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sabato 11 aprile 2015

IL BATTELLO ARCIDUCA RANIERI


Il primo battello in servizio sul Garda adibito a trasporto sia di merci che passeggeri, univa Riva del Garda a Peschiera e Desenzano, si chiamava Arciduca Ranieri ed era un battello a vapore costruito in legno.

Un gruppo di banchieri di Milano costituirono nel 1824 la "Società Milanese per la Navigazione a Vapore nei Laghi del Regno Lombardo Veneto", facente capo a Francesco Figaroli.
Questa nuova Società, che coglieva l'esigenza di soddisfare la necessità di trasporti legata al crescente sviluppo industriale, ottenne dall’Amministrazione austriaca il privilegio esclusivo del servizio navigazione per la durata di 15 anni. Fu quindi messo in servizio un piroscafo in legno azionato da due macchine a vapore col nome di Arciduca Ranieri, costruito e varato a Desenzano il 7 luglio 1827.
Il piroscafo iniziò le sue corse il 12 settembre e il 30, a Milano, fu pubblicato un manifesto per l’entrata in attività dal 1° ottobre.
L’Arciduca Ranieri era un battello azionato da due macchine a vapore della forza di 28 cavalli e della portata di 400 quintali. I viaggi furono suddivisi per “Corsa lungo la riva Bresciana” e “Corsa lungo la riva Veronese” con differenti giorni della settimana assegnati ai due tipi di servizio. Il successo fu enorme ed il pubblico si compiacque non solo per il rapido mezzo di trasporto ma anche dalla novità del nuovo sistema di propulsione a vapore: per la prima volta, infatti, un piroscafo a ruote solcava le
acque del Benaco.



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giovedì 12 marzo 2015

I MULINI DELL' OLONA

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I mulini ad acqua sul fiume Olona sono degli edifici destinati all'attività molinatoria che sono disseminati lungo le rive del fiume Olona.

Conobbero il loro apice di sviluppo nel XVII secolo con la presenza, lungo le rive del fiume, di circa un centinaio di impianti molinatori. In seguito, dal XVIII al XIX secolo, ci fu una fase di declino, che terminò appena dopo la seconda guerra mondiale, quando i mulini attivi ancora presenti sulle rive del fiume erano ormai solo una decina. Con il passare dei secoli, il loro numero è progressivamente diminuito, e solo una piccola parte è giunta sino al XXI secolo. Alcuni di essi versano in stato di abbandono, mentre altri sono stati recuperati per le più svariate finalità.

La presenza dei mulini, l'abbondanza di manodopera locale, l'esistenza di moderne e rilevanti vie di comunicazione lungo le sponde, la presenza di personalità della zona che possedevano cospicui capitali da investire e la lunga tradizione artigianale della Valle Olona permisero al fiume, che scorre in provincia di Varese e Milano, di diventare una delle culle dell'industrializzazione italiana.

Tra le sorgenti e Nerviano il corso del fiume era un tempo disseminato di mulini. Fin dal Medioevo, prosperava l'attività molitoria. Tale era il numero di mulini da far supporre che nel XV secolo questa attività costituisse per l'intera zona una notevole fonte economica. Il possesso dei mulini consentiva alle autorità di conservare il controllo dei territori circostanti. Quest'ultima, infatti, era collegata al rifornimento di cereali, da parte dei mugnai dell'Alto Milanese, alla città di Milano. Le famiglie nobiliari del tempo tendevano quindi a concentrare le proprietà dei mulini per conservare il potere discrezionale sul loro uso, soprattutto in tempo di carestia. Questa importanza fu tale anche nei secoli successivi, e per questo motivo le Signorie degli Sforza e dei Visconti posero a presidio dei più importanti raggruppamenti di mulini sull'Olona alcune fortificazioni, sfruttando fortilizi e castelli già esistenti. Il tratto del fiume dove erano presenti la gran parte dei mulini era quello tra Legnano e Pogliano.

Il più antico documento conosciuto nel quale si nomina un mulino sull'Olona è del 1043: esso fa riferimento ad un palmento di proprietà di Pietro Vismara situata a "Cogonzio" (toponimo poi scomparso), tra la località "Gabinella" a Legnano e Castegnate, nei pressi della chiesa di San Bernardo. L'attività vinicola dell'Altomilanese, un tempo fiorente, fu messa in crisi a metà del XIX secolo da alcune malattie della vite. La prima infezione, la nosematosi, comparve tra il 1851 ed il 1852 e causò una rapida diminuzione della quantità di vino prodotta in Lombardia: gli ettolitri di vino prodotti passarono da 1.520.000 del 1838 a 550.000 nel 1852. L'arresto definitivo della produzione vinicola coincise con il manifestarsi, tra il 1879 e il 1890, di altre due malattie della vite: la peronospora e la fillossera. In seguito a queste epidemie, le coltivazioni vinicole nell'intero Altomilanese scomparvero, ed i contadini concentrarono gli sforzi nella produzione di cereali e bachi da seta. Nelle altre zone vinicole lombarde il problema fu risolto con l'innesto di specie di viti immuni alla malattia (uva americana).

