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martedì 12 maggio 2015

LE CITTA' DEL LAGO D' IDRO : ANFO

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Anfo (in origine Damphus) è un comune italiano della provincia di Brescia, in Lombardia, sul Lago d'Idro. Il comune appartiene alla Comunità Montana della Valle Sabbia.
Anfo sorge sulla sponda destra del lago d'Idro o Eridio, alla foce del torrente Re che scende dal monte Melino.

Anfo, data la sua posizione geografica, è fiorente località turistica e possiede buone capacità ricettive.
La montagna che sovrasta l'abitato invoglia a bellissime escursioni (Baremone, Meghè, Zeno, Porle, Brele e Monte Censo), che conducono a punti panoramici con ampie vedute del bacino del lago d'Idro e, nei giorni più limpidi, offrono uno splendido colpo d'occhio sul gruppo del Brenta.Vi si possono gustare piatti tipici locali come la tinca coi roei (piselli), i filetti di pesce persico, le aôle e la polenta taragna.

Le rive, paludose e malsane, dove oggi sorge l'abitato di Anfo, furono lentamente bonificate in periodo medioevale dai frati Benedettini del monastero di S. Pietro in Monte Orsino di Serle, che le cedettero poi ai padri Bianchi di S. Francesco Romano di Rodengo Saiano, quindi ai Padri di S. Lorenzo Giustiniano di Monte Oliveto in Brescia.
Alla loro opera tenace, difficle e insalubre, si deve la prima trasformazione degli acquitrini in prati e coltivi, la regolarizzazione dei torrenti, il consolidamento dei terreni franati dai monti che avvolgono il comune alle spalle.
Il nome Anfo appare per la prima volta in documenti del secolo XI. Era un povero paese di contadini e boscaioli. Solo nel 1429 poté acquistare, da gente di Bagolino, la montagna di Baremone per l'alpeggio, ove ancora oggi si continua a fare, con metodi tradizionali, il formaggio detto "Bagoss".
Ma l'alpeggio e il taglio della legna, pure favorito dall'industria del ferro fiorente in Valle Sabbia, non potevano corrispondere alle esigenze economiche della popolazione, per cui, nel 1531, gli abitanti azzardarono affrontare la pesca nel lago, malgrado i severi divieti stabiliti dal comune di Idro che, da tempo immemorabile, vantava diritti di pesca, di navigazione e difesa del lago stesso.
La contesa fra i due comuni rivieraschi (Anfo e Idro) assunse spesso aspetti drammatici, sia per il puntiglio dei contendenti, sia perché inclusi in diverse guirisdizioni amministrative (Idro dipendeva dal Provveditore di Salò, Anfo dai Rettori di Brescia), sia infine perché, approfittando della situazione, i conti di Lodrone colsero il momento propizio per estendere la loro presenza sul lago d'Idro.
I Lodroni infatti costruirono in quegli anni la rocca di S. Giovanni e le pescherie nel golfo di Camerella a Bondone, che affittarono a pescatori di Anfo.
Inoltre fecero costruire forni di ferro in Anfo, sollevando le gelosie e le preoccupazioni dei Bagolinesi. Questi ricorsero al Doge che, accogliendo l'istanza, impose ai Lodroni di abbandonare i forni. Così, dopo varie vicende, la contesa si concluse nel 1555 con un compromesso proposto dal conte Lodovico Calini al Provveditore di Salò e ai Rettori di Brescia; ma solo il 10 ottobre 1579 fu firmata la scrittura fra i due comuni, per cui, nel nome dello Spirito Santo, dovevano rimettere tutte le offese, controversie e dispiaceri passati.

Un documento particolarmente importante per la conoscenza della vita comunale di Anfo è dato dagli Statuti, riformati verso la metà del secolo XVI, essendo stati dispersi i precedenti in periodi tempestosi.
Lo studio e la stesura degli Statuti erano stati affidati a tre cittadini: Gottardo Brunori, Girolamo Mabellini e Bartolomeo Zanetti.
Dagli Statuti risulta che il comune era amministrato da sei consoli eletti dall'assemblea dei vicini, convocata il primo gennaio di ogni anno: ognuno dei consoli restava in carica due mesi, era aiutato da consiglieri, dal notaio e da altri ufficiali eletti a seconda delle necessità.
Appartenevano al comune l'osteria e il molino, oltre all'amministrazione del lascito di G. Battista Treboldi.
Gli Statuti erano severi nel mantenere il rispetto dell'autorità, imponendo l'osservanza di feste religiose, il buon comportamento durante le funzioni, "il bando alle bestie che fossero andate sul sagrato", la partecipazione con la croce alla processione della Pieve di Idro nel giorno dell'Ascensione.
Caduta la Repubblica Veneta, Anfo fu incluso nel Distretto XVII di Vestone.

