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domenica 20 settembre 2015

ROCCA SUSELLA

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Rocca Susella è un comune situato nell'Oltrepò Pavese, si estende su porzioni della Valle Ardivestra, Valle Schizzola e Valle del Rile. Caratterizzato da una morfologia collinare il territorio ha una destinazione prevalentemente agricola (cereali, erba medica, uva, mele, pere, pesche, ciliegie, albicocche, susine) e boschiva nelle parti più alte (boschi di latifoglie).

Alla fine del 1200 il feudo dipendeva giurisdizionalmente dalla Mensa vescovile di Tortona e ne era feudatario Giovanni Ruino della Rocca. In un istrumento del 1336 risulta che i discendenti associarono del possesso del feudo anche i Ruino di Montepicco i quali nel 1500 risultavano essere i soli possessori. Nel 1601 muore Galeazzo Ruino il quale nomina unici eredi i figli della sorella di nome Grassi; sorse una lunga lite con il Vescovo di Tortona per riconoscere la proprietà di Rocca, alla fine del contenzioso il Vescovo investì i suscritti eredi i quali nel gennaio del 1700 rinunciarono a favore del vescovo monsignor Ceva. Venne successivamente investito ai fratelli Gerolamo ed Antonio Gambarana i quali lo consegnarono nel 1773 a Carlo Emanuele III re di Sardegna.
Nelle notizie contenute nella visita pastorale del 1596 si dice che il "castello di Rocca con il suo quarto è della giurisdizione di Fortunago in temporale ed è sotto il podestà di Fortunago. Con le cascine e ville fuochi 50, anime 284" (Goggi 1973).
Come Susella compare nell'elenco delle dichiarazioni del focatico del Principato di Pavia per l'anno 1537 come appartenente alla Congregazione rurale dell'Oltrepò e Siccomario nella giurisdizione di Montesegale (Focatico Oltrepò e Siccomario, 1537).
Con il trattato di Worms del 1743 Rocca Susella passò sotto il dominio di casa Savoia.
Con manifesto camerale del 9 novembre 1770 vengono stabiliti gli uffici di insinuazione, Rocca Susella viene inserita nella tappa di Varzi (tappa insinuazione 1770).
Il 6 giugno 1775 viene approvato il regolamento per "le Amministrazioni de pubblici" (Amministrazioni de pubblici 1775); pur non avendo reperita specifica documentazione relativa all'ordinamento comunale, si può ipotizzare che Rocca Susela fosse amministrata da un sindaco e quattro consiglieri componenti il consiglio ordinario.
Nella compartimentazione del 15 settembre 1775 Rocca Susella si trova inserita nel distretto di Bobbio (editto 15 settembre 1775) nel manifesto senatorio del 29 agosto 1789 che stabilisce il riparto in tre cantoni della provincia di Voghera, Rocca Susella, viene inserita nel secondo cantone di Varzi.
Il prefetto del dipartimento di Marengo, in base alla legge del 28 piovoso anno VIII (febbraio 1800), nomina i maires e gli aggiunti della municipalità di Rocca Susella con decreto del 23 fruttidoro anno IX (settembre 1801). Rocca Susella viene inserito nel dipartimento di Marengo e nel circondario di Bobbio (decreto Campana 1801).
Il primo pratile anno X (maggio 1802) il prefetto del dipartimento di Marengo decreta la nomina dei consiglieri municipali in numero di 10 i quali dovranno restare in carica per tre anni (decreto Campana 1802).
Nel 1805 in funzione del rimaneggiamento dell'amministrazione ligure - piemontese voluta da Napoleone Bonaparte, Rocca Susella con decreto del 13 giugno 1805 viene aggregata al dipartimento di Genova circondario di Voghera (decreto 1805, ASC Casei Gerola).
L'amministrazione provvisoria della città e provincia di Voghera (manifesto 27 aprile 1814) ripristinava nei comuni l'antico regime con l'ordine di osservanza del regolamento amministrativo del 1775.
In base al regio editto del 27 ottobre 1815 per il nuovo stabilimento delle province dipendenti dal senato di Piemonte e della loro distribuzione in mandamenti di giudicature e cantoni per le assise, Rocca Susella veniva definitivamente inserita nel mandamento di Godiasco appartenente al primo cantone della provincia di Voghera (regio editto 1815, ASCVo), sede di intendenza e prefettura e appartenente alla divisione di Alessandria. Dipendeva dal senato di Casale, l'ufficio dell'insinuazione aveva sede in Voghera e quello postale in Godiasco.
Per mezzo del regio editto del 10 novembre 1818 "portante una nuova circoscrizione generale delle provincie de' regi stati di terra ferma" la comunità di Rocca Susella viene inserita nel settimo mandamento di Godiasco, provincia di Voghera, divisione di Alessandria (regio editto 1818, ASC Casei Gerola).
Erano frazioni di Rocca Susella: Gaminera, Rocca, Ca di Sturla, Ca de Grazioli, Ca del Merlo, Chiappe, Chiusano, Ca de Ponzini, Ca di Rocco, Colombara, Lavaggio, Carotta, Bogiaccone, San Zaccaria, Casanova, Strallera.
La popolazione conta 448 abitanti (Casalis 1847).
Nel 1859 Rocca Susella con una popolazione di 506 abitanti entra a far parte della provincia di Pavia, e viene inserita nel XI mandamento di Godiasco del circondario di Voghera (decreto 23 ottobre 1859).
In seguito all'unione temporanea delle province lombarde al regno di Sardegna, in base al compartimento territoriale stabilito con la legge 23 ottobre 1859, il comune di Rocca Susella con 506 abitanti, retto da un consiglio di quindici membri e da una giunta di due membri, fu incluso nel mandamento XI di Godiasco, circondario IV di Voghera, provincia di Pavia. Alla costituzione nel 1861 del Regno d'Italia, il comune aveva una popolazione residente di 485 abitanti (Censimento 1861). In base alla legge sull'ordinamento comunale del 1865 il comune veniva amministrato da un sindaco, da una giunta e da un consiglio. Nel 1867 il comune risultava incluso nello stesso mandamento, circondario e provincia (Circoscrizione amministrativa 1867).
Nel 1905 al comune di Rocca Susella venne aggregata la frazione di Susella, staccata dal comune di Montesegale.
In seguito alla riforma dell'ordinamento comunale disposta nel 1946 il comune di Rocca Susella veniva amministrato da un sindaco, da una giunta e da un consiglio.

La Chiesa Parrocchiale di San Pietro, il Castello, oggi un palazzo residenziale. Nei dintorni da non perdere la Pieve di San Zaccaria in località Giarone. Dalla pieve, menzionata sin dal 1198, dipendevano ancora nel 1800 molte parrocchie della Valle Ardivestra e Val Staffora, in seguito andò in stato di abbandono e, non più adibita al culto religioso, fu trasformata in cascinale. In epoca moderna è stata debitamente restaurata e riportata agli antichi splendori.

La pieve di San Zaccaria costruita probabilmente nella prima metà del XII secolo dai maestri comacini, la prima testimonianza storica contenente informazioni di carattere descrittivo sulla pieve di San Zaccaria risale al 1561. Da questa, come Capo-Pieve, dipesero fino al 1700 le parrocchie di Sant'Eusebio, Montesegale, Sanguignano, San Giovanni di Piumesana, Groppo, Susella e Godiasco. Nel 1820 fu ridotta a semplice parrocchia. La maggior parte dell'edificio fu in seguito sconsacrata ed utilizzata per scopi agricoli.
San Zaccaria è una chiesa orientata, con tre navate scandite da pilastri di varia sezione. In questo corpo s'innestano due absidi, una minore al termine della navata settentrionale ed una maggiore a conclusione della navata centrale. L'arcata trionfale è moderna. All'interno il coro è coperto da una volta a botte. Una parte della navata meridionale è stata ricostruita nel XX secolo, dopo l'abbattimento della casa parrocchiale, ed è coperta da un tetto. Qui una scala con gradini in pietra consente di scendere ad un locale sottostante, con volte in pietra piuttosto irregolari. Probabilmente si trattava della cantina della casa parrocchiale, databile alla fine del XVI secolo. La facciata e la controfacciata sono caratterizzate da una muratura listata che alterna fasce in arenaria e in laterizi, mentre tutto il resto è in pietra. Lesene verticali e cordoni in arenaria dividono la facciata in cinque scomparti; a partire dall'alto si possono osservare due oculi con profili in arenaria fortemente strombati, una bifora inclusa in un rincasso quadrangolare e poggiante su una coppia di pilastrini, ed il portale; la sommità della facciata è andata distrutta. La lunetta è oggi priva di decorazione, ma sembra che intorno al 1900 il pittore vogherese Edoardo Cerutti vi dipinse a finto mosaico una scena della vita di San Zaccaria. Dopo essere rimasta per molto tempo con un profilo a capanna, la facciata è stata trasformata secondo un prospetto a salienti, probabilmente sulla base di tracce riscontrate nella muratura.

