giovedì 10 marzo 2016

I MANICOMI



Il manicomio ha la sua ragion d’essere nel fatto che fa diventare razionale l’irrazionale. Quando uno è folle ed entra in manicomio smette di essere folle per trasformarsi in malato. Diventa razionale in quanto malato. Il problema è come disfare questo nodo, come andare al di là della “follia istituzionale” e riconoscere la follia là dove essa ha origine, cioè nella vita . (Franco Basaglia)

Paranoia, malinconia, traumi post-guerra, sofferenze amorose, fobie, epilessia, alcolismo, vivacità, idiozia, demenza, cretinismo, omosessualità, povertà: tutto ciò che la Società non era pronta a “capire” veniva riconosciuta “patologia” dalla psichiatria dell’epoca. Poco importavano le origini del problema. L’obiettivo: isolarlo e placarlo.

Julius Wagner-Jauregg,, medico austriaco, cercò di eliminare i disturbi mentali inoculando ai malati il protozoo responsabile dell’insorgere della malaria. Nel 1927 gli fu assegnato il Premio Nobel per la medicina.

Ugo Cerletti e Lucio Bini, neurologi italiani, provarono a placare il “mal d’anima” con l’Elettroschock. I pazienti erano coscienti. Niente anestesia. Nessun rilassante muscolare. Molte fratture ossee, specialmente alle vertebre.

Manfred Sakel, neurologo e psichiatra austriaco, promotore del “coma insulinico” indotto. Si accorse che uno schizofrenico, dopo il coma, presentava evidenti segni di tranquillità, anche se temporanei. Bastava continuare ad iniettare insulina, sei giorni su sette, per certificare il miglioramento del degente.

Il processo di “spersonalizzazione” nei manicomi avveniva dal primo momento. All’ingresso nell’istituto il “malato” veniva privato dei propri oggetti e dei propri indumenti. Tutti uguali, tutti ugualmente malati, tutti soggetti alle stesse cure.

I degenti venivano suddivisi in diverse categorie: sudici, tranquilli, semi-agitati, agitati e furiosi. La scarsa igiene e il sovraffollamento diventarono presto un grave problema.

Una circolare a stampa, inviata il 10 agosto 1886 dal presidente della Provincia ai sindaci, recita: "... Il crescente numero dei ricoverati nel Manicomio di questa Provincia, e la assoluta deficienza di piazza disponibili, obbligano la scrivente a sospendere provvisoriamente l'accettazione di qualunque mentecatto ...".

Nel 1932 Mombello ospitava 3790 persone..

I tranquilli venivano ospitati nella villa Napoleonica e nel tempo si costruirono edifici per ospitare i malati secondo la classificazione che allora se ne faceva, epilettici, paralitici, sudici, tranquilli, agitati, semiagitati.
Negli anni sessanta l'intera struttura di Mombello ospitava circa tremila ricoverati e all'interno dell'ospedale, impegnati nelle più svariate attività che ne garantivano una sorta di autosufficienza, operavano moltissime persone dalle più svariate professionalità.

Un lavoro da cani. Quando meno te lo aspettavi. Zac. Sui finestroni.
Appollaiato. Per parlare con Dio. Una vera fissazione. Quella di parlare con Dio. Provavano a parlarci. Tutti. E Dio non rispondeva. Mai.

Una vecchia è distesa sul letto con un braccio giallo e secco fuori delle coperte. Quasi calva, in un modo insolito che le lascia nuda una metà della testa, ci vede passare con patologica indifferenza. Incontrando i nostri occhi i suoi sono rimasti fermi, ma non vuoti, perché avevano lume di ragione; soltanto, essa, non credeva più che tutto ciò che fosse passato davanti ad essi avrebbe avuto mai la minima importanza.