L'uso intensivo delle acque dell'Olona da parte degli agricoltori, dei mugnai e degli artigiani richiese da parte delle autorità l'emanazione di apposite norme (i cosiddetti "Statuti delle strade e delle acque del contado di Milano"): ciò avvenne la prima volta nel 1346 e poi nel 1396. Questi documenti spiegavano le modalità di sfruttamento delle acque nell'irrigazione e per il loro impiego come forza motrice per la movimentazione delle ruote idrauliche dei mulini. Da ciò si può dedurre l'importanza che le autorità dell'epoca attribuivano alla funzione dei mulini.

Le premesse all'istituzione di un consorzio tra gli utilizzatori delle acque del fiume si ebbero nel 1541, quando furono sottoscritte le cosiddette Novae Costitutiones (in italiano, le "nuove costituzioni"). In questo caso il nuovo contratto, che aveva carattere pubblico, prevedeva un Regius Judex Commissarius Fluminis Olona (in italiano, "commissario del fiume "), che sovrintendeva al controllo degli utilizzatori delle acque dell'Olona. In genere, tale funzione era ricoperta da un esponente del Senato di Milano. Le Novae Costitutiones, e le cariche ad esse associate, restarono in vigore fino al 1797.

Nel 1548 fu emanata una "grida" che obbligava gli utilizzatori delle acque a comprovare, tramite documentazione scritta, i dettagli dei vari impieghi. Il mancato rispetto di queste norme comportava il pagamento di sanzioni, nei confronti delle quali le famiglie nobiliari erano esentate. In questi secoli la distribuzione delle acque non era equanime. Gli utilizzatori più ricchi e potenti prevaricavano infatti su quelli più poveri e indifesi.

Nel 1606 fu costituito a Milano un vero e proprio consorzio fra gli utilizzatori sotto la sorveglianza del commissario del fiume. Non fu un caso che il consorzio sia nato a Milano: nel capoluogo meneghino dimoravano infatti gli utilizzatori delle acque che avevano gli interessi più cospicui. Questa associazione consortile sopravvive ancora con il nome di consorzio del fiume Olona.

Nel 1606 la Regia Camera Ducale di Milano commissionò alcune "oculari ispezioni" eseguite da ingegneri provinciali o da custodi del fiume, ai quali era assegnata la salvaguardia dei singoli tratti del fiume. L'ingegner Pietro Antonio Barca censì 106 mulini tra la sorgente della Rasa di Varese sino alla città di Milano, di cui 105 utilizzati per la macinazione del grano mentre l'ultimo, ubicato a Milano e di proprietà dei Reverendi Frati di San Vittore Olona, azionava un maglio per la costruzione di armi e corazze. I primi censimenti consentirono, per la prima volta, un'indagine approfondita dei mulini presenti lungo il fiume. Era infatti interesse del governo trovare gli abusi e gli sprechi perpetrati dagli utenti, e determinare con precisione le tasse che questi ultimi dovevano pagare per il prelevamento dell'acqua.

Nell'ispezione del 1606 si costatò che la zona del Legnanese era un luogo adatto per la costruzione dei mulini, dato che in quest'area il fiume Olona forniva acque costanti per gran parte dell'anno, e sufficientemente veloci per muovere le grandi pale. In questo tratto di fiume ne risultarono in attività 14. Nel 1608, nel corso di un sopralluogo eseguito dall'ingegnere Paolo Barca, venne costatata la presenza di 116 mulini lungo il fiume con 463 ruote idrauliche a servizio di questi impianti molinatori (chiamate, nella Valle Olona, "rodigini"). Dato che le ruote in funzione erano 463, da questi dati si può dedurre che molti mulini avevano più di una ruota. Ognuna di esse poteva svolgere una funzione diversa. Con la relazione di Barca furono determinati per la prima volta il numero dei mulini, delle ruote e dei proprietari.

Nel 1733 fu compiuto un secondo censimento. Realizzato dal camparo Gaspare Bombelli, questo documento riportava i mulini e gli edifici presenti lungo il corso del fiume. Nel 1772 fu compiuto un terzo censimento, questa volta ad opera del conservatore Gabriele Verri e dall'ingegner Gaetano Raggi. Qui il numero di mulini era diminuito, passando da 116 a 106, per un totale di 424 rodigini. Questi mulini muovevano anche un filatoio, due folle di panni, alcuni torchi d'olio e un maglio. Nell'anno citato a Legnano i mulini erano diminuiti a 12 e tra i proprietari erano presenti, oltre che una buona parte delle famiglie nobili, anche l'Ospitale Maggiore di Milano e la Mensa Arcivescovile della Diocesi di Milano. A partire dal XVIII secolo cambiò anche la ripartizione delle proprietà. Dai censimenti del Settecento risultava infatti che le proprietà legate agli ecclesiastici erano diminuite.

Fino al XVIII secolo i mugnai che lavoravano nei mulini non erano, in genere, anche i loro proprietari. Dalla fine del secolo citato, i molinari iniziarono ad acquistare i mulini dove esercitavano la loro attività.

Un secolo dopo il numero di mulini scese ancora. Nel 1881, stando alla relazione dell'ingegner Luigi Mazzocchi, nominato ingegnere d'Olona nel 1880 dal consorzio del fiume, i mulini erano infatti 55, per un totale di 170 ruote. Da questo censimento risulta che i proprietari dei mulini non appartenevano più alla classe nobiliare ed a quella ecclesiastica, ma alla nascente classe borghese.

