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martedì 1 dicembre 2015

MONTESEGALE



Montesegale è un comune situato nell'alta collina dell'Oltrepò Pavese, nella valle del torrente Ardivestra, affluente della Staffora. La grandissima parte della popolazione risiede nelle numerose frazioni.

Noto fin dall'XI secolo, Monteségale era sotto la signoria del Vescovo di Tortona, e fu sottoposto al dominio pavese nel 1219 da Federico II (pur continuando, sotto Pavia, la signoria vescovile). Montesegale fu infeudato ai Conti Palatini di Lomello, del ramo di Gambarana, ricevendo l'investitura congiuntamente da Pavia e dal Vescovo di Tortona, che manteneva quindi un'alta signoria (analogamente a quanto avveniva nelle vicine località Gravanago e Montepicco (fraz. di Fortunago) e a Rocca Susella). La signoria dei Gambarana durò, salvo qualche breve interruzione, fino alla fine del feudalesimo (1797).

Unito con il Bobbiese al Regno di Sardegna nel 1743, in base al Trattato di Worms, entrò a far parte poi della Provincia di Bobbio. La fine del marchesato ebbe luogo con l'abolizione del feudalesimo nel 1797. Nel 1801 il territorio è annesso alla Francia napoleonica fino al 1814. Nel 1818 passa alla provincia di Voghera e nel 1859 alla provincia di Pavia.

Il comune di Montesegale faceva direttamente parte dell'Oltrepò Pavese, non era una giurisdizione separata come i territori circostanti. Comprendeva anche la parte meridionale dell'attuale comune di Rocca Susella, con le frazioni Susella, San Paolo, Poggio Almanno. Esse furono staccate da Montesegale e unite al comune cui attualmente appartengono nel 1905. Nel XVIII secolo a Montesegale era stato unito il piccolo comune di Castignoli, già sede di un importante castello, parte del feudo di Montesegale.

L'economia è prevalentemente agricola e si basa sulla produzione di foraggi, frumento, granoturco, frutta, vini, salumi e miele.

Dal poggio su cui è posto, nonostante le diverse trasformazioni avvenute nel corso degli anni, il castello di Montesegale mostra sempre la sua forma possente e quell'invulnerabilità che lo ha contraddistinto nei secoli. Furono i Gambarana a dare al castello l’impianto attuale.
L’8 agosto 1164 Federico Barbarossa concedeva a Pavia molti luoghi e castelli della Valle Staffora tra cui Montesegale. Il feudo nel giro di pochi anni passò ai conti Palatini e tra essi poi toccò ai conti Gambarana nel 1311, che presero titolo di Signori di Montesegale. I conti Palatini furono istituiti da Carlo Magno ed ebbero molti privilegi ed onorificenze confermate più volte da diversi imperatori fino a Carlo V.
Nel 1412 Facino Cane assediò Pavia e confermò ai Gambarana il feudo di Montesegale. La guerra tra Facino Cane e Filippo Maria s’inasprì e tre anni più tardi Francesco Bussone detto il Carmagnola riuscì a recuperare tutte le città che si erano ribellate sotto il governo di Giovanni Maria. Nel mese di settembre del 1415 il castello di Montesegale era stato in gran parte distrutto dal Carmagnola ed i militari che lo presidiavano furono condotti prigionieri a Voghera e Pavia, perché i Signori di Montesegale non volevano essere sottoposti al Duca di Milano Filippo Maria Visconti.
Nel 1416 il Duca ritolse il castello di Montesegale confiscandone i beni e donandoli o vendendoli a diverse persone.
Il 4 luglio 1432 Paolo Serratico ebbe i feudi di Montesegale e Pizzocorno.
Il 22 aprile 1451 il conte Palatino Ottino Gambarana, figlio di Guido ed erede dei suoi congiunti, ottenne dal duca Sforza il ripristino degli antichi onori e il possesso dei beni di cui godevano gli altri Gambarana. Tra questi il feudo di Montesegale. Negli anni a seguire in più occasioni i vescovi di Tortona confermarono ai conti Gambarana il feudo di Montesegale che passò da Andrea a Ludovico e Angelo Marco Gambarana. Il 30 agosto 1646 fu investito del feudo il conte Gerolamo Gambarana. Oggi il castello è di proprietà della famiglia Jannuzzelli.

Dalla piazzetta dedicata ai caduti di Nassiriya, sede del Comune di Montesegale, sulla destra si stacca la strada che, costeggiando le antiche mura del castello, salgono sino a raggiungere l’ingresso principale del maniero. A destra si trova il bell'Oratorio dedicato a Sant'Andrea. Al castello si accede tramite un portone con fronticino a mensolette intonacato.
Entrati tra le mura si apre il cortile rustico, che mette ben in risalto gli edifici in mattone e pietra a vista dell’ala più antica, al cui interno si trova un arco acuto in pietra levigata di buona fattura. Tali edifici si trovano prospicienti ad un’altra salita che conduce alla spianata superiore, delimitata da un muro di cinta con merlatura che fu riedificata nel 1900 da Agostino Gambarotta. Sul lato destro si apre un portoncino che immette al cortile nobile o padronale, affiancato da un’epigrafe latina che reca scritto: “Fiat pax in virtute tua et habondantia in turribus tuis”.
L’interno si presenta con un bel porticato a colonne poligonali e pavimento in cotto sistemato a spina di pesce, dal quale si accede al grande salone a volta dove spicca la grande caminata in pietra arenaria che fu fatta costruire nel 1906 da Giacomo Cavanna in sostituzione di un più antico camino di minor pregio. Oltre a questo si trovano anche un caratteristico pozzo, locali più o meno antichi e scantinati con archivolti.
Rifacendoci al libro Il Pavese montano scritto da Filippo Mancinelli nel 1922, si evince che “all’interno del castello vi si entrava attraverso una porta del XVIII secolo” e che “in un locale interno, su di un camino, era scolpito lo stemma con l’arma dei Gambarana”.
All’esterno del castello si trova la ghiacciaia utilizzata per conservare gli alimenti: ancora oggi è in ottimo stato.
Il maniero fu eretto dai Gambarana in tempi diversi. La parte più antica è quella posta a mezzodì; fu ampliato dagli stessi feudatari nel XIV secolo. La fortezza è situata sulla sinistra orografica del torrente Ardivestra su di un cucuzzolo a piano inclinato da est a ovest, a 426 metri sul livello del mare. Il manufatto più antico fu restaurato dal conte senatore Andrea Gambarana di Langosco nel XVII secolo.

