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giovedì 12 maggio 2016

I SEGRETI DI ANDREOTTI

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Giulio Andreotti è morto a 94 anni, il 6 maggio 2013 dopo aver attraversato più di 50 anni di storia italiana,  portando con sé tutti i suoi segreti. Segreti che ha portato con sè, alla maniera di Licio Gelli che disse:”un vero uomo i segreti li porta nella tomba”. Andreotti era il Patto Atlantico e la Costituente, ma anche l’uomo capace di prendere i voti dove erano  in modo sospetto organizzati dalla mafia,pur di andare al potere ed essere il bilancino, l’asse centrale del potere democristiano,alleandosi ora con la destra Dc, ora con la sinistra di Moro, ma in modo da essere sempre determinante. E dentro la DC, come fuori, cioè nella raccolta del consenso al momento delle urne, il suo pacchetto di voti in Sicilia, in Ciociaria e nel Lazio, diventava sempre fondamentale. Per questo, e lui non lo negò mai (neanche davanti ai giudici di Palermo),il suo rapporto con Salvo Lima e,di conseguenza (questi invece negati), con gli esattori mafiosi, i cugini Nino ed Ignazio Salvo, fu negli anni ’60 e ’70 importante per farlo diventare ministro e capo del governo, primo ministro,per ben 7 volte. Perché Salvo Lima era proconsole di Andreotti in Sicilia e capo di quella che il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa definiva nel suo diario la ‘famiglia politica più inquinata dell’isola’. Lima aveva aderito alla corrente andreottiana nel 1968,quel gruppo di “amici” che ha portato Andreotti ad essere  perno politico di lunghe stagioni italiane.  Facendo governi di centro e di centro destra, ma anche di centro sinistra ed inaugurando l’unico governo di solidarietà nazionale con l’astensione del PCI, interrotto dal rapimento di Aldo Moro, quel 16 marzo 1978 che stava aprendo un’era ed invece sancì la continuazione dell’incubo,sino al disfacimento della DC,dopo la caduta del muro di Berlino. Quei giorni tra il 16 marzo e l’8 maggio 1978,saranno ancora da scrivere: lui leader della fermezza contro le BR , non riuscì a salvare Moro;e secondo molti uomini politici di allora, fece parte di chi non volle salvarlo.

Andreotti capì quasi sempre prima l’andamento della deriva nazionale e del cambiamento internazionale: capiva e intuiva, ma invece di ergersi a statista nel governo delle transizioni verso il futuro, finiva sempre per governare l’esistente,schivando i cambiamenti sostanziali ed  agendo abilmente per la logica del mantenimento del potere. Perché il Potere era il suo vero culto, l’altare cui aveva immolato la sua intelligenza ed il suo programma di vita: un potere che poteva partire dalle lettere di raccomandazione per il suo elettorato, ed arrivava al rapporto con gli Usa e con l’OLP di Arafat,passando ovviamente per il Vaticano,il suo vero partito di riferimento. Perché lui ascoltava i Papi, ma soprattutto veniva ascoltato dai Papi.