I materiali arenacei usati in San Zaccaria, provenienti da cave dell'Oltrepò Pavese, sebbene molto adatti alla scultura, sono particolarmente soggetti al deterioramento a causa degli agenti atmosferici. L'interno conserva ancora alcuni capitelli romanici. Ai lati del presbiterio ci sono due capitelli scolpiti di sezione complessa, che sporgono molto rispetto agli archi sovrastanti e sorretti da semipilastri a fascio. Tutti i pezzi sono impostati su un collarino torico e sono costituiti da un abaco decorato con motivi a treccia o a palmetta e da un corpo figurato. Questo tipo di struttura viene ripreso anche nelle chiese romaniche di Pavia. La scena sul capitello meridionale riguarda l'ambito iconografico del destino ultraterreno dell'anima del Buono, che viene definita come tale attraverso la pesatura e quindi strappata al demonio da figure angeliche, solitamente l'arcangelo Michele. In questo capitello la figura simboleggiante l'anima viene afferrata da un personaggio di dimensioni maggiori, che per l'aureola e le grandi ali si identifica come angelo. Un essere alato di dimensioni minori trattiene invece l'anima per un piede; questa figura non ha l'aureola, ha ventre accentuato e costole in evidenza, e la presenza di un serpente attorcigliato accanto ad essa riconduce all'iconografia del demonio. La scena è quindi quella che in arte è definita Contesa dell'anima. Dal punto di vista compositivo, lo scultore ha cercato di riempire tutto lo spazio disponibile. Il pilastrino settentrionale è in parte perduto; vi si leggono solamente alcuni motivi a intreccio. Sul suo capitello è invece scolpita una scena di lotta con animali e uomini. Il combattimento si svolge senza continuità su tutte le facce del capitello. Nella pieve il rilievo è più marcato e allo stesso tempo più fluido nei capitellini del chiostro e delle bifore. All'esterno si possono ancora vedere dei capitellini a foglie stilizzate.



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venerdì 26 giugno 2015

ORINO



Orino è un comune della provincia di Varese, fa parte del Parco regionale Campo dei Fiori.

Nel 712 Liutprando, re Longobardo, donò al monastero di San Pietro in Ciel d’Oro a Pavia alcune terre, questo è anche il primo documento ufficiale in cui si parla di Orino. Questo atto appartiene alla raccolta del volume XIII degli “Historiae Patrie Monumenta” sotto il titolo di Codex Diplomaticus Longobardum; in questo, Liutprando dichiara di donare al venerabile monastero per amore di Dio e per il bene dell’anima sua una “larga” quantità di beni della corona reale. Dopo aver elencato le terre del Monferrato, dell’Astigiano, del Parmense e del Lodigiano, parla dei beni posti nello “Archiepiscopatus Mediolanenis”.
Un altro documento risalente  all’aprile del 979 è pubblicato dal Manaras nel “Registrum Sanctae Mariae de monte Vellate” ; è una “carta commutacionis” di alcuni appezzamenti, (boschi e pascoli) “…quadtuor pecie terre cum silve castane super abente in vico et fundo Aulini…”. Aulini sta ovviamente per Orino. E’ importante che il testo riporti la denominazione “vico” perché per tutta l’età romana e sino a quando in quella medioevale se ne perse l’uso, “vico” fu una qualifica non genericamente data a tutti gli insediamenti di campagna, bensì a quelli soli che oltre un proprio esclusivo ambito territoriale ed una propria organizzazione interna, avessero potuto vantare per tradizione anche un’origine antichissima. Si può quindi affermare che la fondazione di Orino risale a prima dell’anno mille; e già allora non si trattava di una semplice località o di un qualche alpeggio stagionale bensì di una comunità già ben organizzata.
Un diploma dato in Pavia l’11 febbraio 1159 da Federico II di Svevia con il quale tra l’altro vengono riconfermati i beni di San Pietro in Ciel d’Oro in territorio di “Orin” e gli atti del capitolo di San Lorenzo in Cuvio del medesimo secolo che attestano la presenza nel borgo di una “arx de Urino” e legano il fortilizio alla potente dinastia dei “ Parvexini de Arona “, troviamo altresì presenti nei medesimi atti notizie riguardanti la vetusta chiesa di San Lorenzo sita al margine estremo del paese e intorno alla quale secondo la leggenda sorgeva l’antico borgo.Rocca di Orino
E’ probabilmente da ascrivere tra il primo ed il secondo millennio la costruzione delle roccaforti valcuviano. E’ del 1120 il saccheggio della città di Varese ad opera dei comaschi, una delle conseguenze che la vallata dovrà subire in conseguenza delle guerre tra Milano e Como,fino a quando, dopo la pace di Costanza (1183) ed il trattato di Reggio (1185), finalmente le ostilità finiscono anche nelle nostre terre in seguito ad una intesa del settembre 1196 che la pone la Valcuvia sotto la tutela di Milano. Caratteristica particolare della valle è stata la sua dipendenza sotto il “profilo politico” da Milano contestuale alla sua “dipendenza spirituale” da Como. Dopo il periodo del Barbarossa, l’età delle signorie vede il territorio sotto il controllo prima dei Visconti e poi di Francesco Sforza che nel 1450 s’impone su tutti i pretendenti.  E’ in questo periodo che la Valcuvia trova un preciso feudatario in Pietro Cotta che viene investito dal suo signore del feudo “dell’intera valle e pieve di Valcuvia” quale “compenso” per i servigi resi. I Cotta terranno il feudo sino al 1728, anno in cui l’ultimo dei discendenti di quest’antica casata, lo venderà ad un ramo dei Visconti. Unica parentesi s’innesta all’inizio del XVI secolo quando il ducato di Milano, in lento declino, favorisce la politica espansionistica della Svizzera che, tra il 1512 e il 1513 si impossessa di Lugano e Locarno mirando successivamente alle terre del Luinese, alla Valtravaglia ed alla Valcuvia la cui occupazione avviene tra il maggio ed il giugno del 1513. Ritornerà di “proprietà” di Stefano Cotta il 4 gennaio 1514 ma la signoria della valle rimarrà ai cantoni di Lucerna, Uri e Nidwalden.
Nel settembre del 1515 la sconfitta delle truppe svizzere a Marignano (Melegnano) ad opera di Francesco I riporta Orino e la Valcuvia nel ducato di Milano, prima nelle mani dei francesi e vent’anni più tardi, nel 1535, in quelle degli spagnoli che v’insediano un loro governatore.Unica nota di progresso, nel totale sfruttamento attuato dagli spagnoli, è rappresentata dall’edificazione di fastose ville e di nuove chiese nonché dall’ampliamento di molte già esistenti; risale a questo periodo la costruzione del nucleo originale di quella che oggi è la nota Villa Bozzolo. Nel 1713, con il trattato di Utrecht lo stato di Milano passa sotto il dominio dell’Austria, anche in Valcuvia il miglioramento sociale è sensibile e lo sarà ancor di più con l’avvento al trono di Maria Teresa e successivamente di Giuseppe II. Il miglioramento sociale se ci fu non riuscì comunque a far scomparire la miseria e, tra le altre cose, nuove calamità vennero ad aggravare una situazione già al limite della sopravvivenza. E’ opportuno ricordare, a sostegno della determinazione degli orinesi e dei valcuviani, le calamità che li colpirono e che loro dovettero superare, dalla peste del 1524 al nubifragio di proporzioni gigantesche che vi si abbattè nel 1755: 1574-75 epidemia di peste, 1587 anno di carestia, 1588 epidemia di febbre, 1596 epidemia di peste, 1615 la siccità brucia i raccolti, 1628 anno di carestia, 1629-32 epidemia di peste (di cui ci racconta anche il Manzoni ne “I Promessi Sposi”), 1636 passaggio delle truppe alleate di Francia, Parma e Savoia (guerra dei trent’anni), 1636 epidemia di peste, 1640 alluvione, 1652 epidemia di peste, 1705 quaranta giorni di maltempo provocano molte frane, smottamenti e inondazioni, 1747 una grande tempesta rovina tutti i raccolti, 1755 una grandinata a mezza estate devasta i campi, fino appunto all’alluvione del 14 ottobre dello stesso anno 1755, che provoca nell’intera Valcuvia nove morti e si pensi che cinque dei quali solo ad Orino. Centinaia sono i senza tetto, i campi vengono devastati al punto che cambia letteralmente l’aspetto della valle.
Il 15 maggio 1796 Napoleone conquistò Milano e scacciati gli austriaci dai territori del ducato, proclama la repubblica Transpadana, nella quale è ovviamente ricompresa anche la nostra Valcuvia. Gli eventi maturano e si susseguono: nel Luglio del 1797 viene proclamata la Repubblica Cisalpina, nel 1799 gli austriaci rioccupano la Lombardia, il 2 luglio 1800 vi è la rioccupazione di Milano e la restaurazione della Repubblica Cisalpina, 1814 rioccupazione austriaca della Lombardia in seguito alla caduta di Napoleone. Durante la prima dominazione francese l’assetto sociale della valle subì un violento scossone: i francesi abolendo titoli e privilegi nobiliari, feudi e franchigie portarono anche in Valcuvia i loro principi di “Liberté Egalité Fratenité”. Purtroppo vennero anche requisiti i beni delle confraternite e delle congregazioni religiose molte delle quali furono così costrette a sciogliersi dopo esser state anche nelle nostre zone, durante i tanti momenti e periodi di carestia e miseria, unico perno e sostegno sociale per molta della nostra povera gente.
Con la restaurazione austriaca del 1815 il sistema di vita e l’organizzazione sociale subiscono un nuovo cambiamento. Titoli e privilegi nobiliari vennero in parte ripristinati ed il territorio, dal punto di vista amministrativo, riorganizzato e conglobato nel Regno Lombardo Veneto. La miseria storica della Valle non cessa e così, anche nella prima metà dell’ottocento, non manca il suo elenco di sciagure: 1815 anno di carestia, 1815-18 epidemia di febbre petecchiale, 1821 alluvione fino al 1835 quando un muratore della Valcuvia proveniente da Genova e poi morto a Brenta, porta la prima epidemia di colera. Seguirono le “cinque giornate di Milano” ma i successivi tentativi di sbarco a Laveno, prima di Garibaldi nel 1848, poi, nel ’49, del Cap Camozzi, pur trovando un qualche seguito tra la molta gente esasperata furono degl’insuccessi. Il 23 maggio 1859 le truppe garibaldine varcano il Ticino all’altezza di Sesto Calende e marciano su Varese. Gli austriaci lasciano il territorio ma non mollano Laveno, sbocco valcuviano sul Lago Maggiore, e resistono anche al deciso tentativo d’espugnazione che Garibaldi attua personalmente nella notte tra il 30 ed il 31 maggio. Dopo la vittoria piemontese a Magenta del 4 giugno, la Lombardia passa dall’Austria al Piemonte. Il 23 0ttobre 1859 la Valcuvia fu ripristinata in Mandamento, il III del circondario di Varese. Nel 1861, l’elezione del primo parlamento italiano, vedrà una Valcuvia decisamente conservatrice votare per il rappresentante monarchico Speroni. Ci pare curioso ricordare anche la parentesi “rivoluzionaria” orinese nei moti valcuviano. A Marzo, Milano insorge: l’eco delle barricate arriva appunto sino in Valcuvia, così Pompeo Clivio, orinese e patriota, parte a piedi alla volta della città, non sappiamo se da solo o assieme ad altri. La strada è lunga, i chilometri tanti e probabilmente il buon Pompeo giunge a Milano quando l’Italia ormai è “fatta”. Quale riconoscimento della sua impresa e della sua pronta e volenterosa partecipazione tornerà in Valcuvia con la nomina a “Capitano della Guardia Nazionale”.
Garibaldi e l’unità d’Italia non riuscirono a debellare la povertà della Valcuvia. Ad Orino, castagne, frutta, fieno, un po’ di segale, patate e granturco erano i principali prodotti agricoli, ad essi si aggiungevano nei mesi autunnali, un po’ di vino e noci. Mentre una delle attività che occupavano gran parte delle donne e dei bambini nei mesi estivi era l’allevamento dei bachi da seta con le quali molte famiglie integravano in qualche modo i pochi proventi dei raccolti. Francia, Svizzera, Lussenburgo e in qualche caso l’America furono la meta di molti orinesi, di cui ancora si racconta e ci si ricorda, che partirono, a volte senza più tornare, alla ricerca di un po’ di benessere.La vita amministrativa della comunità è ben documentata e dimostra l’autonomia e la fierezza con le quali essa ha sempre governato le sue sorti. Era retta da una vicinia organo costituito da tutti i capi famiglia radunati la domenica sulla pubblica piazza al suono della campana e da un sindaco e un console eletti annualmente dai vicini.
Egualmente autonoma è la vita religiosa: la comunità d’Orino, infatti, staccatasi dal Distretto di Cuvio, ha avuto diritto di far eleggere il parroco dall’assemblea dei capi famiglia, a patto ovviamente che provvedesse direttamente al suo sostentamento. Così le famiglie di Orino decisero di autotassarsi,  concedendo annualmente al Sacerdote le cosiddette “ primizie parrocchiali”.  L’elezione avveniva nella chiesa parrocchiale, e gli elettori erano esclusivamente i capifamiglia (all’epoca cui si riferisce l’atto riportato gli aventi diritto erano 54) che, esaminate le candidature, esprimevano la  loro preferenza per chiamata nominale, a scrutinio segreto. Tra le righe possiamo trovare una ulteriore curiosità: nel 1906 le “primizie parrocchiali” ammontavano a lire 500  annue. In archivio è presente tra le   altre anche una lettera di fine ’800 con la quale il Prefetto invitava il Sindaco ad intimare la riunione dei Capifamiglia di  Orino per procedere all’elezione del  Parroco locale, al fine di coprire il   posto allora vacante con il  successivo verbale di avvenuta elezione del Parroco di Orino, redatto nel 1793, dell’adunanza dei Capifamiglia.
Orino fu nei secoli scorsi terra d’emigranti, in genere qualificati artigiani, che con il loro lavoro resero illustre il nome del loro paese all’estero.
In questo secolo il comune fu accorpato ad Azzio con R.D. 7 luglio 1927, n. 1287 e riacquistò la propria autonomia  amministrativa il 17 novembre  1955, con  il D.P.R. n.  1333.

