lunedì 7 settembre 2015

IL CARCERE NELLA STORIA

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Il penitenziario sorge dal giorno in cui la società politicamente e giuridicamente organizzata, avocando a sé ogni potere, stabilisce sanzioni penali per i trasgressori delle leggi, isolandoli in appositi luoghi detti carceri che, secondo alcuni, deriverebbe dal latino coercere (cioè costringere), secondo altri dall'aramaico carcar che significa tumulare(riferendosi alla prassi di trattenere i prigionieri in cisterne sotterranee allo scopo di una più facile vigilanza). Ne troviamo ad esempio menzione nella Bibbia in (Gn 39,7), quando Giuseppe, figlio di Giacobbe, arrestato dai fratelli fu calato in una cisterna in attesa di essere venduto schiavo. Le prigioni nacquero, verosimilmente, col sorgere della civile convivenza umana e svolsero, inizialmente, la funzione di allontanare dalla vita attiva e separare dalla comunità quei soggetti che il potere dominante considerava minacciosi per sé e/o nocivi alla comunità stessa.

Le esigenze di costrizione finirono con l'imporre sistemi durissimi, peraltro inaspriti nei luoghi ove l'esercizio del potere divino era affidato ai responsabili della cosa pubblica, ritenendosi l'offesa arrecata alla divinità.

Le testimonianze più lontane che ci sono pervenute ci descrivono prigioni ricavate nelle profondità della terra.

Le prigioni vere e proprie, quali strutture apposite per la custodia di persone indesiderabili, entrarono, però, in uso probabilmente dopo l'origine della "città". Le prime notizie abbastanza precise risalgono alla Grecia, a Roma e nella Bibbia.
Presso i greci e i romani le prigioni erano composte da ambienti in cui i prigionieri erano protetti da un semplice vestibolo, nel quale, in taluni casi, avevano la libertà di incontrare parenti ed amici, anche al fine di far versare un risarcimento alla vittima, che poteva portare ad una cancellazione o mitigazione della pena. Il carcere, comunque, non veniva mai preso in considerazione come misura punitiva, in quanto esso serviva in linea di principio ad continendos homines, non ad puniendos.

Nel diritto romano, come del resto negli altri sistemi giuridici prima dell'era contemporanea (cioè sino al 1789), il carcere era considerato come un mezzo di detenzione preventiva in attesa della pena capitale o corporale, non era quindi previsto l'ergastolo (tra le prigioni romane più celebri si ricordi il carcere Mamertino che era riservato a coloro che si macchiavano di reati contro lo Stato, ne furono relegati tra l'altro Pietro apostolo e Paolo di Tarso prima del martirio). Dell'antica Grecia funzionava il "sofronistero" dove erano rinchiusi i minorenni traviati, e il "pritaneo" dove fu rinchiuso Socrate, 30 giorni prima di ingoiare la cicuta.

I regni romano-barbarici introdussero la faida che autorizzava direttamente la vittima a rivalersi in qualsiasi misura sull'aggressore, anche nel senso che un guerriero forte e combattivo aveva sempre ragione. Nel sistema feudale alla vendetta privata si sostituì la composizione pubblica, giudice essendo il feudatario con dominio sul territorio. A poco a poco al feudatario si sostituì il potere comunale prima e poi del re. La carcerazione riapparve quindi prima di tutto come luogo di segregazione degli oppositori del re(celebre la Bastiglia in Francia costruita nel 1360 e distrutta nel 1789). Il senso era che, salvo che in casi eclatanti, in cui era ritenuta opportuna una punizione esemplare, il re non voleva giustificare in un processo una carcerazione che tutti sapevano esser dettata solo da motivi politici. In epoca moderna in Francia ed in Inghilterra si fece gran uso dei prigionieri come lavoratori forzati nelle colonie, in un primo momento venduti come schiavi per un periodo (da 10 a 17 anni) ai coloni, poi, quando questi sostituirono gli schiavi neri (meno costosi e più abbondanti) ai detenuti, come schiavi di stato per l'esecuzione di opere pubbliche in luoghi impervi. Cessato il principio della schiavitù e ridottosi molto l'uso della pena di morte, i detenuti furono ammassati in isole prima in lontane zone coloniali, poi in isole della madrepatria (famosissime Cayenna (F), Alcatraz (USA) e, in Italia, Asinara, Pianosa, Ventotene, ecc.) sino a quando nuove concezioni umanitarie e l'ostilità del personale di guardia verso tali sistemazioni non indussero a legare le prigioni al territorio.