Si suppone che il luogo fosse occupato nell'antichità dagli indigeni. Non vi sono però documenti che certifichino l'utilizzo della Rocca d'Anfo in epoca romana, dunque la storia va fatta iniziare dall’alto Medioevo. Dove oggi sorge il sito eretto nel 1450 dalla Serenissima Repubblica di Venezia, allora esisteva una fortezza deputata al controllo dei passaggi di merci e persone lungo al via di collegamento fra la pianura bresciana e il territorio teutonico. Alcuni ricercatori ritengono che la Rocca sia stata edificata su una preesistente fortezza di origine longobarda.

La Rocca d’Anfo è un complesso militare fortificato eretta nel secolo XV dalla Repubblica di Venezia nel Comune di Anfo, sul lago d’Idro, e posta a guardia del vicino confine
di Stato con il Principato vescovile di Trento. Edificata sul pendio del monte Censo su una superficie di 50 ettari, la Rocca fu rimaneggiata più volte dagli ingegneri di Napoleone Buonaparte e da quelli italiani, ma perse il suo valore strategico nel 1918, quando il Trentino passò definitivamente al Regno d'Italia . Dopo il 1860 l'esercito austriaco in contrapposizione alla Rocca, iniziò la costruzione del Forte d'Ampola a Storo e di quello di Lardaro. Adibita dall’esercito italiano a caserma per l'addestramento dei militari di leva, la Rocca fu anche luogo di detenzione e polveriera; fu dismessa nel 1975, ma restò vincolata al Ministero della Difesa fino al 1992.

La costruzione della fortezza di Rocca d’Anfo fu voluta nel 1450 dalla Repubblica di Venezia, che governò il territorio bresciano della Val Sabbia dal 1426 al 1797. Il compito di progettare e sovraintendere ai lavori di costruzione fu affidato al conte Gian Francesco Martinengo, “valoroso condottiero e valente ingegnere militare”. di Barco di Orzinuovi. In questo modo si cestinarono definitivamente i progetti originari dei Visconti di Milano, precedenti dominatori di queste terre, che prevedevano la fortificazione del confine con il Trentino lungo il fiume Caffaro a nord del rio Riperone, o l’eventuale ripristino e ampliamento del luogo fortificato posto sul dosso di Sant’Antonio di Caster situato nel Comune di Bagolino nei pressi di Monte Suello. I lavori durarono fino al 1490 e secondo alcuni ricercatori il nuovo complesso difensivo fu edificato su una precedente fortezza di origine longobarda.
Nel periodo veneziano, tutte le esigenze della Rocca, così come per tutte le altre fortificazioni, erano supervisionate dai Collegio dei Savi, poi dal 1542 la Serenissima diede l'incarico a due senatori con il titolo di Provveditori alle fortezze, portati a tre nel 1579. Il comando militare della struttura era affidato ad un patrizio con il titolo di provveditore, alle cui dipendenze vi era un capitano, una trentina di soldati e qualche bombardiere. Il presidio militare era soggetto per la milizia al capitano di Brescia e, per la logistica, al Podestà.
Delle originarie edificazioni viscontee sono ancor visibili solamente la doppia cinta muraria superiore, in quanto, con l’avvento dell’era napoleonica, le mutate tecniche belliche imposero una completa revisione di tutta la struttura fortificata.