In mezzo ai boschi, ad una ventina di minuti di passeggiata dal centro ed a 525 metri sul livello del mare, sorge la Rocca di Orino, costituita da un quadrilatero con cinta muraria difeso da possenti torri. Il primo nucleo della fortezza, situata a nord-est del paese, si suppone risalga al III secolo a.C., ma dell'insediamento originario non sono rimaste tracce. I primi documenti in cui la fortezza viene citata risalgono al 1176. Dall'esame della struttura muraria emerge una serie di lavori di ristrutturazione, quasi sicuramente eseguiti in epoca viscontea-sforzesca. Nel 1513, in seguito al disfacimento del Ducato di Milano, venne occupata dalle truppe svizzere: la prima di una serie di occupazioni che causò lo smantellamento della rocca. All'inizio del secolo scorso è stata sottoposta a lavori di ristrutturazione dall'allora proprietario. La ristrutturazione continua tuttora grazie all'opera del nuovo proprietario. Leggende locali asseriscono l'esistenza di un fantasma nella Rocca.

La chiesa parrocchiale dedicata all'Immacolata, risalente al XVI secolo, ha le forme barocche della metà del XVII secolo.
L’attuale Chiesa Parrocchiale è stata edificata, ampliando la precedente, dedicata più genericamente a S.Maria, in fasi successive dalla seconda metà del 1600.
Il coro dietro l’Altare maggiore è stato aggiunto nel 1878. La prima notizia attestante l’esistenza di una chiesa in centro al paese risale al 1515, si tratta di una donazione che contribuirà a formare il beneficio per mantenere una cappellano in loco.
La Chiesa divenne parrocchiale nel 1645, ma una contestazione del Prevosto di Canonica ne rimandò il riconoscimento ufficiale al 1651. Riconoscimento di cui oggi resta uno strumento rogato dal notaio Giovanni Antonio Botta il 17 maggio 1655. L’accordo avvenne "…nella pubblica piazza di Orino, vicino al cimitero di S. Maria dello stesso luogo di Orino al suono della campana, come è abitudine dello stesso Comune per trattare e discutere i problemi, su ordine di Carlo Giovannoni Console del detto luogo di Orino".
I termini dell’accordo prevedevano che il Console, il Comune e gli uomini del paese si impegnassero a versare ogni anno 72 lire Imperiali e a portare nella visita alla matrice di San Lorenzo di Cuvio, che si teneva una volta all’anno, un cero di due libre di cera lavorata. L’atto precisa inoltre che il prevosto dichiara di avere ricevuto dalle autorità del paese Lire 216 Imperiali a saldo degli anni 1652-53-54.
Il fonte battesimale attesta la natura di vice parrocchia anche quando vi era solo il cappellano.
Il corpo della torre del campanile è stato aggiunto verso la fine del 1700.

La Chiesa di S. Lorenzo è la più antica del paese. Un documento del 5 novembre di quell’anno, conservato nell’archivio della plebana di San Lorenzo in Cuvio, parla già di proprietà appartenenti alla chiesa. In esso vi è una istanza indirizzata al Vescovo di Como affinché egli deleghi al vicario generale Uguccione, Vescovo di Novara, la causa di una controversia relativa al "menacatus seu custodie" della chiesa di San Lorenzo di Orino.
C’è anche un altro documento del 979, conservato tra gli atti di S. Maria di Velate, che parla di un terreno sito in Orino che confinava con una proprietà della Chiesa di S. Lorenzo: "seconda silva est ibi prope: da una parte S. Laurenti, da alia Eremberti". Potrebbe essere la nostra, ma potrebbe trattarsi anche della Collegiata di Canonica. Di quella antica chiesetta oggi rimane purtroppo solo il campanile, poichè il resto è stato riedificato intorno al 1635
Dal punto di vista architettonico, la chiesa di San Lorenzo si presenta con linee semplici e sobrie.

L'interno è a navata singola con coro a volta e la copertura, che un tempo era in semplice tavolato, si presenta oggi con travi e tegole a vista.

L'originaria pavimentazione in cotto è stata sostituita con una copertura in marmo ed è stato aggiunto un soppalco posteriore in cui trovano posto il coro e l'organo, costruito dalla ditta Mascioni di Comacchio e trasferito dalla chiesa della Beata Vergine.

L'ancona è costituita da un dipinto ad olio su tavola di legno con protezione in vetro che raffigura San Lorenzo accompagnato dai simboli canonici della graticola e della palma del martirio. L'opera è stata attribuita a Giovanni Mauso della Rovere detto il Fiammenghino (1575-1640).

Risale al III secolo dopo Cristo una delle prime leggende che coinvolgono i dintorni di Orino. E’ il 389 d.C. gli Ariani cacciati dal Vescovo di Milano Ambrogio (futuro santo) in seguito alla condanna della loro dottrina da parte della Chiesa, si rifugiano in cima al colle che attualmente ospita l’abitato di Santa Maria del Monte.Sempre secondo la leggenda, gli Ariani occupano la Rocca di Orino e la presidiano fino alla conquista del "Forte di Varese" da parte delle truppe milanesi.La tradizione vuole che gli Ariani venissero messi in fuga oltra che dal sopraggiungere dell’esercito ambrosiano, dall’apparizione della figura si San Lornezo avvolta nelle fiamme. Gli abitanti del luogo, una comunità di pastori, riconoscenti, chiamarono la località dell’apparizione con il nome del Santo e vi edificarono una cappella.E’ in questa località che sorge la piccola chiesa di San Lorenzo con annesso il cimitero comunale.

Davanti alla chiesa di San Lorenzo sorge un tiglio monumentale la cui età è stimata in due secoli. Numerose le costruzioni in stile liberty realizzate quando Orino era una rinomata località di villeggiatura. Nella foresta attorno alla Rocca il masso erratico Sasso Nero è oggetto di alcune leggende. Su una delle cime del Campo dei Fiori, a quota 1.139 metri sul livello del mare, c'è il Forte di Orino, uno dei capisaldi della Linea Cadorna realizzata durante la Prima Guerra Mondiale per prevenire invasioni austro-tedesche attraverso la Svizzera neutrale.