Certo di questi bambini conosciamo una storia parziale tracciata dalla penna di altri: medici, infermieri, assistenti sociali, suore; ognuno con i propri pregiudizi professionali e umani, personificazioni della paura sociale dell’altro, sia pure il più debole della catena; spesso incapaci persino di elementare sensibilità umana. (Ezio Sartori, Maria e Giuseppe in manicomio)

Poi la grande delusione: dopo aver tanto dato, perché a parlare di se stessi si dà tutto ciò che si ha, in cambio si ricevono punture e pastiglie che non potranno forse mai risolvere nessun problema di amore, di lavoro, di sapere, perché è per questi problemi che molti malati sono rinchiusi lì dentro.

Quando desideri con tutto il cuore che qualcuno ti ami, dentro ti si radica una follia che toglie ogni senso agli alberi, all’acqua e alla terra. E per te non esiste più nulla, eccetto quell’insistente, profondo, amaro bisogno.

In manicomio finivano per problemi neurologici alla nascita, per un deficit psichico o sensoriale (sordomuti, ciechi), perché figli della guerra o dei bombardamenti, perché per curare la malaria i farmaci portavano a sviluppare psicosi, perché figli di famiglie sbandate, perché orfani, perché non gestibili da genitori non dotati di nessun talento d’affetto.

E poi la guerra. Per portare la patria ai confini naturali. Migliaia di giovani morti. Sul fronte. E i vivi. Arrivavano dall’ospedale militare. Uno più demente dell’altro. Non uomini. Ma paura. Terrore. Gli occhi fissi. Vuoti. A Mombello i dottorini davano la colpa al gas. Il gas respirato nelle trincee.

Gli infermieri più anziani. I furiosi. Cercavano di scansarli. Poveretti. Non capivano niente. Più si agitavano e peggio finiva.
Punture di insulina. Iniezioni col virus della malaria e del tifo. Lacci. Botte. E poi la novità.
L’elettroshock. I dottorini giovani smaniavano. Dieci. Venti. Elettroshock. Finché non riuscivano a spegnerli. I furiosi.

Il manicomio, benché  istituzione nuova e inspirata a un certo progresso, non aveva funzioni superiori a quelle d’un grandioso smaltitoio. La società vi abbandonava senza rancore, ma anche senza amarezza e senza speranze, tutti quei disgraziati che con le loro stranezze compromettevano la quiete pubblica.

L’Amore di ragione e l’Amore di Sragione, l’omosessualità appartiene al secondo, e così, poco a poco, nel corso della storia, prende posto nelle patologie della psichiatria, si installa nella pazzia, almeno a detta degli psichiatri nell’età moderna. Uscendone solamente nel 1973 quando l’associazione psichiatrica americana l’ha tolta dal suo manuale di disturbi mentali.

Da un giorno all’altro migliaia di individui malati sono diventati sani.

Gli ospedali psichiatrici, istituiti in Italia a partire dal XV secolo, furono regolati per la prima volta nel 1904. Essi furono chiamati inizialmente "manicomi", "frenocomi" o con altri nomi caratterizzanti. La costruzione di tali strutture venne richiesta da alcuni ordini monastici o dalle amministrazioni provinciali o da medici illustri. Dal 1728 gli ospedali psichiatrici furono richiesti da ordini ecclesiastici.

Nel XIX secolo a causa del crescente numero dei malati si iniziò a discutere di una legge che potesse regolare tutti i manicomi del Paese che fino a quel momento avevano avuto piena autonomia per quanto riguarda l'internamento. Già a partire dal 1874 era stato proposto dal ministro dell'Interno Girolamo Cantelli un "progetto di regolamento" che però non venne mai attuato.

In un'"Ispezione sui manicomi del Regno" svolta nel 1891 da parte del ministro dell'Interno Giovanni Nicotera si denunciavano numerosi inconvenienti di tali strutture quali la scarsità o la fatiscenza dei locali, l'inadeguatezza degli strumenti di cura, le scarse condizioni igieniche, la mancanza di una registrazione clinica e il sovraffollamento.
La mancanza di una legge nazionale faceva sì che l'internamento potesse avvenire in differenti modi:

a Napoli, Torino, Genova e Caserta era necessaria l'autorizzazione del prefetto in base al certificato medico;
a Novara, Bergamo e Pavia era necessaria l'autorizzazione del presidente della deputazione provinciale;
ad Ancona, Reggio-Emilia e Imola era necessaria l'autorizzazione del sindaco;
a Perugia era necessaria l'autorizzazione del presidente della Congregazione di carità;
a Brescia e Messina serviva il certificato medico;
a Monza era sufficiente la domanda della famiglia;
a Verona, Pistoia, Castel Gandolfo, Mantova, Cagliari e Belluno era necessario un avviso di avvenuta reclusione da mandare al prefetto e alla questura.
Anche se formalmente le autorizzazioni erano sempre necessarie, per evitare complicazioni e ritardi, si era soliti praticare ammissioni d'urgenza con successiva domanda di autorizzazione agli organi competenti.
Solo nel 1902 Giolitti presentò al Senato un disegno di legge "Disposizioni intorno agli alienati e ai manicomi", basato su quattro punti essenziali, che serviva a regolamentare tutte le strutture, senza distinzioni. Veniva richiesto:

l'obbligo di ricovero in manicomio soltanto per i dementi pericolosi o scandalosi;
l'ammissione solo dopo procedura giuridica, salvo casi d'urgenza;
l'attribuzione delle spese alle province;
l'istituzione di un servizio speciale di vigilanza sugli alienati.
La legge n. 36 venne approvata il 14 febbraio 1904 e vennero aggiunte modifiche, quali:

le dimissioni del malato solo dopo un decreto del tribunale su richiesta del direttore del manicomio (al quale la legge attribuiva la piena autorità sul servizio sanitario, l'alta sorveglianza sulla gestione economica e finanziaria dei manicomi e il potere disciplinare);
il "licenziamento in via di prova", concesso al malato che dimostrava miglioramenti. Esso consisteva nella dimissione temporanea resa definitiva se il malato fosse risultato completamente guarito.
La legge Giolitti stabiliva quindi il criterio di internamento: pericolosità sociale e pubblico scandalo. Si entra in manicomio non perché malati, ma perché pericolosi improduttivi, di pubblico scandalo. Con la legge n. 36 la psichiatria italiana aveva il dominio totale sulla follia: tale legge, che resterà in vigore fino al 1978, serviva solo come strumento di protezione dal "matto" per la società e non considerava i bisogni e i diritti del malato.

Essa risultava innovativa rispetto al passato, ma non teneva in considerazione né la durata di permanenza nella struttura psichiatrica né il malato, che perdeva ogni diritto dopo il ricovero. Negli ospedali psichiatrici venivano utilizzati l'elettroshock, il coma insulinico e farmaci sperimentali come la cloropromazina che permetteva di ridurre le crisi violente dei ricoverati.

Il 19 ottobre del 1924 venne istituita presso la sala del Consiglio Provinciale di Bologna la Lega Italiana di Igiene e Profilassi Mentale; il Consiglio di presidenza era composto da Giulio Cesare Ferrari, Sante De Sanctis e Eugenio Medea; la presidenza onoraria era assegnata a Leonardo Bianchi, Eugenio Tanzi e Enrico Morselli mentre il Comitato centrale era rappresentato dai presidenti delle tredici sezioni regionali. Il Comitato ebbe idee innovative e cercò di cambiare la visione e la funzione dei manicomi fino a quel momento. Si cercò di restituire a tali strutture la funzione curativa a discapito di quella detentiva, usata come strumento di sicurezza.

Un'altra innovazione fu fatta da Ernesto Ciarla, che istituì i Dispensari per una cura precoce della malattia e per diminuire l'onere amministrativo. I ricoverati avevano in media un'età compresa tra i 20 e i 40 anni, in prevalenza maschi, non sposati, di istruzione elementare inferiore. La durata della degenza era variabile:

il 20% delle psicosi tossiche endogene e il 30% delle psicosi tossiche esogene e affettive erano curate in meno di un mese;
il 72,5% delle frenastenie, il 50% delle psico-degenerazioni, il 62,6% delle epilessie, il 40,4% delle psicosi affettive, il 63,5% delle schizofrenie, il 27% delle psicosi tossiche endogene e il 36% delle psicosi alcoliche venivano tenute in osservazione per un periodo compreso da un anno e oltre due anni.
Su cento dimessi:
il 17,6% era considerato guarito;
il 21,4% era affidato alle famiglie.
il 44,3% era ritenuto in esperimento;
Tra il 1922 e il 1937 furono istituiti numerosi istituti.

