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martedì 21 aprile 2015

PERSONE DI BESOZZO : DOMENICO DE BERNARDI

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De Bernardi Domenico nacque a Besozzo (Varese) il 21 febbraio 1892 da Francesco, industriale, e dalla contessa Enrichetta Brunetta d'Usseaux. Conseguita la licenza liceale, s'iscrisse alla facoltà d'ingegneria presso l'università di Pavia, ma presto l'abbandonò per dedicarsi alla pittura. Dal 1911 iniziò a dipingere per proprio conto, indirizzato solo da qualche insegnamento impartitogli da Ludovico Cavalieri e, nel 1920, esordì alla XII Biennale di Venezia con il dipinto Nebbia.
Pur restando fondamentalmente un autodidatta, De Bernardi s'inserisce nel solco della tradizione paesistica lombarda che, discendendo dalla Scapigliatura romantica di Tranquillo Cremona, si prolunga stancamente in un clima naturalistico con echi impressionistici. Dopo l'esordio, la sua attività espositiva si andò rapidamente intensificando: espose di nuovo alle Biennali di Venezia (1922, 1926, 1928, 193), fu presente alle Biennali romane (1921, 1925) e, sempre a Roma, partecipò alle esposizioni degli amatori e cultori di belle arti (1922, 1927, 1930). Nel 1925 e nel 1933 si presentò con due personali alla galleria Pesaro di Milano.

Sullo scorcio degli anni '20, arrivarono i primi riconoscimenti ufficiali: nel 1929, con il dipinto Prealpi, vinse a Bologna il primo "Premio del paesaggio italiano" e, con Vecchia ferrovia, la medaglia di bronzo alla Mostra internazionale d'arte di Barcellona; nel 1930 ricevette il premio "Lavoro nell'industria" alla XVII Biennale di Venezia con il dipinto Costruzioni. Lavori nuova stazione FF.SS. Milano.

In questi anni la sua pittura subì una serie di mutamenti sia stilistici sia tematici. Infatti, in consonanza con l'atmosfera creatasi intorno al dilagante "Novecento italiano", senti l'esigenza di allontanarsi dal naturalismo romantico per un segno più sintetico con cui costruire vedute ampie e ariose, per una tavolozza più luminosa e varia, sensibile ai mutamenti del luogo e dell'atmosfera. Rinnovamento cromatico che raggiunse toni ancor più tersi e vividi dopo un viaggio in Libia, dal quale riportò una serie di paesaggi mediterranei (esposti, nel 1934, all'Internazionale coloniale tenutasi a Napoli in Castelnuovo).

Nel corso degli anni '30 il De Bernardi tornò ad esporre sia alle Quadriennali romane (1931, 1935, 1939, 1941) sia alle Biennali veneziane (1932, 1936) e tenne una significativa personale alla galleria Prevosti di Varese. Ora, con sempre maggiore frequenza, ai paesaggi montani si affiancano le immagini urbane di un'Italia in febbrile costruzione. Mosso dall'interesse per queste nuove vedute, nel 1932 si recò anche a Roma per ritrarre dal vero le fasi più salienti delle opere del regime alla vigilia della celebrazione dell'anno X dell'era fascista.

In una personale, nell'ambito della mostra "I lavori di Roma dell'anno X", alla galleria dei Cultori d'arte, espose in quello stesso anno gli esiti del suo lavoro, presentandoli in catalogo con un breve scritto inneggiante alla "magnificenza di Roma che per volontà dei Duce torna a rivivere la primitiva grandezza". Nel 1939, in una personale alla galleria Gian Ferrari di Milano, espose le sue più recenti impressioni dei paesaggio urbano ed alcune nature morte scrupolosamente disegnate e tese ad affrontare con agilità e freschezza i problemi della luce e della profondità atmosferica. Nel 1945, alla galleria Italiana di Milano, allestì una sua personale in cui ripropose una selezione di cinquanta opere dipinte tra il 1920 e il 1945. Quindi, dopo alcune personali e collettive tenute a Milano, Varese, Torino e Novara, nel 1950 presentò alla galleria Gavioli di Milano la sua attività più recente, dedicata alle piazze e alle vie d'Italia brulicanti di movimento.

La sua pittura, già magra, si è fatta ora avara di colore e volentieri lascia scoperto il fondo della tela. Il comune di Besozzo dedicherà significativi riconoscimenti, negli ultimi anni della sua vita, all'illustre conterraneo che aveva reso noti i grigi ed umidi paesaggi del Varesotto. Tra l'altro nel 1952, cogliendo l'occasione per sottolineare un ideale gemellaggio tra i paesi della nebbia, lo inviò a Londra, da dove riportò una serie di schizzi e appunti, che utilizzò nelle sue opere successive, sempre più essenziali, povere di materia e sobrie nel segno, secondo una costante tipica della sua ultima fase pittorica che lo portò anche ad interessarsi della tecnica litografica.

Nel 1959 gli venne dedicata una importante antologica nel palazzo municipale della sua città. Morì a Besozzo il 13 luglio 1963.

Mostre postume di particolare rilievo sono state allestite a Varese nel 1980 e nel 1984 (Galleria d'arte internazionale). Sue opere sono conservate in importanti musei italiani: Paesaggio lombardo nella Galleria d'arte moderna di Milano; S'approssima il temporale (1930) nella Galleria d'arte moderna di Torino; a Roma, nella Galleria nazionale d'arte moderna sono Il cavalcavia (c. 1930) e Tempo grigio (1929); nella Galleria comunale è Nave in allestimento (1927).

Anche quando si ritirò a vita privata continuò ad essere amato a Varese.

Forse è perché De Bernardi è rassicurante, apre uno spiraglio in una dimensione dell’immaginario in cui ciascuno si può collocare e sentire a suo agio; forse perché c’è una sorta di affinità elettiva per cui i varesini ritrovano nei dipinti la loro terra le loro radici il loro ‘locus vitae’: il paesaggio neutro privo di figure definite identificabili, è la terra di nessuno e di ciascuno in particolare, basta lasciar parlare le emozioni e si entra a far parte della terra e del cielo di Lombardia.

È una questione di feeling: non serve scomodare astrusità per spiegare il pittore: la sua produzione ha una spontaneità una semplicità esemplari; è un autodidatta, non ha frequentato Brera o qualche altra Accademia come i grandi suoi contemporanei che sono stati allievi di autori prestigiosi, la sua cifra personale è accattivante e lo fa apprezzare e amare più di ogni altro. Nelle sue tavole e nelle sue tele propone particolari che tutti conoscono, che appartengono al vissuto: ognuno sa dove è, di chi è, come è la cascina, il viottolo la casa la marina l’albero che osserva ogni giorno e che il pittore riproduce tout court in ‘cartoline’ raffinate.

De Bernardi è un naturalista, i canoni dell’estetica aristotelica sono profondamente radicati nel suo operare; la funzione della sua arte è catartica perché si stacca dalla materia che muta, rende eterno ciò che osserva, solleva in una dimensione rassicurante, rilassante, una dimensione atemporale; non interpreta la realtà, la duplica con mano sicura e occhio poetico: arriva a dipingere lo stesso soggetto in più quadri distinti solamente da variazioni temporali notabili perché un albero è cresciuto o l’erba è stata tagliata o la luce suggerisce un vespero o un’alba, un momento diverso del giorno. Dipinge secondi i canoni della pittura lombarda naturalistica, volutamente lontana dalla sperimentazione avanguardista del primo novecento, ancorato ai modi Ottocenteschi, alle ‘piccole cose gozzaniane’ ad un gusto conservatore, talora un po’ retrò.

Gli unici tocchi di ‘modernità’ sono legati alla formazione culturale scientifica che ha ricevuto – il padre lo iscrisse ad ingegneria, facoltà che abbandonò subito- e a un’elevata dose di curiosità per tutto ciò che sa di novità che lo porta ad inserire nei suoi lavori linee elettriche, stazioni ferroviarie e cantieri navali.

De Bernardi ‘cristallizza la natura nell’attimo’, la riproduce sulla tela con l’occhio del pittore, unico mediatore tra la natura e l’uomo, attento a cogliere le variazioni della luce delle stagioni degli anni: due tavole affiancate in mostra evidenziano la crescita delle piante contro l’immobilità di cascine e montagne. Trasferisce con armonia sulle tele i paesaggi e il mondo agreste, i soggetti preferiti.