Oggi, all'interno del castello, oltre all'abitazione privata, in tre splendide sale, nel 1975 è stato allestito il Museo di Arte Contemporanea. Il museo fu inaugurato con una mostra di Orfeo Tamburi che venne presentata da Giovanni Testori, Raffaele Degrada e Alberico Sala. L’attività del museo prevede l’organizzazione di diversi eventi durante tutto il periodo dell’anno ed in particolare in estate. Qui vengono inoltre organizzate mostre di artisti contemporanei. Nel corso degli anni sono state esposte opere di importanti artisti tra cui: Ernesto Treccani, Maria Luisa Simone, Roberto Crippa, Paola Grott, Luisa Pagano, Dino Grassi, e poi Francesco Del Drago, Giovanni Frangi, Boris Mardesic, Julian Schnabel e altri ancora. Il museo guarda anche al futuro dell’arte e grazie alla ristrutturazione di immobili sono stati costruiti sei alloggi per giovani promesse: artisti che avranno la possibilità di creare qui le proprie opere.


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CERVESINA

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Cervesina è un comune situato nella pianura dell'Oltrepò Pavese, sulla riva destra del Po, presso la confluenza del torrente Staffora.

Cervesina e San Gaudenzio costituirono a lungo due comuni a sé stanti; nel medioevo San Gaudenzio era più importante, specie dal punto di vista religioso, essendo sede di pieve da cui dipendevano diversi paesi della zona. Nell'ambito dei domini di Pavia, facevano capo alla podesteria di Voghera; tuttavia, al tempo della prevalenza dei Beccaria, si costituirono in feudo autonomo sotto un ramo della medesima famiglia, detto appunto "Beccaria di San Gaudenzio". Esso raggiunse il massimo potere nel XVI secolo, quando Matteo Beccaria divenne Marchese di Mortara; tuttavia, non avendo questi avuto che figlie femmine, il feudo di San Gaudenzio e Cervesina fu ereditato dai Taverna di Milano, conti di Landriano, cui rimase fino alla fine del feudalesimo (1797).

Nel XVIII secolo San Gaudenzio fu unito a Cervesina, e il comune ebbe per qualche tempo il nome "Cervesina con San Gaudenzio". In quell'epoca Cervesina era molto diversa da oggi: infatti si allungava sulla riva destra della Staffora giungendo molto più a nord. Lo spostamento del corso del Po verso sud determinò la distruzione di quasi tutto l'abitato, di cui non rimase che l'estremità meridionale, che da allora ha ripreso a estendersi, con pianta più compatta, verso sud ed est, in posizione più riparata. Il Po aveva distrutto anche un'importante frazione, la "Rampina", posta ancora più a nord, presso l'antica foce della Staffora.

I "porti" del Po fino in epoca abbastanza recente esistevano nelle vicinanze di Cervesina. Per "porto", secondo la denominazione in vigore fin dall'età romana si intendeva un traghetto sul fiume che consentiva il passaggio di uomini, animali e cariaggi da una sponda all'altra. Due erano i "porti" nei pressi di Cervesina, uno, il più importante si trovava a valle, tra Pancarana e Bastida e, dirimpetto Sommo, e l'altro a monte, nei pressi di Bastida di Dossi. Del primo si hanno notizie frammentarie fino al sec. XV che poi assumono un certo rilievo mostrandoci tutta l'importanza di questo valico del Po, uno dei quattro che collegavano l'Oltrepò Pavese con la restante parte del Ducato di Milano. Il porto di Sommo era, con quello della Stella o "de Lapole", nei pressi di Broni, di maggiore importanza rispetto agli altri. Esso era stato donato dal Duca di Milano Filippo Maria Visconti a Giovanni Beccaria nel 1412, e ai Beccaria appartenne da allora, nonostante le travagliate vicende di questa famiglia che, proprio durante il governo di Filippo Maria ebbe molti beni confiscati. L'Archivio Comunale di Cervesina ha tramandato in copia parecchi documenti riguardanti il porto di Sommo, tra cui per primo, l'atto di donazione di Filippo Maria Visconti, dal quale si apprende che oltre al porto vero e proprio, esistevano e vennero donate ai Beccaria due osterie paste sulle rive del fiume.

Questa donazione doveva aver turbato interessi preesistenti tanto che fu una lunga lite tra i Beccaria e gli uomini di Castelletto di Branduzzo e Regalia che contestavano il possesso del porto ai nobili pavesi.

La controversia fu risolta a favore dei Beccaria nel 1473, e nel contesto della sentenza si definirono i confini del porto. Oggi la geografia delle sponde del Po, in zona non consente più di identificare i confini definiti nell'atto notarile, ed anzi, gli stessi centri di Cantalupo e Regalia, che si trovavano tra Bastida Pancarana e Rea, andarono distrutti e sommersi dalle piene del fiume.

Il secondo porto, a monte di Cervesina era quello che, nelle carte dell'Archivio Comunale e chiamato porto di "Zavaglione" e "dei Taverna", dal nome dei Feudatari di S. Gaudenzio. Risulta, da un documento del 1564 che il porto era presso la bocca vecchia della Staffora e congiungeva le sponde del Po tra il torrente vogherese e la bocca vecchia dell'Agogna. (Come già abbiamo rilevato,) Essa quindi era assai più vicino all'abitato di Cervesina (almeno fino al 1827) di quanto non lo fosse quello di Sommo, e pertanto assai più controllato dai Feudatari e dai loro agenti. Difatti un tentativo dei conti Taverna di spostare il traghetto più vicino ancora a Cervesina suscitò le rimostranze dei Beccaria, che come s'è vista erano i proprietari dei porti di Sommo.

I primi vennero condannati a riportare alla primitiva ubicazione il traghetto, ossia presso il dosso di Zavaglione dov'era sempre stato.

I Taverna possedevano pure il porto di "Corana" situato quindi più a monte e cedettero entrambi i parti al Comune di Cervesina nel 1861. Uno solo di essi, quello che corrispondeva pressa poco all'antico dello Zavaglione venne conservato e tenuto in efficienza anche dopo le mutate condizioni delle sponde del Po, e praticamente duro fino al termine della seconda guerra mondiale. Don Ugo Lugano, autore del volumetto "Mezzana Rabattone e la sua storia" riporta una gustosa descrizione dialettale del funzionamento del porto, nei ricordi di un anziano del suo paese. La "bocca vecchia della Staffora" si trovava a circa 1200 m. a monte di quella attuale. I terreni fino al 1855 erano proprietà della Mensa Arcivescovile di Milano e facevano parte della tenuta denominata "Il Bombardone".

Il Castello di San Gaudenzio, un oasi di storia lombarda, mantiene intatti nel tempo il fascino dei luoghi, la dolcezza di vivere. La sua storia è legata ai Visconti e ai destini di Pavia: un complesso originario del 1400 appartenuto a numerose famiglie nobili (i Beccaria, i Taverna, i Trotti) che se ne sono tramandati i fasti. Luogo d'ospitalità e riposo, sede di balli, pranzi e festeggiamenti etc., con estrema naturalezza conserva questa originaria vocazione in qualità di splendido hotel, ricco di suggestioni.