I mugnai, cioè coloro che lavoravano e dimoravano con la loro famiglia nei mulini lungo l'Olona, erano definiti "conduttori". I conduttori, a loro volta, ricevevano il permesso di insediarsi nei mulini dai cosiddetti "livellari", cioè da coloro che gestivano e controllavano gli impianti molinatori per conto dei proprietari veri e propri. Molto spesso erano i livellari a lavorare nei mulini senza delegare questo compito ai conduttori. La gestione dei mulini era feudale. La funzione di conduttore del mulino era infatti ereditaria, cioè passava di padre in figlio. In assenza di figli maschi, il livellaro sceglieva un nuovo conduttore.

Le denominazioni dei mulini difficilmente richiamavano il nome del proprietario. Esse erano generalmente legate ai nomi dei conduttori e dei livellari. Ad esempio, il mulino Gadda di Fagnano Olona era conosciuto in questo modo per il cognome del livellaro e non per i conti Terzaghi, che ne erano i proprietari.

A cavallo tra il XVIII ed il XIX secolo questa situazione cominciò a mutare. I livellari ed i conduttori, grazie al denaro accumulato negli anni e con il passare delle generazioni, furono in grado di acquistare i mulini dai padroni storici.

I mulini del fiume Olona non venivano utilizzati solamente per macinare i cereali, ma anche per produrre olio di semi, per pilare il riso e per far muovere i macchinari degli artigiani. Le ruote installate lungo l'Olona facevano infatti funzionare i magli per la lavorazione del rame e del ferro, le segherie (sia di marmo che di legname), e gli strumenti degli artigiani tessili. Lungo le sponde del fiume, le stoffe di canapa e lino venivano macerate, mentre quelle di lana erano sottoposte a lavaggio. A causa dei depositi che decantavano sul fondo, le attività connesse alla lavorazione del lino e della canapa vennero in seguito vietate.

I mulini sono stati protagonisti della prima fase della rivoluzione industriale che ha coinvolto la valle Olona nel XIX secolo. Dopo il 1820, i mulini iniziarono ad essere utilizzati per far muovere i macchinari delle prime fabbriche sorte lungo le sponde del fiume. Durante lo sviluppo industriale del XIX e XX secolo, molti mulini entrarono a far parte degli stabilimenti industriali che stavano sorgendo lungo l'Olona. Infatti, molte attività preindustriali che sorsero nella Valle Olona, e che furono i nuclei dei futuri e moderni stabilimenti industriali, vennero impiantate lungo le rive del fiume per permettere la movimentazione degli impianti grazie allo sfruttamento della forza motrice delle acque. Questa forza motrice venne originata grazie alla modifica e all'ampliamento dei mulini destinati originariamente alla macinazione dei prodotti agricoli. L'industrializzazione delle sponde dell'Olona fu quindi graduale, con gli imprenditori che preferirono sfruttare gli impianti idraulici degli antichi mulini piuttosto che impiantarne di nuovi. In altre parole, l'industria nasceva come metamorfosi di parte degli antichi mulini, che si trasformarono dapprima in protoindustrie e poi in attività industriali vere e proprie. Come conseguenza, la maggior concentrazione di attività preindustriali si ebbe in corrispondenza dei tratti del fiume dove era maggiore la presenza di impianti molinatori.

L'avvento dell'industria è stata la conseguenza naturale di un processo che, nel tempo, ha visto il fiume svolgere la funzione di perno delle attività economiche. Lo spirito d'iniziativa e la presenza dei mulini hanno innescato un fenomeno industriale di grandissimo rilievo. Molti pionieri dell'industria fecero della zona uno dei più importanti centri industriali tessili italiani del XIX secolo, inglobando, all'interno delle loro fabbriche, diversi mulini. All'inizio del XIX secolo, alle pale mosse dall'acqua, furono collegate delle grandi cinghie che muovevano telai tessili, macchine utensili, magli e persino gli impianti di una fabbrica per la birra. Nel corso del XIX secolo gli imprenditori fecero a gara per accaparrarsi gli antichi mulini. Molti mugnai rifiutarono le offerte, ma altri cedettero le loro attività alle nascenti industrie.

Un esempio di azienda che sorse lungo l'Olona e che sfruttò originariamente la forza motrice del fiume fu il cotonificio Cantoni. Anche in questo caso l'attività di filatura utilizzava i mulini da grano già esistenti sul fiume, opportunamente adeguati. Prima Camillo Borgomanero (fondatore del primo nucleo produttivo del cotonificio), poi Costanzo Cantoni, acquistarono due impianti molinatori: il mulino Isacco (già della famiglia Lampugnani, ed acquistato nel 1819) ed il mulino Cornaggia-Medici (1841). Quest'ultimo mulino era molto antico, essendo appartenuti ai Melzi fin dal 1162. In un documento del 27 marzo 1847 si può leggere: "Il Sig. Cantoni Proprietario di due mulini uniti posti sull'Olona, il primo detto del Pomponio in mappa al n. 1632. Fu venduto dal nobile Sig. marchese Cornaggia venduto nell'anno 1831 alla ditta Bazzoni & Sperati, ed indi nel 1841 acquistato dal Sig. Cantoni".