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venerdì 19 giugno 2015

IL CASTELLO DI SAN GIORGIO A ORZINUOVI



La costruzione della fortezza di Orzinuovi nasce dall'esigenza da parte della città di Brescia di contrapporsi all'espansione di cremonesi, bergamaschi e soncinesi. Nel 1191 Brescia ottiene da Enrico VI la giurisdizione sulle due sponde dell'Oglio fino alla confluenza del Chiese. Decide quindi di rinforzare i castelli di Rudiano e di Pontevico e di costruirne a Orzinuovi una roccaforte da opporre alla fortezza di Soncino. L'11 luglio 1193 il consiglio di credenza, su istanza dei rappresentanti della comunità "de Urceis", già da tempo trasferiti dalla Pieve di San Lorenzo in Bigolio al campo di San Giorgio nel "theze" dove hanno costruito nuove difese, concede il privilegio di costruire un castello capace di contenere 800 fuochi, circondato da una fossa quale quella di Pontevico, e stabilisce i diritti d'acqua, di possesso, di cittadinanza e di pascolo per i cittadini orceani. Oltre ad essere capoquadra, Orzinuovi è anche sede podestarile: gli statuti viscontei del 1341 che regolano la vita politica, amministrativa e sociale del comune, stabiliscono che un podestà, nominato tra gli appartenenti alle famiglie nobili bresciane, venga eletto capo del castello con nomina semestrale. Il podestà deve custodire il castello e le ville di sua giurisdizione, reggere con onestà tutelando i bisognosi e l'ordine pubblico ed amministrare la giustizia con imparzialità.

Quanto si vede oggi della Rocca di San Giorgio, antica cittadella militare a presidio del confine occidentale della Serenissima, si deve ricondurre quasi interamente all'iniziativa della Repubblica Veneta. Furono i veneziani infatti a conferire, dopo la stipula dell'atto di pace di Lodi del 1454, l'aspetto che tuttora ha il castello.

Negli ultimi decenni sono stati effettuate delle analisi approfondite su questo manufatto, anche con l'ausilio di scavi archeologici e successive verifiche delle murature. Ne è emersa un'anamnesi molto più articolata rispetto a quanto si credesse. L'attuale rocca sarebbe la risultante di reiterati aggiustamenti e rimaneggiamenti di parti edilizie costruite in epoche diverse e con diverse funzioni.

La torre appartiene all'epoca più remota. Realizzata nel tredicesimo secolo, ebbe funzione di portale di accesso al borgo di Orzinuovi. Fu poi inglobata in edifici postumi e trasformata in mastio fortilizio. Dall'originario passaggio in spazio chiuso, con valenza di ridotto fortificato, divenne poi edificio quadrangolare con alti muri difensivi dalla massiccia scarpatura e beccatelli. Viene fatto risalire all'anno 1477 l'ulteriore ampliamento della rocca e ciò perché Orzinuovi stava diventando sempre più centro strategico di confine ma anche caposaldo nell'ottica di una successiva riorganizzazione difensiva della zona. In questo periodo la Serenissima adeguerà alle nuove tecniche militari l'impianto difensivo della struttura, creando cioè la fortificazione all'interno del borgo abitato, e dandole la classica forma a cinque lati e con quattro torri circolari. Di queste sono sopravvissute solo le due a sud. Le scarpe della cinta murarie furono rafforzate.

Nel sedicesimo secolo venne costruita una porta sul lato ovest che modificò di fatto la viabilità dell'area. Le altre due porte (“Porta di San Giorgio” e “Porta di Sant'Andrea”) sono ancora parzialmente conservate. Esse rappresentavano i punti di partenza per Cremona, a sud, e per Brescia, a nord. Intorno alla fine dell'Ottocento il castello fu acquistato dal Comune orceano ed utilizzato inizialmente come carcere e successivamente come scuola. Nel 1995 sono stati avviati i lavori di conservazione e restauro. Oggi l'edificio ospita al proprio interno mostre, convegni e fiere. Al piano superiore vi è la biblioteca civica.




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martedì 12 maggio 2015

LE CITTA' DEL LAGO D' IDRO : ANFO

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Anfo (in origine Damphus) è un comune italiano della provincia di Brescia, in Lombardia, sul Lago d'Idro. Il comune appartiene alla Comunità Montana della Valle Sabbia.
Anfo sorge sulla sponda destra del lago d'Idro o Eridio, alla foce del torrente Re che scende dal monte Melino.

Anfo, data la sua posizione geografica, è fiorente località turistica e possiede buone capacità ricettive.
La montagna che sovrasta l'abitato invoglia a bellissime escursioni (Baremone, Meghè, Zeno, Porle, Brele e Monte Censo), che conducono a punti panoramici con ampie vedute del bacino del lago d'Idro e, nei giorni più limpidi, offrono uno splendido colpo d'occhio sul gruppo del Brenta.Vi si possono gustare piatti tipici locali come la tinca coi roei (piselli), i filetti di pesce persico, le aôle e la polenta taragna.

Le rive, paludose e malsane, dove oggi sorge l'abitato di Anfo, furono lentamente bonificate in periodo medioevale dai frati Benedettini del monastero di S. Pietro in Monte Orsino di Serle, che le cedettero poi ai padri Bianchi di S. Francesco Romano di Rodengo Saiano, quindi ai Padri di S. Lorenzo Giustiniano di Monte Oliveto in Brescia.
Alla loro opera tenace, difficle e insalubre, si deve la prima trasformazione degli acquitrini in prati e coltivi, la regolarizzazione dei torrenti, il consolidamento dei terreni franati dai monti che avvolgono il comune alle spalle.
Il nome Anfo appare per la prima volta in documenti del secolo XI. Era un povero paese di contadini e boscaioli. Solo nel 1429 poté acquistare, da gente di Bagolino, la montagna di Baremone per l'alpeggio, ove ancora oggi si continua a fare, con metodi tradizionali, il formaggio detto "Bagoss".
Ma l'alpeggio e il taglio della legna, pure favorito dall'industria del ferro fiorente in Valle Sabbia, non potevano corrispondere alle esigenze economiche della popolazione, per cui, nel 1531, gli abitanti azzardarono affrontare la pesca nel lago, malgrado i severi divieti stabiliti dal comune di Idro che, da tempo immemorabile, vantava diritti di pesca, di navigazione e difesa del lago stesso.
La contesa fra i due comuni rivieraschi (Anfo e Idro) assunse spesso aspetti drammatici, sia per il puntiglio dei contendenti, sia perché inclusi in diverse guirisdizioni amministrative (Idro dipendeva dal Provveditore di Salò, Anfo dai Rettori di Brescia), sia infine perché, approfittando della situazione, i conti di Lodrone colsero il momento propizio per estendere la loro presenza sul lago d'Idro.
I Lodroni infatti costruirono in quegli anni la rocca di S. Giovanni e le pescherie nel golfo di Camerella a Bondone, che affittarono a pescatori di Anfo.
Inoltre fecero costruire forni di ferro in Anfo, sollevando le gelosie e le preoccupazioni dei Bagolinesi. Questi ricorsero al Doge che, accogliendo l'istanza, impose ai Lodroni di abbandonare i forni. Così, dopo varie vicende, la contesa si concluse nel 1555 con un compromesso proposto dal conte Lodovico Calini al Provveditore di Salò e ai Rettori di Brescia; ma solo il 10 ottobre 1579 fu firmata la scrittura fra i due comuni, per cui, nel nome dello Spirito Santo, dovevano rimettere tutte le offese, controversie e dispiaceri passati.

Un documento particolarmente importante per la conoscenza della vita comunale di Anfo è dato dagli Statuti, riformati verso la metà del secolo XVI, essendo stati dispersi i precedenti in periodi tempestosi.
Lo studio e la stesura degli Statuti erano stati affidati a tre cittadini: Gottardo Brunori, Girolamo Mabellini e Bartolomeo Zanetti.
Dagli Statuti risulta che il comune era amministrato da sei consoli eletti dall'assemblea dei vicini, convocata il primo gennaio di ogni anno: ognuno dei consoli restava in carica due mesi, era aiutato da consiglieri, dal notaio e da altri ufficiali eletti a seconda delle necessità.
Appartenevano al comune l'osteria e il molino, oltre all'amministrazione del lascito di G. Battista Treboldi.
Gli Statuti erano severi nel mantenere il rispetto dell'autorità, imponendo l'osservanza di feste religiose, il buon comportamento durante le funzioni, "il bando alle bestie che fossero andate sul sagrato", la partecipazione con la croce alla processione della Pieve di Idro nel giorno dell'Ascensione.
Caduta la Repubblica Veneta, Anfo fu incluso nel Distretto XVII di Vestone.

Si suppone che il luogo fosse occupato nell'antichità dagli indigeni. Non vi sono però documenti che certifichino l'utilizzo della Rocca d'Anfo in epoca romana, dunque la storia va fatta iniziare dall’alto Medioevo. Dove oggi sorge il sito eretto nel 1450 dalla Serenissima Repubblica di Venezia, allora esisteva una fortezza deputata al controllo dei passaggi di merci e persone lungo al via di collegamento fra la pianura bresciana e il territorio teutonico. Alcuni ricercatori ritengono che la Rocca sia stata edificata su una preesistente fortezza di origine longobarda.

La Rocca d’Anfo è un complesso militare fortificato eretta nel secolo XV dalla Repubblica di Venezia nel Comune di Anfo, sul lago d’Idro, e posta a guardia del vicino confine
di Stato con il Principato vescovile di Trento. Edificata sul pendio del monte Censo su una superficie di 50 ettari, la Rocca fu rimaneggiata più volte dagli ingegneri di Napoleone Buonaparte e da quelli italiani, ma perse il suo valore strategico nel 1918, quando il Trentino passò definitivamente al Regno d'Italia . Dopo il 1860 l'esercito austriaco in contrapposizione alla Rocca, iniziò la costruzione del Forte d'Ampola a Storo e di quello di Lardaro. Adibita dall’esercito italiano a caserma per l'addestramento dei militari di leva, la Rocca fu anche luogo di detenzione e polveriera; fu dismessa nel 1975, ma restò vincolata al Ministero della Difesa fino al 1992.