All'interno del Castello si ritrovano i bei camini di marmo rosso e nero, mobili, ritratti e decorazioni che si richiamano al periodo dal 1500 al 1700. Affianca il Castello l'antica pieve dedicata a San Gaudenzio. Quello che era un tempo luogo di delizie per pochi privilegiati è diventato oggi un ameno luogo di ritrovo per chiunque, a due passi dalle congestionate città industriali, voglia godere il sottile fascino della campagna dell'Oltrepò pavese. Ridare una funzione e una utilità sociale a quello che restava di un glorioso castello, è stata l'idea che ha fatto nascere, nell'antico maniero, il ristorante di San Gaudenzio. Nella linea della continuità con l’impostazione del ristorante, il Castello offre a tutti i suoi clienti una serie di camere e di appartamenti arredati con gusto sopraffino e funzionanti con i criteri più moderni, caratteristici della nostra epoca. La sobrietà, l'eleganza e l’armonia legano gli elementi strutturali del parco-giardino annesso al quattrocentesco Castello di S. Gaudenzio. Di fattura recente, quest'accorato spazio verde presenta significativi caratteri di moda seicentesca che ha un'epoca non solo di transizione ideologica, ma anche di mutamento di gusto stilistico.

Il giardino, da ancora rigoroso e geometrico cinquecentesco, tende a tramutarsi in parco, dando luogo ad un movimento di liberazione e di vita. Essenze d'alto fusto, cespugli da fiori, da foglia e da frutto, formano il quorum floristico di questo luogo. Conifere e latifoglie si alternano, gradevolmente, nel gioco scenico delle parti. Le statue, la pergola ed il tempio forniscono, invece, l'elemento plastico. Adiacente all'ingresso del Castello e lungo il ciglio del vecchio fossato, aiuole fantasiose a ricamo offrono un esempio di "Ars Topiaria"

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ZAVATTARELLO

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Zavattarello è un comune situato nell'alta val Tidone, fa parte del circuito dei i borghi più belli d'Italia ed è dominato dalla mole del castello di Zavattarello. Vive soprattutto di agricoltura (grano, foraggio), allevamento bovino e di turismo (residenze estive, agriturismo e turismo panoramico motorizzato).

Antichissimo feudo dell'Abbazia di San Colombano di Bobbio, dopo la formazione della Contea vescovile di Bobbio, Zavatterello diviene un feudo personale del Vescovo che vi costruisce il castello. Nel 1390 il vescovo di Bobbio cede a Jacopo Dal Verme il castello ed il feudo. Unito con il Bobbiese al Regno di Sardegna nel 1743, in base al Trattato di Worms, entrò a far parte poi della Provincia di Bobbio. Nel 1801 il territorio è annesso alla Francia napoleonica fino al 1814. Nel 1848 come parte della provincia di Bobbio passò dalla Liguria al Piemonte, nel 1859 entrò a far parte nel circondario di Bobbio della nuova provincia di Pavia e quindi della Lombardia, nel 1923, dopo lo smembramento del circondario di Bobbio, passò alla provincia di Piacenza e quindi all'Emilia-Romagna e poi ritornò nel 1926 alla provincia di Pavia e alla Lombardia.

Nel 1929 il comune di Valverde venne unito a Zavattarello, che prese il nome di Zavattarello Valverde (CC M151); fu quindi ricostituito nel 1956.

La zona collinare dell'Oltrepò pavese, che corrisponde grosso modo al comune di Zavattarello, fu luogo di rifugio dei disertori dell'esercito romano, dopo che questo subì la disfatta nella battaglia della Trebbia ad opera di Annibale..
Zavattarello è storicamente documentato nelle carte bobiensi del IX secolo come Pieve di San Paolo in Sartoriano (Giacomo Coperchini "quadro ecologico e interpretazione storica del territorio Piacentino-Bobiense, 1988).Alla fine X secolo d.C. il Castello di Zavattarello viene fatto costruire dal vicino monastero di Bobbio (Pc).
Quando il Vescovo di Bobbio diventa conte, Zavattarello diviene un bene feudale dello stesso Vescovo.

1169: Il castello di Zavattarello cade nelle mani della città di Piacenza.Nel 1230 il Vescovo di Bobbio dà in locazione al comune di Piacenza tutta la sua giurisdizione temporale tra cui Zavattarello (dal "Registrum Magnum" del Comune di Piacenza).
Iniziano le lotte per il possesso del maniero tra i ghibellini Landi e i guelfi Scotti.

1264: Il vescovo di Bobbio infeuda Zavattarello a Ubertino Landi, signore della guerra pluriscomunicato, che fortifica la rocca rendendola inespugnabile. Grande razziatore, negli anni successivi egli diventa il terrore della regione, ma grazie alla sua potente influenza inizia lo sviluppo del borgo.

1327: Manfredo Landi è signore del castello, grazie a Lodovico il Bavaro.
1390: Il vescovo di Bobbio Roberto Lanfranchi cede il castello al capitano di ventura Jacopo Dal Verme, donazione ratificata da papa Bonifacio IX. Inizia il pressoché ininterrotto dominio dei Dal Verme, che durerà fino al 1975, anno della donazione al comune del castello e dei terreni circostanti.
1978: L'amministrazione comunale inizia il restauro della rocca, gravemente danneggiata da un incendio nel 1944. Il castello è ora stato interamente restituito al pubblico.

Zavattarello deve il suo nome all'attività che fu prevalente nel borgo per secoli, quella dei ciabattini: il volgare “savattarellum” indica proprio letteralmente “il luogo dove si confezionano le ciabatte (savatte)”. Ancora oggi, nel dialetto locale, il paese è chiamato “Savataré”.

