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mercoledì 8 aprile 2015

LE CITTA' DEL GARDA : SOLFERINO

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Solferino è un comune italiano di 2.579 abitanti della provincia di Mantova in Lombardia.

È situato nella pianura padana, sui colli morenici del Lago di Garda, nell'Alto Mantovano al confine con la provincia di Brescia.

È particolarmente conosciuto per la battaglia (24 giugno 1859) che ne prese il nome, combattuta fra l'esercito austriaco e quello franco-sardo come atto finale e conclusivo della seconda guerra d'indipendenza. La battaglia si concluse a Solferino con la presa della Rocca, più conosciuta come la "Spia d'Italia" per la sua posizione dominante.

E’ questo l’anfiteatro morenico del Garda, originato nel Quaternario, dal ghiacciaio Retico che nelle sue fasi di ritiro lasciò lungo i suoi bordi i detriti che nel corso dei millenni aveva asportato alle Alpi.

In questo verde scenario di dolci colline, coltivate a vite, qua e là interrotto dalle macchie azzurre delle torbiere, si erge la medievale rocca di Solferino, simbolo del Comune e punto nevralgico di parte della storia italiana.

I primi insediamenti umani nella zone di Solferino si fanno risalire al III millennio A.C.; lo testimonia il tipo di reperti portati alla luce, in località Barche di Solferino, ove fu ritrovata una palafitta ed interessante materiale in pietra, legno, osso. Dopo queste testimonianze, si può solo supporre un’eventuale occupazione etrusca, seguita nel V secolo A.C. dall’invasione di popolazioni celtiche (Galli Cenomani) e provata dal rinvenimento nei comuni limitrofi di necropoli e tombe. A loro volta, ai Galli, seguirono i Romani, che lasciarono a testimonianza alcuni resti di una strada in località Pozzo Catena. Dopo di ché, come buona parte della penisola, Solferino subì i saccheggi delle popolazioni barbariche.
Passato il periodo medievale e dei Comuni senza particolare storia, fu la volta del dominio dei Gonzaga, che sotto la guida di Orazio (1547-1587), riedificarono il castello e successivamente, con Cristierno (1580-1630), restaurarono la rocca.

Caduti i Gonzaga, Solferino fu direttamente interessata dalla battaglia di Castiglione (1796) che vide contrapporsi gli stessi due eserciti che sessantatré anni più tardi diedero luogo alla battaglia di Solferino, episodio decisivo, con quello di San Martino, della II guerra d’Indipendenza.

Visitare i luoghi compresi nell’ anfiteatro morenico del Garda è bello; farlo camminando, in bicicletta o a cavallo è ancora meglio.
Ci si immerge in un territorio unico nel suo genere, caratterizzato da dolci colline segnate a tramontana da strette strisce di boschi di roverella, di cerro, di carpino nero, a volte sormontate da un gruppo di cipressi, introdotti in epoca romana

Ci si riposa dopo una salita ammirando il panorama colorato da campi di mais, soia ed orzo ed interrotto nelle valli, da piccoli laghetti ove l’acqua ristagna trattenuta dai più profondi strati argillosi.

Il Museo Storico allestito nel 1931 dalla Società Solferino e San Martino e situato ai margini del parco dell’Ossario, è custode non solo di numerosi cimeli, armamenti e ricordi degli eserciti francese ed austriaco che qui combatterono nel 1859, ma anche di parte della storia italiana dal 1796 al 1870.
Accanto al materiale iconografico e documentario vi è una ricca esposizione di armi, uniformi, disegni, stampe ed oggetti personali appartenuti ai combattenti; il tutto è ordinato cronologicamente in tre sale ed accompagnato da didascalie esplicative in modo di fornire al visitatore un valido strumento culturale-didattico.
Menzione particolare va, ovviamente, alla sala centrale, interamente dedicata alla battaglia del 24 giugno 1859.
Accanto al materiale iconografico e documentario vi è una ricca esposizione di armi, uniformi, disegni, stampe ed oggetti personali appartenuti ai combattenti; il tutto è ordinato cronologicamente in tre sale ed accompagnato da didascalie esplicative in modo di fornire al visitatore un valido strumento culturale-didattico.
Menzione particolare va, ovviamente, alla sala centrale, interamente dedicata alla battaglia del 24 giugno 1859.