La costruzione della fortezza di Rocca d’Anfo fu voluta nel 1450 dalla Repubblica di Venezia, che governò il territorio bresciano della Val Sabbia dal 1426 al 1797. Il compito di progettare e sovraintendere ai lavori di costruzione fu affidato al conte Gian Francesco Martinengo, “valoroso condottiero e valente ingegnere militare”. di Barco di Orzinuovi. In questo modo si cestinarono definitivamente i progetti originari dei Visconti di Milano, precedenti dominatori di queste terre, che prevedevano la fortificazione del confine con il Trentino lungo il fiume Caffaro a nord del rio Riperone, o l’eventuale ripristino e ampliamento del luogo fortificato posto sul dosso di Sant’Antonio di Caster situato nel Comune di Bagolino nei pressi di Monte Suello. I lavori durarono fino al 1490 e secondo alcuni ricercatori il nuovo complesso difensivo fu edificato su una precedente fortezza di origine longobarda.
Nel periodo veneziano, tutte le esigenze della Rocca, così come per tutte le altre fortificazioni, erano supervisionate dai Collegio dei Savi, poi dal 1542 la Serenissima diede l'incarico a due senatori con il titolo di Provveditori alle fortezze, portati a tre nel 1579. Il comando militare della struttura era affidato ad un patrizio con il titolo di provveditore, alle cui dipendenze vi era un capitano, una trentina di soldati e qualche bombardiere. Il presidio militare era soggetto per la milizia al capitano di Brescia e, per la logistica, al Podestà.
Delle originarie edificazioni viscontee sono ancor visibili solamente la doppia cinta muraria superiore, in quanto, con l’avvento dell’era napoleonica, le mutate tecniche belliche imposero una completa revisione di tutta la struttura fortificata.

Il generale François De Chasseloup-Laubat (1754-1833), ispettore delle fortificazioni, a seguito della pace di Lunéville sottoscritta dalla Francia e Austria il 9 febbraio 1801, ordinò al fine di completare la difesa e l'occupazione dell'Italia la fortificazione di Peschiera, Taranto, Alessandria, Mantova e la Rocca d'Anfo. L'ordine d'operazione era giunto direttamente da Napoleone Buonaparte preoccupato di garantire il controllo alle sue truppe della strada che univa Trento alla città di Brescia.
Il Primo Console di Francia si era subito reso conto dell'importanza strategica della vecchia fortezza per la "difesa dello Stato", ma la Rocca mostrava i segni decadenti di tante guerre sostenute. Quindi Napoleone diede ordine al suo generale François De Chasseloup-Laubat di provvedere all'ammodernamento delle disastrate strutture "senza ritardi e senza riguardo per la stagione".
Il progetto fu affidato ad ingegneri del genio militare di grande esperienza: prima al barone colonnello, comandante del Corpo Ingegneri, François Nicolas Benoit Haxo (1774-1838) e successivamente al colonnello François Joseph Didier Liedot. Gli ingegneri militari napoleonici abbandonarono saggiamente le strutture venete dando il via ad un grandioso progetto di ampliamento che aveva come fulcro il costone roccioso leggermente posto più a nord.
Questi affrontarono l’opera approntando preliminarmente una cartografia particolareggiata del luogo, adattando mirabilmente le strutture alla natura scoscesa e selvaggia del territorio, secondo le nuove teorie della famosa “Ecole Polytechnique” dell’esercito francese di Parigi. Il Liedot distribuì le varie batterie su piccole terrazze ricavate dallo scavo della roccia e proteggendole per mezzo di una grande Lunetta (la Rocca Alta) nella parte superiore dotata di casematte di artiglieria e fucileria. La strada Trento-Brescia che passava alla base della Rocca, secondo il progetto mai realizzato, doveva essere interrotta da profondi fossati e resa transitabile da ponti levatoi.
I progetti elaborati dai due tecnici francesi rappresentano una tappa fondamentale nella storia della cartografia. I lavori ebbero inizio nel 1802 e in soli 10 anni, nel 1812, furono portati a termine. La spesa sostenuta di militari francesi di 2,5 milioni di franchi testimoniano lo sforzo di fare della Rocca d’Anfo una delle più grandiose e possenti fortezze d’Europa. La caduta dell’impero napoleonico impedì il completamento dell’opera nella sua parte medioinferiore. Le integrazioni delle strutture, fino all’assetto definitivo attuale, vennero effettuate prima dagli Austriaci e poi portate a termine dal Regno d'Italia, dal 1860 al 1914 circa.

La Rocca è costituita da una trincea fortificata in direzione del paese di Anfo, difesa da una caserma detta Rocca Vecchia, a sua volta sovrastata dalla batteria veneta; entrambe dominate da un corpo di guardia, posto a 200 metri sul livello del lago e collegato alla batteria da un muro con feritoie e gradini. Verso il “nemico” Trentino si sviluppava una serie di batterie e casermette, sovrapposte a scalinata. A nord esisteva uno scosceso burrone.
Queste batterie di difesa erano chiamate:
batteria Tirolo, a 100 metri sul lago;
batteria Rolando, a 150 metri sul lago;
batteria Belvedere Superiore a 250 metri sul lago.
ridotto costituito da una Lunetta, detta Rocca Alta, che collegava i due fronti precedenti, a 200 metri sul lago, e conteneva una caserma e una batteria casamattate;
a 50 metri, sotto la Lunetta, c’era la batteria Bonaparte, poi ribattezzata Anfo, a difesa dela strada fra Rocca Vecchia e la batteria Tirolo.
sul tutto ad una altezza di 300 metri, sovrastava una torre rotonda a due piani.
Trincee, piazzole, rampe, strade coperte, polveriere, stalle per i muli, alloggi per la truppa e cisterne dell’acqua completavano la logistica della fortezza.
Il complesso di queste costruzioni militari è distribuito in una fascia di terreno di forma triangolare, di cui un lato corrisponde all’incirca ad un chilometro di riva del Lago d’Idro. Il resto si sviluppa sul versante orientale del monte Censo, fino quasi alla sua cima, con un dislivello che varia dai 371 metri sul livello del mare dalla riva del Lago ai 1050 metri dal vertice.

Di notevole interesse turistico la parrocchiale, l'oratorio di S. Antonio, la conca di Barèmo e la vetta del Cènso (per ammirare la vallata da Treviso a Condino con super vista sull'intero lago d'Idro). E' meta di notevole flusso turistico estivo ( campeggi e residence). E' del tutto privo di industrie.

Tra i personaggi recenti più illustri spicca la figura della serva di Dio, suor Irene Stefani, morta in concetto di santità il 31 ottobre 1930, di cui attualmente si è concluso il processo per la causa di beatificazione.



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domenica 19 aprile 2015

CALDE'

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Oggi ne rimangono solo alcuni resti, tra i quali cui alcune parti del muro di recinzione e un antico fossato di protezione. Nel luogo dove prima si innalzava il castello è presente una torre faro come monumento ai caduti di tutte le guerre. Da qualche anno è stato costruito il nuovo Parco della Rocca di Caldè che ha ristrutturato la prima parte della fornaci della Rocca di Travaglia. All'interno del parco è stata recuperata una Cappella dedicata a San Genesio.

Caldè è un paesino sulla sponda lombarda del lago Maggiore, molto bello e soprattutto quasi miracolosamente incontaminato dalla speculazione edilizia che ha deturpato e continua a deturpare le sponde del lago (come tutto il resto del territorio italiano). La zona delle fornaci occupa un tratto di costa dal valore ambientale  inestimabile. Le strutture, un tempo utilizzate per la lavorazione e la cottura della calce bianca e in disuso dal secondo dopoguerra, rappresentano una delle maggiori testimonianze di archeologia industriale dell'alto Verbano. Le fornaci più antiche, i cui resti si trovano nei pressi del torrente Froda, risalgono al 1201, mentre quelle sul lungolago ai primi del '700.
Benché ormai in rovina, la Rocca di Caldè resta comunque il simbolo dell’omonima frazione di Castelveccana: dove un tempo sorgeva maestosa la fortificazione è stato successivamente innalzato un faro votivo ai caduti. Il luogo merita però senz'altro una visita per il grandioso spettacolo offerto dalle rocce a strapiombo sulle acque del Lago Maggiore e per il panorama aperto sul paesaggio circostante.

Il sentiero che porta agevolmente sulla sommità è percorribile da chiunque in poco più di quindici minuti: il percorso è assai panoramico e premia ogni passo della salita con vedute sempre più ampie sul lago e sui monti circostanti.

Il punto di partenza è S. Pietro, una frazione di Castelveccana situata più a nord: nella piazzetta adiacente alla chiesa è possibile parcheggiare l'automobile per poi proseguire a piedi. Costeggiando il fianco destro della chiesa di San Pietro si raggiunge la fine della strada Capitano Barassi: qui ha inizio il sentiero pedonale. Durante la passeggiata si incontrano alcune croci che, come l’obelisco finale, sono stati dedicate ai Caduti di tutte le guerre, il sentiero è altresì fiancheggiato da dimore signorili circondate da ampi giardini privati.

Partendo invece da Caldè è possibile recarsi alla duecentesca chiesa di Santa Veronica: edificata a strapiombo sul lago nella parte inferiore della Rocca consente di godere di una suggestiva veduta delle frazioni di Castello e Caldè, della cui fortificazione era un tempo parte integrante. La chiesetta ospita al suo interno pregevoli affreschi da poco restaurati.