Le austere e antiche case rustiche di Tovazza sembrano fiere del loro essere millenarie: esistono citazioni già nell'anno 862 tra i beni del non lontano monastero di Bobbio (Pc). Lì vicino si può raggiungere Pradelle, ideale per gli amanti della natura e della quiete.
Lungo una cresta battuta dal sole sono site due tra le frazioni più caratteristiche: Ossenisio e Perduco. Ossenisio si trova su un poggio a strapiombo sul fiume Tidone; Perduco, appena a due chilometri a occidente, viene ricordata nei documenti di Bobbio dell'862, dove si cita un'antica rocca e una plebs dedicata al martire S. Antonio. Le vecchie case con i loro forni accanto in cui si cuoce ancora il pane, le viuzze, le profonde grotte del Groppo non ancora completamente esplorate che si aprono proprio a picco sotto le prime case del paese fanno di Perduco un luogo estraneo allo scorrere del tempo.
La vicina San Silverio è l'antica "Sancti Severi" menzionata in un estimo vescovile di Bobbio del XIV secolo, in cui si ricorda l'esistenza di un "hospitale".
Tra Zavattarello e Pietragavina, andando verso Varzi, si incontra Rossone, su un poggio assolato a circa 750 m d'altitudine, luogo apprezzato per una residenza di villeggiatura.
Le Moline, a un paio di chilometri da Zavattarello in direzione della Diga Valtidone, è la frazione in cui si respira più storia, con la torre degli Scolopi, il vecchio monastero ancora in piedi e i caratteristici mulini che danno il nome alla frazione.
Quasi ogni frazione possiede la sua chiesa, alcune delle quali sono dei piccoli capolavori.
L'oratorio di S. Silverio è tra i più antichi: da uno strumento datato 17 febbraio 1486 del notaio Bertola Gazzotti di Zavattarello risulta che un tale Bartolomeo Ramella, procuratore dell'arciprete del paese don Antonio Bozzola, dichiarò di "ricevere da Francesco e fratelli Cavaleri la somma di lire 36,18 imperiali per il fitto d'anni uno sopra la possessione e beni di San Severo, territorio di Zavattarello".
Verso la fine del XVI secolo, l'oratorio di Perduco era dedicato a S. Antonino: è ricordato nella relazione della visita del vicario generale del vescovo di Bobbio del 1597, in cui si legge "Chiesa di S. Antonino di Perducho, nella quale non si celebra ma se gli potria celebrare restaurandola alquanto".
L'oratorio di Pradelle è stato costruito nel 1870, con l'annesso locale adibito successivamente a scuola elementare ed abitazione dell'insegnante.
L'oratorio di Crociglia è dedicato a S. Domenico. Non se ne conosce la data di edificazione: la prima notizia sicura si ha in un inventario delle suppellettili effettuato a cura dell'arciprete di Zavattarello l'8 marzo 1788, su istanza di Gerolamo Fiori.
Neppure dell'oratorio di S. Michele di Tovazza si conosce la data di costruzione. Possiede alcuni beni immobili provengono da un certo Carlo Marchisola fu Bernardo a rogito notarile del 23 maggio 1848, enumerati in un inventario del 12 novembre 1925 dell'arciprete Domenico Franzosi.
L'oratorio di S. Martino alle Moline consta di una piccola navata con altare in sasso. Nel 1927 fu edificato un piccolo campanile per collocarvi la campana che fino ad allora si trovava sui tetti di un'attigua casa privata.
Fu edificato nel 1858 l'oratorio di S. Stefano a Cascine su autorizzazione della corte d'appello di Genova, su conforme parere del vescovo di Tortona, a cui era stata rivolta formale istanza da tutti gli abitanti di Cascine per erigere un oratorio "per somministrazione dei Sacramenti agli infermi e impotenti e per la celebrazione della Messa nei giorni 26 maggio, 17 gennaio e 8 dicembre di ciascun anno onde adempiere al voto fatto per la grazia ricevuta mentre il colera desolava tutti gli altri vicini villaggi".

Situato a 529 m s.l.m., Zavattarello è costituito da un nucleo centrale dominato dal Castello Dal Verme, ove le case hanno mantenuto la patina dei secoli: è il borgo antico duecentesco che i paesani chiamano "Su di dentro" perché in passato era cinto da robuste mura difensive. Più sotto si sviluppa il paese nuovo, tagliato dalla strada provinciale che congiunge la SS412 della Valtidone alla SS461 del Penice.
Al caratteristico paese vecchio acchiocciolato attorno al castello si accede da Piazza Luchino Dal Verme, passando sotto una torre sovrastante un arco acuto in blocchi di arenaria magistralmente lavorati: l'edificio era ben più alto, ma nel 1926 la parte superiore venne purtroppo abbattuta.
Sulla sinistra, oltrepassato il "voltone", si vede ancora oggi inalterato il "corpo di guardia", un angusto vano destinato ad accogliere gli armigeri di guardia all'accesso della rocca. La stretta viuzza era un tempo la strada principale del paese, che conduceva fino al maniero in cima alla collina. La prima via che si inerpica a destra, dopo un edificio rimodernato che fu sede delle carceri mandamentali, è il vicolo dell'Abate, uno degli scorci più caratteristici del "Su di Dentro".
La visita al paese vecchio può costituire un impensabile motivo di piacevoli scoperte: all'osservatore attento non mancherà di notare sopra il portale profilato di arenaria di un'antica casa una formella in terracotta raffigurante una Madonna con Bambino, pregevole opera di un ignoto artista seicentesco. Sotto questa formella, al centro dell'architrave del portale, è scolpita una caratteristica croce, che si ritrova anche sulle architravi delle porte e delle finestre di una costruzione del XIII secolo, la più antica del borgo.
Anche la parte più moderna del paese presenta attrattive, pur se non cariche dell'emozione storica data da "Su di Dentro". Zavattarello è piccolo, ma possiede tutti i servizi indispensabili per il cittadino e per il turista: negozi di ogni genere, luoghi ricreativi, monumenti, scuole materna, elementare e media, farmacia, posta, ambulatorio medico, comando dei Carabinieri e Guardia Forestale, banche, casa di riposo per gli anziani. Il tutto immerso in una natura incontaminata, in cui dominano pace e serenità, in un clima in cui il tempo pare una categoria diversa dal resto del mondo: tradizione e modernità qui si mescolano, convivono e si fondono in un equilibrio armonioso.

Completamente costruito in pietra, con uno spessore murario fino a 4 metri, il Castello di Zavattarello è un edificio titanico che costituisce un formidabile complesso architettonico medievale, una fortezza inespugnabile che ha resistito a numerosi assedi.
Dalla terrazza e dalla torre si gode un panorama mozzafiato del territorio circostante: le verdi campagne, i freschi boschi, le colline con gli altri castelli della zona - Montalto Pavese, Valverde, Torre degli Alberi, Pietragavina. Ben si capisce, da qui, la scelta strategica del luogo dove edificare questo maniero.
L'imponente rocca sovrasta il borgo antico abbarbicato sulla collina, che una volta era completamente priva di vegetazione per consentire ai difensori del maniero di avvistare ogni malintenzionato. Oggi invece il verde che attornia il castello è un'area protetta, un Parco Locale di Interesse Sovracomunale di circa 79 ettari, di grande rilevanza paesaggistica, geografica, orografica, oltre che storica e ambientale.

Ogni anno il 15 e 16 agosto il Castello Dal Verme ritorna al suo storico passato: tra dame e cavalieri, artigiani e cortigiani, il giardino e le sale si animano di rievocazioni di battaglie, danze e giochi medievali, con numerosi intrattenimenti per i visitatori.
Due giorni di grande festa per rivivere le magiche atmosfere del Medioevo, immergendosi nella vita di una roccaforte nel XV secolo.
Le Giornate Medievali di Zavattarello rievocano un avvenimento legato al personaggio più celebre del Castello: Pietro dal Verme. Infatti questi due giorni celebrano il fidanzamento fra Pietro e Chiara Sforza.

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venerdì 20 novembre 2015

VISITARE VIGEVANO



Il comune è il simbolo del Rinascimento lombardo, centro ideale per chi ama la natura e l'arte, da scoprire e visitare. La città di Leonardo Da Vinci ma anche la patria del tacco a spillo che fu inventato proprio in questa cittadina a due passi da Milano.

La possibilità, inoltre, di immergersi nei tesori naturali e nella ricca biodiversità del territorio del Parco naturale del Ticino. La città si trova, infatti, nel territorio del più antico Parco Regionale d'Italia, vero “tempio” della flora e della fauna locali, meta ricercata da chi desidera stare a contatto con la natura.