Nel 1961 Franco Basaglia iniziò da Gorizia a organizzare un movimento che aveva tra i suoi obiettivi anche la chiusura dei manicomi; tale attività collettiva confluirà poi nella successiva nascita del movimento di Psichiatria Democratica. Peraltro Basaglia affermava che la malattia mentale in sè stessa non esisteva: vi erano dei disturbi causati dalla società produttivistica - capitalista, che esercitava una violenza psicogena sui membri della società che rifiutavano i suoi dogmi. Tale violenza era esercitata dalle istituzioni della "violenza", così definite da Basaglia: famiglia, scuola, carceri, manicomi. La risoluzione dei disturbi mentali causati dalle istituzioni della violenza si otteneva inserendo i "disturbati" in comunità a carattere egualitario, in cui il disturbato non si sentisse "altro". Cioè alienato, come avveniva nelle istituzioni della violenza.

Nel 1962 si inaugurarono i primi governi di centro sinistra (fine del centrismo democristiano), si affermò l'aspettativa di un cambiamento e di un'apertura che si rifletté anche sulla psichiatria. Proseguì l'intento di trasformare i manicomi in ospedali psichiatrici dove poter curare, se non addirittura guarire, i malati di mente. Si cominciò a pensare a un'evoluzione degli ospedali e dell'assistenza psichiatrica a partire da cambiamenti indotti all'interno dei manicomi (formazione del personale di cura, introduzione delle tecniche psicoterapeutiche, sperimentazione di nuovi metodi di socializzazione e di psicoterapia di gruppo).

A partire da esperienze francesi nei primi anni Sessanta (specialmente grazie all'elezione nel 1963 di Ferdinando Barison a presidente dell'AMOPI, Associazione medici ospedali psichiatrici italiani, associazione costituitasi a Napoli nel 1959 come organismo di coordinamento degli psichiatri ospedalieri italiani) la politica di settore rappresentò in Italia l'espressione più avanzata del movimento riformatore e per questo suscitò diffidenze, timori, ma anche entusiasmo e speranze. Settore, infatti, significava uscire dall'ospedale e proiettarsi sul territorio. Si cominciò a parlare di unità sanitaria locale e la politica di settore ne rispecchiava il corrispettivo in campo psichiatrico.

Nel 1965 il ministro della sanità, Luigi Mariotti, tentò l'avvio di una riforma. Per prima cosa, il 20 settembre di quell'anno, in un convegno a Milano, lanciò un atto di denuncia dello stato dell'assistenza psichiatrica in Italia che avrebbe poi suscitato molte proteste: egli paragonò infatti gli ospedali psichiatrici italiani - dove "i malati di mente, secondo la vecchia legge del 1904, sono considerati uomini irrecuperabili" - ai lager nazisti. Inoltre, lavorò per l'istituzione di piccole strutture da affiancare ai dispensari e ai centri di igiene mentale, legate agli ospedali civili che potessero essere fonte di aiuto e comprensione del paziente. Nel 1970 Mariotti riformò la legge in maniera adeguata alle nuove conoscenze scientifiche, rendendo il ricovero in ospedale psichiatrico volontario e strutturandolo in maniera moderna. Nel 1978, alla vigilia della nuova riforma, l'Ospedale Psichiatrico, almeno nelle regioni più avanzate, era stato già profondamente riformato secondo i canoni che le nuove conoscenze scientifiche stavano affermando nel mondo: in Lombardia la permanenza media in ospedale era di un mese e mezzo. Solo nei cronicari, in genere privati, la permanenza era superiore ai 6 mesi.