Privilegia i toni tenui, utilizza una tavolozza di colori naturali rischiarati da sprazzi di luce che accennano ombre delicate mai incombenti, ritrae verdi nature, cieli azzurri appena sporcati da nuvole bianche. La sua sensibilità e la sua vena poetica si esprimono attraverso pennellate morbide continue, larghe, dense di materia pittorica che si distendono a formare il verde dei campi o il bruno del terreno, l’azzurro del cielo o il bianco delle nuvole. La luce e la morbidezza dei colori hanno una sapiente garbata semplicità che delinea i soggetti per i quali talora il Maestro utilizza il tocco aggiuntivo della matita nera; predilige le tavole che sono rettangolari, tipiche della veduta del paesaggio nel quale la base che fa da appoggio alla veduta, ha dimensioni superiori all’altezza.




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mercoledì 15 aprile 2015

PERSONE DI PORTO VALTRAVAGLIA : CESARINA SOLCIA

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E' nata nel 1938 e si è diplomata all'Istituto d'Arte "Marangoni" in figurino e disegno su tessuto. Dopo essersi dedicata alla famiglia, alla fine degli anni ottanta riprende l'attività artistica frequentando lo studio della pittrice Micol De Palma.

E' socia di Arte Cultura, rivista artistica e culturale di Milano.

Nell'arte di Cesarina Solcia si avverte il respiro puro del sentimento che è linfa essenziale della sua ispirazione. Il linguaggio espressivo ed immediato, affidato alla sensibilità del colore e all'intensità comunicante della forma. Osservando attentamente le sue opere si nota come la forza dell'emozione prevalga su ogni astratta considerazione teorica. Il mondo della natura, rivelato dall'essenzialità della luce, è lo scopo primario della ricerca visiva ed interiore della pittrice. Il variare delle tonalità, la limpidezza della composizione, l'equilibrio generale dell'espressione sono altri fattori culturali e poetici che invitano al costante ed appagante confronto con la sua pittura e con la verità in essa plasticamente e vitalmente rappresentata.

Un linguaggio, quello di Cesarina, che si realizza su toni cromatici di estrema purezza, nell'esercizio di una tecnica personale, con la quale riesce a trarre trasparenze impensate. I contenuti e i colori non sono mai abbandonati ad un arbitro impulsivo bensì organizzati secondo una logica compositiva.

Ha scelto Porto Valtravaglia come sua seconda residenza.


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domenica 12 aprile 2015

IL MUSEO DELL' OLIO A LIMONE SUL GARDA

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L’olivicoltura sul Garda si sviluppò col Medioevo, anche se non mancano testimonianze sporadiche della presenza dell’olivo in epoca più antica.
Noccioli di olive risalenti all’ultimo periodo di Roma repubblicana sono stati infatti rinvenuti nell’area palafitticola del Bor, presso Pacengo; a Malcesine è venuta alla luce, unitamente a molte monete romane dell’epoca dell’imperatore Massenzio (inizi del sec. IV), una pietra da frantoio con scannellature laterali per la raccolta dell’olio.
I documenti più antichi sulla pianta cara a Minerva sono numerosi a partire dal sec. VIII. La produzione fu valorizzata, ancor prima che a scopo alimentare, probabilmente per gli usi liturgici: l’olio veniva usato per somministrare i sacramenti e per mantenere accese le lampade ai tabernacoli delle chiese.
Espliciti riferimenti all’oliveto di Limone sono della metà del Cinquecento, quando Silvan Cattaneo, descrivendo un suo viaggio sul lago compiuto verso il 1550 annotò:
“Passammo innanzi ad una bella terricciuola, che a guisa di semiteatro in un angolo tra la montagna e il lago è situata, chiamata Limone, alla quale per essere in quel seno angusto e ristretto, non se le puol andar, se non per acqua, e da una strada erta, e malagevole verso la montagna predetta; ha vicino, ed intorno a sé, ascendendo sul collicello che la circonda, un vago e fertilissimo bosco di ulivi, li più belli, spessi e fronduti che sian in que’ contorni, e che non mai fallano, ma sempre verdi e morbidi e sempre carichi di uliva si veggiono al dovuto tempo, con una fonte al sommo di questo colle, che tutti gli irriga e bagna e, quantunque il sito sia stretto, pur la natura fedelissima e prodiga donatrice gli ha fatto dono di tre grandissimi privilegi e grazie, il primo dandogli il luogo abbondantissimo di olio, di modo che più ne raccolgono in quel poco di terreno gli abitanti che in tre volte tanto altrove non si fa, e migliore e più saporito...”.
E non è perciò un caso che nel 1595 a Limone si contassero 20 torchi da olio. Per tutto il Seicento l’olio rappresentò per l’Alto Garda il prodotto più pregiato.
Ne fanno fede le molteplici attenzioni dei provveditori di Salò, soprattutto per cercare di riscuotere i dazi per Venezia. La maggior parte dell’olio prendeva la via della Germania, sfuggendo ad ogni controllo fiscale.
Nella sua Relazione presentata al Senato veneto nel dicembre 1659, il provveditore Niccolò Gritti lamentava che, degli 11-12.000 ducati di dazio che si sarebbero dovuti riscuotere, solo 3810 finivano nelle casse statali: i 229 torchi da olio sparsi nei Comuni della Riviera erano evidentemente poco controllabili. Così si finì col far contare gli olivi di ogni paese ed imporre un dazio di due soldi per pianta: pur in mezzo a molti malumori, ci si garantì in questo modo da una evasione massiccia.
Poi venne il grande freddo del 1709: gelarono perfino le acque del lago e anche a Limone morirono migliaia di olivi, con danni irreparabili per i piccoli proprietari e i miseri contadini.
Il freddo si ripresentò più volte nel corso del secolo, alternandosi al “bisól”, la mosca olearia, altro “nemico” contro il quale non c’era rimedio.
Degli olivi di Limone scrisse Pietro Emilio Tiboni nel 1859: “L’oliveto, che dalle sponde del lago poggia verso la parte settentrionale fino presso a’ dirupi, e verso occidente distendesi fino all’inculto vallone di Bine, e quindi sino al ponte di Burdole, vicino di Ustecchio, è il più ferace dei dintorni, e getta moggia di olio, l’uno con l’altro anno, 420, che moltiplicano pesi bresciani 4095.
Quest’olio sì per la postura degli olivi sì per la diligentissima coltivazione torna il più dilicato e migliore della Riviera.
Le bacche raccolte dall’olivo al sopravvenire dell’inverno, e macerate, si spremono al presente in Limone per due macchine mosse dall’acqua, sostituite con gran vantaggio a’ vecchi torchi: dove esse cavano tutta la parte oleosa con meno fatica di mano, e con maggior prontezza e sicurtà”.

Alla fine della prima Guerra mondiale l’olivicoltura limonese fece un salto di qualità.
Il 29 novembre 1919 ventotto piccoli proprietari, guidati dal parroco don Giovanni Morandi, costituirono una Società anonima denominata “Cooperativa tra i possidenti di oliveti” allo scopo di molire le olive presso un unico frantoio sociale.
Il 4 dicembre 1925, la Cooperativa acquistò in via Campaldo - già contrada del Lupo - l’immobile, in precedenza utilizzato come cartiera, per adibirlo ad olieria.
Per la turbina che doveva muovere le molazze fu costruito il canale di derivazione dell’acqua dal torrente San Giovanni, in parte ancora esistente.
Da allora, l’oleificio ha via via migliorato la struttura produttiva, mantenendo tuttavia le caratteristiche tradizionali della lavorazione a freddo con le molazze in pietra.
La produzione, sostenuta da circa 450 piccoli soci, si mantiene oggi su livelli di nicchia; nel corso dell’anno 2006-07 sono stati moliti quintali 1769,65 di olive, con una produzione di quintali 393,46 di olio.