Poi vennero le sentenze per il caso Pecorelli e per i suoi rapporti con la mafia. Fu assolto in primo grado il 23 ottobre 1999, con formula ampia perché “il fatto non sussiste”,ma con un articolo di legge che aveva sostituito nel codice l’insufficienza di prove. In appello, il 2 maggio 2003, il verdetto era stato più controverso: prescrizione per i fatti contestati fino al 1980, assoluzione per quelli successivi. La Cassazione ha confermato proprio questa impostazione,in modo definitivo,il 15 ottobre 2004 scrivendo che Andreotti  «ha avuto piena consapevolezza che suoi sodali siciliani intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; ha, quindi, a sua volta, coltivato amichevoli relazioni con gli stessi boss; ha palesato agli stessi una disponibilità non meramente fittizia, ancorché non necessariamente seguita da concreti, consistenti interventi agevolativi; ha loro chiesto favori; li ha incontrati; ha interagito con essi». A queste conclusioni ,infatti, erano  giunti gli ultimi giudici del senatore a vita, quelli della Corte d’assise di Palermo che lo hanno assolto per non aver commesso il reato di associazione mafiosa a partire dal 1982, ma hanno invece dichiarato prescritto il reato di associazione per delinquere semplice (l’associazione mafiosa non esisteva ancora nel codice penale) commesso almeno fino al 1980. Una sentenza che afferma,quindi, che in epoca di grandi delitti mafiosi (Mattarella, Costa, Basile ed altri di quegli anni), Andreotti ebbe rapporti con la mafia. Una sentenza confermata da una ulteriore sentenza della Corte di cassazione, che ha messo l’ultimo sigillo su una vicenda durata dieci anni. Secondo i giudici d’appello, infatti, è provata la consapevolezza, da parte di Andreotti, dei rapporti tra il suo «luogotenente» in Sicilia Salvo Lima e Stefano Bontate, il capomafia eliminato dai corleonesi di Totò Riina nella guerra di mafia del 1981. E sono da considerarsi provati gli incontri diretti tra lo stesso Bontate e Andreotti in persona, a cui ha sostenuto di aver assistito il pentito Francesco Marino Mannoia. In quegli incontri si discusse il problema del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, considerato un ostacolo dai boss e assassinato il 6 gennaio 1980; una vicenda alla quale i giudici dedicano considerazioni pesanti. Nelle riunioni con i mafiosi, secondo i giudici d’appello, Andreotti «ha loro indicato il comportamento da tenere in relazione alla delicatissima questione Mattarella, sia pure senza riuscire, in definitiva, ad ottenere che le stesse indicazioni venissero seguite; ha indotto i medesimi a fidarsi di lui ed a parlargli anche di fatti gravissimi (come l’assassinio del presidente Mattarella) nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere denunciati; ha omesso di denunciare le loro responsabilità, in particolare in relazione all’omicidio del Presidente Mattarella, malgrado potesse, al riguardo, offrire utilissimi elementi di conoscenza».   Secondo i giudici di Cassazione quei rapporti poi si interruppero, sino a portare Andreotti in una difficile situazione di equilibrismi politici per mantenere da un lato il suo potere ed i suoi voti nella DC dell’isola, dall’altro un atteggiamento politico  di condanna, almeno pubblica, della mafia. Un equilibrio che si spezzò definitivamente con il maxi processo e le conferme in Cassazione delle condanne alla cupola, nel 1992. L’assassinio di Salvo Lima sancì questa rottura definitiva.

Ma Andreotti fu anche processato, a Perugia, per il delitto del giornalista Mino Pecorelli, ucciso per strada a Roma, a colpi di pistola, il 20 marzo 1979. Il 14 aprile 1993, dopo la testimonianza in cui Buscetta aveva dichiarato che il boss Gaetano Badalamenti gli aveva a sua volta raccontato che l’omicidio era stato «commissionato dai cugini Nino e Ignazio Salvo per conto di Giulio Andreotti», il quale avrebbe avuto paura che Pecorelli pubblicasse informazioni che avrebbero potuto distruggere la sua carriera politica, Andreotti venne iscritto nel registro degli indagati a Roma, poi il processo passò a Perugia perché tra gli indagati c’è l’ex magistrato Claudio Vitalone. Il 20 luglio 1995 cominciò il processo di primo grado.
Pecorelli, direttore del periodico «Osservatorio politico» (Op), in passato aveva effettivamente pubblicato più volte notizie ostili ad Andreotti, come quella sul mancato incenerimento dei fascicoli del servizio segreto Sifar sotto la sua gestione al ministero della Difesa. E aveva poi disposto anche una vera campagna di stampa sullo scandalo petroli (dove Andreotti fu toccato al punto da far insorgere la DC alla Camera dei Deputati al grido di “non ci processeranno in piazza”) e sui finanziamenti illegali della Democrazia cristiana, il partito di Andreotti. Inoltre, aveva rivelato segreti sul rapimento e sull’uccisione dell’ex primo ministro Aldo Moro, assassinato nel 1978 dalle Brigate rosse. Il punto più controverso, quello che secondo gli inquirenti aveva portato al delitto, era stato una storia di copertina di Op intitolata «Gli assegni del Presidente», con l’immagine di Andreotti: Pecorelli, però, aveva accettato di fermare la pubblicazione del giornale quando ormai era già in stampa.