Nel 1881 i mulini censiti furono 55 ed alcuni di essi avevano cambiato la loro attività iniziale. A Induno Olona alcuni mulini azionavano una macina e un torchio per olio, una conceria per le pelli e un torcitoio per la seta. Nella zona di Varese, i mulini erano quattordici ed per tre di questi erano associate due cartiere e un torcitoio per la seta. Lungo il corso del fiume nella valle Olona, l'ingegner Mazzocchi notò nei mulini molti torchi per l'olio, cartiere e numerose filature, tessiture e tintorie. Ad esempio, a Legnano, su 11 mulini censiti, in quattro si continuava nella tradizionale macinatura del grano (nello specifico, nei mulini della Gabinella, del Contess, del Castello e Melzi), mentre negli altri la funzione era cambiata, essendo stati inglobati negli stabilimenti industriali. I mulini che macinavano ancora cereali e che non erano stati inglobati nelle industrie, vennero poi resi gradualmente obsoleti dalle nuove tecniche di macinazione.

Molti di essi furono in seguito abbandonati o demoliti dalle industrie per poter permettere l'installazione delle più moderne ed efficienti turbine idrauliche. Lo scopo dell'acquisizione dei mulini e della successiva installazione di ruote idrauliche era quello di far muovere i macchinari delle industrie tessili, meccaniche, conciarie, cartarie, oltre che gli impianti delle tintorie, delle sbianche e delle centrali idroelettriche. Per quanto riguarda queste ultime, nel 1920, lungo l'Olona, erano operative due centrali idroelettriche. Anche dieci aziende sorte lungo l'Olona possedevano delle piccole centrali idroelettriche a servizio degli stabilimenti.

Poi, con la comparsa dei motori a vapore e di quelli elettrici a cavallo tra il XIX ed il XX secolo, l'energia per far muovere i macchinari non proveniva più solamente dall'Olona e quindi le ruote idrauliche furono gradualmente abbandonate. A Legnano i sette mulini del centro città furono demoliti dalle grandi industrie cotoniere per permettere l'installazione delle più moderne ed efficienti ruote idrauliche. Nel periodo post bellico, a causa delle nefaste conseguenze del conflitto, crebbe il fabbisogno di corrente elettrica, e l'uso delle vecchie ruote dei mulini tornò ad essere economicamente conveniente, anche se solo per le piccole officine. Gli antichi mulini ripresero dunque ad azionare trapani, piallatrici, mole a smeriglio, ecc., ma anche questo nuovo risveglio si spense presto col mutare delle condizioni economiche.

Come già accennato, dopo un lunghissimo servizio reso principalmente all'agricoltura, molti degli antichi mulini sono scomparsi, vittime del progresso della tecnologia e delle nuove tecniche di macinazione, oltre che della nascita dei primi insediamenti industriali. Al XXI secolo, è rimasto ben poco di quel paesaggio fluviale costellato di mulini, che nei secoli scorsi caratterizzava le rive del fiume Olona.

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sabato 21 febbraio 2015

LA NASCITA DEL TRAM MILANESE

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La rete tranviaria di Milano è formata da diciassette linee urbane e ha una lunghezza complessiva di circa 115 km, la maggiore in Italia.

Le vetture tranviarie sono una componente tipica del paesaggio milanese. I tram più caratteristici della rete tranviaria milanese sono le cosiddette "tipo 1928" (serie 1500) costruite fra il 1928 e il 1932 in 502 esemplari e tuttora in circolazione in 163 unità.

Della rete interurbana, che collegava il capoluogo ad alcuni estremi della provincia e ad alcuni vicini capoluoghi, rimane in esercizio la Milano-Limbiate, mentre per la Milano-Seregno, non in esercizio, è prevista una riqualificazione.

Dopo l'istituzione dei servizi di omnibus nel 1841, la prima linea tranviaria milanese fu la Milano-Monza, inaugurata l'8 luglio 1876 con trazione animale. La linea aveva capolinea fuori Porta Venezia, all'inizio dell'attuale corso Buenos Aires, all'esterno del perimetro urbano. L'anno successivo, il 24 giugno 1877 venne inaugurata una seconda linea, la Milano-Saronno, con capolinea all'Arco della Pace.

Dopo solo pochi mesi, l'amministrazione cittadina acconsentì a posare le rotaie all'interno della cerchia muraria: la linea per Monza venne prolungata pertanto fino in largo San Babila, mentre quella per Saronno, attraverso la piazza d'armi del Castello, fino a via Cusani. Il 6 giugno 1878 venne inaugurata la prima tranvia a vapore, diretta a Vaprio. Il successo della linea rese popolare la trazione a vapore, che si estese sull'esistente linea di Saronno (1878), e sulle nuove linee per Sedriano (1879), Vimercate, Pavia e Lodi (1880), Giussano (1881), ed altre ancora. Queste linee non formavano una rete unitaria, ma risultavano tronconi a sé stanti, addirittura con diversi capolinea, affidati rispettivamente a società differenti.

Le prime tranvie urbane, a trazione animale, vennero inaugurate nel 1881 in occasione dell'Esposizione Nazionale. Le linee avevano andamento radiale, con capolinea centrale in piazza del Duomo, dirette verso le porte cittadine. La rete era gestita dalla Società Anonima degli Omnibus (SAO).