Immersa nel verde del parco, alla sommità di Solferino (m.206 s.l.m.), si erge la poderosa torre quadrata detta, durante il Risorgimento, Spia d’Italia per la sua posizione strategica rivolta al confine del veneto, allora austriaco.
La costruzione, eretta nel 1022, alta 23 metri, contiene al piano terra i busti dei generali francesi Auger e Dieu, caduti nella battaglia; nelle vetrine laterali e centrali, oltre a cimeli ed armi, sono esposti documenti relativi alla storia della Rocca ed alla Zecca dei Gonzaga di Solferino.
Una comoda rampa in legno porta alla Sala dei Sovrani (ritratti di Napoleone III e V.Emanuele II) e più in alto, alla terrazza panoramica dove grazie a tavole di orientamento, si possono riconoscere, quando la visibilità lo consente, i campanili e le torri di luoghi situati a parecchie decine di chilometri.

Attraverso un viale di cipressi, detto di San Luigi Gonzaga, si arriva al Memoriale della Croce Rossa, eretto nel 1959, in ricordo del premio Nobel per la pace Jean Henry Dunant (1828-1910), che dal pietoso spettacolo seguito alla battaglia di Solferino, trasse l’idea della Croce Rossa.
Sul lato destro, il monumento è composto dai marmi provenienti da ogni parte del mondo, sui quali sono impressi i nomi di centoquarantotto Paesi aderenti alla Croce Rossa Internazionale.

Piazza castello sicuramente una delle più belle piazze del mantovano, è l’area su cui sorgeva l’antico castello, eretto nel sec. XI e sostanzialmente modificato dal principe Orazio Gonzaga nel XVI secolo, che lo trasformò nella propria residenza.
Vi si accede passando sotto un arco (un tempo sormontato da una torre con ponte levatoio); di forma rettangolare, cinta ancora in parte da mura merlate, la piazza è chiusa a destra da una cortina di case, mentre a sinistra, una bassa muraglia permette di godere dell’ampio panorama che arriva, nebbia permettendo, sino oltre il lago di Garda.
Del vecchio castello sono rimaste, sopravvissute al tempo. ma soprattutto alle battaglie del 1796 e 1859, la Torre di Guardia, con la caratteristica cupola ogivale di gusto orientaleggiante, sede di numerose esposizioni durante il periodo estivo, e la Chiesa di San Nicola, al centro, che ha subito negli anni radicali trasformazioni.
E’ in questa piazza che tutti gli anni, durante le manifestazioni commemorative della battaglia, si svolge il tradizionale concerto all’aperto.


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                              http://asiamicky.blogspot.it/2015/03/la-battaglia-di-solferino.html




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mercoledì 4 marzo 2015

MILANO & CRIMINI : COVO BR VIA MONTE NEVOSO

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Il Memoriale Moro è un insieme di vari documenti redatti dai terroristi delle Brigate Rosse che rapirono nel 1978 Aldo Moro, autore di una parte degli scritti. Questi furono rinvenuti in varie occasioni dal 1978 al 1990. I documenti vennero inizialmente presi in consegna dalla Digos, per essere poi consegnati e pubblicati dalla Commissione Stragi nel 2001.

Una versione del testo dattiloscritto fu ritrovata il 1º ottobre del 1978 in un appartamento-covo delle Brigate Rosse di via Monte Nevoso a Milano. Gli inquirenti dichiararono che l'appartamento era stato scarnificato, quindi si era certi che fosse impossibile ritrovare altro materiale. Molti anni dopo, nell'ottobre 1990, durante alcuni lavori di restauro nello stesso appartamento, fu rinvenuta altra versione più estesa del testo e del denaro ormai fuori corso.

Negli anni sono state date versioni leggermente differenti del primo ritrovamento del Memoriale nel covo delle BR. Il generale dei Carabinieri Nicolò Bozzo, al tempo nell'antiterrorismo, che effettuò per primo la perquisizione del covo descrive il ritrovamento davanti alla Commissione Stragi e più approfonditamente nel libro intervista Sragione di Stato.