Il generale François De Chasseloup-Laubat (1754-1833), ispettore delle fortificazioni, a seguito della pace di Lunéville sottoscritta dalla Francia e Austria il 9 febbraio 1801, ordinò al fine di completare la difesa e l'occupazione dell'Italia la fortificazione di Peschiera, Taranto, Alessandria, Mantova e la Rocca d'Anfo. L'ordine d'operazione era giunto direttamente da Napoleone Buonaparte preoccupato di garantire il controllo alle sue truppe della strada che univa Trento alla città di Brescia.
Il Primo Console di Francia si era subito reso conto dell'importanza strategica della vecchia fortezza per la "difesa dello Stato", ma la Rocca mostrava i segni decadenti di tante guerre sostenute. Quindi Napoleone diede ordine al suo generale François De Chasseloup-Laubat di provvedere all'ammodernamento delle disastrate strutture "senza ritardi e senza riguardo per la stagione".
Il progetto fu affidato ad ingegneri del genio militare di grande esperienza: prima al barone colonnello, comandante del Corpo Ingegneri, François Nicolas Benoit Haxo (1774-1838) e successivamente al colonnello François Joseph Didier Liedot. Gli ingegneri militari napoleonici abbandonarono saggiamente le strutture venete dando il via ad un grandioso progetto di ampliamento che aveva come fulcro il costone roccioso leggermente posto più a nord.
Questi affrontarono l’opera approntando preliminarmente una cartografia particolareggiata del luogo, adattando mirabilmente le strutture alla natura scoscesa e selvaggia del territorio, secondo le nuove teorie della famosa “Ecole Polytechnique” dell’esercito francese di Parigi. Il Liedot distribuì le varie batterie su piccole terrazze ricavate dallo scavo della roccia e proteggendole per mezzo di una grande Lunetta (la Rocca Alta) nella parte superiore dotata di casematte di artiglieria e fucileria. La strada Trento-Brescia che passava alla base della Rocca, secondo il progetto mai realizzato, doveva essere interrotta da profondi fossati e resa transitabile da ponti levatoi.
I progetti elaborati dai due tecnici francesi rappresentano una tappa fondamentale nella storia della cartografia. I lavori ebbero inizio nel 1802 e in soli 10 anni, nel 1812, furono portati a termine. La spesa sostenuta di militari francesi di 2,5 milioni di franchi testimoniano lo sforzo di fare della Rocca d’Anfo una delle più grandiose e possenti fortezze d’Europa. La caduta dell’impero napoleonico impedì il completamento dell’opera nella sua parte medioinferiore. Le integrazioni delle strutture, fino all’assetto definitivo attuale, vennero effettuate prima dagli Austriaci e poi portate a termine dal Regno d'Italia, dal 1860 al 1914 circa.

La Rocca è costituita da una trincea fortificata in direzione del paese di Anfo, difesa da una caserma detta Rocca Vecchia, a sua volta sovrastata dalla batteria veneta; entrambe dominate da un corpo di guardia, posto a 200 metri sul livello del lago e collegato alla batteria da un muro con feritoie e gradini. Verso il “nemico” Trentino si sviluppava una serie di batterie e casermette, sovrapposte a scalinata. A nord esisteva uno scosceso burrone.
Queste batterie di difesa erano chiamate:
batteria Tirolo, a 100 metri sul lago;
batteria Rolando, a 150 metri sul lago;
batteria Belvedere Superiore a 250 metri sul lago.
ridotto costituito da una Lunetta, detta Rocca Alta, che collegava i due fronti precedenti, a 200 metri sul lago, e conteneva una caserma e una batteria casamattate;
a 50 metri, sotto la Lunetta, c’era la batteria Bonaparte, poi ribattezzata Anfo, a difesa dela strada fra Rocca Vecchia e la batteria Tirolo.
sul tutto ad una altezza di 300 metri, sovrastava una torre rotonda a due piani.
Trincee, piazzole, rampe, strade coperte, polveriere, stalle per i muli, alloggi per la truppa e cisterne dell’acqua completavano la logistica della fortezza.
Il complesso di queste costruzioni militari è distribuito in una fascia di terreno di forma triangolare, di cui un lato corrisponde all’incirca ad un chilometro di riva del Lago d’Idro. Il resto si sviluppa sul versante orientale del monte Censo, fino quasi alla sua cima, con un dislivello che varia dai 371 metri sul livello del mare dalla riva del Lago ai 1050 metri dal vertice.

Di notevole interesse turistico la parrocchiale, l'oratorio di S. Antonio, la conca di Barèmo e la vetta del Cènso (per ammirare la vallata da Treviso a Condino con super vista sull'intero lago d'Idro). E' meta di notevole flusso turistico estivo ( campeggi e residence). E' del tutto privo di industrie.

Tra i personaggi recenti più illustri spicca la figura della serva di Dio, suor Irene Stefani, morta in concetto di santità il 31 ottobre 1930, di cui attualmente si è concluso il processo per la causa di beatificazione.



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domenica 10 maggio 2015

LE CITTA' DEL LAGO D' ISEO : SULZANO

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Sulzano  è un comune italiano della provincia di Brescia, in Lombardia.