La Rocca di Caldé, anticamente conosciuta come Rocca di Travaglia, è un fortilizio difensivo eretto a Caldé, località nel comune di Castelveccana. Notizie della Rocca si hanno a partire dal X secolo, quando a seguito delle lotte dinastiche tra Berengario d'Ivrea e Ottone I di Sassonia per il trono d'Italia essa fu donata da Ottone all'Arcivescovo di Milano Valperto: da allora appartenne sempre alla chiesa ambrosiana come bene arcivescovile. Nel XIII secolo membri della nobile famiglia Sessa ne furono investiti in qualità di castellani.
Con il suo pittoresco porticciolo, è rinomata per la "Sagra del Pesce" dei primi d'agosto;
Per "il risottissimo con funghi" di settembre,
Per le feste dei bagnini, cacciatori, degli sportivi e per le annuali gare di vela e di canottaggio che si disputano nel golfo.

Teatro delle principali manifestazioni è l'accogliente piazzetta di Caldè, il piccolo borgo di lago che viene definita "La Portofino del Lago Maggiore".



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sabato 18 aprile 2015

LA GROTTA DI ANGERA



Il progressivo scioglimento dei ghiacciai portò alla creazione dei laghi alpini.
Le prime attestazioni della presenza dell’Uomo nel territorio di Angera sono state individuate nel corso di scavi e indagini in una grotta naturale nota come Tana del Lupo, di proprietà privata e chiusa al pubblico, collocata nella parete sud-occidentale della altura che ospita la Rocca Borromeo.

Una campagna di scavi condotti presso la Tana del Lupo, grotta attualmente non accessibile al pubblico e ubicata sul pendio che conduce alla Rocca Borromeo di Angera, ha portato alla luce tracce della presenza dell’uomo risalenti al paleolitico finale, cioè databili tra 20.000 e 12.000 anni fa.

La grotta, detta anche “Antro di Mitra” era già nota per i rinvenimenti di testimonianze archeologiche di epoca preistorica e romana, ma non era mai stata oggetto di ricerche scientifiche sistematiche.
Gli studi condotti dalla direttrice del Museo di Angera, Prof.ssa Serena Massa, hanno immediatamente suscitato l’interesse della famiglia Borromeo, proprietaria del sito, che ha promosso e sostenuto le ricerche ottenendo anche il contributo finanziario della Regione Lombardia.
Il progetto di ricerca, che ha portato alla campagna di scavi, è stato diretto dalla Dott.ssa Barbara Grassi della Soprintendenza Archeologica della Lombardia e dal Prof. Maurizio Tosi, Direttore del Dipartimento di Archeologia dell’Università “Alma Mater Studiorum” di Bologna.
Nel corso delle indagini, a seguito delle operazioni di pulitura eseguite dalla restauratrice Lucia Miazzo, si è notato qualcosa che finora nessuno aveva potuto osservare; lungo le pareti e sul soffitto della caverna, dalle superfici molto tormentate da fenomeni di erosione, infestazioni biologiche e concrezioni, sono venute alla luce tracce di colore rosso e nero.
Un’indagine più attenta ha rivelato che i resti di pitture interessano gran parte delle pareti e del soffitto. Alcuni di questi segni, esaminati dal Prof. Angelo Fossati dell’Università Cattolica di Milano, sono quasi certamente impronte di dita intinte nell’ocra e “stampate” sulla parete della caverna, fenomeno ampiamente noto in area franco-cantabrica, ma molto più raro nel resto dell’Europa.
Dunque questa scoperta assume particolare rilievo nell’ambito del panorama europeo, anche se molto lavoro deve ancora essere fatto per attribuire una cronologia precisa ai diversi segni. Ma certamente alcune delle pitture possono essere state eseguite all’epoca in cui gruppi di cacciatori-raccoglitori frequentavano la caverna, cioè alla fine del Paleolitico.
In Italia sono rarissime le testimonianze di arte parietale e questa di Angera sarà certamente oggetto di ulteriori campagne di scavo e ricerche per riportare alla luce una testimonianza che desta grande interesse, non solo per l’espressione artistica e per la conoscenza degli stili di vita e dell’ambiente tardiglaciale in Lombardia, ma per gli aspetti legati al contenuto simbolico e misterioso del messaggio che intendeva trasmettere.
Altri Istituti coinvolti nella ricerca sono il DISTART (Dipartimento di Ingegneria delle Strutture, dei Trasporti, delle Acque, del Rilevamento, del Territorio dell’Alma Mater Studiorum di Bologna), che ha realizzato il rilievo topografico tridimensionale della grotta con tecnologia laser (direzione Prof. Luca Vittuari), il CNR di Faenza per analisi archeometriche (Dr. Bruno Fabbri, Dott.ssa Sabrina Gualtieri), il laboratorio di archeobiologia del Museo di Como (Prof. Lanfredo Castelletti); Dottor Francesco Genchi e Professor Massimiliano David dell’Università di Bologna.

La grotta di Angera è l’unico mitreo conosciuto fino ad oggi in Lombardia e al suo esterno sono ancora visibili antiche incisioni legate ai culti misterici oltre a diversi incavi rettangolari predisposti per accogliere lapidi e rilievi votivi. Dio guerriero, strettamente legato al sole e forse proprio per questo venerato negli antri della terra, Mitra, il cui nome significa “amico”, rappresenta il giorno con la sua luce e con esso l’aspetto benevolo della divinità. A questa caratteristica è probabilmente dovuta la leggenda secondo cui la grotta sarebbe da sempre abitata da una stirpe di fate buone e bellissime, custodi di una magica porta, invisibile e metafisica, che solo ogni cento anni si dice aprirsi all’entrata della grotta.

Secondo l’antica narrazione, questo misterioso passaggio rappresenterebbe un’apertura verso altre dimensioni, una porta d’accesso a mondi paralleli che solo gli iniziati potevano oltrepassare. Finora tuttavia, ancora nessuno è mai riuscito a scoprire quale sia il giorno esatto in cui la magica porta apra i suoi misteri.

Questa cavità, che si trova ai piedi dell’arroccato castello di Angera.
Essa era chiamata Tana del Lupo, Antro di Mitra e Grotta delle Fate.
All’esterno sono ancora presenti delle tracce di rilievi alquanto misteriosi legati ad antichi rituali e incavi che dovevano contenere lapidi o oggetti votivi.
E’ un’apertura naturale della roccia di 7,50 metri x 4,70 con un’altezza di circa 5 metri.

Nessuno ha mai varcato la soglia affinchè potesse raccontare cosa questo mistico
luogo nasconda.

La leggenda potrebbe essere un’interpretazione “popolare” del percorso iniziatico che gli adepti ai culti di Mitra dovevano intraprendere.
E’ possibile che il Tempio sia stato utilizzato per questo tipo di culto fino a tempi relativamente recenti ed è anche presumibile che “l’attraversamento della porta” di un iniziato, un rituale semplicemente mistico, doveva essere visto dal contadino di turno come un evento fortemente magico.
Il Dio Mitra da sempre è il riflesso pagano di Cristo, per via delle notevoli somiglianze.
Anche Mitra nasce da una vergine in una grotta, ecco perché i luoghi a Lui dedicati
sono simili a quello di Angera.
E’ la divinità del sole e della luce con lo scopo di sconfiggere il male e salvare l’umanità e anticamente veniva festeggiato il 25 dicembre.
Mitra muore a 33 anni ed è sempre affiancato da 12 compagni.



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LA ROCCA DI ANGERA

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La Rocca di Angera si erge maestosa su uno sperone di roccia che domina la sponda meridionale del Lago Maggiore. In posizione strategica per il controllo dei traffici, fu proprietà della casata dei Visconti, originaria del Verbano, e nel 1449 fu acquistata dai Borromeo, cui ancor oggi appartiene.
E' uno dei castelli meglio conservati del territorio lombardo.
Da un punto di vista militare, trovandosi infatti su una collina calcarea alta 200 metri, domina non solo la parte meridionale del Lago Maggiore, ma ha anche una buona vista sulle Alpi, e questo permetteva un controllo anche in caso di invasioni dei nemici oltralpe. Il Lago Maggiore era un centro nevralgico per il trasporto dei materiali di costruzioni, quali il granito di Baveno e il marmo di Candoglia, per le grandi costruzioni di Milano, e dalle due fortezze si controllava che si pagassero le tasse dovute. Le uniche barche esenti dal pagamento delle imposte di circolazione erano quelle della Fabbrica del Duomo, che (contrassegnate dalla iscrizione A.U.F.) non solo godeva del diritto di cavare gratuitamente la pietra dalle cave di marmo, ma aveva anche il diritto di transito di queste merci, completamente gratuito.

La struttura difensiva di base della Rocca di Angera risale ad un periodo precedente al X secolo, quando venne fondata dai Longobardi ed adibita a roccaforte di difesa e controllo. Le attuali mura della Rocca risalgono invece a secoli successivi, quando venne ricostruita e modificata in gran parte dalle famiglie Visconti e Della Torre.

Dopo il 1277 entrambe le fortificazioni diventano possedimenti vescovili in seguito alla Battaglia di Desio con la vittoria dei Visconti sui Della Torre, per passare poi alla famiglia Borromeo nel 1449, che ancora possiede la costruzione.

E' stato condotto un meticoloso studio sui codici e sui documenti dell’epoca che hanno portato prima alla realizzazione di una mostra temporanea su tre principali tipologie di giardini, Il Giardino dei Principi, Il Verzere e Il Giardino delle Erbe Piccole, poi alla realizzazione degli stessi nella grande spianata che si affaccia verso il Lago Maggiore.
All’esterno della Rocca i maestri giardinieri di casa Borromeo, hanno dunque dato il via alla realizzazione di un progetto che, con la gradualità richiesta da un’iniziativa di questa complessità, ha portato e porterà, anno dopo anno, ad aggiungere e completare quanto descritto da quegli antichi codici.