Il generale Bozzo, rispondendo ad una domanda del presidente Pellegrino sulle varie versioni che negli anni si sono succedute, descrive così gli eventi che portarono all'individuazione del covo davanti alla commissione stragi:

« Come è andato il fatto? Era l'epoca dei borselli. Qualcuno sorride dal momento che si dice che si trovavano troppi borselli. Ma perché si trovavano i borselli? Perché questi contenevano anche le armi individuali. Noi facevamo dei controlli sugli autobus, sul treni; effettuavamo delle perquisizioni. Se c'era il brigatista con il borsello questi lo metteva sotto il sedile e scendeva, quando veniva perquisito, non veniva fuori niente. Soltanto dopo si trovava il borsello con la pistola. Ecco cosa è successo a Firenze. Tra l'altro, in quel borsello c'era anche la ricevuta dell'appuntamento di un dentista di Milano e la ricevuta dell'assicurazione di un motociclo. Questo motociclo era stato prodotto a Bologna e poi inviato ad un fornitore di Milano. Compiendo indagini presso questo fornitore, è emerso che l'aveva acquistato un giovane della zona. Avevamo trovato anche delle chiavi nel borsello e allora la zona, come ha detto lei, Presidente, è stata controllata palazzo per palazzo, casa per casa, portone per portone: di notte andarono a provare le chiavi per giorni e giorni, fintanto che si riuscì ad aprire un portone. Allora lo mettemmo sotto vigilanza (più precisamente definito servizio di o.c.p., osservazione, controllo e pedinamento) e trovammo questo giovane che ci era stato vagamente descritto da quel concessionario e da lì è nato il fatto. Questo giovane è stato identificato come Azzolini il 31 agosto, mi sembra, quando Dalla Chiesa effettivamente non aveva ancora assunto il pieno comando dei reparti antiterrorismo, ma era già stato investito dal Governo dal 10 agosto e quindi già ci contattava. Ecco come sono andate le cose. Diciamo che la versione più attendibile è quella di Dalla Chiesa, seppure con delle imprecisioni, dovute al fatto che lui voleva riferire a voce su avvenimenti che non aveva vissuto, mentre avrebbe potuto benissimo leggere alla Commissione il documento che gli avevamo preparato e allora non ci sarebbero state queste imprecisioni. »
(Inchiesta su stragi e depistaggi e sul caso Moro: audizione del generale dell'Arma dei carabinieri Nicolò Bozzo, Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, 28ª seduta, 21 gennaio 1998.)
Relativamente alla decisione di effettuare la perquisizione una volta individuato il covo:

« Dunque, io informai Dalla Chiesa di questa operazione il 10 agosto a Roma, perché in quella data lui convocò tutti i capi dell'antiterrorismo - eravamo in tre, uno a Milano, uno a Roma e uno a Napoli - nel suo ufficio di coordinatore dei servizi di sicurezza di prevenzione e pena. Mi chiese cosa stavo facendo a Milano e gli dissi che stavamo conducendo un'operazione che forse poteva portare a qualcosa di "solido". Lui mi ascoltò e mi disse di tener presente che non bisognava andare a cercare il covo o il covetto, ma poiché eravamo pochi dovevamo cercare i capi. Se volevamo risolvere il problema e tagliare il fenomeno alle radici, dovevamo catturare i vertici quando si riunivano: era quello il suo obiettivo, cioè sorprendere una direzione strategica in riunione, fare un'irruzione e catturarli tutti. In modo sottinteso, mi fece capire che queste piccole operazioni erano di mia competenza, che me le dovevo gestire io e non lui. D'altra parte io non gli avevo detto di Azzolini e di altre cose. Io cominciai ad informarlo quando identificammo Azzolini: al generale però dissi non che era certamente Azzolini, ma che poteva trattarsi di lui. Allora - ed eravamo già ai primi di settembre - il generale cominciò a dimostrare un certo interesse. Dalla Chiesa cambiò completamente opinione quando gli dissi che c'era la Mantovani in giro a Milano e che frequentava via Monte Nevoso, perché la Mantovani era entrata in clandestinità dal soggiorno obbligato ed era stato un caso clamoroso che aveva negativamente impressionato tutta l'opinione pubblica. Dalla Chiesa allora disse che bisognava catturarla subito, anche il giorno successivo, ma io replicai che non si poteva organizzare in così breve tempo l'operazione, perché bisognava pensare anche alla sicurezza del personale. Poi addirittura c’erano 6-7 obiettivi, una decina di persone indagate (e ne catturammo 9). Mi diede tre giorni, poi riuscii a strappargli una settimana. »
(Inchiesta su stragi e depistaggi e sul caso Moro: audizione del generale dell'Arma dei carabinieri Nicolò Bozzo, Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, 28ª seduta, 21 gennaio 1998.)
Il contenuto del secondo ritrovamento era:

sessanta milioni di lire, con molto probabilità provenienti dal riscatto del sequestro dell'armatore Pietro Costa, contenuti in una borsa nera;
un fucile mitragliatore, contenuto in un avvolgimento di giornali risalenti al settembre 1978;
una pistola Walther PPK;
una cartella piena di carte, avvolte nel nastro adesivo.
Tra le carte, in tutto 421 fogli, vi erano diverse lettere scritte da Moro, disposizioni testamentarie e il memoriale. Dei 421 fogli 229 sono fotocopie del manoscritto di Moro, con le risposte all'interrogatorio dei brigatisti (ma, come nella versione già nota, senza indicazione delle domande precise): rispetto alla versione ritrovata nel 1978 (che era dattiloscritta) sono presenti ben 53 pagine in più.

Del Memoriale si ebbero varie stesure:

STESURA-A: Originale, nastri e fogli provenienti direttamente dall'interrogatorio, bruciati forse dai terroristi dopo la redazione della Stesura-B, o forse almeno in parte conservati a via Monte Nevoso a Milano (Stesura-D);
STESURA-B: stesura basata in tutto o in parte sui documenti della STESURA-A, dattiloscritti in una casa-covo di Firenze dai Brigatisti;
STESURA-C: stesura ritrovata il 1º ottobre 1978 in un covo di via Monte Nevoso (in tutto ritrovate 43 pagine di documenti);
STESURA-D: stesura manoscritta da Moro, ritrovata durante alcuni lavori nell'ottobre 1990 nello stesso covo di via Monte Nevoso in un'intercapedine (421 fogli in tutto, di cui 229 sono fotocopie del manoscritto).
Tra il materiale della stesura D, oltre al memoriale, figurano anche lettere scritte da Moro e non consegnate dalle BR e le prime stesure di lettere che poi Moro decise di riscrivere.

La distruzione effettuata dai brigatisti della Stesura-A, cioè dei documenti originali, non permette di valutare le versioni successive, nella loro aderenza o meno alle risposte date da Aldo Moro nel corso del suo interrogatorio, né permette di avere la sicurezza totale che il ritrovamento più vasto (la STESURA-D), sia effettivamente completo. Le eventuali mancanze, però, non possono essere considerate dirimenti a una lettura "storica" della documentazione esistente.

La versione delle BR si basa su di un interrogatorio cui sottoposero Aldo Moro durante la prigionia. Il documento è redatto in prima persona, con Moro come narratore, e diffuso in forma dattiloscritta da Firenze, secondo alcuni dal covo di via Barbieri dell'architetto Giampaolo Barbi, o, secondo l'avvocato di Emanuele Petri, in un appartamento nei pressi del carcere di Sollicciano il cui proprietario era Giovanni Senzani. Un primo ritrovamento dei documenti avvenne nel 1978, in un covo delle BR appena scoperto a Milano in via Monte Nevoso: si tratta di pagine dattiloscritte, e quindi non è certo se siano state censurate o modificate. Alcune pagine manoscritte da Moro vennero ritrovate in un'intercapedine il 9 ottobre 1990 sempre nel covo di Milano, durante una ristrutturazione.

Le due stesure del testo pervenuteci, la C e la D, hanno consistenti differenze, che si spiegano nel rapporto copia-originale: infatti la stesura C è un dattiloscritto che in talune parti sunteggia, in talaltre riporta integralmente ovvero omette del tutto la stesura A, della quale (o di parte della quale) la stesura D è una fotocopia (lo dimostra il fatto che la perizia calligrafica compiuta su quanto trovato nel 1990 attesta l'autenticità della grafia di Aldo Moro). Non si conosce la causa dell'esistenza stessa della stesura C e se fu redatta dalle Brigate Rosse oppure dall'ufficio del Ministero dell'Interno a cui nell'ottobre 1978 furono conferiti dal generale Dalla Chiesa i materiali trovati a via Monte Nevoso. Non è noto se vi fu una stesura B destinata alle Colonne Brigatiste, ma la stesura C nelle sue molteplici omissioni (e nel linguaggio questurile con cui fu redatta) pare corrispondere assai di più all'intento di non rendere noti i pesanti apprezzamenti che Moro fece nella prigionia su alcuni suoi compagni di partito e di governo.