La zona dove ora sorge Sulzano fu abitata già in epoca romana.
Il nucleo principale del paese un tempo era Martignago, mentre Sulzano ne era solo lo scalo lacustre. Nel Medioevo le terre sulzanesi erano di proprietà del monastero bresciano di Santa Giulia; fino al '700 furono di proprietà dei feudatari Oldofredi di Iseo.
Anche qui, fino all'800, come nei paesi limitrofi, si diffuse la lavorazione della lana e delle coperte. Il Lezze ci ha tramandato che nel 1610 Sulzano aveva 200 abitanti, e non aveva né muraglie né castello. C'erano otto calchere per la calce in cui erano impiegate numerose persone mentre nel bosco lavoravano i carbonai.
Dopo l'800 ai lanifici subentrarono i retifici, poichè alcuni artigiani di Montisola preferirono trasferirsi sulla terraferma per facilitare i trasporti.

Dopo la seconda guerra d'indipendenza entrò a far parte del regno di Sardegna (dal 1861, Regno d'Italia all'interno del mandamento IX di Iseo a sua a volta appartenente al Circondario I della provincia di Brescia.

A seguito del RD 18 ottobre 1927, n. 2017, la municipalità fu soppressa e il territorio fu aggregato al vicino comune di Sale Marasino. Nel 1947 essa fu ricostituita con decreto legislativo del capo provvisorio dello stato 610/1947.

Il pittoresco borgo a lago dove l’acqua lambisce le antiche case è caratterizzato da vicoli nascosti e caratteristici approdi per le barche dei pescatori.

Più in alto, in posizione panoramica, nei pressi della cascata di Petoi alta 15 metri, si trova la seicentesca Chiesa dei Santi Fermo e Rustico. La facciata è a capanna con rosone; l’interno a una navata con copertura a capriate.
La Chiesa San Giorgio è ricostruita nel centro storico di Sulzano nel 1758. La facciata presenta lesene, nell’ordine superio si trovano le statue di San Giorgio e San Giuseppe contenute i due nicchie. L’interno a unica navata conserva la statua lignea di S.Antonio da Padova e un bel dipinto del ‘700 raffigurante la “Madonna del Suffraggio con Santi

La Chiesa Visitazione si trova nel borgo a lago di Sulzano. La piccola chiesa in stile barocco presenta una facciata semplice con un bel portale del ‘700. All’interno, a una navata, si trova l’altare ligneo e affreschi di autore ignoto.
La Chiesa Santa Maria del Gioco è raggiungibile a piedi o in macchina percorrendo strada di Nistino, ad un’altezza di circa 1000 metri si trova la quattrocentesca Chiesa di Santa Maria del Giogo al cui interno vi sono numerosi affreschi del ‘400 e del ‘500. Bellissimo il panorama sul lago.

Durante una permanenza a Sulzano non possono mancare la visita alla chiesetta di San Mauro, edificata nel ’400, con un piccolo monastero i cui resti si trovano in contrada della Rovere.

Anche da Sulzano passa l’Antica Via Valeriana che, per millenni, costituì per il territorio bresciano il passaggio obbligato verso nord e verso la Valtrompia. Recuperato e riaperto nel 2002, il sentiero si presenta oggi come armonioso incontro tra paesaggio, arte e storia.

Gli amanti della vela trovano a Sulzano il necessario per praticare al meglio questo sport. Consolidata è infatti la tradizione velica del lago d'Iseo, di cui è portabandiera l'Associazione Nautica Sebina di Sulzano. Sul Sebino, grazie ai venti che non mancano mai, si fa vela ovunque e ci sono rinomate scuole.
Da Sulzano, si può anche scegliere di andare verso la montagna, attraverso rustici e intatti paesaggi e vedute sul lago, oppure prendere il battello e fare il giro del lago d'Iseo.