L’olivo richiede particolari cure di coltivazione: bisogna arare e zappare il terreno, concimare e potare ogni due anni, tenere costantemente libero il terreno dalle erbacce, irrigare quando la calura è insistente.
Poi, se l’annata è stata propizia, a metà autunno si possono raccogliere le olive.
Si comincia a “góer” ai primi di novembre, tanto che un antico proverbio limonese ancora dice: “A San Martì s’endrìsa n pé le scalì”.
È infatti tradizione che l’11 novembre, giorno di San Martino, si prepari e si drizzi lo scalino, la tipica scala usata per raggiungere anche le chiome più alte, un’unica asta con una lunga serie di pioli ad una trentina di centimetri uno dall’altro.
Lo scalino, di diversa lunghezza, viene prima conficcato a terra e, poi, fissato con una corda ad un ramo, mentre sul terreno vengono stesi dei teli per le olive sfuggite dalle mani del raccoglitore.
Proprio in considerazione della morfologia del terreno, con stretti e continui ripiani terrazzati, e dell’altezza notevole delle piante, tutto il lavoro viene svolto ancora e soltanto manualmente.
Il contadino, tenendo con una mano il ramo, sfila con l’altra le rupe, tirandole verso di sé e riponendole nel “grumiàl”, un recipiente in genere di pelle animale che si tiene legato alla cintola.
In giornata le olive vengono raccolte in cassette e portate al frantoio.
Da una pianta si possono raccogliere dai 10 agli 80 kg di olive; la resa in olio varia dal 15 al 25 % del peso delle olive.


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LA CHIESA DI SAN ROCCO A LIMONE SUL GARDA

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Situata a nord del centro storico, venne costruita verso la metà del 16° secolo come ringraziamento dei Limonesi scampati alla contagiosa peste che colpì in quegli anni gran parte del Nord-Italia. Sembra prendere il suo nome dal passaggio di San Rocco a Limone proprio durante detta epidemia. La chiesetta venne rifinita nel corso dei due secoli successivi affrescando le pareti e completando la costruzione del campanile. Durante la prima Guerra Mondiale subì ingenti danni, in seguito sommariamente riparati, ma fu soltanto nel 1957 che vennero alla luce alcune pitture del '500 allorchè, all'interno e all'esterno, furono eseguite opere di riparazione, di restauro e di pulitura affreschi. Ben inserita nel contesto paesaggistico tra la roccia, il lago e le limonaie, é uno dei luoghi più amati del paese in quanto vi si accede attraverso una caratteristica scalinata sempre adornata di fiori e piante tipiche del Garda, costituendo uno degli scorci più pittoreschi e fotografati di Limone. Vi si celebra ancor oggi nel giorno di San Rocco (16 agosto) e nel mese di maggio in occasione della recita del Rosario.


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LA CHIESA DI SAN BENEDETTO A LIMONE SUL GARDA

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La chiesa parrocchiale di Limone sul Garda, venne costruita nel 1961 su un edificio sacro piú piccolo risalente intorno all’anno mille.
Caratteristico è l’edificio sobrio a tre navate, che ben si pone nel contesto cittadino, date le facciate in giallo chiaro, e il tetto edificato con le stesse tegole e nello stesso stile architettonico semplice delle case del centro storico. Il bel campanile con una copertura a cipolla che ricorda molto lo stile architettonico tipicamente austriaco, sembra quasi ricordare il passato della cittá, quando Limone non faceva ancora parte dell’Italia, ma era annessa all’impero austriaco.
Quasi ad incombere sulla chiesa e sull’abitato un’alta parete di roccia che ad un centinaio di metri piú avanti sui getta nel lago.

Opera di Andrea Pernici la facciata a tempio dalle forme semplici ed eleganti, si presenta suddivisa in tre zone grazie all`ausilio di lunghe lesene, quelle angolari piegate a libro, che giungono fino all`architrave sopra il quale è impostato il frontone. Internamente la chiesa è costituita da un`aula unica e da numerose campate estremamente decorate. Assai pregevoli a questo proposito sono i paramenti architettonici che esaltano la magnificenza d`insieme, come le lesene scanalate dotate di capitelli compositi e corinzi addossate alla parete o le semi colonne in pietra rossa che inquadrano le tele, e anche l`altare barocco del Crocifisso in marmo giallo veronese.

L’altare in marmo in stile barocco contiene un Cristo ligneo di dimensioni naturali.
L’interno della chiesa dedicata a San Benedetto contiene diverse opere d’arte, in primis opere del Moro, al secolo Battista d’Angolo della prima metá del millecinquecento e Andrea Celesti di circa un secolo dopo.
Tra queste ricordiamo :
la "Deposizione" del Moro, del 1547, "La Cena in casa di Simone fariseo" e "L'adorazione dei Magi",

Il battistero è in pietra, e risale agli ultimi anni del Cinquecento.




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LA CHIESA DI SAN PIETRO A LIMONE SUL GARDA

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La chiesa di San Pietro in Oliveto di trova a Limone sul Garda, sulla strada per Tremosine ed è tra le più antiche chiese romaniche del territorio, in quanto ad essa si accenna in una Bolla del 1186 del papa Urbano III come cappella dipendente dalla pieve di Tremosine.

La chiesa di S. Pietro in Oliveto è citata per la prima volta, tra le cappelle dipendenti dalla pieve di Tremosine, nella bolla di papa Urbano III dell'anno 1187.
Nel 1532 la comunità cattolica lacustre di Limone si separava da Tremosine per costituirsi in parrocchia autonoma, con un proprio nuovo edificio ecclesiastico, lasciando la piccola cappella campestre sotto la giurisdizione della chiesa plebana di Tremosine almeno fino al 1578. Nel 1580, durante una visita pastorale, il presule Carlo Borromeo definiva il complesso religioso di S. Pietro come "ecclesia campestri set vetus". Con gli anni, e per l'ubicazione molto decentrata rispetto ai centri abitati di Tremosine e di Limone, la chiesa andò progressivamente perdendo le sue funzioni di centro religioso primario, patendo di una frequentazione saltuaria e di parziale abbandono, anche se, nel corso dei secoli post-medievali, l'edificio non mancò di essere soggetto a interventi di manutenzione e di restauro.
Il piccolo tempio è generalmente visitabile solo all'esterno. Si può accedere all'interno solo in rare e particolari occasioni.
L'impressione globale odierna è quella di trovarsi di fronte a un complesso architettonico di modeste dimensioni e rustica fattura, immerso tra gli ulivi, formato dalla chiesa, con pianta a navata unica e profonda abside quadrata, alla quale, secondo gli studiosi, si sono aggiunti nei vari periodi storici (segno comunque di continuità nella frequentazione del sito), il campanile tronco sul lato nord (genericamente ascritto al periodo post-romanico - XIII secolo), la sacrestia, alla congiunzione tra la navata e l'abside (cronologicamente indicata come del XIV secolo), e il portico, che sembrerebbe la costruzione più recente, del XVI-XVII secolo, oltre al rifacimento della copertura con volte, che comportò il sopralzo di tutto l'edificio ecclesiale. Le murature sono totalmente ricoperte da intonaco di recente stesura. La facciata a ovest è a spioventi semplici, con portale rifatto, sormontato da un finestrone rettangolare, pure opera post-medievale.
Nonostante non manchino studi e rilevamenti da parte di studiosi contemporanei, rimane opera ardua individuare negli attuali assetti architettonici uno spunto per la datazione certa di questo piccolo complesso religioso.
Vi sono però parecchi indizi, suffragati anche da recenti indagini archeologiche, che rimandano le origini di questa chiesa all'alto medioevo; soprattutto alcuni reperti scultorei, i più, disgraziatamente, andati dispersi (restano solamente alcune fotografie dei primi decenni del XX secolo), come i resti di due plutei e le ghiere traforate che, agli inizi del XX secolo, erano ancora inserite nelle due finestre del laterale sud, o ancora visibili, come l'acquasantiera murata all'interno dell'edificio, sempre nella parete sud, e la composizione della copertura, che conserva tuttora in opera tegole piane di epoca romana.
La chiesa è la parte più antica del complesso religioso di S. Pietro e, se anche l'intonaco ricopre quasi interamente le murature, un più attento esame permette di individuare almeno due diverse fasi edilizie, meglio rilevabili nella parete settentrionale rimasta scoperta dall'aggiunta del campanile e della sacrestia, e nel tratto di abside quadrangolare sempre nel muro nord. In questi tratti perimetrali, la parte più antica (corrispondente alle sezioni murarie basse), è realizzata con piccoli ciottoli posti in opera piuttosto disordinatamente in abbondante malta, coperta poi da un intonaco irregolare di calce tirato a cazzuola. Ad un certo livello in altezza, la muratura presenta disomogeneità costruttive: l'intonaco segue quello che doveva essere lo spiovente del tetto, a un livello più basso rispetto all'attuale. Le stesse caratteristiche edificatorie si ritrovano anche nelle murature dell'abside, con la sopraelevazione in aggetto rispetto alle parti basse. Gli studiosi imputano questo dislivello ai lavori intercorsi in epoca tardo-medievale, quando si rifecero le coperture, sostituendo quella originaria con una a volte (all'interno, gli archi delle volte s'innestano direttamente sui muri laterali, sovrapponendosi agli affreschi). E' probabile che questo intervento abbia modificato anche le aperture; originale potrebbe essere la monofora, ora murata, al centro dell'abside: a fatica se ne percepiscono i contorni, per la pesante intonacatura che ricopre quasi tutte le parti esterne dell'edificio, ma è ancora individuabile a sinistra dei resti dell'affresco di S. Cristoforo, con uno spigolo, quello destro, che conserva resti di affresco verso lo strombo.
All'interno, al centro dell'abside, è invece molto evidente la recente muratura che ha occluso la finestra (l'affresco della crocifissione di epoca rinascimentale ne rispettava ancora i contorni: le diverse misure, maggiori all'interno che all'esterno, indicano l'ampiezza e la profondità dello strombo). Come già osservato all'esterno, anche all'interno si conservano i resti di un'altra apertura, che dal lato sud dell'abside dava sull'area del portico, posta sotto l'attuale finestra; anche questa doveva probabilmente essere una delle aperture antiche. Le due finestre che si aprono adesso sul fianco longitudinale sud della navata, secondo gli studiosi, mancano dell'antica decorazione in pietra traforata.
In pratica, la chiesa tardo-medievale andò a innestarsi sui perimetrali di un edificio preesistente, del quale sono state utilizzate le parti basse, mentre si è provveduto al completo rifacimento delle parti alte.
Per poter meglio conoscere e interpretare l'architettura di questi piccoli edifici secondari di origine così antica, è necessaria l'analisi degli storici dell'arte che puntualizzano, soprattutto per merito dei resti scultorei sopravvissuti, come l'acquasantiera, o perduti, come i frammenti di pluteo, ma anche per la planimetria della chiesa di S. Pietro in Uliveto, una cronologia altomedievale oscillante tra il IX e il X secolo; essa, costituita da un edificio con pianta a navata unica e abside rettangolare, ricorda piante in uso ancora nel VII secolo e presenti nell' area alpina e prealpina quali il S. Pietro a Stabio (con sepoltura di VII secolo), il S. Martino a Trezzo d'Adda, (fondazione pure di VII secolo), e altre, sempre di area lombarda, oltre che a modelli di VIII e IX secolo come la chiesa di S. Maria alla Novalesa o, più vicina, la chiesa di S. Eufemia di Nigoline a Cortefranca (BS).
Il portico, aperto su tre lati, con arconi a fungo a est a sud, ha le murature parzialmente intonacate, dove si conservano varie e curiose iscrizioni incise dei secoli dal XVI al XVIII e facenti riferimento a carestie o episodi avvenuti localmente e per questo molto interessanti sotto l'aspetto antropologico.