Il 24 settembre 1999 la Corte d’assise di Perugia prosciolse Andreotti perché non aveva commesso il fatto. Andò diversamente in secondo grado: il 17 novembre 2002 fu condannato a 24 anni di carcere come mandante dell’omicidio. Il 30 ottobre 2003, però, la Cassazione annullò la condanna di appello e rese definitiva l’assoluzione di primo grado.

Tutte vicende che travolsero Andreotti nella sua vita politica ormai in fase discendente: ma dalle quali, grazie alla rete del suo Potere accumulato negli anni, riuscì sempre a riemergere, diventando l’ideale traghettatore tra la prima e la seconda Repubblica.  Fu esterno alla nuova trattativa tra Stato e Mafia degli anni ’90, ma quella sua rete di poteri e segreti, di rapporti e sottobosco politico, sono rimasti pressoché intatti in quegli anni, costituendo alla fine l’humus nel quale è nato il novo “conservatorismo” berlusconiano, la nuova destra, nella quale lui comunque non si inserì mai.  Anche se  non si sottrasse  alla fascinazione del Potere neanche quando  era ormai un anziano senatore a vita: nel 2006 fu candidato da Berlusconi a presidente del Senato contro Franco Marini, leader dell’Unione vincitrice di poco alle elezioni. Perse per pochi voti, ma il suo cinismo politico non fu, anche in quella occasione, immune dalla vanità e dall’ambizione del Potere. Anche se glielo avrebbe potuto dare,strumentalmente, il Berlusconi così lontano dal suo mentore, Alcide De Gasperi.

"Possiedo un grande archivio, visto che non ho molta fantasia", diceva Giulio Andreotti.
"E' un archivio del tutto singolare", ha spiegato Giuseppe Sangiorgi, segretario generale dell'Istituto Sturzo, "perché è un archivio privato di Stato e credo sia l'unico esempio in Italia e forse uno dei pochi in Europa per l'enormità delle dimensioni". Lungo 600 metri se i 3500 faldoni fossero tutti in fila, racconta la parabola del Divo Giulio dalle foto dei genitori agli ultimi discorsi, compresi i guai giudiziari e le carte dei processi. E di conseguenza la storia d'Italia dai primi anni '40 al 2010 passando per i congressi della Dc, il sequestro Moro, le battaglie pro e contro il divorzio fino agli atti del Vaticano e al dibattito sull'Europa unita.
Nel luglio del 2007 il presidente Andreotti, che da sempre era stato tra i sostenitori dell’attività dell’Istituto Sturzo, decise di affidarci il suo archivio personale custodito fino a quel momento in un grande appartamento nel centro storico di Roma. L’archivio funzionava come un grande centro di documentazione per l’attività del presidente, che contribuiva alla definizione della sua struttura attraverso precise strategie di tipo conservativo, selezionando la documentazione e identificando l’oggetto, il tema o il nome di riferimento, apposto in forma autografa sulle carte.
Il presidente Andreotti pose come unica condizione che l’archivio fosse aperto immediatamente alla consultazione, senza attendere ulteriori riordini, sorprendendo tutti noi che pure di archivi ci occupiamo da molti anni. Il presidente legittimava in questo modo il lavoro, che l’Istituto Sturzo aveva fatto e faceva, di raccolta degli archivi della tradizione del cattolicesimo politico italiano, aggiungendosi ai più di settanta archivi personali e ai tre archivi di partito già custoditi.
L’archivio è costituito da tremilacinquecento buste, pari a circa seicento metri lineari di documentazione. Un archivio straordinario dunque, quando si pensi che la media dell’archivio di un politico di statura nazionale di solito oscilla tra i quattrocento e i seicento faldoni.
La consistenza e la varietà delle tipologie documentarie, oltre alla ricchezza dei contenuti, offrono ampia testimonianza della storia italiana – e non solo – di tutta la seconda metà del Novecento, e rendono questo complesso documentario sicuramente unico nel panorama degli archivi personali contemporanei.
L’archivio conserva documentazione relativa alla sfera sia privata che pubblica del presidente Andreotti dalla metà degli anni Quaranta ai nostri giorni e permette di ripercorrere in modo continuativo e significativo la sua lunga attività di uomo di governo e di partito, di studioso, di giornalista e di saggista. Le carte testimoniano attraverso un percorso impostato sia sulle vicende biografiche, sia sulle esperienze politiche, culturali e professionali, il ruolo istituzionale, come ministro e presidente del Consiglio, con particolare riguardo alla politica estera e comunitaria, all’attività nel partito della Democrazia cristiana, ma anche ai rapporti con istituzioni e personalità della Chiesa, della cultura, dell’arte e dello sport, sia a livello nazionale che internazionale."