Nel 1892 la società Edison presentò un progetto di elettrificazione della rete tranviaria urbana, realizzando l'anno dopo una linea sperimentale (da piazza del Duomo a corso Sempione attraverso i nuovi quartieri residenziali) per dimostrare i vantaggi del nuovo sistema. Pertanto dal 1895 la Edison sostituì la SAO nella gestione della rete, la cui elettrificazione venne completata nel 1901.

In concomitanza con la continua ascesa della rete tranviaria si assistette ad un progressivo impiego del tram anche in ambiti e contesti estranei al semplice trasporto pubblico. Con l'apertura del Cimitero Maggiore, avvenuta nel 1895, venne istituito un servizio tranviario dedicato da parte dell'allora SAO (per conto del Comune) per il trasporto delle salme dalla stazione funebre appositamente allestita in via Bramante al cimitero. Nel 1897 il servizio, comunque già elettrico dagli inizi, sarebbe passato alla Edison. Le difficoltà connesse all'esercizio del servizio con una sola stazione, decentrata a nord rispetto alla città, portarono il Comune a valutare l'ipotesi di introdurre una seconda stazione funebre, da collocarsi sulla circonvallazione dei Bastioni. Venne scelta Porta Romana, nell'area del cosiddetto Monte Tabor, incavata nel Bastione. I lavori videro l'affidamento all'ingegner Minorini, affiancato dall'ingegner Ripamonti e dall'architetto Tettamanzi: il nuovo servizio venne inaugurato la mattina del 3 ottobre 1907. Rispetto a come funzionavano fino ad allora le cose, vennero introdotti accorgimenti, come la separazione fisica dell'officina tranviaria dal luogo in cui sostavano i convogli pronti a svolgere il servizio funebre e la predisposizione del tram a portare una sola salma per vettura, così da evitare i cortei promiscui. Le stesse vetture erano state realizzate molto più eleganti, essendo peraltro costate 20.000 lire a tram. Le vetture rimorchiate, inoltre, erano molto più lunghe, e si presentavano a salone, con sedili in velluto e vetri smerigliati; riscaldamento per l'inverno e ventilatori per l'estate.

Nel 1905 cominciarono le sperimentazioni per l'innaffiamento delle strade con vetture tranviarie appositamente modificate, per sostituire gli anacronistici carri-botte trainati da cavallo ancora in servizio in quegli anni. Questo è l'anno infatti dell'importazione dagli Stati Uniti del primo di questi tram sperimentali, che sarebbero stati studiati accuratamente negli anni successivi dall'ingegner Minorini, che ne avrebbe riutilizzato l'apparecchiatura idraulica su una vettura di nuova produzione, sperimentata finalmente con successo nel 1908. A quell'anno risultano attive otto vetture adibite a questo servizio.

Subito all'inizio del 1910 venne sperimentata, su idea dell'ingegner Franco Minorini, direttore del servizio tranviario, l'introduzione di un numero che identificasse ciascuna delle linee urbane, di modo da un lato da agevolarne la memorizzazione, a fronte della continua crescita della rete, dall'altro di rendere più riconoscibili le linee per chi ancora era analfabeta. Avuto esito positivo la sperimentazione, il 1º marzo di quell'anno ciascuna linea riceve un numero progressivo da 1 a 28, ad eccezione delle due linee di circonvallazione, che sarebbero rimaste sprovviste di numerazione per diversi mesi ancora. Solo in seguito avrebbero assunto i numeri 29, per la linea più esterna, in senso antiorario e 30, per la linea più interna, in senso orario.

Nel 1912 si presentò alla ribalta la questione della metropolitana di Milano: l'ingegner Evaristo Stefini aveva presentato infatti un progetto di sotterranea che avrebbe congiunto Milano con Monza, mentre l'ingegner Carlo Broggi aveva proposto una linea di metropolitana che congiungesse Loreto a San Cristoforo. Frattanto l'ingegner Minorini studiava invece una possibile sistemazione sotterranea della rete tranviaria. Venne fissato per il marzo 1913 il limite massimo per la presentazione di proposte concrete per la realizzazione e la successiva gestione della metropolitana: fra tutte quelle presentate ne vengono scelte tre, in seguito scartate in quanto ritenute inadatte alle esigenze della città. Lo scoppio della guerra chiuse definitivamente la breve parentesi.

Con l'entrata in guerra dell'Italia nel 1915, il servizio pubblico risentì pesantemente della chiamata alle armi, con una drastica riduzione del personale tranviario e un abbondante ridimensionamento del servizio: alla limitazione del servizio seguì abbastanza subito la soppressione di alcune linee. Il personale venne parzialmente rimpiazzato da pensionati, richiamati in servizio, e da donne. La Direzione Sanità del Comando Militare Territoriale affidò inoltre all'Azienda Tramviaria il trasporto dei feriti di guerra dalle stazioni ferroviarie agli ospedali militari che si trovavano in città, dotando la rete di alcuni appositi raccordi e allestendo venti vetture per il trasporto di 8 feriti su barella ciascuna.