Ai primi di luglio del 2004, per operare una bonifica dalle infiltrazioni di umidità che stavano compromettendo alcune strutture dell'edificio, è stato tolto il pavimento in opera dal 1920. Poco sotto è stato trovato un pavimento in malta probabilmente del IX secolo. Questo livello è incompleto ed è stato intaccato dall'apertura di due buche in prossimità del presbiterio (ancora s'ignorano i fini di queste escavazioni). Poco prima dell'area presbiteriale, questo piano in malta presenta una canaletta, dove si innestava probabilmente un cancello presbiteriale. E' stato rilevato che i muri perimetrali non hanno fondazioni profonde, da ciò si dovrebbe dedurre che il S. Pietro potesse essere una chiesa del tipo cosiddetto seminterrato.
All'interno, sulla parete nord, si nota la rappresentazione di un'Ultima Cena, affresco del secolo XIV. Nella zona absidale, sotto l'altare è stata trovata una pietra monolitica di epoca romana che fungeva da base di un torchio di vino. Il principio di scavo ha permesso di recuperare molti frammenti ceramici (ancora da collocare cronologicamente) e un pezzo di colonnina con basamento.
In esterno, gran parte del sagrato era adibito ad area cimiteriale, visti gli abbondanti reperti ossei ritrovati a pochi centimetri di profondità dal livello attuale di calpestio. Un particolare interessante è offerto dal tratto di muro esterno all'edificio ecclesiastico e in asse con il lato sud del portico, che, per tecnica costruttiva, disposizione e taglio delle pietre e per il tipo di malta, indica una cronologia medievale d'epoca romanica (dell'altezza di un paio di metri degradanti fino a poco meno di un metro), lungo cui si conservano i resti di un ingresso o finestra con soglia alta circa un metro dall'attuale livello di calpestio.



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GIUSEPPE LEONARDI

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Nacque a Riva del Garda, territorio asburgico, nel 1840. Giovanissimo abbracciò gli ideali del risorgimento irredentista trentino. Nel 1859 varcato furtivamente in Val di Ledro il confine di Stato tra il Regno d'Italia e l'Austria, Giuseppe Leonardi si recò a Parma ove si arruolò come volontario nell'esercito dell'Italia centrale, e fu aggregato al 39º Reggimento fanteria della Brigata “Bologna”, della quale facevano parte più di cento volontari giunti dal Trentino.

Congedatosi nel maggio del 1860 si recò a Milano per arruolarsi fra i volontari della spedizione dei Mille di Giuseppe Garibaldi, con i quali combatté a Calatafimi e nella presa di Palermo, ove fu ferito gravemente al braccio e alla gamba.

Stabilitosi successivamente a Brescia impiegandosi come scrivano presso un notaio, mantenne forti legami politici con il trentino Ergisto Bezzi, pure de I Mille con il quale progettò l'insurrezione armata della popolazione del Trentino e del Cadore contro l'Impero austriaco. Così tra il 13 e il 16 novembre del 1864 una colonna di patrioti, forte di 150 uomini, marciò da Brescia verso la Valtrompia con l'intento di penetrare in Trentino attraverso il Passo Maniva e Bagolino . Il gruppo si armò a Pieve di Lumezzane con fucili e bombe all'Orsini, ma dopo una marcia estenuante nella neve gli insorti furono fermati a Collio dai carabinieri e dall'esercito e arrestati. Giuseppe Leonardi fu tradotto presso il carcere militare di Alessandria e ivi detenuto per 78 giorni.

Nel maggio del 1866 con la mobilitazione del regio esercito italiano per l'imminente guerra contro l'Austria, Leonardi si arruolò nel Corpo Volontari Italiani di Giuseppe Garibaldi e fu incorporato nel 2º Reggimento Volontari Italiani del tenente colonnello Pietro Spinazzi. Assegnato alla 16ª Compagnia, 4º Battaglione del maggiore Cesare Bernieri. Prese parte alle Operazioni in Val Vestino (1866) e all'occupazione di Campi di Riva del Garda, che rappresentò il punto massimo di penetrazione del corpo garibaldino in Trentino.

Stabilitosi a Brescia, poi a Limone sul Garda e infine nel 1899 con il secondo matrimonio a Malcesine, ove morì il 17 agosto.



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SAN DANIELE COMBONI

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Daniele Comboni nasce a Limone sul Garda (Brescia - Italia) il 15 marzo 1831, in una famiglia di contadini al servizio di un ricco signore della zona. Papà Luigi e mamma Domenica sono legatissimi a Daniele, il quarto di otto figli, morti quasi tutti in tenera età. Essi formano una famiglia unita, ricca di fede e valori umani, ma povera di mezzi economici. Ed è appunto la povertà della famiglia Comboni che spinge Daniele a lasciare il paese per andare a frequentare la scuola a Verona, presso l'Istituto fondato dal Sacerdote don Nicola Mazza.

In questi anni passati a Verona, Daniele scopre la sua vocazione al sacerdozio, completa gli studi di filosofia e teologia e soprattutto si apre alla missione dell'Africa Centrale, attratto dalle testimonianze dei primi missionari mazziani reduci dal continente africano. Nel 1854 Daniele Comboni viene ordinato sacerdote e tre anni dopo parte per l'Africa assieme ad altri 5 missionari mazziani, con la benedizione di mamma Domenica che arriva a dire: «Va', Daniele, e che il Signore ti benedica».

Etimologia: Daniele = Dio è il mio giudice, dall'ebraico

Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: Nella città di Khartum in Sudan, san Daniele Comboni, vescovo, che fondò l’Istituto per le Missioni Africane e, nominato vescovo in Africa, si prodigò senza mai lesinare energie nel predicare il Vangelo in quelle regioni e nel prendersi in tutti i modi cura della dignità degli esseri umani.