Le Brigate Rosse affermano di aver bruciato i nastri originali e gli scritti originali prodotto da Moro. Non si hanno elementi per accertare se uno o l'altro dei testi corrispondano effettivamente, ed in che misura, alla libera volontà di Aldo Moro nel dare risposte alle domande che gli furono poste nel corso dei lunghi giorni di prigionia. D'altro canto, non si vede per quale motivo le Br debbano aver "riscritto" le carte di Moro, se ci stavano lavorando per una pubblicazione clandestina al momento della scoperta della base di via Monte Nevoso, a Milano. La Commissione Stragi acquisì il materiale dalla Digos nel febbraio 2001, dopo che era stato dato per disperso, lo riordinò per tema confrontando le Stesura D e C (cioè il testo che fu diffuso dal Ministero dell'Interno il 17 ottobre 1978, che come detto era poco ordinato). Il Memoriale completamente ricostruito, in 16 temi, è disponibile presso la commissione stragi. Sulle differenze vennero aperte varie interrogazioni della Commissione, in cui venne ascoltato anche il capo del ramo italiano dell'organizzazione Gladio. Organizzazione che, però, non costituiva un segreto NATO di rilevante importanza. Anzi, una settimana dopo la cattura di Moro, il governo venne informato da fonti NATO che Moro non fosse a conoscenza di dati sensibili riguardanti armamenti, truppe, piani di intervento, tempi di mobilitazione.

Il 22 marzo 2001, la Commissione stragi decide la pubblicazione integrale del materiale, tra cui quello relativo al caso Moro.Alcuni retroscena erano già stati anticipati durante il sequestro dell'archivio del generale Demetrio Cogliandro, ex capo del Sismi, la vigilia di Natale del 1995.

Alcune conclusioni sul Memoriale Moro sono riportate nella sentenza Andreotti:

« La comparazione tra i due scritti, tuttavia, permette di affermare, seguitano gli stessi giudici, che quello rinvenuto nel 1990 contiene notizie più pregnanti ed organiche rispetto a quello del 1978. Ed invero, sul caso Italcasse se da un lato nello scritto del 1978 vi è un riferimento al ruolo del debitore Caltagirone, che tratta su mandato politico la successione del direttore generale dell’Italcasse, nello scritto del 1990 si fa un maggior cenno al motivo per cui Caltagirone ha mandato politico nella nomina del direttore dell’Italcasse e, cioè, la sistemazione della propria posizione debitoria.
Parimenti sui rapporti tra Michele Sindona e Giulio Andreotti; mentre nello scritto del 1978 si parla quasi occasionalmente del viaggio di Giulio Andreotti negli Stati Uniti d’America, per incontrare Michele Sindona, e della nomina di Mario Barone (come pretesa di Michele Sindona per la sua collocazione all’interno del Banco di Roma, quale contropartita per l’elargizione di £ 2.000.000.000, in occasione della campagna per il referendum per il divorzio, da parte di Sindona, e delle ripercussioni che una tale nomina politica avrebbe avuto negli equilibri del Banco di Roma) si parla nell’ambito della valutazione della figura di Amintore Fanfani, nello scritto del 1990 i rapporti tra Michele Sindona, Mario Barone e Giulio Andreotti vengono organicamente trattati come espressione della personalità di Giulio Andreotti da lui definito nello scritto del 1978: "Un regista freddo, imperscrutabile, senza dubbi, senza palpiti, senza mai un momento di pietà umana. È questo l'on. Andreotti del quale gli altri sono stati tutti gli obbedienti esecutori di ordini" e continua affermando che "Andreotti è restato indifferente, livido, assente, chiuso nel suo cupo sogno di gloria".
Giudizio completato nello scritto del 1990 quando, dopo avere unitariamente analizzato i fatti riferiti a Giulio Andreotti e avere tra questi inserito anche l’intervista in cui denunciava l’appartenenza di Guido Giannettini come agente del SID, afferma che quelli sono tutti segni di un’incredibile spregiudicatezza che deve aver caratterizzato tutta una fortunata carriera (che Moro non gli ha mai invidiato) e della quale la caratteristica più singolare è che passi così frequentemente priva di censura o anche solo del minimo rilievo. »
( Corte d'Assise d'Appello di Perugia (PDF), sentenza n. 4 del 13 febbraio 2003, pp. 47-48. URL consultato il 24 gennaio 2012.)


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