Parallelamente alle conseguenze della guerra, un altro problema che affliggeva il servizio tranviario era l'inadeguatezza delle vetture con cui veniva effettuato il servizio tranviario, affidato alle Edison. Nel 1916 l'ingegner Minorini cura personalmente l'acquisto di quattro vetture sperimentali (972-975), ordinate ad altrettante case costruttrici, alle quali se ne sarebbe affiancata una quinta (976) nel 1917. Tale sperimentazione ebbe come effetto immediato una sostanziale modifica delle Edison, in grado di tamponare la situazione, rimodernando al tempo stesso queste vetture e di conseguenza il servizio.

All'indomani della guerra la situazione dal punto di vi sta economico e sociale rimane incerta per un paio di anni, con sollevazioni e scioperi abbastanza frequenti anche fra il personale tranviario. La situazione tende comunque a rientrare abbastanza presto nella normalità, inaugurando un decennio profondamente segnato dall'innovazione in campo tranviario. Il 12 aprile 1921 l'ingegner Minorini sperimentò con successo per la prima volta il primo scambio automatico cittadino, fatto installare in piazzale Principessa Clotilde, presso Porta Nuova. In seguito a questa positiva sperimentazione, vennero via via sempre più installati nuovi scambi elettromagnetici, che pensionavano di volta in volta la figura del quel de la gugia, il caratteristico manovratore dell'azienda tranviaria che azionava manualmente (col ferét o la gugia, appunto) gli scambi della città.

Il 6 gennaio 1922 l'impresa Rognini e Balbo immette in regolare servizio nove elettromotrici ad accumulatori (e un rimorchio), sul percorso via Sarpi (angolo via Canonica), via Volta, via Moscova, via Cernaia, via Borgonuovo, via Verziere, via Brolo, via Ospedale. Si tratta della prima vera e propria forma concorrenziale al servizio tranviario nel trasporto pubblico della città: le vetturette bianche, considerate abbastanza antiestetiche se non addirittura quasi ridicole, avevano come unico vantaggio l'estrema silenziosità. La sperimentazione non riscosse particolare successo, costituendo per il momento un episodio circoscritto e senza un particolare seguito immediato, ma che avrebbe in seguito gettato le basi al futuro del trasporto pubblico cittadino.

Nel 1922 riscoppiarono abbastanza ferocemente quelle tensioni sociali che già s'erano manifestate all'indomani della guerra: la stessa amministrazione comunale, coinvolta in una situazione di crollo sia politico che economico, si trova ad attingere regolarmente dagli introiti giornalieri dell'esercizio tranviario per poter coprire le spese correnti e il pagamento dei debiti. Lo sciopero generale indetto per il 1, 2 e 3 agosto di quell'anno vedono le Camicie nere coprire interamente il personale scioperante, garantendo regolarmente il servizio. La notte del 3 agosto dal balcone di Palazzo Marino Gabriele D'Annunzio avrebbe infatti inaugurato e celebrato la nuova amministrazione fascista, insediatasi a capo della città.

Dal punto di vista del parco mezzi, a partire dal 1924 vennero immessi in servizio i nuovi tram a due assi tipo 600 e i corrispettivi rimorchi tipo 1300, realizzate frutto dei lunghi studi compiuti negli ultimi anni a partire dalle sperimentali. Tale evento fu accolto positivamente dalla cittadinanza, dando lustro all'amministrazione fascista sotto le quali erano entrate in servizio, piuttosto che a quella precedente - socialista - che ne aveva ordinata la realizzazione. Tali vetture tuttavia non soddisfecero pienamente, sia per alcune tecnologie impiegate, adottate ma già superate, per via del lungo arco di tempo nel quale erano state applicate, sia anche per l'esigua disponibilità di posti e l'ingombro stradale.

Nel 1925 il Comune affida in via sperimentale alla Compagnia Autobus di Milano (CAM) la linea automobilistica urbana che collega la Maddalena a Figino. Il successo di questa sperimentazione portò alla proposta di estendere il servizio degli autobus a benzina all'intera rete di trasporto pubblico cittadina.

Nel 1926, allontanato l'ingegner Minorini dall'incarico poiché si era rifiutato di aderire al Partito Nazionale Fascista, la direzione del servizio dei trasporti pubblici venne affidata all'ingegner Gaetano D'Alò. Egli, fra il 2 e il 3 agosto sarà chiamato a sovrintendere al cambio di mano, imposto da Roma, che interesserà la circolazione veicolare, coinvolgendo pertanto l'intera rete tranviaria cittadina. Il 29 novembre è invece il giorno della riforma tranviaria: venne soppresso il capolinea, detto carosello, di piazza Duomo, giudicato indecoroso per la città oltre che di intralcio al crescente traffico automobilistico; parallelamente le linee tranviarie, fino ad allora radiali, vennero trasformate in linee a V, con i due rispettivi capolinea relativamente vicini tra loro. Sempre del 1926 è anche l'apertura del Deposito Vittoria, in viale Campania, che sarebbe stato affiancato nel 1933 dal nuovo Ospedale dei Tranvieri.

I limiti riscontrati con le 600 avevano invece spinto l'Azienda Tramviaria negli anni successivi alla progettazione di un nuovo tipo di tram, in grado di rispondere positivamente alle problematiche presentate invece dalle precedenti vetture, non per ultimo ingombro e capienza. Nel 1927 venne presentato il primo esemplare prototipo della futura serie 1500, che sarebbe entrata in regolare servizio in 502 esemplari, a partire dal marzo del 1929. Le nuove vetture, a carrelli, avrebbero in breve tempo rivoluzionato il trasporto tranviario cittadino.