Autunno 1857: partono per il Sudan cinque missionari mandati da don Nicola Mazza di Verona, educatore ed evangelizzatore. Fine 1859: tre di essi sono già morti, due rifugiati al Cairo, e a Verona torna sfinito il quinto. È Daniele Comboni, unico superstite degli otto figli dei giardinieri Luigi e Domenica, sacerdote dal 1854. Riflette a lungo su quel disastro e su tanti altri, giungendo a conclusioni che saranno poi la base di un “Piano”, redatto nel 1864 a Roma. In esso Comboni chiede che tutta la Chiesa si impegni per la formazione religiosa e la promozione umana di tutta l’Africa. Il “Piano”, con le sue audaci innovazioni, è lodatissimo, ma non decolla. Poi, per avversioni varie e per la morte di don Mazza (1865), Comboni si ritrova solo, impotente.
Ma non cambia. Votato alla “Nigrizia”, ne diventa la voce che denuncia all’Europa le sue piaghe, a partire dallo schiavismo, proibito ufficialmente, ma in pratica trionfante. Quest’uomo che sarà poi vescovo e vicario apostolico dell’Africa centrale, vive un duro abbandono, finché il sostegno del suo vescovo, Luigi di Canossa, gli consente di tornare in Africa nel 1867, con una trentina di persone, fra cui tre padri Camilliani e tre suore francesi, aiuti preziosi per i malati. Nasce al Cairo il campo-base per il balzo verso Sud. Nascono le scuole. E proprio lì, nel 1869, molti personaggi venuti all’inaugurazione del Canale di Suez scoprono la prima novità di Comboni: non solo ragazzi neri che studiano, ma maestre nere che insegnano. Inaudito. Ma lui l’aveva detto: "L’Africa si deve salvare con l’Africa".
Poi si va a Sud: Khartum, El-Obeid, Santa Croce... Lui si divide tra Africa ed Europa, ha problemi interni duri. Ma "nulla si fa senza la croce", ripete. Una croce per tutte: il suo confessore lo calunnia, e Comboni continua a fare la sua confessione a lui. Un leone che sa essere dolce. Uno che per gli africani è già santo, che strapazza i pascià, combatte gli schiavisti e serve i mendicanti. Da lui l’africano impara a tener alta la testa. Nell’autunno 1881 riprendono le epidemie: vaiolo, tifo fulminante, con strage di preti e suore in Khartum desolata. Comboni assiste i morenti, celebra i funerali, e infine muore nella casa circondata da una folla piangente. Ha 50 anni.
Poco dopo scoppia la rivolta anti-egiziana del Mahdi, che spazza via le missioni e distrugge la tomba di Comboni (solo alcuni resti verranno in seguito portati a Verona). Dall’Italia, dopo la sua morte, si chiede ai suoi di venir via, di cedere la missione. Risposta dall’Africa: "Siamo comboniani". E non abbandonano l’Africa. Ci sono anche ai giorni nostri, in Africa e altrove. Ne muoiono ancora oggi. Intanto il Sudan ha la sua Chiesa, i suoi vescovi.

In generale, ai fini della canonizzazione, la Chiesa cattolica ritiene necessario un secondo miracolo, dopo quello richiesto per la beatificazione: nel caso di Daniele Comboni, ha ritenuto miracolosa la guarigione di Lubna Abdel Aziz, una sudanese di 32 anni di religione musulmana.

Nata a Khartoum nel 1965, l'11 novembre 1997 venne ricoverata al "St. Mary’s Maternity Hospital" di Khartoum, gestito dalle suore comboniane, per il suo quinto parto cesareo. Dopo la nascita di un bambino di 5 libbre, sopravvennero per la donna gravi complicazioni: si verificarono ripetute emorragie con nuovi interventi chirurgici, tra cui un'isterectomia. Nonostante le trasfusioni la donna era in fin di vita: polso e pressione non erano misurabili, e si era verificato anche un edema polmonare.

Intanto, nonostante il pessimismo dei medici, le suore avevano iniziato una novena di preghiere all'allora beato Daniele Comboni. Il 13 novembre la donna si riprese inaspettatamente, e il 18 novembre fu dimessa in buone condizioni di salute.

La Consulta medica della Congregazione per le Cause dei Santi, nella seduta dell'11 aprile 2002, dichiarò la guarigione "rapida, completa, scientificamente inspiegabile."

Nel Congresso Peculiare del 6 settembre 2002, i Consultori Teologi riconobbero la guarigione come soprannaturale e dovuta all'intercessione del beato Daniele Comboni. Alle medesime conclusioni giunsero i cardinali e i vescovi nella Sessione Ordinaria del 15 ottobre 2002.

Il decreto sul miracolo è stato promulgato il 20 dicembre 2002, alla presenza di Papa Giovanni Paolo II, che ha canonizzato il beato il 5 ottobre 2003.


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GIOVANNI POMAROLI

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Cristoforo Pomarolo e Rosa Giovannelli, questi i nomi dei coniugi geneticamente "colpevoli", appartenevano a due famiglie trasferitesi a Limone dal Trentino nel l636; sposatisi nel l644, avevano avuto un figlio, Giovanni Pomaroli, che a sua volta si era sposato con una donna originaria di Manzano, nella diocesi di Trento, Fiorenza Vettori. Da queste primissime radici, l'albero genealogico si sviluppa poi per molti rami, tutti vicini o incrociati fra loro: erano assai frequenti, infatti, i matrimoni fra cugini o comunque consanguinei. Un fatto perfettamente spiegabile con il secolare isolamento geografico e storico di Limone: avamposto ai confini estremi della Lombardia, in una zona che fino ai primi anni Trenta era raggiungibile solo in barca, dal lago, o dopo lunghe marce per le montagne che chiudono il lembo meridionale del Trentino. Lo stesso isolamento, secondo gli scienziati, può spiegare anche un altro fatto: l'insolita frequenza di un raro gruppo sanguigno, marcato dal fattore RH negativo. Fra gli abitanti di Limone si riscontra un numero doppio di soggetti RH negativi rispetto alla media del resto d'Italia. Ma questo gruppo sanguigno non sembra avere alcuna particolare proprietà terapeutica. Mentre, nel caso dell'Apo A-l, a ogni nuova tappa della ricerca si schiudono spiragli imprevisti e promettenti.

Lo stile di vita degli abitanti di Limone sul Garda è qualcosa di unico: il microclima definito come il migliore d’Europa, in cui regnano Spa e wellness, B&B di charme , è proprio idi luoghi quali il  lago di Garda. Fino agli anni trenta – anno in cui venne costruita la strada Gardesana – la località era praticamente isolata,  e sembra, infatti, che l’isolamento abbia favorito la forma mutata di una  apolipoproteina che riduce i disturbi cardiovascolari.
Piatti pregiati in ogni dove, mangiare sano e aria doc, anche queste sono ricette che giovano. La proteina che renderebbe il colesterolo così buono, è stata riprodotta a quanto pare,  negli States. Ecco quindi un farmaco che in questo momento è passato al brevetto per risultati, si spera, ottimali.  E chissà che dietro a tutto ciò non ci siano proprio i limoni e le storiche limonaie, tipiche del luogo.

La Apo A-1 Milano (Apo-A1, ARG173CYS, ETC-216, MDCO-216) è una forma mutata di apolipoproteina umana chiamata Apo A-1.

L’Apo A-1 Milano è codificata dal gene Limone mappato nel locus: 11q23, il quale avendo subito una mutazione ereditaria autosomica dominante ha prodotto il differenziamento di questa variante rispetto all’Apo A-1; La principale differenza fra Apo A-1 ed Apo A-1 Milano si ritiene essere dovuta alla sostituzione dell’amminoacido arginina con l'amminoacido cisteina in posizione 173 della catena polipeptidica dell'apoliporoteina; tale sostituzione permette all’Apo A-1 Milano di mobilitare rapidamente il colesterolo, sottraendolo dai tessuti periferici e trasportandolo ai tessuti responsabili del suo smaltimento, riducendo così la placca arteriosclerotica ed il suo contenuto in macrofagi per tali motivi Apo A-1 Milano è ritenuta in grado di contrastare le patologie a carico delle arterie coronarie.

Le apolipoproteine svolgono tre funzioni principali:

Contribuire alla struttura delle lipoproteine.
Regolare l'attività enzimatica nel metabolismo lipidico.
Costituire dei ligandi (molecole di riconoscimento) per i recettori.
L'Apo A-1 in particolare è associata al corretto funzionamento delle lipoproteine ad alta densità in particolare delle HDL, tali liproteine sono responsabili della rimozione del colesterolo in eccesso dai tessuti periferici e del suo trasporto al fegato o ai tessuti steroidogenici, come le ghiandole surrenali o le gonadi.
Essendo in grado di rimuovere il colesterolo da un ateroma nelle arterie e trasportarlo al fegato vengono in genere chiamate "colesterolo buono".