Il principio finalistico del carcere, quale istituto di espiazione di pena, risale alla Chiesa dei primi tempi della religione cristiana.
Il principio secondo il quale la pena deve essere espiata nelle carceri andrebbe quindi fatto risalire all'ordinamento di diritto canonico, che prevedeva il ricorso all'afflizione del corpo per i chierici e per i laici che avessero peccato e commesso reati sulla base del principio che la Chiesa non ammetteva le cosiddette pene di sangue, se non nei casi ritenuti più gravi, cioè eresia e stregoneria(cioè alleanza col demonio).

Più tardi con l'istituzione dell'inquisizione ecclesiastica fu introdotto il carcere a vita come strumento di espiazione morale della pena (a Roma fu costruito nel 1647 il Palazzo delle Prigioni tuttora visibile), ferma restando la possibilità della pena di morte per i reati ritenuti più gravi. Non mancarono, tuttavia, dei fecondi esempi di apostolato: Vincenzo de' Paoli (1581-1660) il quale fondò l'ordine delle Figlie della Carità, benemerite dell'assistenza, oppure Giuseppe Cafasso (1811-1860) che, per aver speso tutta la sua vita in favore dei detenuti, è stato assunto a patrono dei carcerati.

Il movimento illuminista seguendo il filone rivoluzionario e grazie a esponenti come Immanuel Kant (1724-1804), Cesare Beccaria (1738-1794) e Gaetano Filangieri (1753-1788) elaborò un nuovo sistema carcerario basato su principi morali, il libero arbitrio, l'integrità fisica e morale, l'istruzione e il lavoro. La pena, intesa come castigo e dolore, è volta a contrastare non più l'uomo ma il delitto come entità avulsa dal proprio autore. A causa degli austriaci, fu edificato a Milano nel 1764 un carcere di tipo cellulare che si basava sull'isolamento dei detenuti.

Con l'avvento della scuola positiva che si proponeva, non solo lo studio del delitto in sé, ma anche e principalmente dell'uomo delinquente, furono pubblicati i dati sperimentali di eminenti antropologi quali Cesare Lombroso (1835-1909), Enrico Ferri (1856-1929) ed Enrico Pessina (1828-1916).

Dagli anni ottanta del XX secolo in poi anche l'Italia ha progressivamente abbandonato la prigione (e la multa) come unica sanzione per la violazione delle leggi penali, introducendo un po' alla volta una serie di pene alternative alla prigione (detenzione domiciliare, affidamento in prova al servizio sociale, lavoro volontario di pubblica utilità, ecc), mentre sin da allora provvedeva a depenalizzare una serie di fattispecie di reati minori, trasformandoli in illeciti amministrativi puniti solo con un'ammenda, anche se d'altro lato provvedeva all'opposto sia ad inasprimenti di pene per alcuni reati di particolare allarme sociale (mafia, favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, stupro, evasione, ecc.) sia ad istituire nuovi reati (stalking, scambio elettorale politico-mafioso, nuove ipotesi di evasione fiscale, ecc.) sia limitando la possibilità di fruire dei benefici delle pene alternative ad alcuni reati (mafia, stupro di gruppo o di minore, estorsione, recidivi, ecc.) sia creando una normativa di particolare rigore per detenuti in collegamento con la criminalità organizzata (detto "regime del 41 bis" dell'Ordinamento penitenziario) o di particolare pericolosità.

Certo eravamo nella società borghese/vittoriana ma ancora oggi il carcere moderno conserva qualcosa del chiostro, del collegio, del reggimento nel momento in cui propone correzione, disciplina ed espiazione.
Ci sono altri luoghi dove si viene preparati ad essere compatibili con la formazione sociale di un dato periodo storico, luoghi quali la famiglia, la scuola, la fabbrica, la caserma attraverso cui si passa per essere normalizzati. Chi non ci riesce o non vuole verrà diviso dai normali e rinchiuso per essere corretto.
Uno dei meccanismi di correzione di cui si avvale il carcere è il lavoro poiché solo accettando la disciplina del lavoro e la conseguente disciplina del comportamento sociale si può essere reintegrati nel tessuto sociale o ancora meglio, nell'interesse generale della società che annulla l'interesse particolare cosicché il lavoro non risulta essere (come dovrebbe) attività umana creativa e diversificata che asseconda i desideri e gli intenti di ciascuno/a, ma attività astratta in quanto sottoposta al capitale che omologa le scelte di consumo e seleziona anche il campo delle relazioni.
Il lavoro in carcere ha attraversato fasi diverse a seconda della situazione del mercato del lavoro all'esterno e nello specifico negli USA, nonostante sia stato eliminato come lavoro produttivo nei penitenziari, è là rimasto come lavoro forzato ed afflittivo per educare alla disciplina.
I meccanismi di controllo e repressione di cui il carcere è il perno, sono diversi da paese a paese perché collegati a molti fattori: disordini sociali, sistemi politici, benessere economico, conflitti di classe, servizi sociali erogati. Allo stato attuale, si può dire che in Europa i sistemi di controllo e le forme legislative cominciano a parificarsi prendendo a prestito, dalla storia di ogni paese, le risposte emergenziali date a conflitti sociali. L'Italia, nei decenni che seguono il dopoguerra, ha vissuto un alto livello di scontro di classe che ha prodotto, sul piano della risposta statuale, carceri speciali ed una legislazione d'emergenza. Sostanzialmente, il carcere in Italia si è basato su una logica custodialista, ovvero in carcere si entra per restare, per soffrire e per essere degradati a cose.



