresco i prodotti derivati dal latte. Le nevere dovevano essere quasi completamente infossate nel terreno, con l’eccezione della piccola porta d’accesso, unica parte emergente, così da poter mantenere le loro basse temperature. Per osservare queste curiose strutture bisogna recarsi immediatamente a monte e a valle della Locanda Maria o nei pressi della Valle di Mesino (loc. Alpetto) in territorio di Carlazzo.

Un luogo molto interessante e sicuramente da visitare della Val Cavargna è la miniera di Mezzano, situata nell'omonima località a nord del paese di San Bartolomeo.
La miniera è stata attivata nel lontano 1786 con concessione al Polastri e ai dei Fratelli Campioni l'anno seguente. Da un punto di vista mineralogico la qualità del minerale rinvenibile è di scaglia, accompagnato da presenza di marchesetta e di rame.

Dall'imbocco della miniera, sistemato recentemente con le stesse tecniche del passato, è possibile accedere all'interno della miniera entrando nella galleria principale, lunga circa 120 metri, dalla quale si ramifica una serie di piccole gallerie scavate seguendo i diversi filoni del minerale che veniva estratto.
A valle del sentiero che porta all'ingresso è ancora esistente una reglana, una fornace all’aperto, con muro in sasso a secco a forma circolare, del diametro di metri 3,70.

L’oratorio montano, posto sul valico omonimo che collega la Val Cavargna con l’elvetica Val Colla, a 1500 metri d’altitudine, risalente al XIII, XIV secolo, almeno nella parte più antica, è dedicato a San Lucio (fino al 1613 conosciuto come San Luguzzone, S. Uguzzo, Sant’Uguccione).
Il sacro edificio ricorda nella sua struttura le costruzioni sorte sui valichi alpini per l’assistenza ai viandanti, poi trasformate in ospizio come al San Gottardo, al gran San Bernardo, al Sempione. La sua dimensione, la presenza di un portico per accogliere e riparare i viandanti, la tipologia architettonica, i materiali utilizzati riportano ai tempi in cui le comunicazioni avvenivano lungo semplici mulattiere.

La chiesa dedicata a San Lucio è nominata per la prima volta in un documento del 1358.
Le volte della prima campata (presso la porta d’ingresso principale) sono dedicate ad episodi della Vita di San Lucio, con al centro un Padre Eterno benedicente che regge il globo nella sinistra. La vela est presenta San Lucio che distribuisce formaggio ai poveri in ginocchio ai suoi fianchi e nella parte in basso della vela in piccolo è raffigurata una persona inseguita da un orso, nell’atto di rivolgersi al Santo protettore che lo salva e al quale riconoscente offre il dipinto, quale ex voto. La vela sud presenta l’incontro di San Lucio con un povero vecchio, in un ampio contesto paesaggistico, con mucche al pascolo e case di paese. La vela nord presenta solo un crocifisso, il resto del dipinto è scomparso. La vela ovest presenta San Lucio al centro nella tipica posizione dell’orante con le braccia alzate al cielo, fra due santi martiri in vesti di diacono, a sinistra San Lorenzo (patrono di Cavargna), a destra Santo Stefano, o San Vincenzo, un martire tra i martiri. Dipinti ritenuti del Cinquecento.

La Parrocchiale di San Lorenzo Martire (Cavargna) è posta nella zona alta del paese, in prossimità di un'antica torre campanaria alla quale si allaccia inquadrandola in un unico disegno con il sagrato. E' costruzione recente sorta negli anni '60 sulla area della antica parrocchiale il cui impianto originale risalirebbe al 1200. Voluta dall'attuale parroco, vede la posa della prima pietra il 7 ottobre 1967 e la solenne consacrazione il 17 agosto 1969 da parte del Cardinale Giovanni Colombo. Nel suo interno oltre ad un'artistica Via Crucis in maiolica, sono conservati una statua lignea settecentesca ed un dipinto ad olio su lastra di rame del XVI secolo raffiguranti S. Lucio, entrambi provenienti dall'omonimo oratorio montano.

L'Oratorio di Sant'Antonio (Cavargna) è l'oratorio della frazione di Vegna, in località "Dosso". Si ignora la data di costruzione; di certo esisteva già prima del 1600. E' stato rifatto a nuovo con radicali mutamenti nel secolo scorso ed ha un solo altare dedicato a S. Antonio di Padova.

Il Santo Crocifisso (Cavargna) è una piccola costruzione all'ingresso del cimitero con elegante campaniletto in pietra, eretta nel 1919 per onorare la memoria dei Caduti. recentemente restaurata, conserva nel suo interno un altare dedicato al Santo Crocifisso, in legno lavorato.