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martedì 21 aprile 2015

PERSONE DI BESOZZO : DOMENICO DE BERNARDI

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De Bernardi Domenico nacque a Besozzo (Varese) il 21 febbraio 1892 da Francesco, industriale, e dalla contessa Enrichetta Brunetta d'Usseaux. Conseguita la licenza liceale, s'iscrisse alla facoltà d'ingegneria presso l'università di Pavia, ma presto l'abbandonò per dedicarsi alla pittura. Dal 1911 iniziò a dipingere per proprio conto, indirizzato solo da qualche insegnamento impartitogli da Ludovico Cavalieri e, nel 1920, esordì alla XII Biennale di Venezia con il dipinto Nebbia.
Pur restando fondamentalmente un autodidatta, De Bernardi s'inserisce nel solco della tradizione paesistica lombarda che, discendendo dalla Scapigliatura romantica di Tranquillo Cremona, si prolunga stancamente in un clima naturalistico con echi impressionistici. Dopo l'esordio, la sua attività espositiva si andò rapidamente intensificando: espose di nuovo alle Biennali di Venezia (1922, 1926, 1928, 193), fu presente alle Biennali romane (1921, 1925) e, sempre a Roma, partecipò alle esposizioni degli amatori e cultori di belle arti (1922, 1927, 1930). Nel 1925 e nel 1933 si presentò con due personali alla galleria Pesaro di Milano.

Sullo scorcio degli anni '20, arrivarono i primi riconoscimenti ufficiali: nel 1929, con il dipinto Prealpi, vinse a Bologna il primo "Premio del paesaggio italiano" e, con Vecchia ferrovia, la medaglia di bronzo alla Mostra internazionale d'arte di Barcellona; nel 1930 ricevette il premio "Lavoro nell'industria" alla XVII Biennale di Venezia con il dipinto Costruzioni. Lavori nuova stazione FF.SS. Milano.

In questi anni la sua pittura subì una serie di mutamenti sia stilistici sia tematici. Infatti, in consonanza con l'atmosfera creatasi intorno al dilagante "Novecento italiano", senti l'esigenza di allontanarsi dal naturalismo romantico per un segno più sintetico con cui costruire vedute ampie e ariose, per una tavolozza più luminosa e varia, sensibile ai mutamenti del luogo e dell'atmosfera. Rinnovamento cromatico che raggiunse toni ancor più tersi e vividi dopo un viaggio in Libia, dal quale riportò una serie di paesaggi mediterranei (esposti, nel 1934, all'Internazionale coloniale tenutasi a Napoli in Castelnuovo).

Nel corso degli anni '30 il De Bernardi tornò ad esporre sia alle Quadriennali romane (1931, 1935, 1939, 1941) sia alle Biennali veneziane (1932, 1936) e tenne una significativa personale alla galleria Prevosti di Varese. Ora, con sempre maggiore frequenza, ai paesaggi montani si affiancano le immagini urbane di un'Italia in febbrile costruzione. Mosso dall'interesse per queste nuove vedute, nel 1932 si recò anche a Roma per ritrarre dal vero le fasi più salienti delle opere del regime alla vigilia della celebrazione dell'anno X dell'era fascista.

In una personale, nell'ambito della mostra "I lavori di Roma dell'anno X", alla galleria dei Cultori d'arte, espose in quello stesso anno gli esiti del suo lavoro, presentandoli in catalogo con un breve scritto inneggiante alla "magnificenza di Roma che per volontà dei Duce torna a rivivere la primitiva grandezza". Nel 1939, in una personale alla galleria Gian Ferrari di Milano, espose le sue più recenti impressioni dei paesaggio urbano ed alcune nature morte scrupolosamente disegnate e tese ad affrontare con agilità e freschezza i problemi della luce e della profondità atmosferica. Nel 1945, alla galleria Italiana di Milano, allestì una sua personale in cui ripropose una selezione di cinquanta opere dipinte tra il 1920 e il 1945. Quindi, dopo alcune personali e collettive tenute a Milano, Varese, Torino e Novara, nel 1950 presentò alla galleria Gavioli di Milano la sua attività più recente, dedicata alle piazze e alle vie d'Italia brulicanti di movimento.

La sua pittura, già magra, si è fatta ora avara di colore e volentieri lascia scoperto il fondo della tela. Il comune di Besozzo dedicherà significativi riconoscimenti, negli ultimi anni della sua vita, all'illustre conterraneo che aveva reso noti i grigi ed umidi paesaggi del Varesotto. Tra l'altro nel 1952, cogliendo l'occasione per sottolineare un ideale gemellaggio tra i paesi della nebbia, lo inviò a Londra, da dove riportò una serie di schizzi e appunti, che utilizzò nelle sue opere successive, sempre più essenziali, povere di materia e sobrie nel segno, secondo una costante tipica della sua ultima fase pittorica che lo portò anche ad interessarsi della tecnica litografica.