Nel 1890 entra in vigore il Codice Zanardelli del Regno d'Italia che abolisce la pena di morte. Questa verrà reintrodotta dal fascismo, per cui la repressione, oltre ad avere un carattere sovrastrutturale, era un'esigenza di politica economico sociale, così che divenne repressione di massa.
Nel 1926 si approva la nuova legge di pubblica sicurezza che introduce il confino di polizia tuttora vigente.
Nel 1930 è approvato il Codice Penale Rocco, tuttora vigente con lo specifico dell'art. 270 che istituisce il reato politico di associazione sovversiva tuttora largamente applicato.
Nel 1931 è approvato il regolamento penitenziario che, tra i vari obblighi, indicava ai detenuti di restare in piedi, sull'attenti, quando in cella entrava il personale carcerario.
Nello stesso anno, è approvato il codice di procedura penale che garantiva l'impunità agli agenti di Pubblica Sicurezza per fatti compiuti in servizio.
Nel 1934 nasce il Tribunale per i minorenni. Negli anni successivi al secondo dopoguerra rimase in piedi il regolamento carcerario fascista del 1931.
Ed è sulle speranze maturate con la repubblica antifascista che iniziano le rivolte carcerarie. La prima è datata 1947, poco dopo l'amnistia che condonava tutti i delitti compiuti dai fascisti.
Nel 1950 è abrogata una norma che prevedeva il taglio dei capelli ed il numero di matricola, al posto del nome del detenuto.