La Parrocchiale della Natività di San Giovanni Battista (Cusino) ha una sola navata con cappelle laterali, posta nel centro del paese e del quale si hanno notizie storiche già dal 1300. Nel secolo XVI la chiesa, originariamente dedicata a San Giacomo, fu completamente ristrutturata incorporando ad essa l'adiacente chiesetta di S. Giovanni Battista. Nella chiesa è presente una pregevole raffigurazione del Battista. Fra il 1606 ed il 1640 fu parzialmente demolita e ricostruita, conservando il massiccio campanile tardoromanico sul quale era ubicato un grande affresco raffigurante S. Cristoforo con il Bambino sulla spalla. Recentemente questo dipinto è stato strappato e portato all'interno della chiesa assieme ad altri dipinti dei secoli XIV e XVI, regalati da privati cittadini di Cusino La recente stilatura dei conci, ha cancellato la sinopia dell'affresco di San Cristoforo.

La chiesa di Sant'Ambrogio, edificio monoabsidale, è posta su un dosso nei pressi della strada provinciale da Carlazzo a Cusino. Oratorio d'origine altomedioevale rimaneggiato nei secoli XVI e XIX. Dell'epoca romanica rimangono solo un tratto di navata, le lesene di mezzo, una colonna in marmo di Musso ed un'acquasantiera, mentre un altorilievo in pietra col volto di Cristo, databile tra l'XI ed il XII secolo è incastonato sulla facciata.

L'Oratorio di Maria Ausiliatrice (Cusino) è della Confraternita del SS. Sacramento, iniziato nel 1883 ed ultimato nel 1890. E' oggetto di speciale devozione da parte dei fedeli di Cusino.

La chiesa di Nostra Signora della Salute (Cusino) si trova a 1200 metri s.l.m. in località Logone in posizione amenissima e dalla quale si gode un panorama incantevole. Fu costruito nel 1906 al servizio della popolazione che in quella località passava buona parte dell'anno per il pascolo del bestiame. Nel suo interno è venerata una bella statua della Vergine della Salute.

Verso la fine del XIII secolo esisteva già una chiesetta dedicata a San Bartolomeo. Altre scarne notizie sulla sua esistenza sono documentate nel 1455 e nel 1567. Era una chiesa irregolare nel suo impianto architettonico con battistero, cimitero e campanile. Non esiste l'atto di fondazione di questa comunità ecclesiale, le deduzioni portano ad una data che si può ritenere probabile: 1552.
Nel 1909 la vecchia parrocchiale fu demolita, tranne la facciata poi incorporata nella nuova costruzione ad una sola navata, di quasi 800 mq. Sorge su un poggio che si affaccia sulla valle. Davanti si snoda una scalinata, di 70 gradini a riquadro, che immette al portone centrale, ai lati i muraglioni sostengono il sagrato. Fu terminata e consacrata il 13 luglio 1938 dal cardinale Schuster. L'epigrafe della lapide di marmo bianco, si trova murata all'interno.
Ha tre altari: il maggiore, della Beata Vergine della Cintura e di S. Antonio da Padova. In quest'ultimo sono conservate due statue lignee del XVII secolo di S. Rocco e di S. Sebastiano. All'interno ornano le pareti cinque affreschi strappati da abitazioni del paese: a sinistra, entrando, spicca un trittico quattrocentesco co al centro la Madonna in trono e il Bambino con a sinistra S. Giovanni Battista e a destra S. Rocco. Sulla parete di fronte S. Antonio da Padova inginocchiata che riceve il Bambino Gesù, ai piedi della Vergine i donatori (secolo diciassettesimo). Esposta accanto al presbiterio, a destra di chi guarda l'altare maggiore, si trova la tela "La Sacra Famiglia con S. Carlo" del 1633. Sul lato opposto della chiesa è ubicato un quadro raffigurante S. Antonio da Padova con i santi Stefano e Giacomo Apostolo, del pittore Antonius Clodensis del 1652. Recenti sono le due vetrate dell'abside e quella che campeggia sulla facciata della chiesa, opere del pittore Eugenio Rossi. Accanto alla parrocchiale si erge il campanile, arieggiante lo stile romanico, in cui è infissa una lapide recante la data 18 agosto 1626 che potrebbe indicare il termine della costruzione.