Lo stile architettonico della Rocca risale ai secoli XII e XIV e presenta 5 corpi eretti in epoche diverse. La Torre Principale o Castellana, eretta tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo, poggia su di una pianta quadrata e permette di godere di una vista che abbraccia i monti e le sponde del Lago Maggiore. Alla torre maestra è addossato il palazzo conosciuto come Ala Viscontea mentre l’altra ala è detta Ala dei Borromei, alla cui famiglia vanno attribuiti i maggiori interventi successivi al XV secolo. Il piccolo palazzo “alla scaligera”, risalente al XIII secolo, si trova invece tra la cinta muraria e i resti di una torre più antica. Infine l’ultimo corpo è costituito dalla Torre di Giovanni Visconti, edificato intorno al 1350 durante l’arcivescovato di Giovanni Visconti, il corpo si trova nell’area adiacente all’estremità meridionale dell’Ala viscontea.

Tra le sale della Rocca vi è la bellissima Sala di Giustizia che ospita il ciclo di affreschi realizzato nel XII secolo dall’anonimo “Maestro di Angera”, il quale rappresentò vicende legate alla vita dell’arcivescovo Ottone Visconti.

La Rocca d’Angera ospita inoltre una meravigliosa collezione di bambole d’epoca, un vero e proprio excursus tra bambole,giocattoli, libri, mobili in miniatura, giochi da tavolo e di società dal Settecento ad oggi.
Il Museo della Bambola della Rocca di Angera, fondato nel 1988 per volere della Principessa Bona Borromeo Arese, espone oltre mille bambole realizzate a partire dal XVIII secolo fino ad oggi.

Le bambole sono poste all’interno di vere e proprie case di bambola arredate e di negozi in miniatura; i materiali con cui sono state realizzate sono dei più svariati, tra cui legno, cera, cartapesta, porcellana e tessuto.

Oltre ad una ricchissima esposizione di bambole d’epoca e contemporanee, grazie alla quale il Museo si colloca tra i più importanti d’Europa nel settore, è altresì possibile visitare una sezione dedicata ai giocattoli provenienti da culture extraeuropee e una collezione di automi francesi e tedeschi del XIX secolo proveniente dalla collezione Petit Muesée du Costume di Tours.

Da segnalare “La Stanza del collezionista”, vera e propria ricostruzione di un tipico salotto francese, ricco di oggetti curiosi e rari, dipinti e sculture e la sezione riguardante la moda per l’infanzia, che ripercorre l’evoluzione e le tendenze per l’abbigliamento dei bambini fino a metà del secolo scorso.

La Rocca d'Angera è stata il set per gli esterni del castello dell'Innominato dello sceneggiato RAI I promessi sposi girato nel 1989 e diretto da Salvatore Nocita (gli interni sono stati girati presso il Castello Visconteo di Somma Lombardo).

Recente è infine l’allestimento della coloratissima Collezione di Maioliche esposta nella Sala della Mitologia: trecento e più pezzi rarissimi di manifattura olandese, francese, tedesca, italiana, spagnola ma anche persiana e cinese. L’allestimento si presenta come una sorta di “tappezzeria” fitta e variopinta e ripropone l’aspetto originario della raccolta collezionata con cura e devozione da Madame Gisèle Brault-Pesché nella propria casa-museo di Tours.



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venerdì 17 aprile 2015

LE CITTA' DEL LAGO MAGGIORE : ANGERA

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Angera è un comune italiano in provincia di Varese in Lombardia.
Posta in uno splendido golfo, Angera fu apprezzata e contesa per la sua invidiabile posizione, a controllo dei traffici commerciali nella zona meridionale del Lago Maggiore.
Bella è la passeggiata sul Lungolago alberato di Angera, luogo di mondanità (qui si trova anche il palazzo comunale), con la visione del curioso Isolino Partegora, che affiora per incanto dal lago, rivestito di vegetazione, ma disabitato. Sul lungolago sorge il Santuario della Madonna della Riva: iniziato nel 1657, non fu mai portato a termine. Proseguendo verso nord, la strada panoramica raggiunge, in pochi minuti, il centro di Ranco. Dal Lungolago, inoltre, in soli 5 minuti di navigazione tramite linea pubblica, è possibile raggiungere Arona.
Il Lungolago e la sua Allea sono il principale luogo d’incontro degli angeresi ed ospitano gli eventi principali legati alla vita cittadina, come per esempio il mercato del giovedì mattina o le manifestazioni legate alla Festa del Santuario, a fine giugno.

La presenza umana nel territorio è testimoniata fin dal Paleolitico Superiore grazie ai rinvenimenti risalenti all'Epigravettiano finale rintracciati nella Grotta di Angera, importanti reperti del neolitico provengono inoltre da località Baranzini e dall'area dell'attuale cimitero. Non sono stati ad oggi rinvenuti reperti significativi e sufficientemente abbondanti da testimoniare un insediamento nell'età del bronzo e del primo ferro, ossia all'epoca della famosa cultura di Golasecca, che pure fu tanto importante per tutto il Basso Verbano. Reperti ceramici insubri tardo celtici testimoniano invece una continuità di insediamento a partire almeno dal II secolo a.C. Tra II e I secolo a.C. iniziano a diffondersi nella zona sempre più numerosi reperti romani che testimoniano l'avvenuta romanizzazione dell'area. Nel 49 a.C. anche gli abitanti Angera, come tutte le popolazioni che abitavano il territorio a Nord del Po, divennero cittadini romani a pieno diritto. In seguito il borgo conobbe un forte sviluppo commerciale con lo sfruttamento dell'insenatura naturale di Angera come porto lacuale di scambio per le merci trasportate via acqua lungo Po, Ticino e Verbano, e i prodotti che vi giungevano via terra grazie alla strada Mediolanum-Verbanus. Dal villaggio iniziarono a partire dall'età romana i blocchi di pietra di Angera e il legname dei boschi dell'Alto Verbano, utilizzati sicuramente per la costruzione di importanti edifici milanesi e del territorio. Non vi è certezza sul nome del villaggio di età romana; l'identificazione con il villaggio Sebuinus citato su un basamento scultoreo ospitato nel lapidario della Rocca, è solo una ipotesi, anche perché non si conosce l'esatta provenienza di tale basamento nell'ambito delle estese proprietà borromaiche. Il nome più antico, testimoniato da fonti del X secolo, è quello di Statio, che sembra indicare il ruolo di porto e stazione commerciale svolto da Angera in epoca antica. Il nome muterà nel primo medio evo in Angleria, di non sicura etimologia, ma molto probabilmente derivante dalla contrazione di Ad Glaream ovvero "presso la ghiaia", presente abbondantemente nel terreno alluvionale dove sorgeva il nucleo principale.

Nel Medioevo Angera era a capo di una Pieve che comprendeva paesi delle due sponde del lago. Sul suo territorio, nel 1300, si contavano 20 edifici religiosi. La storia di Angera va però letta anche in chiave militare. Almeno dall'XI secolo al posto dell'attuale Rocca di Angera si trovava una struttura fortificata che poi divenne proprietà degli arcivescovi di Milano. Nel Duecento la struttura passò in mano alla famiglia Visconti, che la trasformò in una maestosa fortezza, in posizione dominante su tutto il paese. Nel 1449 fu acquistata dalla famiglia Borromeo, attuale proprietaria. Angera assunse titolo di Città nel 1497, per nomina di Ludovico il Moro. Il fascismo annesse al comune Barzola e Capronno. Nell'aprile del 1954, con decreto del Presidente della Repubblica, Angera venne ufficialmente denominata città. Nel settembre 2014 sono stati celebrati i 60 anni della città, con una festa che ha coinvolto la Protezione Civile nazionale, regionale, provinciale e locale.

La storia di Angera è narrata nel Civico Museo Archeologico, sito in via Marconi 2, nel centro del Borgo antico. Il museo è situato in una bella palazzina quattrocentesca con portico colonnato. Al pian terreno dell'edificio si trovano l'Ufficio Turistico, il Lapidario, con importanti stele ed epigrafi di età romana, e la sala conferenze. Il primo piano ospita la sezione preistorica e quella romana. Nella sezione preistorica sono conservate le testimonianze della più antica presenza dell'uomo nel territorio varesino, dal Paleolitico superiore all'età del Rame; oltre ai reperti provenienti dalla Grotta di Angera e da numerose località della zona, sono esposte anche riproduzioni di archi, frecce ed asce preistoriche. La sezione romana presenta al pubblico la storia del vicus in età romana, quando raggiunse grande prestigio come luogo di scambio commerciale e di incrocio tra la via fluvio-lacuale costituita da Po, Ticino e Verbano e la strada carrabile che da Milano conduceva al Verbanus, giungendo proprio ad Angera nella attuale Via Greppi. Le prime vetrine di questa sezione ospitano reperti rinvenuti in occasione di scavi e recuperi archeologici nel borgo. I reperti più antichi risalgono ad epoca tardo-celtica e repubblicana e contribuiscono a raccontare la fase della romanizzazione del territorio. Sono molto significative anche le testimonianze della prima età imperiale, che ci mostrano un villaggio al centro di commerci tra l'alto Adriatico e l'area transalpina. Una vetrina è dedicata ai nuovi scavi ed una ospita i reperti provenienti da un edificio residenziale e lavorativo scoperto negli anni ottanta e dove è venuto alla luce, tra gli altri reperti, anche un tesoretto di oltre 280 monete. La seconda parte della sezione romana è dedicata alla Necropoli romana che venne scavata negli anni settanta e che si trovava in corrispondenza dell'attuale cimitero. Una lettiga funebre carbonizzata illustra il rito funerario più diffuso ad Angera nella prima età imperiale e nelle vetrine sono esposti a rotazione alcuni dei più significativi corredi tombali tra le svariate centinaia rinvenute nella zona. Il Museo ha ingresso gratuito e offre visite guidate gratuite a singoli, gruppi e scolaresche.