Il Parco è visitato ogni anno da più di 800 mila persone, attirate dalla facilità di accesso e, soprattutto, dalla possibilità di trascorrere qualche ora in mezzo alla natura a pochi chilometri da Milano. Per favorire e diversificare la fruizione dell’area, nel corso degli anni sono state realizzate diverse infrastrutture e una rete di percorsi riservati al transito ciclo-pedonale e più di 50 itinerari, 800 chilometri in totale, per il trekking e il mountain biking, mostre, musei e osservatori naturali.

La cattedrale di Sant'Ambrogio, consacrata il 24 aprile 1612, fu iniziata da Francesco II Sforza nel 1532, su progetto di Antonio da Lonate dopo aver demolito in gran parte quella precedente (della quale fu salvata la parte absidale) risalente alla seconda metà del Trecento, ma edificata su fondamenta ben più antiche. Sono presenti infatti documenti del 963 e del 967 che parlano della basilica di Sant'Ambrogio in Vigevano e pertanto le origini della chiesa primitiva affondano a prima dell'anno mille. Del precedente edificio si conservano alcuni frammenti degli archetti decorativi del cornicione di stile gotico-lombardo, appartenenti all'antica basilica. Francesco II morì poco dopo aver intrapreso la costruzione della cattedrale.

Venuta meno la munificenza del duca, essa poté avere compimento con le offerte dei fedeli, del Comune e dei vescovi, giungendo al tetto nel 1553 e venendo ultimata solo nel 1606 allo stato rustico, sotto la guida del vescovo Giorgio Odescalchi, per poi essere definitivamente terminata alla fine del seicento, allorché fu compiuta la grandiosa facciata barocca ideata dal grande poligrafo Juan Caramuel y Lobkowitz, che fu vescovo della città dal 1673 al 1682. Poiché gli assi del duomo e della piazza Ducale sono differenti (la piazza era infatti scenografico ingresso al castello, e non alla cattedrale), il Caramuel, fece erigere la nuova facciata in forma concava e fece eliminare l'originale rampa d'accesso al castello, completando il porticato sotto la torre del Bramante. L'espediente architettonico rendeva simmetrico il duomo rispetto alla piazza e mutava la "funzione politica" di quest'ultima: da "ingresso" del castello (potere civile) ad "anticamera nobile" del duomo (potere ecclesiastico). Il campanile sfrutta come base una torre trecentesca (probabilmente l'antica torre civica) su cui è stato realizzato un primo sopralzo nel 1450, e un secondo nel 1818 con la costruzione dell'attuale cella campanaria sormontata da merli. Nel 1716 venne completata la cupola con la copertura in rame e nel 1753 venne terminata la sacrestia capitolare.

Durante tutto l'Ottocento si susseguirono numerosi lavori di restauro tra cui la costruzione dell'altare maggiore (1828-1830), a opera di Alessandro Sanquirico, e la decorazione del grandioso e luminoso interno a tre navate a opera di Francesco Gonin, Mauro Conconi, Vitale Sala, Cesare Ferrari e del pittore vigevanese Giovan Battista Garberini.

La seconda cappella della navata sinistra, dedicata ai santi Giacomo e Cristoforo, oltre a un pregevole altare seicentesco ospita il Polittico Biffignandi', di Bernardo Ferrari, mentre nella cappella di San Carlo o del santissimo Sacramento sono conservate altre due opere recentemente restaurate del pittore vigevanese: il Trittico Gusberti e un San Tommaso di Canterbury tra le sante Elena ed Agata. Nelle altre cappelle laterali si conservano interessanti dipinti del '500 lombardo opera di Cesare Magni e Ferdinando Gatti (detto il Soiaro).

Di grande interesse è anche l'organo a canne che si trova in presbiterio, nella cantoria di destra, costruito nel 1782 dai Serassi di Bergamo e recentemente restaurato.
Il duomo di Vigevano è anche divenuto famoso per il tesoro della cattedrale, che in parte risale alle donazioni elargite al capitolo da Francesco II Sforza. Oltre a notevoli calici, pissidi e paramentali, esso conserva anche manoscritti di grande valore miniati da Giovan Giacomo Decio, un pastorale vescovile in avorio di narvalo e "La Pace", una preziosa suppellettile in argento dorato di scuola lombarda. Nella seconda sezione del museo sono conservati una serie di arazzi fiamminghi di Bruxelles (1520) e Auderaarde (seconda metà del XVII secolo) con raffigurazioni sacre e profane, e due pregevoli stendardi cinquecenteschi delle antiche confraternite di Santa Maria del Popolo e dell'Annunziata. Nel tesoro della cattedrale è conservato inoltre un prezioso paramentale ricamato con fili d'oro, utilizzato dal papa per incoronare Napoleone Bonaparte re d'Italia nel duomo di Milano nel 1805.

La chiesa di San Pietro Martire fu eretta nel 1445 con l'annesso convento dei frati domenicani come attestato dalla bolla pontificia conservata presso l'archivio storico di Vigevano, venne consacrata nel 1480. In puro stile gotico lombardo con campanile a base ottagonale, si presenta a croce latina imperfetta con pilastri polistili, terminante con coro poligonale alto con sottostante cripta il cui accesso è dato da due ingressi ai lati del presbiterio rialzato. Nella cripta è conservato il corpo del beato Matteo Carreri, patrono di Vigevano, che visse e morì (1470) nell'attiguo convento.
Nel 1645, durante l'assedio francese alla Rocca Nuova, il campanile viene demolito a metà, in senso verticale, per essere poi ricomposto pochi anni dopo. La facciata, divisa in tre parti corrispondenti alle navate e sormontata nella parte centrale da tre pinnacoli, ha un portale gotico ad anelli racchiuso da una cornice in cotto con un bassorilievo collocato nel 1969. Sul fianco sinistro una scalinata porta all'ingresso secondario posto in testa al transetto, mentre in corrispondenza della navata si trova la traccia di un portale, oggi murato, simile a quello di facciata che, secondo la tradizione locale, era riservato alla corte sforzesca. Fino alla fine dell'Ottocento lungo il lato sinistro si trovava un terrapieno che collegava il livello della piazza antistante con l'ingresso laterale.
Nel 1840 un intervento di costruzione delle false volte, in stile neogotico, ha determinato la modifica dell'aspetto interno. Le volte, realizzate staccate dall'originale tetto a capriate a vista, hanno di fatto nascosto gli affreschi del 1447-50 posti nella parte alta dell'arcone del transetto. Tali affreschi, situati oggi nell'intercapedine tra le volte e il tetto, raffigurano al centro il busto di san Domenico di Guzman, a sinistra un paesaggio con un castello e una chiesa e a destra vari militari con lance e bandiere tra cui un cartiglio con la scritta “britanii”; gli affreschi rappresenterebbero un ex voto fatto dai vigevanesi per la minaccia di scorreria di mercenari allo sbando dopo la dissoluzione del ducato visconteo il cui passaggio venne impedito dalla piena eccezionale del Ticino.