Le notizie più antiche dell'oratorio di S. Margherita risalgono all'inizio del '600. il decreto del Cardinale Federico Borromeo, emanato nel 1606, lo denota già vecchio di parecchie decine di anni. Nel 1640 riutilizzando il materiale della demolizione, fu ricostruito e due anni dopo doveva essere terminato. Lo si può dedurre dalla tela del 1642 che tuttora fa da pala all'altare. Il quadro di notevoli dimensioni, denota una certa tipologia artigianale dell'autore. A fianco due tele raffiguranti S. Pietro e S. Paolo.

La chiesetta di San Rocco a San Bortolomeo, lunga circa 10 metri, monoabsidale, coperta da una volta a botte, è la più antica del paese; s'ignora l'epoca precisa della costruzione. Nel catino dell'abside affrescato, spicca Gesù seduto in atto benedicente, mentre nei due spicchi laterali fanno capolino teste di angeli del sedicesimo secolo. Sulla parete semicircolare dell'abside si notano due riquadri: quello centrale è forse del '500; le figure di quello a sinistra potrebbero essere attribuite alla fine del quattordicesimo e inizio quindicesimo secolo. E' in parte decifrabile un graffito che ci tramanda una data sicura: anno 1586. A destra guardando il presbiterio, sulla lesena che separa quest'ultima dall'abside, è ben conservato un dipinto rievocante un episodio della vita di S. Eligio; dopo i restauri è riaffiorata una data: anno 1520.

La Chiesa di Maria Ausiliatrice (San Bartolomeo) fu costruita nel 1948 è una chiesetta a capanna, con abside semicircolare, finestre goticheggianti; è posta ai piedi dell'abitato di Oggia su un accentuato pendio e domina la valle con la sua facciata. Nell'abside dell'oratorio è collocata la statua della Madonna.

La chiesetta, dedicata a Maria Regina dei Monti, é stata costruita sopra Rus di Vora, da essa é possibile ammirare tutta la Val Cavargna da San Lucio fino a Lugone.

Verso la fine del 1200 risulta dedicata a S. Nazzaro la chiesa del villaggio di San Nazaro. Probabilmente è la stessa di cui si parla nei documenti del 1455 e del 1467. Nell'anno 1582 la rettoria dei santi Nazzaro e Celso fu eretta a parrocchia. Dell'antica chiesetta più nulla rimane di originale dopo l'ampliamento del 1908. Il 20 agosto dello stesso anno fu consacrata dal Cardinale Andrea Carlo Ferrari, ricordato da una lapide in marmo bianco murata sulla facciata esterna. Esistono tre altari: il maggiore, in marmo, di stile barocco; di S. Rocco; della Beata Vergine del S. Rosario. Questa cappella è l'unica in tutto l'edificio religioso a conservare l'apparato di decorazione in stucco del 1600, in quanto le numerose trasformazioni, ampliamenti e consolidamenti subiti dalla chiesa hanno portato alla completa perdita della decorazione della cappella dedicata a S. Rocco e della zona absidale. I quadri di S. Francesco d'Assisi e di S. Carlo Borromeo sono stati dipinti da Leopoldo Carelli. Alle pareti sono esposte le tele della Via Crucis del 1700 di scuola popolare. Solo il campanile, in pietra locale a vista, conserva tracce di finestre bifore romaniche: una di esse è completa di capitello a gruccia in tufo e di colonnina, l'altra sostituita da una pietra posta di taglio; vi si notano, pure murati, avanzi di archetti che richiamano le caratteristiche dell'arte romanica. La moderna facciata si sarebbe molto bene intonata al vecchio campanile grazie alle pietre locali lasciate a vista, ma i vari interventi di conservazione eseguiti nel tempo hanno riquadrato il frontale con due lesene di pietra squadrate e levigate.

L'Oratorio di San Antonio Abate (San Nazzaro) fu costruito nel 1500, si trova lungo la strada che porta alla frazione di Rovolè e Crevegno. La facciata, rivolta verso la valle, reca l'occhio sotto il tetto a capanna, la porta al centro e due finestrelle rettangolari ai lati. Un tempo era decorata con dipinti ora illeggibili. Sopra la facciata un piccolo campanile reca una campanella. All'interno il pavimento è di pietre squadrate, il soffitto in travetti e cotechette senza alcun quadro ne dipinto. Ha un'aula di circa otto metri per quattro, un minuscolo presbiterio munito di balaustra di granito e un altare in muratura.

La chiesa di San Giovanni Battista (San Nazzaro), quattro metri per tre metri, la fanno assomigliare più a una cappella che a una chiesetta. Anch'essa è molto antica (1600). Un piccolo portico protegge l'ingresso, l'interno presenta un altare di legno che ha per pala un affresco raffigurante S. Giovanni Battista nell'atto di battezzare Gesù (1600), completano un soffitto a volta, un pavimento di piastrelle comuni e una finestra a destra dell'altare.