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mercoledì 4 marzo 2015

MILANO & CRIMINI : COVO BR VIA MONTE NEVOSO

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Il Memoriale Moro è un insieme di vari documenti redatti dai terroristi delle Brigate Rosse che rapirono nel 1978 Aldo Moro, autore di una parte degli scritti. Questi furono rinvenuti in varie occasioni dal 1978 al 1990. I documenti vennero inizialmente presi in consegna dalla Digos, per essere poi consegnati e pubblicati dalla Commissione Stragi nel 2001.

Una versione del testo dattiloscritto fu ritrovata il 1º ottobre del 1978 in un appartamento-covo delle Brigate Rosse di via Monte Nevoso a Milano. Gli inquirenti dichiararono che l'appartamento era stato scarnificato, quindi si era certi che fosse impossibile ritrovare altro materiale. Molti anni dopo, nell'ottobre 1990, durante alcuni lavori di restauro nello stesso appartamento, fu rinvenuta altra versione più estesa del testo e del denaro ormai fuori corso.

Negli anni sono state date versioni leggermente differenti del primo ritrovamento del Memoriale nel covo delle BR. Il generale dei Carabinieri Nicolò Bozzo, al tempo nell'antiterrorismo, che effettuò per primo la perquisizione del covo descrive il ritrovamento davanti alla Commissione Stragi e più approfonditamente nel libro intervista Sragione di Stato.

Il generale Bozzo, rispondendo ad una domanda del presidente Pellegrino sulle varie versioni che negli anni si sono succedute, descrive così gli eventi che portarono all'individuazione del covo davanti alla commissione stragi:

« Come è andato il fatto? Era l'epoca dei borselli. Qualcuno sorride dal momento che si dice che si trovavano troppi borselli. Ma perché si trovavano i borselli? Perché questi contenevano anche le armi individuali. Noi facevamo dei controlli sugli autobus, sul treni; effettuavamo delle perquisizioni. Se c'era il brigatista con il borsello questi lo metteva sotto il sedile e scendeva, quando veniva perquisito, non veniva fuori niente. Soltanto dopo si trovava il borsello con la pistola. Ecco cosa è successo a Firenze. Tra l'altro, in quel borsello c'era anche la ricevuta dell'appuntamento di un dentista di Milano e la ricevuta dell'assicurazione di un motociclo. Questo motociclo era stato prodotto a Bologna e poi inviato ad un fornitore di Milano. Compiendo indagini presso questo fornitore, è emerso che l'aveva acquistato un giovane della zona. Avevamo trovato anche delle chiavi nel borsello e allora la zona, come ha detto lei, Presidente, è stata controllata palazzo per palazzo, casa per casa, portone per portone: di notte andarono a provare le chiavi per giorni e giorni, fintanto che si riuscì ad aprire un portone. Allora lo mettemmo sotto vigilanza (più precisamente definito servizio di o.c.p., osservazione, controllo e pedinamento) e trovammo questo giovane che ci era stato vagamente descritto da quel concessionario e da lì è nato il fatto. Questo giovane è stato identificato come Azzolini il 31 agosto, mi sembra, quando Dalla Chiesa effettivamente non aveva ancora assunto il pieno comando dei reparti antiterrorismo, ma era già stato investito dal Governo dal 10 agosto e quindi già ci contattava. Ecco come sono andate le cose. Diciamo che la versione più attendibile è quella di Dalla Chiesa, seppure con delle imprecisioni, dovute al fatto che lui voleva riferire a voce su avvenimenti che non aveva vissuto, mentre avrebbe potuto benissimo leggere alla Commissione il documento che gli avevamo preparato e allora non ci sarebbero state queste imprecisioni. »
(Inchiesta su stragi e depistaggi e sul caso Moro: audizione del generale dell'Arma dei carabinieri Nicolò Bozzo, Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, 28ª seduta, 21 gennaio 1998.)
Relativamente alla decisione di effettuare la perquisizione una volta individuato il covo:

« Dunque, io informai Dalla Chiesa di questa operazione il 10 agosto a Roma, perché in quella data lui convocò tutti i capi dell'antiterrorismo - eravamo in tre, uno a Milano, uno a Roma e uno a Napoli - nel suo ufficio di coordinatore dei servizi di sicurezza di prevenzione e pena. Mi chiese cosa stavo facendo a Milano e gli dissi che stavamo conducendo un'operazione che forse poteva portare a qualcosa di "solido". Lui mi ascoltò e mi disse di tener presente che non bisognava andare a cercare il covo o il covetto, ma poiché eravamo pochi dovevamo cercare i capi. Se volevamo risolvere il problema e tagliare il fenomeno alle radici, dovevamo catturare i vertici quando si riunivano: era quello il suo obiettivo, cioè sorprendere una direzione strategica in riunione, fare un'irruzione e catturarli tutti. In modo sottinteso, mi fece capire che queste piccole operazioni erano di mia competenza, che me le dovevo gestire io e non lui. D'altra parte io non gli avevo detto di Azzolini e di altre cose. Io cominciai ad informarlo quando identificammo Azzolini: al generale però dissi non che era certamente Azzolini, ma che poteva trattarsi di lui. Allora - ed eravamo già ai primi di settembre - il generale cominciò a dimostrare un certo interesse. Dalla Chiesa cambiò completamente opinione quando gli dissi che c'era la Mantovani in giro a Milano e che frequentava via Monte Nevoso, perché la Mantovani era entrata in clandestinità dal soggiorno obbligato ed era stato un caso clamoroso che aveva negativamente impressionato tutta l'opinione pubblica. Dalla Chiesa allora disse che bisognava catturarla subito, anche il giorno successivo, ma io replicai che non si poteva organizzare in così breve tempo l'operazione, perché bisognava pensare anche alla sicurezza del personale. Poi addirittura c’erano 6-7 obiettivi, una decina di persone indagate (e ne catturammo 9). Mi diede tre giorni, poi riuscii a strappargli una settimana. »
(Inchiesta su stragi e depistaggi e sul caso Moro: audizione del generale dell'Arma dei carabinieri Nicolò Bozzo, Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, 28ª seduta, 21 gennaio 1998.)
Il contenuto del secondo ritrovamento era:

sessanta milioni di lire, con molto probabilità provenienti dal riscatto del sequestro dell'armatore Pietro Costa, contenuti in una borsa nera;
un fucile mitragliatore, contenuto in un avvolgimento di giornali risalenti al settembre 1978;
una pistola Walther PPK;
una cartella piena di carte, avvolte nel nastro adesivo.
Tra le carte, in tutto 421 fogli, vi erano diverse lettere scritte da Moro, disposizioni testamentarie e il memoriale. Dei 421 fogli 229 sono fotocopie del manoscritto di Moro, con le risposte all'interrogatorio dei brigatisti (ma, come nella versione già nota, senza indicazione delle domande precise): rispetto alla versione ritrovata nel 1978 (che era dattiloscritta) sono presenti ben 53 pagine in più.