La Chiesa di San Francesco fu edificata fuori dalle mura cittadine nel 1379, un anno dopo la costruzione del convento dei Frati Minori. Era più piccola, orientata diversamente e occupava lo spazio dell'attuale transetto. Ampliata nel 1447, subì una radicale trasformazione con la totale ricostruzione e il cambio di asse tra il 1465 e il 1470. Nel 1475 viene terminato il campanile la cui costruzione era iniziata nel 1448. Nel 1836 furono rifatte le cappelle. Nel 1847, per ampliare la via S. Francesco, venne demolita la cappella dell'Immacolata Concezione, edificata nel 1494 su disegno di Donato Bramante. Tra il 1847 e il 1856 subì un "restauro" che trasformò l'interno in stile neogotico, con la realizzazione delle volte in sostituzione delle capriate a vista e il rialzo del tetto, conseguente al sopralzo di un metro del pavimento che fu portato a livello strada. Tra il 1891 e il 1903, ad opera dell'architetto Moretti, fu ripristinato il disegno gotico lombardo della facciata con il rialzo di alcuni metri, per allinearsi al tetto sopralzato con gli interventi ottocenteschi; inoltre vennero eliminati i piccoli ingressi ai lati del portale di facciata realizzati nel corso del Settecento, allungate le due finestre gotiche e completata la cornice del finestrone tondo rifatto più grande di quello quattrocentesco. A completamento della facciata furono rifatti i pinnacoli. Nel 1931 anche i lati vengono restaurati, riportando all'antica forma la facciata del transetto. Sulla via S. Francesco, dopo il portale del lato destro, si trova un ossario di fattura barocca chiamato "chiesetta dei morti".

La Chiesa di San Giorgio in Strata è situata in via Cairoli, oggi stretta tra le case adiacenti, di origine antica (citata in un documento del 1090), l’edificio fu ricostruito per volere della famiglia Colli nella metà del XV secolo; attualmente si presenta con facciata romanica a capanna di linee molto semplici. l’interno, a pianta rettangolare e navata unica, termina con l’abside semicircolare, coperto da una volta a catino.
Sulla parete destra è conservato un affresco quattrocentesco, raffigurante S. Giorgio che uccide il drago.
L’aspetto attuale è frutto di un delicato lavoro di restauro avvenuto nel corso del ‘900.

Piazza Ducale è una vasta piazza in stile rinascimentale. La sua costruzione iniziò nel 1492 per volere di Ludovico il Moro come anticamera del castello ormai trasformato in palazzo ducale, e fu ultimata nel 1494.

Lunga 134 metri e larga 48, è edificata su tre lati (il quarto è occupato dalla Chiesa Cattedrale di Sant'Ambrogio) con edifici omogenei con facciata e portici uniformi a contorno di un forum che ricalca il modello romano descritto da Vitruvio.

In origine la zona era caratterizzata da una larga strada contornata dagli edifici in gran parte porticati, tra cui quello del Comune, frutto dell’espansione trecentesca sviluppatasi a nord del promontorio fortificato dell’antico borgo scomparso con le trasformazioni viscontee e sforzesche che hanno portato alla realizzazione dell'attuale "castello". Al borgo e al primitivo castello annesso, situati in posizione sopraelevata, si accedeva per mezzo di una rampa o forse di una scalinata posta in corrispondenza dell'attuale torre che funge da ingresso al castello.

La nuova piazza venne realizzata sotto la direzione dell'ingegnere ducale Ambrogio da Corte con la demolizione delle case situate verso la scarpata su cui sorge il castello e il riuso degli edifici a nord e ad ovest, allineandoli con il rifacimento delle facciate. La realizzazione sforzesca aveva il lato sud interrotto, in corrispondenza con la torre, da un’ampia rampa di collegamento tra la piazza e il castello; il lato ovest si prolungava fino alla scarpata del castello (alcune arcate con le colonne originali si trovano inserite nel caffè Commercio) ed era diviso in due parti unite da un arco trionfale posto all’imbocco della via del Popolo, mentre sul lato nord, in corrispondenza dell'aggancio con quello ovest, proprio di fronte alla rampa, si apriva un arco trionfale a tre fornici corrispondente all'imbocco di via Giorgio Silva. Le facciate si presentavano totalmente decorate con affreschi.
La forma attuale è frutto dell’intervento del 1680, realizzato dal vescovo Juan Caramuel y Lobkowitz, in cui viene demolita la rampa e costruito uno scalone inserito nel completamento del tratto mancante del lato sud, parte del lato ovest (verso il castello) viene inglobato nel corpo sud. L’assetto della piazza viene definitivamente modificato dal Caramuel con la costruzione della nuova facciata della cattedrale: una facciata concava, addossata alla chiesa come una quinta teatrale, che abbraccia e accoglie il recinto della piazza ribaltando il rapporto sforzesco piazza-castello trasformandolo in piazza-chiesa.
In epoca sconosciuta, forse nella metà del XVIII secolo, si sostituiscono gli archi trionfali, completando il ritmo delle arcate, con nuove colonne di materiale e fattura diversa da quelle quattrocentesche. Nella prima metà del Settecento gli occupanti austriaci collocano una statua di San Giovanni Nepomuceno, che ancora oggi caratterizza il lato occidentale della piazza.
La pavimentazione con ciottoli e lastre di serizzo risale alla metà dell’Ottocento, quando viene sostituita anche la pavimentazione dei portici, originariamente in mattoni a spina di pesce, con quella attuale. Nel 1911, a opera dell'architetto Moretti, viene realizzato il disegno con ciottoli bianchi e inseriti i lampioni. Tra il 1905 e il 1910 viene realizzato un ampio restauro che riporta alla luce i lacerti degli affreschi sforzeschi, nascosti dalle pitture settecentesche, a opera del pittore vigevanese Casimiro Ottone, che integra i lacerti con una nuova decorazione pittorica in stile rinascimentale; durante i lavori si rifanno i tetti con la realizzazione degli eclettici camini e vengono installati i lampioni attuali. In occasione del 500° della sua costruzione, tra il 1992 e il 1996, viene eseguita la ripittura della decorazione di inizio secolo e il restauro di ciò che resta degli affreschi sforzeschi originari.
Attualmente la piazza è meta di incontro e ritrovo, certamente la preferita dei vigevanesi, e il principale punto di riferimento per i turisti. Accoglie negozi di vario tipo e anche la fermata del trenino turistico della città.