La chiesa della Madonna di Caravaggio (San Nazzaro - località Grumia) fu costruita nel 1908, si trova a cinque chilometri dalla parrocchiale. Si tratta di un'unica aula di undici metri per sei metri con tetto a capanna, altare sormontato da nicchia e sacrestia sulla destra; la facciata ha il rosone e la porta a sesto acuto sopra i quali stanno archetti a tutto sesto: ad imitazione dello stile lombardo-gotico.

La componente floristica della Val Cavargna è suddivisibile in due tipi distinti: quella che insiste sul calcare e quindi nella zona del Sasso di Cusino, Monte Pidaggia e Sassi della Porta, e l’altra, la parte restante e preponderante, che crescendo sulla silice è presente nel resto della valle. Fra le specie del calcare si segnala la presenza dell’Astro bellissimo (Telekia speciosissima), che si può ammirare anche al bordo della Strada Provinciale che sale da Carlazzo. Sul Monte Pidaggia fiorisce la bellissima Primula di Lombardia (Primula glaucescens), endemismo lombardo. Questa specie viene sostituita ai Sassi della Porta dall’altrettanto appariscente Primula orecchie d’orso (Primula auricula).
Tra le specie più rare della flora calcarea del lago di Como merita attenzione la presenza, sul Sasso di Cusino, della Campanula dell’Arciduca Raineri (Campanula raineri), accompagnata, sempre nella stessa zona dal Cardo dentellato (Cardus defloratus), dall’endemica Aquilegia di Einsele (Aquilegia einseleana) e dalla bellissima Genziana alata (Genziana utricolosa). Inoltrandosi nella valle tra Carlazzo e Cusino sui tornanti iniziali si possono scorgere i delicati batuffoli delle Vedovelle celesti (Globularia cordifolia), mentre caratteristica è la presenza dell’Orchidea fior di legna (Limodorum abortivum) che cresce nei pressi della chiesa di Sant’Ambrogio.

Per ammirare le piante che prosperano sulla silice, bisogna recarsi sul Pizzo di Gino, il punto più ricco di fiori della zona. Le bastionate rocciose di questo aspro monte offrono nicchie al coreografico Astro alpino (Aster alpinus) e ai candidi cuscinetti della rara Androsace Vandelli (Androsacetum Vandelli), diffusa anche nei pressi dell’Alpe di Aigua. Il periodo consigliato per osservare la flora del Pizzo di Gino sono i mesi di maggio, giugno e luglio che accolgono l’escursionista con un effetto cromatico, dato dalla miriade di fioriture, di impagabile bellezza.

In prossimità della vetta sono presenti essenze pregiate e rare; un esempio è il Ranuncolo glaciale (Ranunculus glacialis), specie di elevata altitudine e qui rarissima  a causa delle quote modeste e dell’esposizione meridionale. Questa pianta era stata segnalata sul Pizzo di Gino nel 1952 da botanici elvetici ed è stata riscoperta nella primavera del 2007 con rari individui anche in Garzirola e sul Camoghè. Sempre in zona sono stati rinvenuti una decina di cuscinetti dell’ Androsace di Vandelli (Androsace vandelli) e dell’Androsace orobica (Androsace brevis), quest’ultima fra le più rare d’Italia, altresì presente ed in modo ancora più limitato sulla vetta del Monte Garzirola. La praterie silicee della valle permettono di ammirare numerose genziane; tra cui la bella Genziana ramosa (Gentiana ramosa), la comunissima Genziana di Koch (Gentiana Kocchiana) e la sua rarissima parente, la Genziana acaule (Gentiana alpina), presente in Garzirola, sulla Cima Verta e alle falde del Pizzo di Gino, unici luoghi ove cresce in Italia.

Osservando con attenzione alcune praterie di media altezza, come quelle che rivestono la località “Croce di Campo”, è possibile individuare la meravigliosa orchidea, la Nigritella comune (Nigritella nigra), dall’incredibile e persistente profumo, intenso e dolcissimo. Nei pascoli più variegati, da 1600-1800 m, è facile distinguere i capolini bianchi dell’Erba iva, nota al volgo come Camomilla di montagna (Achillea moscata) o Genepi bianco.