Cesare Sirtori, farmacologo milanese, nel 1974-1975 scoprì che gli abitanti di Limone sul Garda, hanno evoluto una forma mutata del gene responsabile della produzione dell'Apo A-1, denominata Apo A-1 Milano (Apo A-1 Milano rappresenta la forma mutata rispetto al gene per l’Apo A-1 esistente in natura).

Apo A-1 Milano conferisce agli abitanti di Limone sul Garda (portatori di questa mutazione) un’innata resistenza agli effetti dannosi del "colesterolo cattivo" e dei trigliceridi elevati nel sangue; Questa proteina mutata ha conferito, inoltre, agli abitanti del paese un'estrema longevità, una dozzina di residenti ha superato i 100 anni (su circa un migliaia di abitanti).

L'origine della mutazione si deve ad un uomo che visse a Limone nel 1780, Giovanni Pomaroli; probabilmente fu egli il primo resistente agli effetti negativi dei trigliceridi elevati e del "colesterolo cattivo", complice l’isolamento geografico degli abitanti di Limone, questa popolazione è stata soggetta all'effetto fondatore.

Questa scoperta, ha permesso ai ricercatori di individuare il gene per l’apolipoproteina A-1 Milano, è stato anche dimostrato che, l’assunzione dell’apolipoproteina A-1 Milano, da parte di individui con il gene normale, può ridurre la formazione di colesterolo LDL, riducendo così la formazione di placche nei vasi sanguigni ed il rischio di subire infarti ed ictus.

L’ApoA-1, in accordo con la teoria evolutiva, rappresenta una mutazione dell’Apo A presente in natura, l’essere mutanti per L’ApoA-1 conferisce un forte fattore protettivo per l’organismo, in aggiunta incrementa l’aspettativa di vita media dei portatori della mutazione.

La scoperta di portatori di una mutazione che permette all’organismo di non subire i danni normalmente correlati all’eccesso di colesterolo ed all’accumulo di trigliceridi nel sangue, nonché di possedere un’aspettativa di vita superiore alla media, ha portato all'attuazione di trials terapeutici, basati sulla somministrazione della proteina in pazienti con elevati livelli di colesterolo nel sangue e ad una conseguente riduzione delle placche ateromatose in tali pazienti.



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IL DOTTOR CESARE SIRTORI



Ha svolto una carriera di Farmacologo Clinico, acquisendo, dopo la Laurea in Medicina e Chirurgia presso I'Università degli Studi di Milano, il titolo di Doctor of Philosophy in Farmacologia Clinica presso I'Università del Kansas.
Successivamente ha fondato a Milano uno dei primi Centri per lo studio delle patologie metaboliche a maggior rischio di arteriosclerosi. Il Centro Universitario Dislipidemie, dedicato al Dr E. Grossi Paoletti, opera da quarant'anni presso l'A.O. Niguarda Ca' Granda. È un centro leader a livello mondiale per l'attività clinica e scientifica nel campo delle iperlipoproteinemie, della trombosi e del monitoraggio non invasivo delle lesioni vascolari.

È stato Presidente Designato del XIV International Symposium on Atherosclerosis, massimo Congresso del settore (oltre 8.000 partecipanti) che si è tenuto nel 2006 a Roma.

Preside della Facoltà di Farmacia dell'Università degli Studi di Milano, è stato Professore Ordinario di Chemioterapia presso I'Università degli Studi di Milano dal 1980 al 1988 e dal 1990 è stato Professore Ordinario di Farmacologia Clinica nello stesso Ateneo.

È stato Coordinatore della Sezione di Farmacologia Clinica della Società Italiana di Farmacologia e Presidente della Società Italiana per lo Studio dell'Arteriosclerosi.
È Presidente della Società Italiana di Nutraceutica.

Autore di oltre 500 pubblicazioni scientifiche, delle quali oltre 300 su prestigiose riviste medico-biologiche internazionali.
Ha fornito fondamentali contributi nel campo della farmacologia clinica, della ricerca sulle lipoproteine, con la scoperta del primo mutante, A-I Milano di grande interesse terapeutico, ed alla ricerca e sviluppo di nuovi nutraceutici.