Del Memoriale si ebbero varie stesure:

STESURA-A: Originale, nastri e fogli provenienti direttamente dall'interrogatorio, bruciati forse dai terroristi dopo la redazione della Stesura-B, o forse almeno in parte conservati a via Monte Nevoso a Milano (Stesura-D);
STESURA-B: stesura basata in tutto o in parte sui documenti della STESURA-A, dattiloscritti in una casa-covo di Firenze dai Brigatisti;
STESURA-C: stesura ritrovata il 1º ottobre 1978 in un covo di via Monte Nevoso (in tutto ritrovate 43 pagine di documenti);
STESURA-D: stesura manoscritta da Moro, ritrovata durante alcuni lavori nell'ottobre 1990 nello stesso covo di via Monte Nevoso in un'intercapedine (421 fogli in tutto, di cui 229 sono fotocopie del manoscritto).
Tra il materiale della stesura D, oltre al memoriale, figurano anche lettere scritte da Moro e non consegnate dalle BR e le prime stesure di lettere che poi Moro decise di riscrivere.

La distruzione effettuata dai brigatisti della Stesura-A, cioè dei documenti originali, non permette di valutare le versioni successive, nella loro aderenza o meno alle risposte date da Aldo Moro nel corso del suo interrogatorio, né permette di avere la sicurezza totale che il ritrovamento più vasto (la STESURA-D), sia effettivamente completo. Le eventuali mancanze, però, non possono essere considerate dirimenti a una lettura "storica" della documentazione esistente.

La versione delle BR si basa su di un interrogatorio cui sottoposero Aldo Moro durante la prigionia. Il documento è redatto in prima persona, con Moro come narratore, e diffuso in forma dattiloscritta da Firenze, secondo alcuni dal covo di via Barbieri dell'architetto Giampaolo Barbi, o, secondo l'avvocato di Emanuele Petri, in un appartamento nei pressi del carcere di Sollicciano il cui proprietario era Giovanni Senzani. Un primo ritrovamento dei documenti avvenne nel 1978, in un covo delle BR appena scoperto a Milano in via Monte Nevoso: si tratta di pagine dattiloscritte, e quindi non è certo se siano state censurate o modificate. Alcune pagine manoscritte da Moro vennero ritrovate in un'intercapedine il 9 ottobre 1990 sempre nel covo di Milano, durante una ristrutturazione.

Le due stesure del testo pervenuteci, la C e la D, hanno consistenti differenze, che si spiegano nel rapporto copia-originale: infatti la stesura C è un dattiloscritto che in talune parti sunteggia, in talaltre riporta integralmente ovvero omette del tutto la stesura A, della quale (o di parte della quale) la stesura D è una fotocopia (lo dimostra il fatto che la perizia calligrafica compiuta su quanto trovato nel 1990 attesta l'autenticità della grafia di Aldo Moro). Non si conosce la causa dell'esistenza stessa della stesura C e se fu redatta dalle Brigate Rosse oppure dall'ufficio del Ministero dell'Interno a cui nell'ottobre 1978 furono conferiti dal generale Dalla Chiesa i materiali trovati a via Monte Nevoso. Non è noto se vi fu una stesura B destinata alle Colonne Brigatiste, ma la stesura C nelle sue molteplici omissioni (e nel linguaggio questurile con cui fu redatta) pare corrispondere assai di più all'intento di non rendere noti i pesanti apprezzamenti che Moro fece nella prigionia su alcuni suoi compagni di partito e di governo.