E questo nonostante che le cure si limitassero all'unico antipsicotico allora esistente, l'aloperidolo, ed alle cure di urto: elettrostimolazioni e ed il coma insulinico.



Su questa promettente realtà scientifica piombò come un fulmine, l'ideologia: nel 1978, durante i governi di coalizione DC-PCI, la teoria Basagliana diventò legge di Stato. L'Italia, unico paese al mondo, rese legge la teoria che la malattia mentale non esistesse e che quindi gli Ospedali psichiatrici dovessero essere chiusi. La teoria basagliana si affermò sia come teoria che come prassi portando con sè un lessico conseguente. Non si parlò più di malattia mentale, ma di disturbo o disagio. Il malato, non essendo malato, non doveva essere curato: doveva essere riabilitato dai disturbi che le istituzioni della violenza gli avevano causato. Dato che tra le istituzioni della violenza vi era la famiglia, la stessa doveva essere vista con giusta diffidenza dal terapeuta e resa edotta delle sue colpe nei riguardi del malato. In adatta comunità egualitaria il "disturbato" doveva di necessità riabilitarsi. Se non lo faceva o anzi diventava violento e antisociale, non era un disturbato ma un criminale nascosto. Tale base teorica era ancora ammissibile - per quanto molto opinabile- nel 1970, quando non vi era ancora nessuna evidenza che la malattia mentale fosse una malattia organica cerebrale. L'avvento della RM dimostrò peraltro che i malati di mente, sia gli schizofrenici che i depressi, manifestano evidenti segni di degenerazione della corteccia cerebrale. Il che toglieva ogni base teorica alla psichiatria sociologica basagliana.

Del resto tale teoria e la conseguente legge si sono tradotte in un sostanziale abbandono dei malati di mente alla famiglia. Il TSO (trattamento Sanitari Obbligatorio) che è il punto fondamentale e determinante della cura, dato che il malato giovane non accetta la malattia e rifiuta di farsi curare, è di legge tenuto in un piccolo ed inadatto reparto di un Ospedale Generale ed è limitato ad una settimana. Dato che la diagnosi, la definizione di una cura, il controllo della stessa, richiedono almeno 1-2 mesi, l'impossibilità di ricoverare coattamente il malato in adatta struttura, con spazi aperti, possibilità di attività ricreative e sportive, ha reso le diagnosi incerte, le cure assolutamente aleatorie ed i risultati drammaticamente deficitari.

Secondo le statistiche della OMS, mentre in tutti i paesi europei le morti causate da malattie mentale dal 1980 al 2000 rimanevano più o meno stazionarie, in Italia aumentavano di ben 6 volte.

La riforma italiana nota come legge 180 o legge Franco Basaglia ha abolito il manicomio e ha eliminato la pericolosità come ragione della cura. Il Trattamento sanitario obbligatorio (TSO) doveva essere effettuato "se esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici e se gli stessi non vengano accettati dall'infermo (art. 34)". La legge si costituisce di 11 articoli:

Art. 1 - Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori;
Art. 2 - Accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori per malattia mentale;
Art. 3 - Procedimento relativo agli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori in condizioni di degenza ospedaliera per malattia mentale;
Art. 4 - Revoca e modifica del provvedimento di trattamento sanitario obbligatorio;
Art. 5 - Tutela giurisdizionale;
Art. 6 - Modalità relative agli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori in condizioni di degenza ospedaliera;
Art. 7 - Trasferimento alle regioni delle funzioni in materia di assistenza ospedaliera psichiatrica;
Art. 8 - Infermi già ricoverati negli ospedali psichiatrici;
Art. 9 - Attribuzioni del personale medico;
Art. 10 - Modifiche al codice penale;
Art. 11 - Norme finali.
I principi che la nuova legge afferma, cioè prevenzione e riabilitazione del malato, risultarono nuovi e i processi di adattamento molto lunghi. Tutto ciò che fino al 1978 era affidato alle province diventa responsabilità delle unità sanitarie locali e delle regioni. La legge 180 del maggio 1978 rappresentava l'anticipazione della più generale legge istitutiva del servizio sanitario nazionale del 23 dicembre 1978, n. 833.