Nel 1959 gli venne dedicata una importante antologica nel palazzo municipale della sua città. Morì a Besozzo il 13 luglio 1963.

Mostre postume di particolare rilievo sono state allestite a Varese nel 1980 e nel 1984 (Galleria d'arte internazionale). Sue opere sono conservate in importanti musei italiani: Paesaggio lombardo nella Galleria d'arte moderna di Milano; S'approssima il temporale (1930) nella Galleria d'arte moderna di Torino; a Roma, nella Galleria nazionale d'arte moderna sono Il cavalcavia (c. 1930) e Tempo grigio (1929); nella Galleria comunale è Nave in allestimento (1927).

Anche quando si ritirò a vita privata continuò ad essere amato a Varese.

Forse è perché De Bernardi è rassicurante, apre uno spiraglio in una dimensione dell’immaginario in cui ciascuno si può collocare e sentire a suo agio; forse perché c’è una sorta di affinità elettiva per cui i varesini ritrovano nei dipinti la loro terra le loro radici il loro ‘locus vitae’: il paesaggio neutro privo di figure definite identificabili, è la terra di nessuno e di ciascuno in particolare, basta lasciar parlare le emozioni e si entra a far parte della terra e del cielo di Lombardia.

È una questione di feeling: non serve scomodare astrusità per spiegare il pittore: la sua produzione ha una spontaneità una semplicità esemplari; è un autodidatta, non ha frequentato Brera o qualche altra Accademia come i grandi suoi contemporanei che sono stati allievi di autori prestigiosi, la sua cifra personale è accattivante e lo fa apprezzare e amare più di ogni altro. Nelle sue tavole e nelle sue tele propone particolari che tutti conoscono, che appartengono al vissuto: ognuno sa dove è, di chi è, come è la cascina, il viottolo la casa la marina l’albero che osserva ogni giorno e che il pittore riproduce tout court in ‘cartoline’ raffinate.

De Bernardi è un naturalista, i canoni dell’estetica aristotelica sono profondamente radicati nel suo operare; la funzione della sua arte è catartica perché si stacca dalla materia che muta, rende eterno ciò che osserva, solleva in una dimensione rassicurante, rilassante, una dimensione atemporale; non interpreta la realtà, la duplica con mano sicura e occhio poetico: arriva a dipingere lo stesso soggetto in più quadri distinti solamente da variazioni temporali notabili perché un albero è cresciuto o l’erba è stata tagliata o la luce suggerisce un vespero o un’alba, un momento diverso del giorno. Dipinge secondi i canoni della pittura lombarda naturalistica, volutamente lontana dalla sperimentazione avanguardista del primo novecento, ancorato ai modi Ottocenteschi, alle ‘piccole cose gozzaniane’ ad un gusto conservatore, talora un po’ retrò.

Gli unici tocchi di ‘modernità’ sono legati alla formazione culturale scientifica che ha ricevuto – il padre lo iscrisse ad ingegneria, facoltà che abbandonò subito- e a un’elevata dose di curiosità per tutto ciò che sa di novità che lo porta ad inserire nei suoi lavori linee elettriche, stazioni ferroviarie e cantieri navali.

De Bernardi ‘cristallizza la natura nell’attimo’, la riproduce sulla tela con l’occhio del pittore, unico mediatore tra la natura e l’uomo, attento a cogliere le variazioni della luce delle stagioni degli anni: due tavole affiancate in mostra evidenziano la crescita delle piante contro l’immobilità di cascine e montagne. Trasferisce con armonia sulle tele i paesaggi e il mondo agreste, i soggetti preferiti.

Privilegia i toni tenui, utilizza una tavolozza di colori naturali rischiarati da sprazzi di luce che accennano ombre delicate mai incombenti, ritrae verdi nature, cieli azzurri appena sporcati da nuvole bianche. La sua sensibilità e la sua vena poetica si esprimono attraverso pennellate morbide continue, larghe, dense di materia pittorica che si distendono a formare il verde dei campi o il bruno del terreno, l’azzurro del cielo o il bianco delle nuvole. La luce e la morbidezza dei colori hanno una sapiente garbata semplicità che delinea i soggetti per i quali talora il Maestro utilizza il tocco aggiuntivo della matita nera; predilige le tavole che sono rettangolari, tipiche della veduta del paesaggio nel quale la base che fa da appoggio alla veduta, ha dimensioni superiori all’altezza.




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