Limone sul Garda, 9 Agosto 2011 - In Italia ci sono 38 persone, uniche al mondo, che, a causa di una mutazione genetica ereditata dai propri avi, sono del tutto esenti dal pericolo di infarto e ictus. Nel loro sistema cardiocircolatorio, infatti, non si deposita alcuna forma di grasso e di colesterolo. Le “scorie”, se così possiamo chiamarle, finiscono direttamente nel fegato, che pensa a metabolizzarle. Ebbene, i fortunati portatori di questa miracolosa mutazione, sono tutti originari di uno dei paesini lacustri più belli al mondo, Limone sul Garda. La maggior parte di essi vive ancora nell’antico borgo; alcuni, invece, nel corso degli anni si sono trasferiti in altre città, come Cremona, Verona e Milano, dove attualmente risiedono. Tutti, però, hanno comuni radici a Limone dove nel 1752 una coppia di sposi, proveniente dal Trentino, Cristoforo Pomaroli e Catarina Zito, cominciò a regalare ai propri discendenti quella che nel 1979 il professor Cesare Sirtori, medico e farmacologo di fama mondiale, chiamò l’apolipoproteina A-1 Milano, Perché fu proprio il professor Sirtori a scoprire l’anomalia genetica che ben presto provocò stupore e meraviglia negli ambienti scientifici internazionali. La scoperta era talmente sensazionale che, in un primo tempo, fu osteggiata. Qualcuno arrivò a pensare che il professor Sirtori e la sua équipe avessero confuso una rara malattia del fegato con la presenza di un’ipotetica apolipoproteina. Ma non era così. E quando vennero le conferme dei Centri di ricerca Gladstone di San Francisco e Bethesda, nei pressi di Washington, anche i più scettici dovettero ricredersi: quella mutazione genetica era un fatto reale, si era verificata tre secoli prima per motivi sconosciuti e riguardava un piccolo gruppo di persone, tutte discendenti da un’unica coppia.
Tutto iniziò nel 1974 quando il signor Valerio, ferroviere di mezza età, fisico asciutto, sguardo leggermente depresso, si rivolse al dottor Ruggero Rizzitelli, medico-capo delle Ferrovie, accusando una lunga serie di disturbi gastroenterici: ulcera, problemi digestivi generici, anemia poi regredita, e altro ancora. Per prima cosa vennero eseguiti degli esami di laboratorio e il primo a prenderne visione fu il dottor Franco Conti, allora aiuto medico. La cosa che più insospettì il dottor Conti è che, nonostante al signor Valerio fosse stato somministrato del clofibrato, cioè un potente farmaco che a quel tempo veniva utilizzato per abbassare i grassi nel sangue, invece di ridursi, i trigliceridi salivano. Tanto che, ad un certo punto, il signor Valerio si rifiutò di assumere altre quantità della medicina. Fu a quel punto che il dottor Conti decise di chiedere il parere del professor Sirtori, farmacologo di chiara fama, sottoponendogli quel misterioso quesito.
Per prima cosa, il professor Sirtori ordinò altri esami, in particolare uno: l’elettroforesi delle lipoproteine. Come spiegò egli stesso, si trattava di una tecnica (oggi superata) che consentiva di avere un quadro indicativo sulla distribuzione dei grassi nelle varie particelle, cioè le lipoproteine che li trasportano. E qui ci fu la seconda sorpresa. Infatti, nel signor Valerio si notava la quasi totale scomparsa della banda alfa, il cosiddetto “colesterolo buono”. Alcuni tra i portatori dell'apoliproteina A-1 MilanoCome era possibile che in quel ferroviere di mezza età non ci fosse la banda alfa? Sirtori pensò subito a qualcosa di genetico e allora volle che anche i tre figli del signor Valerio si sottoponessero allo stesso esame. E venne fuori che due di loro non avevano la banda alfa. Provò quindi con i genitori del signor Valerio. La madre, che soffriva di una malattia vascolare, aveva una banda alfa normale. Il padre, invece, perfettamente sano, quella benedetta banda alfa non l’aveva neppure lui.
Tutto questo avveniva nel corso del tempo. Fu nel 1979, ormai a cinque anni dai primi esami del signor Valerio, che il dottor Guido Franceschini, dinamico collaboratore del professor Sirtori nel Centro E. Grossi Paoletti a Niguarda, in quel di Milano, che, eseguendo un esame di laboratorio, si accorse che nel sangue del paziente era presente una proteina con un gruppo di zolfo, e più precisamente della cisteina. Per essere sicuri che non fosse stato fatto alcun errore, un campione del sangue venne inviato al Centro di ricerca Gladstone di San Francisco. “La risposta fu inequivocabile – raccontò il professor Sirtori - era presente una proteina, certo un mutante, e conteneva cisteina”. Alcuni mesi dopo il professor Sirtori e il suo collega statunitense Robert Malhey presentarono ad un congresso internazionale il primo mutante delle apoproteine umane. Il nome gli venne imposto dallo stesso professor Sirtori: A-1 Milano, in omaggio alla città dove venne scoperto. Era la fine del 1979 e si stava aprendo una nuova era scientifica che avrebbe investito in pieno i quasi mille residenti di Limone sul Garda.
Prima di tutto, per completare le ricerche di laboratorio sulla mutazione genetica avvenuta nel borgo sul lago, gli americani chiesero la collaborazione di un paio di soggetti portatori della A-1 Milano. Il fratello del signor Valerio, Graziano, e suo figlio Marco, accettarono di sottoporsi a tutti quegli esami che non era ancora      possibile fare in Italia.
I due, accompagnati dal dottor Franceschini, giunsero così a San Francisco dove vennero sistemati in una stanza del Reparto Cure metaboliche del General Hospital. Franceschini, invece, alloggiava in una camera del Travel Lodge, un albergo nelle vicinanze. Gli esami durarono un mese, durante il quale Graziano e Marco vennero sottoposti a diete ferree, con precisi orari, per verificare il rapporto tra il cibo e gli esami in corso. Quando i tre italiani lasciarono la California, non si conosceva ancora alcun risultato delle analisi.      
Qualche tempo dopo, continuando gli studi sulla A-1 Milano, Sirtori e Franceschini giunsero alla conclusione che era necessario estendere le loro ricerche a Limone sul Garda, al fine di studiare come il mutante si fosse tramandato fino ad oggi. Per farlo, avevano bisogno di analizzare l’intera popolazione del paese. E non sarebbe stato facile. Tuttavia, grazie all’aiuto del sindaco di Limone, commendator Demetrio Fedrici, l’operazione prelievi ebbe inizio e si svolse in quattro fine settimana, distribuiti nell’inverno 1981-82. Il sangue venne prelevato a 850 abitanti, escludendo i bambini sotto i dieci anni. In cambio della collaborazione, a ogni volontario venne offerta un’analisi completa del quadro lipidico e la determinazione del gruppo sanguigno.
Fu mentre si svolgevano le analisi di tutti quei campioni, che giunse la grande notizia dall’America. I ricercatori di Una veduta dalla antica limonaia di Limone sul GardaSan Francisco avevano identificato l’errore molecolare responsabile della comparsa dell’A-1 Milano. Come spiegò il dottor Franceschini, “l’apolipoproteina A-1, presente nel sangue umano, ma anche in quello di molte altre specie animali, è costituita da 243 anelli. Il fatto straordinario verificatosi nei portatori dell’A-1 Milano, è che uno di questi 243 anelli differisce da quello presente nell’intera umanità. Ci troviamo cioè in presenza di quello strano fenomeno che i genetisti chiamano ‘mutazione’. I colleghi di San Francisco avevano scoperto che tale mutazione, nell’A-1 Milano era rappresentata dalla sostituzione del 173esimo anello della catena dell’apo AI (l’aminoacido arginico), con un anello diverso (l’aminoacido cisteina), confermando così l’idea iniziale della presenza nella proteina del signor Valerio, di un gruppo di zolfo”.
In conclusione, Sirtori e Franceschini scoprirono che 22 residenti su 850 avevano il mutante. Approfondendo poi le ricerche genealogiche, vennero a sapere che tutti erano discendenti della coppia Cristoforo Pomaroli - Catarina Zito. Altri 11 soggetti portatori del mutante vennero quindi identificati in città come Treviglio, Cremona, Verona e Milano. In tutto, quindi, in quegli anni erano 33. Oggi, invece, sono diventati 38.
Altri due limonesi, Davide Girardi e Amelio Segala, vennero chiamati negli Stati Uniti per effettuare altri esami nel prestigioso centro di ricerca di Bethesda. E, sempre dagli Usa, è giunta la notizia che è stata creata artificialmente una sostanza simile all’A-1 Milano che promette buoni risultati per chi soffre di malattie cardiocircolatorie.
Da quel momento Limone sul Garda è stata sede di cinque congressi internazionali durante i quali scienziati provenienti da ogni angolo del pianeta hanno cercato di studiare l’A-1 Milano, arrendendosi, però, davanti alla domanda chiave di questo misteriosissimo giallo scientifico: come e perché è avvenuta la mutazione genetica? Nessuno lo sa e forse nessuno lo saprà mai. Tutto quello che si può ipotizzare è che un giorno, un uomo e una donna, unendosi in matrimonio, hanno inconsapevolmente causato ciò che razionalmente non potrebbe essere.




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LE CITTA' DEL GARDA : LIMONE SUL GARDA

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Limone è senza dubbio una delle roccaforti del turismo sul Lago di Garda. Circa 10.000 turisti passeggiano qui ogni giorno attraverso la piccola città. Ci sono poche cose da vedere qui. Limone si mantiene grazie alla sua bella spiaggia ed alla sua reputazione come eccezionale destinazione turistica. Tuttavia, il luogo guadagnò fama mondiale a causa delle molte serre di limoni ed i suoi abitanti perfezionarono il frutto col passar del tempo. Malgrado ciò, il nome della località di Limone non ha niente a che fare con il frutto. Il nome proviene dalla parola latina "limes" (= confine) ed è dovuto all'antica funzione di Limone come città-confine tra Italia e Austria. Tuttavia, con il nome di Limone si possono tutt´ora guadagnare molti soldi, vendendo ai turisti souvenir che hanno la forma del frutto giallo.

A parte le serre di limoni – alcune delle quali sono di nuovo in funzione – Limone iniziò a guadagnare sempre più importanza solo nel 1950 con l'aumento del turismo. Ecco perché il nucleo del centro storico è relativamente piccolo e insignificante. La vita turistica è focalizzata sugli alberghi, ristoranti, bar e vie dello shopping così come sulla spiaggia. Tuttavia, alcuni edifici religiosi meritano una visita: la chiesa parrocchiale barocca di San Benedetto sopra il centro storico con opere selezionate di Andrea Celesti; la chiesa di San Rocco del XIV secolo al porto e la cappella in pietra di San Pietro con antichi affreschi, situata sulla strada per Tremosine. Anche il missionario africano e vescovo Monsignor Daniele Comboni (1831 - 1881) nacque a Limone. Una piccola cappella con un´esposizione e la sua casa natale ricordano la sua vita ed il suo lavoro.

Se vi piacciono le olive, vi consigliamo di visitare il museo dell'olio d'oliva ed il vecchio frantoio in via Campaldo. Qui potrete imparare tutto ciò che c´è da sapere sul prezioso olio e fare scorta di nuovi prodotti nell´adiacente negozio.

Fino agli anni quaranta il paese era confinato all'isolamento e raggiungibile solo via lago o attraverso le montagne, comunque da sud. La costruzione della strada gardesana (ultimata nel 1932) ha rotto questo isolamento ed ha portato un notevole sviluppo turistico della zona, aprendola anche verso Riva del Garda e il turismo straniero. Oggi Limone è una tra le località turistiche più frequentate della riviera bresciana.

Il comune, il più settentrionale della sponda lombarda del Lago di Garda, si trova al confine tra tre regioni. È infatti contiguo a Riva del Garda, in Trentino-Alto Adige, mentre la superficie del Lago di Garda appartenente al territorio comunale confina con Malcesine, in Veneto.

Limone venne finalmente collegata agli altri paesi rivieraschi nel 1932 quando fu terminata la strada Gardesana Occidentale e finirono così anni di isolamento e di confine. La poverissima economia locale iniziò a trasformarsi nell'immediato dopoguerra, grazie all'afflusso dei primi turisti provenienti dalle regioni del nord Europa.
Gli abitanti di Limone si trasformarono abbastanza rapidamente da poverissimi agricoltori o pescatori in affluenti albergatori, trasformando il piccolo e caratteristico paese di pescatori in un centro turistico fra i più importanti del lago di Garda.