Le Brigate Rosse affermano di aver bruciato i nastri originali e gli scritti originali prodotto da Moro. Non si hanno elementi per accertare se uno o l'altro dei testi corrispondano effettivamente, ed in che misura, alla libera volontà di Aldo Moro nel dare risposte alle domande che gli furono poste nel corso dei lunghi giorni di prigionia. D'altro canto, non si vede per quale motivo le Br debbano aver "riscritto" le carte di Moro, se ci stavano lavorando per una pubblicazione clandestina al momento della scoperta della base di via Monte Nevoso, a Milano. La Commissione Stragi acquisì il materiale dalla Digos nel febbraio 2001, dopo che era stato dato per disperso, lo riordinò per tema confrontando le Stesura D e C (cioè il testo che fu diffuso dal Ministero dell'Interno il 17 ottobre 1978, che come detto era poco ordinato). Il Memoriale completamente ricostruito, in 16 temi, è disponibile presso la commissione stragi. Sulle differenze vennero aperte varie interrogazioni della Commissione, in cui venne ascoltato anche il capo del ramo italiano dell'organizzazione Gladio. Organizzazione che, però, non costituiva un segreto NATO di rilevante importanza. Anzi, una settimana dopo la cattura di Moro, il governo venne informato da fonti NATO che Moro non fosse a conoscenza di dati sensibili riguardanti armamenti, truppe, piani di intervento, tempi di mobilitazione.

Il 22 marzo 2001, la Commissione stragi decide la pubblicazione integrale del materiale, tra cui quello relativo al caso Moro.Alcuni retroscena erano già stati anticipati durante il sequestro dell'archivio del generale Demetrio Cogliandro, ex capo del Sismi, la vigilia di Natale del 1995.

Alcune conclusioni sul Memoriale Moro sono riportate nella sentenza Andreotti:

« La comparazione tra i due scritti, tuttavia, permette di affermare, seguitano gli stessi giudici, che quello rinvenuto nel 1990 contiene notizie più pregnanti ed organiche rispetto a quello del 1978. Ed invero, sul caso Italcasse se da un lato nello scritto del 1978 vi è un riferimento al ruolo del debitore Caltagirone, che tratta su mandato politico la successione del direttore generale dell’Italcasse, nello scritto del 1990 si fa un maggior cenno al motivo per cui Caltagirone ha mandato politico nella nomina del direttore dell’Italcasse e, cioè, la sistemazione della propria posizione debitoria.
Parimenti sui rapporti tra Michele Sindona e Giulio Andreotti; mentre nello scritto del 1978 si parla quasi occasionalmente del viaggio di Giulio Andreotti negli Stati Uniti d’America, per incontrare Michele Sindona, e della nomina di Mario Barone (come pretesa di Michele Sindona per la sua collocazione all’interno del Banco di Roma, quale contropartita per l’elargizione di £ 2.000.000.000, in occasione della campagna per il referendum per il divorzio, da parte di Sindona, e delle ripercussioni che una tale nomina politica avrebbe avuto negli equilibri del Banco di Roma) si parla nell’ambito della valutazione della figura di Amintore Fanfani, nello scritto del 1990 i rapporti tra Michele Sindona, Mario Barone e Giulio Andreotti vengono organicamente trattati come espressione della personalità di Giulio Andreotti da lui definito nello scritto del 1978: "Un regista freddo, imperscrutabile, senza dubbi, senza palpiti, senza mai un momento di pietà umana. È questo l'on. Andreotti del quale gli altri sono stati tutti gli obbedienti esecutori di ordini" e continua affermando che "Andreotti è restato indifferente, livido, assente, chiuso nel suo cupo sogno di gloria".
Giudizio completato nello scritto del 1990 quando, dopo avere unitariamente analizzato i fatti riferiti a Giulio Andreotti e avere tra questi inserito anche l’intervista in cui denunciava l’appartenenza di Guido Giannettini come agente del SID, afferma che quelli sono tutti segni di un’incredibile spregiudicatezza che deve aver caratterizzato tutta una fortunata carriera (che Moro non gli ha mai invidiato) e della quale la caratteristica più singolare è che passi così frequentemente priva di censura o anche solo del minimo rilievo. »
( Corte d'Assise d'Appello di Perugia (PDF), sentenza n. 4 del 13 febbraio 2003, pp. 47-48. URL consultato il 24 gennaio 2012.)


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