Palazzo Sanseverino, situato ad ovest del centro storico, in fondo al corso della Repubblica che si diparte dall'ingresso neo gotico del castello. Il complesso si presenta fortemente alterato nelle facciate esterne, tanto che non se ne riconoscono le origini rinascimentali e si fatica a coglierne l'aspetto monumentale conservato invece nel cortile interno caratterizzato sul lato nord da un ampio porticato ed un loggiato aereo sorretto da mensole in granito sugli altri lati. In origine gli accessi erano due, uno verso la campagna ad ovest e un altro verso la città ad est, mentre l'attuale ingresso era occupato da uno scalone; un ulteriore passaggio posto sul lato nord conduceva al giardino dove si trovava una scuderia. Costruito nel 1492 sotto la direzione di Sebastiano Altavilla di Alba come abitazione di Galeazzo Sanseverino comandante la guarnigione sforzesca e sposo di una figlia naturale di Ludovico il Moro, nel 1496 viene trasformato dal Moro in fortezza, con la costruzione di una cinta muraria con quattro torri tonde ed un fossato a circuito del palazzo e del suo giardino, che viene quindi chiamata "Rocca Nuova" in contrapposizione alla rocca edificata da Luchino Visconti, situata ad est dell'abitato che viene così denominata "Rocca Vecchia".
All'inizio del Cinquecento, sotto il marchesato di Giangiacomo Trivulzio, si rinforzano gli accessi con la costruzione dei rivellini. Nel 1535, poco prima della sua morte, il Duca Francesco II Sforza fa costruire il porticato con il piano sovrastante e decorare i prospetti sulla corte. Nel 1543, per volontà di Alfonso D'Avalos viene realizzato un terrapieno di difesa esterna che comporta la demolizione di 42 case, soprattutto verso il castello. Nel 1646, dopo la conquista francese dell'anno prima, la rocca viene presa dagli spagnoli che ne demoliscono le strutture difensive. Si salva dalla distruzione il palazzo e parte della muratura edificata da Ludovico il Moro sul lato ovest, di tale muratura ne rimane un ampio tratto con l'originale accesso verso la campagna. Nel 1655 Giovanna Eustachia della Santa Croce riceve in dono dal Re di Spagna il palazzo e le macerie delle fortificazione, che vengono vendute, quindi trasforma l'edificio in un monastero dedicato a S. Chiara con la costruzione di una chiesa addossata al lato sud e consacrata nel 1680, sul sito dell'attuale strada. Nel 1805 il monastero viene soppresso quindi il palazzo viene lottizzato e acquistato da privati che lo trasformano in abitazioni, demoliscono la chiesa e realizzano a loro spese l'attuale strada. Con la costruzione della strada odierna gli ingressi originali vengono chiusi e si realizza quello attuale con la ricostruzione della parte su cui addossava la chiesa e il rimaneggiamento della facciata della parte sud-ovest che viene occupata dall'albergo "della Corona". Verso la fine dell'Ottocento vengono costruiti i due edifici situati tra il palazzo e la superstite muratura della rocca, edifici che fino a pochi decenni fa, insieme a parte del palazzo, hanno ospitato l'albergo "dei Tre Re". Nel 1937 viene ristrutturata la parte sud-est del corpo su strada con il rifacimento della facciata nella forma attuale.
Parte delle mura superstiti della rocca voluta dal Moro vengono ulteriormente demolite con la costruzione di un edificio negli anni sessanta.

Palazzo Crespi è la sede della Civica Biblioteca.
Eretto nel 1893 da Giuseppe Crespi, fondatore dell'omonimo cotonificio, fu acquistato dai signori Gagliardone e poi dai Biffignandi; successivamente venne ceduto al PNF come Casa del Fascio. Nel dopoguerra passò al Comune che, dal 1966, vi ospita la Biblioteca, intitolata nel 1983 allo scrittore vigevanese Lucio Mastronardi. I Musei Civici, che comprendono la Pinacoteca Civica e il Museo della Calzatura, prima situati presso questo Palazzo, sono stati trasferiti dal 2009 presso il Castello Sforzesco.
Le facciate mostrano paraste e tamponamenti a bugnato liscio al primo piano, mentre i piani superiori restano decorati con le sole paraste; le finestre sono incorniciate con timpano a motivi geometrici e si alternano a balconate in pietra con pilastrini al primo piano e in ferro battuto decorato al secondo piano. All'interno lo scalone d'onore si articola in quattro rampe ad andamento ottagonale con gradini in marmo. Alcune delle sale conservano affreschi ai soffitti con temi decorativi e figurativi in stile liberty. Adiacente al palazzo, un giardino cintato conserva antichi alberi ad alto fusto.