Gli abitanti di Limone sul Garda non vanno fieri solo del prezioso centro storico e delle profumate coltivazioni di agrumi della loro cittadina lacustre, ma anche del loro DNA. Limone infatti salì all'onore delle cronache nel 1979 quando fu scoperta una proteina particolare presente nel sangue degli indigeni che pare avere una positiva influenza sulla loro salute e longevità.
E proprio da questa scoperta potrebbe nascere un farmaco rivoluzionario contro l'aterosclerosi, da poco entrato nella sperimentazione clinica. Per raccontare la vicenda dobbiamo fare un passo indietro nel tempo.
E' il 1975 quando il signor D., un ferroviere originario di Limone, si presenta ad una visita di controllo a Milano.
Ai medici che esaminano le sue analisi del sangue sembra quasi impossibile che il paziente sia ancora vivo e vegeto davanti a loro. Non solo i suoi livelli di trigliceridi sono alle stelle, ma anche i valori di HDL – il colesterolo "spazzino" che elimina l'eccesso di grassi dal sangue - è di tre o quattro volte inferiore alla norma.
Una combinazione infausta che, secondo tutte le casistiche, avrebbe già dovuto riempire di placche le arterie dell'ignaro ferroviere, causandogli seri problemi cardiaci. Ancora più grande è sorpresa dei medici quando arrivano i risultati degli esami clinici: non solo il signor D. possiede un cuore di ferro, ma le sue arterie non mostrano alcun segno di danno, nonostante abbia abbondantemente superato la quarantina.
Dato ancora più interessante, anche il padre e i figli del fortunato paziente presentano lo stesso incredibile fenomeno.
Fra i medici che visitano il signor D. ci sono Cesare Sirtori e il suo collega Guido Franceschini dell'Università di Milano che incuriositi dallo strano fenomeno, decidono di vederci chiaro.
Siamo negli anni '80 e i due, armati di provette e di molta pazienza iniziano ad analizzare il migliaio di abitanti di Limone, trovandone almeno 40 con le stesse paradossali caratteristiche.
Tutti parenti alla lontana del loro primo paziente, dato l'isolamento e l'altissimo grado di consanguineità di quella piccola popolazione, e come lui dotati di cuore e arterie a prova di bomba, nonostante il loro sangue ricco di grassi e povero di HDL.
Sirtori e i suoi colleghi arrivano perfino a scartabellare negli archivi delle parrocchie per risalire agli alberi genealogici delle poche famiglie del villaggio, fino a risalire al capostipite della famiglia un certo Giovanni Pomaroli, nato nel 1780.
E' da lui, ipotizzano i ricercatori, che ha avuto origine la mutazione genetica che protegge dalle insidie del colesterolo.
Una mutazione inutile e perfino controproducente per chi, come il buon Pomaroli, avrà vissuto del sano ma scarso vitto di due secoli fa, ma che si trasformerà in un toccasana per i suoi moderni e ipernutriti discendenti.

E’ bellissimo poter salire sulla costa della montagna, per osservare il panorama del lago, le cittadine dell’altra sponda e scoprire, dopo aver superato anfratti e risalito anguste scale, le piante profumate e cariche d'agrumi, con i pilastri a far da sentinelle e muraglie che proteggono dal vento e raccolgono i raggi del sole.

La visita alle diverse limonaie è un piacere particolare, in alcuni casi possibile anche in orario notturno grazie alla loro illuminazione, trovandosi immersi tra i profumi fragranti degli agrumi e quelli dei fiori portati dal vento che scende dai pascoli sulle montagne.

Tra le tante cose da vedere a Limone sul Garda, oltre ad una salutare passeggiata tra i profumi delle strette viuzze del suo piccolo centro storico e la passeggiata sul lungolago, c’è anche la millenaria Chiesetta di San Pietro, a una sola navata e con all’interno affreschi di grande pregio databili ai secoli XIII-XIV, posta in mezzo ad un oliveto, lungo la strada che porta a Tremosine.

Il turismo ha sostituito il commercio dei limoni in vetta alle risorse economiche del paese, che è particolarmente amato dai tedeschi, uno dei quali, Johann Wolfgang Goethe, a fine ‘700, visitò Limone e restò estasiato alla vista delle grandi serre di agrumi che gli ispirarono i versi iniziali della sua famosa poesia:"Conosci il paese dove fioriscono i limoni?".

La produzione di olio d’oliva è, assieme a quella dei limoni, l’altra importante attività che caratterizza Limone sul Garda; un olio di grandissima qualità esportato in tutto il mondo.

Persone legate a Limone:
Ettore Colombo, imprenditore
San Daniele Comboni, missionario, primo vescovo cattolico in Africa centrale
Giuseppe Leonardi, patriota.


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sabato 11 aprile 2015

IL BATTELLO ARCIDUCA RANIERI


Il primo battello in servizio sul Garda adibito a trasporto sia di merci che passeggeri, univa Riva del Garda a Peschiera e Desenzano, si chiamava Arciduca Ranieri ed era un battello a vapore costruito in legno.

Un gruppo di banchieri di Milano costituirono nel 1824 la "Società Milanese per la Navigazione a Vapore nei Laghi del Regno Lombardo Veneto", facente capo a Francesco Figaroli.
Questa nuova Società, che coglieva l'esigenza di soddisfare la necessità di trasporti legata al crescente sviluppo industriale, ottenne dall’Amministrazione austriaca il privilegio esclusivo del servizio navigazione per la durata di 15 anni. Fu quindi messo in servizio un piroscafo in legno azionato da due macchine a vapore col nome di Arciduca Ranieri, costruito e varato a Desenzano il 7 luglio 1827.
Il piroscafo iniziò le sue corse il 12 settembre e il 30, a Milano, fu pubblicato un manifesto per l’entrata in attività dal 1° ottobre.
L’Arciduca Ranieri era un battello azionato da due macchine a vapore della forza di 28 cavalli e della portata di 400 quintali. I viaggi furono suddivisi per “Corsa lungo la riva Bresciana” e “Corsa lungo la riva Veronese” con differenti giorni della settimana assegnati ai due tipi di servizio. Il successo fu enorme ed il pubblico si compiacque non solo per il rapido mezzo di trasporto ma anche dalla novità del nuovo sistema di propulsione a vapore: per la prima volta, infatti, un piroscafo a ruote solcava le
acque del Benaco.



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IL BATTELLO MANUBRIO




L'amico a prora, meglio conosciuto come Manubrio, che al largo navigava a vela e per le manovre di attracco utilizzava un motore di otto cavalli che facevano girare la ruota a pale del battello.

Il successo dell’impresa milanese spinse un imprenditore di Riva, Francesco Montagnani,
a commissionare, nel 1829, un bastimento a Pietro Floriani, anch’esso di Riva, ed insieme progettarono un naviglio davvero singolare.
Si trattava di una barca della portata di 1000 quintali, mossa da vele e da otto cavalli (veri) che, giostrando intorno ad un’asse centrale, imprimevano un movimento rotatorio collegato all’albero di trasmissione delle pale che permetteva l’avanzamento del natante. Il congegno aveva anche un meccanismo per cui si poteva trasformare in retrogrado il movimento in avanti dei cavalli e per alzare o abbassare le pale per utilizzare le vele in caso di vento.
Un addetto agli animali, con tanto di frustino in mano, controllava il movimento che veniva azionato soprattutto per la navigazione costiera.
La curiosa imbarcazione riscosse il favore del pubblico diffidente ai motori che, cronaca dei tempi, ogni tanto scoppiavano per la condensa che si depositava sul fondo delle caldaie. Il varo dell’ Amico a Prora, chiamato ironicamente Manubrio, avvenne il 25 gennaio 1830, proprio mentre l’Arciduca Ranieri si trovava in riparazione in seguito “ai guasti ed inconvenienti che avevano spaventato e sviato il pubblico”. Il natante suscitò anche la curiosità dei vicereali Arciduca Ranieri e della moglie Maria Francesca Elisabetta di Savoia che il 22 aprile, provenienti da Venezia e diretti a Milano, fecero una visita alla barca ancorata a Desenzano e l’Arciduca ne esaminò attentamente i meccanismi.
Il battello mosso di cavalli, effettuò con discreto onore il suo servizio sino al 1839, quando fu demolito.




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