Tra il '50 e il '60, in corrispondenza dello sviluppo economico accelerato ed una ridistribuzione delle ricchezza, la quantità generale dei reati cala, ma cambiano le tipologie di reato.
E' la fine degli anni '60: la nuova stagione di lotte operaie e studentesche esplode anche all'interno del carcere; i detenuti cominciano ad acquistare la coscienza di essere una frazione del proletariato sfruttato che, solo nella lotta collettiva può trovare il suo riscatto, così che le prime insubordinazioni vivacizzano le gerarchie malavitose e mafiose che spesso garantivano dentro il carcere ordine ed assenza di conflittualità.
La prima rivolta carceraria è del '69 alle "Nuove" di Torino, città operaia in cui qualche mese prima era avvenuta la prima occupazione universitaria. Il movimento di lotta dei detenuti proseguì per anni nelle carceri delle più grandi città italiane. Si denunciavano le condizioni di vita ed i regolamenti interni varati sotto il fascismo.
La risposta alle rivolte è durissima con i trasferimenti de detenuti nei carceri punitivi ed in manicomi giudiziari. L'altra risposta è quella legislativa del 1975 con la Riforma numero 354 che cancella l'ordinamento fascista. La riforma manifesta la mancanza di coraggio civile a rompere pienamente gli ordinamenti fascisti ed inoltre non realizza il coinvolgimento del tessuto sociale verso le questioni carcerarie. Il carcere continua a restare "cosa separata dal mondo" e che trasgredisce dovrà ancora essere punito. La riforma contiene anche l'articolo 90 che azzera la legge stessa concedendo la Governo di sospendere le regole trattamentali: sospensione di corrispondenza epistolare interna, censura per la corrispondenza esterna, sospensione di tutte le attività culturali, sportive e ricreative, delle comunicazioni telefoniche con i famigliari, dei pacchi di vestiario e cibo, dei colloqui con i propri cari. L'articolo 90 ampiamente utilizzato nelle carceri speciali sarà abolito nel 1986.
Nel '75, in contemporanea con la Riforma penitenziaria, è varata la Legge Reale, che concede alle forze di polizia di trattenere i fermati per accertamenti, di operare perquisizioni domiciliari senza autorizzazione del magistrato, di lasciare impuniti gli agenti che compiono reati inerenti al servizio; la legge viola l'articolo 13 della Costituzione italiana che afferma "la libertà personale è inviolabile".
Siamo in un momento storico caratterizzato da un forte conflitto sociale a cui si risponde con gli arresti di persone solo sospettate di appartenere a gruppi armati. Nel 1977 il sistema carcerario italiano si connota di un doppio circuito: uno normale per la massa di detenuti ed uno speciale per i politici e i comuni più combattivi.
Vengono riaperte carceri che si ritrovano nelle isolette del Mediterraneo e nuove carceri verranno costruite tra il '77 e l'81 in tutto 13 (10 maschili e 3 femminili).
Negli speciali si sperimentano tecniche di deprivazione sensoriale al fine di disgregare la personalità del prigioniero, isolamento individuale o in piccoli gruppi da trascorrere per 22 in cella e due ore in un cubo di cemento da cui si può vedere solo il cielo. Interposizioni di vetri e citofoni che alterano il timbro della voce ai colloqui con i familiari.
Tra il '77 e l'80 sono varati diversi decreti antiterrorismo detti leggi Cossiga, che stabiliscono aumenti di pena di oltre la metà per reati compiuti con finalità di terrorismo, aumenti di pena per reati associativi e facilitazioni per chi si dissocia dai gruppi armati denunciando i propri compagni.
La legislazione emergenziale si arricchì di altri provvedimenti nel corso degli anni '70: decreto ministeriale del '72 che istituzionalizzava i "braccetti di massimo isolamento" dove venivano rinchiusi i prigionieri politici ritenuti pericolosi a cui erano sospesi elementari diritti dei detenuti: non possibilità di acquistare generi alimentari e di conforto, sospensione dei pacchi esterni, non partecipazione alla gestione delle biblioteche e delle attività ricreative e sportive, permanenza all'aria di sei ore settimanali non continue, impossibilità di svolgere attività all'interno del carcere, sospensione dei colloqui telefonici e della visione della tv, non possibilità di ricevere o acquistare giornali e riviste, e l'ascolto di radio con modulazione di frequenza, un solo colloquio al mese con i familiari.
Dello stesso anno è la legge numero 304 detta "Sulla dissociazione" che prevedeva forti sconti di pene non per chi denunciava i propri compagni, bensì per chi abiurava la passata militanza e prendeva le distanze dalla ideologia di riferimento.

Nel 1986 è varata la legge 663 detta Gozzini che doveva essere la "riforma delle riforme", ovvero doveva cercare di correggere le incompetenze della Riforma del '75. La Gozzini verrà svuotata di senso nel dibattito parlamentare così che risultava non più la legge che avrebbe permesso un graduale reinserimento sociale dei detenuti attraverso un'attività lavorativa esterna e le riprese dei legami parentali ed amicali, ma una legge che "prevedeva", cioè concedeva, la possibilità di accedere all'esterno grazie ad uno "scambio", ossia i detenuti dovevano accettare il sistema carcerario così com'è per poterne uscire. Tuttora, il detenuto deve fingere l'accettazione e preoccuparsi individualmente di tessere relazioni con le associazioni di volontariato che operano nelle strutture carcerarie. Inoltre, una volta fuori, il detenuto lavora sottopagato pur di poter riprendere le relazioni sociali esterne.
L'ultima legge parlamentare è del 1997, detta Simeoni. Questa legge si è posta contro la campagna forcaiola condotta sui mass media in merito alle scarcerazioni facili (a tal proposito ricordiamo che l'Italia è tra i paesi europei quello dove si espiano le pene quasi per intero e dove le evasioni sono in numero più basso) ma è rimasta ancorata alla logica premiale e quindi all'operato dei Magistrati di sorveglianza che, nel concedere i benefici, si avvalgono dei verbali di polizia e non di quelli dei servizi sociali. Le misure alternative al carcere, non sono in Italia, di fatto, applicate.
Allo stato attuale sono più di 50mila i detenuti nelle carceri italiane e di questi abbiamo al primo posto i tossicodipendenti, in maggioranza sieropositivi, e al secondo gli immigrati. Gli immigrati che si trovano in Italia sono inoltre vittime di altre misure repressive, ovvero di essere portati, se trovati privi di permesso di soggiorno, nei Centri di Accoglienza Temporanei, dove possono restare a tempo indeterminato privati dei più elementari diritti, in attesa di essere espulsi dall'Italia.



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