Nel 1931 alcune linee furono modificate per servire la nuova stazione centrale, posta alcune centinaia di metri a nord di quella vecchia.

Nel 1933 venne inaugurata la prima linea filoviaria; a differenza di molte città italiane, però, il nuovo mezzo non sostituì il tram, ma lo integrò su percorsi periferici (in particolare, sulla circonvallazione esterna). La rete tranviaria, infatti, era estesa, efficiente (grazie alle strade ampie e alle molte sedi riservate), tutta a doppio binario, con vetture capienti e moderne.

Negli stessi anni si estesero anche le linee di autobus, particolarmente verso le località esterne annesse al Comune di Milano nel 1923.

Nel 1939 anche la vasta rete interurbana, elettrificata nel decennio precedente dalla STEL, passò in gestione all'ATM; nello stesso anno la rete urbana raggiunse la sua massima espansione.

Nel 1940, con l'entrata in guerra dell'Italia il servizio tranviario cittadino ne risentì pesantemente: innanzitutto sulle vetture tranviarie vennero aboliti quasi tutti i posti a sedere, così da aumentarne la capienza; parallelamente le vetture dovevano viaggiare contraddistinte da fasce bianche e la sera con le luci azzurrate, le tendine abbassate e i fari esterni schermati. Per sostituire il personale chiamato alle armi vennero assunti anche in quest'occasione pensionati e donne. Il progetto di una linea di metropolitana che attraversasse la città dal confine comunale con Sesto, sotto viale Monza, fino alla via Trivulzio, già in avanzata preparazione, venne arrestato. La rete tranviaria subì diverse contrazioni a partire dal 1942, a causa dei danneggiamenti dovuti ai bombardamenti. Nel luglio di quell'anno venne ugualmente immessa in circolazione la prima vettura articolata a due casse su tre carrelli, la 4500, prima di un lotto di venti vetture, di cui solo cinque vedranno effettivamente la luce, a causa degli eventi bellici che ne interruppero la produzione. Nel febbraio del 1943 viene definitivamente sospeso il servizio automobilistico, nel luglio dello stesso anno è invece la volta di quello filoviario. Nel febbraio 1944 trenta motrici tranviarie di serie 600 vengono caricate su carrelloni ferroviari al Deposito Messina per essere inviate a Monaco.

Al termine della guerra gli impianti risultavano quasi interamente distrutti, mentre il parco rotabile riversava in condizioni disastrate. Tuttavia il rapido ripristino del servizio e l'annessa ricostruzione fecero sì che alla fine del 1945 la città potesse nuovamente contare su 29 linee tranviarie, 1 linea filoviaria e 1 linea automobilistica; l'anno successivo le linee tranviarie in esercizio erano invece già 35.

Nel dopoguerra malgrado la rapida ed estesa ricostruzione della rete milanese, il tram cominciò ad essere considerato un mezzo obsoleto e poco flessibile: il Piano del '53 ne prevedeva la completa eliminazione dalle aree centrali e la sua sostituzione con una rete di metropolitane (già ipotizzata nell'anteguerra).

L'avvio fu rapido: nel 1957 iniziarono i lavori di scavo della linea 1, che comportarono l'allontanamento del tram da alcuni assi fondamentali (corso Buenos Aires, corso Vittorio Emanuele, via Dante...). Furono soppresse anche tratte non interessate da lavori, istituendo nuove linee di autobus (viale Liguria, via Canonica). In controtendenza invece l'attivazione dei due prolungamenti per i nuovi quartieri periferici di Taliedo (1964) e Gratosoglio (1969).

Gli anni cinquanta e sessanta videro inoltre la soppressione di quasi tutte le tranvie interurbane, sostituite da autolinee, a causa di un mancato adeguamento degli impianti ai mutati standard di trasporto.

Un'ulteriore forte contrazione della rete si ebbe il 9 marzo 1970: in concomitanza con l'introduzione del biglietto a tariffa oraria (anziché a corsa semplice) si procedette ad una riorganizzazione generale della rete, eliminando le linee sovrapposte. Due anni dopo il tram sparì anche da corso Garibaldi, interessato dai cantieri per la metropolitana 2.

Malgrado le ampie contrazioni, a partire dagli anni settanta si procedette a una sorta di timido riammodernamento: tra il 1971 e il 1977 entrarono infatti in servizio le nuove vetture a grande capacità serie 4800 ("Jumbotram"), ricavate dall'unione delle casse di vetture più anziane, principalmente serie 5200 e serie 5300; tra il 1976 e il 1978 furono consegnate le nuove vetture serie 4900, in previsione della (mai realizzata) trasformazione della circolare esterna 90/91 in tranvia veloce protetta; nel 1981 venne invece aperto il nuovo tracciato di via Larga e via Albricci, con la contestuale eliminazione dei binari in piazzetta Reale e piazza Duomo.

Nei primi anni novanta, ad eccezione dell'apertura del prolungamento da Gratosoglio a Rozzano (17 settembre 1992), la rete fu ridotta ulteriormente a causa dell'attivazione della terza linea della metropolitana. La giunta guidata da Marco Formentini, come segno forte di distacco dalle precedenti giunte che avevano sostenuto la realizzazione della M3, optò per un accantonamento di ulteriori nuovi progetti di linee metropolitane, a favore della realizzazione di nuove linee metrotranviarie.