L'entrata in vigore della legge, con la chiusura immediata degli Ospedali Psichiatrici, causò un tragedia di dimensioni notevoli, ben documentata dai libri del famoso scrittore e psichiatra toscano Tobino: i malati dimessi si suicidarono o morirono di stenti o in incidenti in una elevatissima percentuale. Inoltre gli psichiatri basagliani, convinti che il "disturbo" mentale fosse causato dall'ospedale stesso, rifiutavano non solo le cure di urto come l'elettroshock ed il coma insulinico, ma gli stessi psicofarmaci, con le ovvie conseguenze disastrose. Intanto le strutture sostitutive degli Ospedali psichiatrici si andavano lentamente formando. Ma anziché recepire, se non le ultime scoperte scientifiche, almeno l'elemento portante e fondamentale della teoria basagliana e cioè la cura sociale e quindi lavorativa ed affettiva del malato, si limitavano ad una terapia farmacologica e ad un supporto psicologico. Ambedue i fattori assolutamente inefficaci. La terapia medica doveva - come in tutte le branche della medicina - considerare il mix di cure adatte al singolo malato e non escludere a priori le cure di urto (l' EST, l'eletroshock, è la cura anti-psicotica più diffusa nel mondo). inoltre non vi è alcuna possibilità, in Italia, di trovare l'adatta combinazione di cure dato il tempo limitato in cui si può osservare e controllare il malato in Ospedale. Il trattamento psicologico non ha alcun affetto se non è accompagnato da lavoro e socializzazione. Insomma i due elementi su cui si può basare per ottenere un stabilizzazione ed una remissione dei sintomi di una grave malattia organica mancano completamente. La psicosi -ormai è chiaro- non è altro che una malattia cronica organica, come il diabete, l'artrite reumatoide, ecc. Come tale non può guarire. Se ne possono alleviare, ridurre, annullare i sintomi, a seconda della bontà delle cure e della gravità della malattia. Oggi, tale possibilità è, grazie alla scienza, molto più concreta: vi sono circa 10 antipsicotici oltre alla EST ed al coma insulinico. inoltre abbiamo anche una ulteriore cura di urto: la stimolazione magnetica. In Italia abbiamo una legge ideologica che promuove credenze anti-scientifiche e che rende difficile se non impossibile una cura efficace. Dal 1980 ad oggi sono state presentate più di 40 proposte di riforma della legge 180, da parte di tutti gli schieramenti politici. Il grave condizionamento ideologico ha impedito, a ben 35 anni dal prolungamento della legge, ogni modifica. È da tenere presente che, negli altri paesi europei, la legislazione psichiatrica ha subito, in questi anni, continui cambiamenti in relazione al progresso scientifico e sociale.

Recentemente sono stati chiusi gli OPG, gli ospedali psichiatrici giudiziari, dove veniva tenuto chi commetteva un crimine, ma non essendo capace di intendere e di volere a causa di una malattia mentale, non poteva essere chiuso in carcere, ma doveva essere adeguatamente curato. Gli OPG erano le ultime strutture in Italia, che avevano una certa efficacia nella cura. La loro chiusura suscita notevoli preoccupazioni sulle possibilità di cura di malati gravi colpevoli di crimini e sull'avvenire delle loro famiglie.