Onnipresenti nei mesi primaverili sono i rosei cuscinetti della Primula irsuta (Primula hirsuta), che abbondano sulle rocce soprastanti la località "Montagliò" posta a cavallo tra i comuni di San Bartolomeo e Cusino.
Sempre sul Pizzo di Gino vanno ricordate le bellissime fioriture del raro Senecione biancheggiante (Senecio incanus) e, rimanendo alle alte quote e in pascoli sassosi, si possono scorgere i cuscinetti “punteggiati” dai fiorellini rosa della Silene acaule (Silene acaulis). Gli escursionisti più fortunati possono scoprire la rara Dafne rosea (Daphne striata) e il bellissimo Sempiterno di montagna (Antennaria dioica) che “decorano” con le loro fioriture i margini delle pietre. In prossimità delle sorgenti montane si può ammirare una delle stranezze vegetali più insolite della valle, infatti, al bordo dei rigagnoli, cresce una pianta carnivora nota come Erba Unta Alpina (Pinguicola Alpina), capace di catturare e digerire piccoli insetti.

Fra la variegata vegetazione boschiva della valle un posto di rilievo lo occupa sicuramente il castagno (Castanea sativa), di cui si segnala la presenza di alcune varietà da frutto, una volta più diffuse di adesso e che provengono da innesti effettuati in passato. Le varietà individuate sono il Mariòcc, la Lùina (in assoluto la migliore), l’Orena e la Viapiana.
La Pinca, infine, è la vera primizia fra i castagni da frutto di San Bartolomeo Val Cavargna, probabilmente importata dal Piemonte dai magnani che si recavano per praticare il mestiere di stagnino. Questa varietà costituì una preziosa fonte di sostentamento per la popolazione, un tempo estremamente povera, che veniva essiccata nelle "gra", tradizionali essiccatoi a due piani. Nel piano inferiore ardeva un lento fuoco che, sprigionando un fumo denso, raggiungeva il piano superiore dove le castagne erano sistemate su sottili aste tra loro distanziate. Le castagne venivano così conservate per l’inverno o ridotte in farina utilizzata per la preparazione di polente o come ulteriore ingrediente per la panificazione. Proprio alla varietà Pinca appartengono la "Popessa", maestoso esemplare di castagno nel comune di San Bartolomeo (località Vraghez), seconda solo per dimensioni al grande esemplare che cresce sopra Cusino nei pressi di Lugone.
Tra le altre specie arboree della Val Cavargna, ricca di boschi estesi e intricati, si segnala il raro abete bianco (Abies alba), sporadicamente diffuso alle pendici del Monte Pizzone.

La presenza delle piante legnose permette la crescita e la riproduzione di numerose specie di funghi, molto frequenti nelle faggete e nei boschi di abete rosso. Il fungo più caratteristico e ricercato della valle è una specie lignicola chiamato localmente "Barbuscion" (Grifola frondosa) che cresce sui tronchi, sui ceppi e lungo le radici del castagno.

La fauna in Val Cavargna è ben rappresentata, tra le specie più significative si segnala la presenza del Cervo (Cervus elaphus), del Capriolo (Capreolus capreolus), del Camoscio alpino (Rupicapra rupicapra) e del Cinghiale (Sus scrofa). Altri animali diffusi sono la Volpe (Vulpes vulpes), la Lepre bianca (Lepus timidus), la Lepre comune (Lepus europaeus) e la Marmotta (Marmota marmota). Nei dintorni del Pizzo di Gino si segnala la presenza dell’Ermellino (Mustela erminea), ormai sempre più raro in questi monti.
Tra i volatili è presente la maestosa Aquila reale (Aquila chrysaetos), il Falco pecchiaiolo (Pernis apivorus), il Gheppio (Falco tinnunculus), la Poiana (Accipiter nisus), il Picchio nero (Dryocopus martius), il Picchio muraiolo (Trichodoma muraria), il Picchio rosso (Picoides major), il Picchio verde (Picus viridis), il Fringuello alpino (Montifringilla nivalis), la Coturnice (Alectoris greca), il Gallo forcello (Tetrao tetrix), il Francolino di monte (Bonasa bonasia), la Nocciolaia (Nucifraga caryocatactes), l’Allocco (Strix aluco) e la Civetta (Athene noctua).
Tra i rettili e gli anfibi spicca il Marasso (Vipera berus), la Vipera comune (Vipera aspis), il Biacco (Coluber viridiflavus) e la Biscia d’acqua (Natrix natrix).
Nei torrenti vivono la Trota fario (Salmo trutta), e, sporadicamente, la Trota iridea (Oncorhynchus mykiss) e il Salmerino di fonte (Salvelinus fontinalis).




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