Tali linee videro la luce nel decennio successivo: il 7 dicembre 2002 fu inaugurato un primo tronco dell'interperiferica nord, fino a Bicocca (2002); il 7 dicembre 2003 furono inaugurate la metrotranvia nord, tra piazzale Maciachini e Niguarda, e la metrotranvia sud nella tratta Porta Lodovica-Abbiategrasso M2; il 7 luglio 2007 l'interperiferica nord fu prolungata fino al nuovo deposito di Precotto; infine il 7 dicembre 2008 fu inaugurata la metrotranvia per Cinisello.

Parallelamente alla realizzazione di queste metrotranvie, nell'arco di un decennio, è stato rinnovato il parco vetture, con l'immissione in servizio delle nuove serie 7000 (modello ADtranz Eurotram) e 7100/7500/7600 (modello Ansaldobreda Sirio e "Sirietto"), che hanno portato all'accantonamento di diverse Ventotto e alla radiazione definitiva delle 4800 (avvenuta nel dicembre 2010). Da Luglio 2014 è iniziata un'opera di riqualificazione delle vetture tipo 4900; in particolare si prevede una completa revisione delle parti meccaniche e un nuovo allestimento sia interno che esterno. Questa revisione interesserà le vetture della prima serie (4900-4949 + la vettura 4950 utilizzata come prova).



sabato 31 gennaio 2015

IL FREDDO E I SUOI RICAMI-LA GALAVERNA-





In meteorologia la galaverna o calaverna è un deposito di ghiaccio in forma di aghi, scaglie o superficie continua ghiacciata su oggetti esterni che può prodursi in presenza di nebbia quando la temperatura dell'aria è inferiore a 0 °C.
La galaverna è costituita da un rivestimento cristallino, opaco e bianco intorno alle superfici solide; di solito non è molto duro e può essere facilmente scosso via. Essa si forma perché le goccioline d'acqua in sospensione nell'atmosfera possono rimanere liquide anche sotto zero (stato di sopraffusione). Il fenomeno della galaverna è il passaggio da vapore acqueo a ghiaccio, che avviene non solo sul terreno, ma anche sugli alberi, sui tetti delle case, sulle auto ecc.
La galaverna richiede piccole dimensioni delle gocce di nebbia, temperatura bassa, ventilazione scarsa o nulla, accrescimento lento e dissipazione veloce del calore latente di solidificazione. Quando questi parametri cambiano si hanno altre formazioni, come per esempio la calabrosa, che si forma quando le gocce di nebbia sono più grosse e il vento è più forte.

La galaverna si distingue dalla brina perché questa non è coinvolta dal processo di sopraffusione delle gocce d'acqua e si forma per il brinamento del vapore sulle superfici raffreddate a causa della perdita di calore per irraggiamento durante la notte. Le formazioni di ghiaccio, simili alla galaverna, che si producono in assenza di nebbia con temperature molto basse e un'alta umidità relativa dell'aria superiore al 90% possono essere chiamate ugualmente galaverna (in inglese soft rime).

Ciro Chistoni descrisse un fenomeno assimilabile alla galaverna, che egli definì forte brinata invernale. Il fenomeno avviene con cielo inizialmente limpido e con formazione di brina sugli oggetti. Scendendo la temperatura, l'aria raggiunge il punto di saturazione di vapore acqueo e, per la presenza di nuclei di condensazione, si forma una nebbia bassa. In questa situazione avviene la solidificazione delle goccioline d'acqua nella nebbia con formazioni aghiformi di ghiaccio amorfo o cristallino che si sovrappongono alla brina. Il fenomeno sarebbe più frequente in autunno avanzato e più raramente in inverno, in particolar modo su oggetti compresi tra il suolo e quattro-sei metri d'altezza. Data la confusione allora presente tra fenomeni di brinamento e solidificazione della nebbia, è probabile che lo scienziato si riferisse a quella che oggi è la galaverna in senso proprio.
La galaverna, sotto forma di ghiaccio sulle piante, è utilizzata anche in ambito agronomico per preservare le piante dalle gelate sfruttando la liberazione del calore di brinamento nel processo di solidificazione dell'acqua liquida spruzzata sulle piante. Infatti durante l'intero passaggio di stato liquido-solido per la liberazione del suddetto calore la temperatura dell'acqua-ghiaccio rimane costante a 0 °C mentre quella dell'aria può essere anche di diversi gradi sotto lo zero. Al termine del passaggio di stato però anche il ghiaccio formatosi sulla pianta si porta rapidamente all'equilibrio termico con la temperatura dell'aria a diversi gradi sottozero, la stessa che avrebbe inevitabilmente subito la piante senza il suddetto trattamento. La tecnica quindi, a livello teorico, non è di per sé dannosa e risulta utile in caso di gelate notturne e disgelo diurno diminuendo il tempo di esposizione della pianta alle temperature sottozero (specie nel periodo critico primaverile), ma nel lungo periodo, cioè in condizioni di gelo persistente anche di giorno e per più giorni, risulta inefficace. Dei danni alla pianta possono altresì crearsi sui germogli con l'aumento di volume dell'acqua che solidifica e per questo è oggetto di severe critiche..

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