Tutti fuori. Sembrava questo, il 13 maggio del 1978, il destino delle migliaia di ricoverati degli ospedali psichiatrici. Per quei matti da slegare, quei corpi incatenati ai letti di contenzione, quelle facce attonite, stravolte che rimbalzavano da anni sulle pagine dei giornali di sinistra, si era mobilitato mezzo paese. Dopo anni di denunce, Franco Basaglia e gli altri psichiatri democratici, a volte anche con l'aiuto dei "matti", erano riusciti a spezzare decenni di silenzio sui manicomi-lager. La battaglia per chiuderli, per mettere fine all'orrore e all'emarginazione dei malati di mente era diventata un impegno nazionale, saldato alla lotta per un carcere più umano, alla contestazione verso le istituzioni totali. Gli stessi psichiatri, di ogni estrazione professionale o politica, chiedevano a gran voce di essere dei medici veri, con il compito di curare e non di vigilare su malati segregati. Si erano mossi gli intellettuali, i giornalisti e i politici. Ma anche tanta "gente qualsiasi, che aveva fatto la fila ai banchetti dei radicali per firmare il referendum di abrogazione dei manicomi. "Volete voi l'abrogazione degli articoli 1, 2, 3 e 3 bis della legge 14 febbraio 1904, n° 36, 'Disposizioni sui manicomi e sugli alienati?' e successive modificazioni?" Volevano eccome, a decine e decine di migliaia.

Il referendum, però, non ci fu mai. Di corsa, a ritmi serrati, il Parlamento riuscì a votare una legge destinata a diventare famosa come "la 180". La legge che chiudeva i manicomi, la pietra miliare che avrebbe ridato dignità alla psichiatria del nostro paese, la vera data di nascita della psichiatria italiana. Una legge di cui, poi, furono presentate decine di proposte di modifica, nessuna delle quali è mai andata in porto, segno, secondo alcuni, della sua capacità di tenuta nel tempo. La 180, in realtà, ebbe vita brevissima. Approvata ufficialmente il 13 maggio del 1978 alla fine di dicembre dello stesso anno confluì nella legge di riforma sanitaria, che ne recepì buona parte del testo e ne fece suo il principio fondamentale. Il malato di mente, il matto "l'alienato" non è più una persona pericolosa per sé e per gli altri, da allontanare dalla società e rinchiudere in una specie di carcere. E' un malato come gli altri, un cittadino che soffre e ha diritto ad essere curato "nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana". Tra i compiti del neonato servizio sanitario nazionale la riforma indicava espressamente "la tutela della salute mentale", da attuare recita la legge, "privilegiando il momento preventivo e inserendo i servizi psichiatrici nei servizi sanitari generali in modo da eliminare ogni forma di discriminazione e di segregazione pur nella specificità delle misure terapeutiche, e da favorire il recupero ed il reinserimento sociale dei disturbati psichici". Più chiaro di così: tutti fuori.Magari non subito, magari con gradualità. Ma insomma, prima o poi tutti fuori lo stesso. Al massimo, fino al 31 dicembre 1980, data improrogabilmente stabilita dalla legge, e solo per fosse già ricoverato e ne facesse espressamente richiesta.
I manicomi sono sopravvissuti a lungo ed ancor oggi le strutture di assistenza psichiatrica nate dalle ceneri dei vecchi istituti sono alle prese con la difficile collocazione dei cosiddetti "residui manicomiali". A questa gelida etichetta corrispondono, come spesso accade in burocrazia, delle persone. Ex ricoverati, ora "ospiti", che in molti casi hanno trascorso una parte consistente della loro esistenza tra le mura di un manicomio. Parecchi ci sono cresciuti dentro, ne hanno fatto la loro casa, ed affrontano malvolentieri un processo di reinserimento doloroso, difficile e a volte anche indesiderato. Poi ci sono le famiglie, che il matto in casa non sempre ce lo vogliono o, perlomeno, non intendono farsene carico da sole, mentre lo Stato maschera indifferenza e carenze dietro la scusa dell'abbattimento delle barriere. Ma i servizi alternativi, il supporto, le case alloggio, gli "appartamenti protetti" a cui puntava la 180? Ci sono, ma non ovunque e non con lo stesso livello di efficienza. La legge è stata applicata (poco e male, dicono i critici) solamente in alcune realtà locali. Accanto ad esperienze di grande successo, studiate con rispetto e interesse da tutta la comunità psichiatrica internazionale, ci sono zone dove, per citare il segretario di Psichiatria Democratica Emilio Lupo, la 180 è solo "un nuovo metodo per custodire e controllare le persone sul territorio".
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