La Rocca Borromea di Angera è uno dei principali punti di interesse di Angera. Si può visitare e ospita il Museo della Bambola, una collezione di oltre mille pezzi tra le più ricche d'Europa, completata di recente dall'acquisizione di preziosi automi francesi, tutti funzionanti. In un'altra ala del castello si trova il Museo dell'Abbigliamento infantile con capi raccolti tra l'Ottocento e la metà del Novecento.

La Rocca fu fortificata dapprima dagli arcivescovi di Milano e successivamente dai Visconti e dai Borromeo. Lungo la strada di accesso alla Rocca, si trova una spelonca, già abitata in tempi preistorici e attribuita forse arbitrariamente al culto di Mitra. Interessanti la chiesa parrocchiale di S. Maria Assunta e la chiesa S. Alessandro.
Altro luogo di interesse è senz'altro l'Oasi della Bruschera e l'isolino Partegora, zona protetta ove si possono scorgere fauna e flora caratteristici del lago Maggiore.
Persone legate ad Angera:
Cristoforo Solari, detto il Gobbo. Scultore, architetto nato probabilmente ad Angera, fratello di Andrea pittore e scultore. Nel 1489 fu a Venezia, dove lavorò nella chiesa della Carità. Ritornato a Milano, nel 1493 lavorò per il Moro, nel 1501 lavorò per il Duomo di Milano, nel 1519 lavorò anche per il duomo di Como. Morì a Milano nel 1527.
Pietro Martire d'Anghiera. Nacque ad Arona dove i suoi genitori, originari di Angera, avevano dei possedimenti; egli, dopo vari viaggi, si stabilì alla Corte di Spagna, qui ebbe modo di accedere alle notizie che giungevano dalle nuove terre. Pietro il 13 novembre 1493 scrisse al card. Ascanio Sforza Visconti una prima lettera per descrivergli il primo viaggio di Cristoforo Colombo. Scriverà poi altre 11 lettere raccolte nel "De Orbe Novo" la sua più importante opera letteraria.
Antonio Greppi, partigiano, antifascista, scrittore e primo sindaco di Milano del dopoguerra.
Palmiro Togliatti vi si rifugiò durante le persecuzioni fasciste.
Il personaggio di maggior spicco dei Castiglioni di Angera, fu certamente Teresa nata il 15 ottobre ad Angera e morta a Como il 29 marzo 1821.
Alessandro Volta vi scopre l'"aria infiammabile nativa delle paludi", ossia l'attuale metano.
Giuseppe Garibaldi libera Angera dagli Austriaci durante la Seconda guerra di indipendenza italiana. Oggi la piazza è a lui dedicata.
Enzo Emilio Galbiati ultimo Capo di Stato Maggiore della M.V.S.N. che qui sposa Gianna Brovelli il 5 maggio 1930.


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mercoledì 8 aprile 2015

LE CITTA' DEL GARDA : SOLFERINO

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Solferino è un comune italiano di 2.579 abitanti della provincia di Mantova in Lombardia.

È situato nella pianura padana, sui colli morenici del Lago di Garda, nell'Alto Mantovano al confine con la provincia di Brescia.

È particolarmente conosciuto per la battaglia (24 giugno 1859) che ne prese il nome, combattuta fra l'esercito austriaco e quello franco-sardo come atto finale e conclusivo della seconda guerra d'indipendenza. La battaglia si concluse a Solferino con la presa della Rocca, più conosciuta come la "Spia d'Italia" per la sua posizione dominante.

E’ questo l’anfiteatro morenico del Garda, originato nel Quaternario, dal ghiacciaio Retico che nelle sue fasi di ritiro lasciò lungo i suoi bordi i detriti che nel corso dei millenni aveva asportato alle Alpi.

In questo verde scenario di dolci colline, coltivate a vite, qua e là interrotto dalle macchie azzurre delle torbiere, si erge la medievale rocca di Solferino, simbolo del Comune e punto nevralgico di parte della storia italiana.

I primi insediamenti umani nella zone di Solferino si fanno risalire al III millennio A.C.; lo testimonia il tipo di reperti portati alla luce, in località Barche di Solferino, ove fu ritrovata una palafitta ed interessante materiale in pietra, legno, osso. Dopo queste testimonianze, si può solo supporre un’eventuale occupazione etrusca, seguita nel V secolo A.C. dall’invasione di popolazioni celtiche (Galli Cenomani) e provata dal rinvenimento nei comuni limitrofi di necropoli e tombe. A loro volta, ai Galli, seguirono i Romani, che lasciarono a testimonianza alcuni resti di una strada in località Pozzo Catena. Dopo di ché, come buona parte della penisola, Solferino subì i saccheggi delle popolazioni barbariche.
Passato il periodo medievale e dei Comuni senza particolare storia, fu la volta del dominio dei Gonzaga, che sotto la guida di Orazio (1547-1587), riedificarono il castello e successivamente, con Cristierno (1580-1630), restaurarono la rocca.

Caduti i Gonzaga, Solferino fu direttamente interessata dalla battaglia di Castiglione (1796) che vide contrapporsi gli stessi due eserciti che sessantatré anni più tardi diedero luogo alla battaglia di Solferino, episodio decisivo, con quello di San Martino, della II guerra d’Indipendenza.

Visitare i luoghi compresi nell’ anfiteatro morenico del Garda è bello; farlo camminando, in bicicletta o a cavallo è ancora meglio.
Ci si immerge in un territorio unico nel suo genere, caratterizzato da dolci colline segnate a tramontana da strette strisce di boschi di roverella, di cerro, di carpino nero, a volte sormontate da un gruppo di cipressi, introdotti in epoca romana

Ci si riposa dopo una salita ammirando il panorama colorato da campi di mais, soia ed orzo ed interrotto nelle valli, da piccoli laghetti ove l’acqua ristagna trattenuta dai più profondi strati argillosi.

Il Museo Storico allestito nel 1931 dalla Società Solferino e San Martino e situato ai margini del parco dell’Ossario, è custode non solo di numerosi cimeli, armamenti e ricordi degli eserciti francese ed austriaco che qui combatterono nel 1859, ma anche di parte della storia italiana dal 1796 al 1870.
Accanto al materiale iconografico e documentario vi è una ricca esposizione di armi, uniformi, disegni, stampe ed oggetti personali appartenuti ai combattenti; il tutto è ordinato cronologicamente in tre sale ed accompagnato da didascalie esplicative in modo di fornire al visitatore un valido strumento culturale-didattico.
Menzione particolare va, ovviamente, alla sala centrale, interamente dedicata alla battaglia del 24 giugno 1859.
Accanto al materiale iconografico e documentario vi è una ricca esposizione di armi, uniformi, disegni, stampe ed oggetti personali appartenuti ai combattenti; il tutto è ordinato cronologicamente in tre sale ed accompagnato da didascalie esplicative in modo di fornire al visitatore un valido strumento culturale-didattico.
Menzione particolare va, ovviamente, alla sala centrale, interamente dedicata alla battaglia del 24 giugno 1859.

Immersa nel verde del parco, alla sommità di Solferino (m.206 s.l.m.), si erge la poderosa torre quadrata detta, durante il Risorgimento, Spia d’Italia per la sua posizione strategica rivolta al confine del veneto, allora austriaco.
La costruzione, eretta nel 1022, alta 23 metri, contiene al piano terra i busti dei generali francesi Auger e Dieu, caduti nella battaglia; nelle vetrine laterali e centrali, oltre a cimeli ed armi, sono esposti documenti relativi alla storia della Rocca ed alla Zecca dei Gonzaga di Solferino.
Una comoda rampa in legno porta alla Sala dei Sovrani (ritratti di Napoleone III e V.Emanuele II) e più in alto, alla terrazza panoramica dove grazie a tavole di orientamento, si possono riconoscere, quando la visibilità lo consente, i campanili e le torri di luoghi situati a parecchie decine di chilometri.

Attraverso un viale di cipressi, detto di San Luigi Gonzaga, si arriva al Memoriale della Croce Rossa, eretto nel 1959, in ricordo del premio Nobel per la pace Jean Henry Dunant (1828-1910), che dal pietoso spettacolo seguito alla battaglia di Solferino, trasse l’idea della Croce Rossa.
Sul lato destro, il monumento è composto dai marmi provenienti da ogni parte del mondo, sui quali sono impressi i nomi di centoquarantotto Paesi aderenti alla Croce Rossa Internazionale.

Piazza castello sicuramente una delle più belle piazze del mantovano, è l’area su cui sorgeva l’antico castello, eretto nel sec. XI e sostanzialmente modificato dal principe Orazio Gonzaga nel XVI secolo, che lo trasformò nella propria residenza.
Vi si accede passando sotto un arco (un tempo sormontato da una torre con ponte levatoio); di forma rettangolare, cinta ancora in parte da mura merlate, la piazza è chiusa a destra da una cortina di case, mentre a sinistra, una bassa muraglia permette di godere dell’ampio panorama che arriva, nebbia permettendo, sino oltre il lago di Garda.
Del vecchio castello sono rimaste, sopravvissute al tempo. ma soprattutto alle battaglie del 1796 e 1859, la Torre di Guardia, con la caratteristica cupola ogivale di gusto orientaleggiante, sede di numerose esposizioni durante il periodo estivo, e la Chiesa di San Nicola, al centro, che ha subito negli anni radicali trasformazioni.
E’ in questa piazza che tutti gli anni, durante le manifestazioni commemorative della battaglia, si svolge il tradizionale concerto all’aperto.


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