Il Castello Sforzesco di Vigevano è un complesso di edifici, inseriti in un perimetro comune, che occupano un’area di più di due ettari sul terrazzo naturale della valle del Ticino, nel punto più alto della città, dove la conformazione orografica del luogo, di altura modesta ma egualmente dominante nella pianura lombarda, ne ha favorito la fondazione. Visibile esternamente solo in alcune parti, totalmente separato dalla città e occultato alla vista dalle case che vi si addossano, appare nel suo insieme grandioso e molto suggestivo solo salendo lo scalone, posto sotto il porticato sud della piazza, e passando oltre l’arco d'ingresso principale della torre visibile dalla piazza, oppure entrando dal portone d'ingresso carraio di corso della Repubblica.
Il complesso è costituito da:
la torre d'ingresso detta del Bramante,
Tre grandi scuderie, di cui quella vicina alla torre detta "di Ludovico",
Un atrio d'ingresso neogotico,
Un corpo con loggiato detto falconiera,
Un ponte con loggia aerea,
L'edificio principale detto maschio,
Due corpi ottocenteschi posti tra il maschio e la torre,
Il grande edificio della strada sopraelevata coperta,
La rocca vecchia posta ad est che racchiude una grandiosa cavallerizza;
edifici tutti legati tra di loro in modo tale da apparire come una struttura unica con molte articolazioni.
La storia del castello collima per alcuni secoli con quella del borgo di Vigevano, chiamato anticamente "Vicogebuin". Fino alla metà del Quattrocento infatti l’area del promontorio, racchiusa dagli edifici che compongono l’attuale castello, era il sito dove sorgevano le case dell’antico borgo con il primo palazzo comunale e le primitive chiese. Il borgo circondato in origine da un rudimentale impianto di difesa in terra e legno, sostituito poi da una muraglia, aveva sul lato est un castello o recetto di forma quadrata, costituito inizialmente da una struttura in legno, sostituita prima del X secolo da muri in mattoni e separato dall’abitato da un fossato. Tale struttura, corrispondente all’attuale maschio, all’inizio svolse le funzioni di ricovero di foraggi e animali e di estrema difesa in caso di pericolo, ma con il passare del tempo e con i continui aggiustamenti e trasformazioni divenne, tra la fine del XIII e l'inizio del XIV secolo, sede e dimora signorile dei Visconti, i quali cominciarono a prendere possesso anche delle case dell'antico borgo, iniziandone la demolizione. Svuotamento e demolizione proseguiti e conclusi poi dagli Sforza nella seconda metà del XV secolo, quando il maschio, ulteriormente ampliato e abbellito, diventa un palazzo ducale circondato da scuderie ed edifici di servizio.
Luchino Visconti, podestà di Vigevano nel 1319 e nel 1337, inserisce il villaggio nel suo piano di dominio territoriale, decidendo di farne una roccaforte difensiva inserita nello scacchiere territoriale dei castelli posti lungo l’Adda e il Ticino a difesa del ducato di Milano. In quest’ottica, nel 1341, realizza una rocca di difesa (in origine detta inferiore, prende l'attuale nome di rocca vecchia in contrapposizione alla rocca nuova edificata alla fine del XV sec.), posta ad una certa distanza dal castello, sul limite est del borgo che si stava ormai allargando fuori dal perimetro originale. Nel contempo inizia l’opera di trasformazione del vecchio castello in nuovo fortilizio sede e dimora ducale, edificio che nella nuova conformazione si presenta con pianta quadrangolare formata da muri merlati con tre corpi di fabbrica, torri agli angoli e una torre d'ingresso al centro della cortina anteriore. I lavori di ampliamento ed abbellimento del maschio proseguono poi per tutto il dominio visconteo. Nel 1347 i due fortilizi vengono uniti dalla cosiddetta "strada coperta", un grande edificio fortificato lungo 164 metri e largo 7,50 che, stagliandosi nel panorama cittadino, permetteva un rapido collegamento tra il castello e le campagne circostanti.
Nel 1447, alla fine del dominio visconteo, la stessa popolazione di Vigevano, conquista la libertà comunale e distrugge la rocca esterna. Libertà che finisce già nel 1449, quando Vigevano viene cinta d’assedio da Bartolomeo Colleoni e Francesco I Sforza, marito di Bianca Maria figlia di Filippo Maria Visconti, e nuovo signore di Milano. Dopo la conquista lo Sforza ripara i danni dell'assedio e raddoppia la parte centrale del maschio verso l'esterno inglobando i resti della torre di sud-est distrutta proprio durante l'assedio.
Galeazzo Maria Sforza nel 1466, appena succeduto al padre Francesco, ordina nuovi interventi che trasformano definitivamente il maschio in palazzo ducale e, prendendo atto della cessata funzione difensiva delle mura dell'antico borgo, concede la costruzione di case nel fossato esterno, di altezza non superiore al muro. Nel 1472 il nuovo Duca interviene su due antichi edifici, posti lungo la muratura sud dell'antico borgo e utilizzati a stalla, sopralzandoli e modificandone il piano terra con l'inserimento di un doppio colonnato con volte a crociera e nuove finestre. Nel 1475 realizza il ponte con loggiato, posto a sud del maschio, mentre poco prima della morte dà l'inizio alla costruzione dell'edificio della falconiera , completato poi da Ludovico il Moro, reggente il ducato a nome del nipote Gian Galeazzo Maria Sforza.
Con Ludovico il Moro, nato proprio a Vigevano, il progetto sforzesco si attua in interventi di proporzioni e qualità rilevanti, completando il processo di trasformazione del castello in residenza dinastica. Il cortile, occupato in origine dall'antico borgo, viene svuotato dalle residue costruzioni, si costruiscono la terza scuderia, detta per questo di Ludovico, e l’edificio delle cucine, realizzato con la demolizione dell’antica chiesa di S. Ambrogio e collegato al maschio da un edificio a ponte, chiudendo così il circuito di edifici a contorno dell’ampio cortile. Il maschio viene ampliato sul lato est con la realizzazione di un giardino pensile racchiuso da due edifici porticati progettati dal Bramante e aperto verso est. Del complesso bramantesco rimane oggi, dopo il crollo del loggiato addossato alla strada coperta e lo svuotamento del giardino con l’abbassamento al livello attuale, solo l'edificio sud chiamato “loggia delle dame”. Ad opera del Bramante si deve anche parte della decorazione pittorica che abbelliva il complesso di edifici prospiciente il cortile, di cui oggi rimangono tracce sulle pareti della scuderia di Ludovico, e il sopralzo dell'antica torre comunale, che verso il 1476 era già stata rialzata con nuovi merli e beccatelli per ospitare le campane della demolita chiesa di S. Maria, realizzato in tre parti di cui la seconda con una cella campanaria e la terza con un corpo ottagonale coperto da una guglia. I fasti del dominio sforzesco terminano con Francesco II Sforza il quale completa le decorazioni pittoriche del palazzo ducale.
Dalla prima metà dell'Ottocento si compiono le modifiche più consistenti. Prima del 1824 avviene l’interramento del lato ovest del fossato e la demolizione della cortina muraria del maschio con il rivellino, mentre nel 1824 viene chiusa e soppressa la porta che apriva verso la chiesa di S. Pietro Martire. Nel 1855, a seguito di un crollo di parte del corpo centrale del maschio e dell’antico scalone posto a ridosso della manica sinistra (che non fu più ricostruito), viene riedificata, ad opera dell'ing. Inverardi, la parte crollata con la modifica della parte verso la corte che ha comportato il rifacimento della facciata in stile Tudor, lo spostamento dell'accesso ai piani cantinati da destra a sinistra e la realizzazione di un nuovo scalone posto all'interno; lo stesso ingegnere progetta in stile neo-gotico l'ingresso da corso della Repubblica con un atrio che ingloba una campata della scuderia est. Nella seconda metà del secolo si completa l'interramento del fossato e si attua lo sterramento del giardino pensile, oggi chiamato cortile della duchessa con la ricostruzione del corpo a ridosso della strada coperta, ricostruzione che ha determinato la scomparsa della cappella ducale di epoca sforzesca e il trasferimento di nove affreschi (di cui otto attribuiti a Bernardo Ferrari) nel Municipio.
Altri interventi vengono compiuti per adattare il complesso alle nuove funzioni militari dotandolo di nuove strutture. Nel 1836 nella parte sud della rocca vecchia viene realizzato un grande edificio ad uso maneggio coperto oggi chiamato “cavallerizza”, una seconda cavallerizza (demolita a seguito di un crollo verificatosi nel 1979) di dimensioni minori venne costruita nella parte nord della rocca alla fine dell’Ottocento. Nel corso della seconda metà del secolo i locali del “prestino” (antico forno comunale situato ad est della torre e acquistato dall'amministrazione militare nel 1837) e quelli delle cucine ducali vengono ristrutturati, sopralzati di un piano e adibiti a circolo ufficiali; vengono interrate le parti rimaste del fossato; totalmente trasformato in portico terrazzato il ponte verso le ex cucine, mentre quello verso la falconiera viene rimaneggiato con la realizzazione di tre arconi al posto della muratura; svuotato fino alla quota attuale il giardino pensile, già parzialmente sterrato all'inizio del secolo; ricostruito il corpo addossato alla strada coperta e rimaneggiati gli interni delle scuderie.
Nel 1980, dopo un decennio di abbandono a seguito del cessato uso da parte dei militari, iniziano i lavori di restauro e recupero del grande complesso di edifici chiamato castello.

L'origine della Torre del Bramante, situata nel punto più alto della città, presso il castello, risale al 1198 e fu terminata dal Bramante alla fine del XV secolo, mentre nel XVII secolo venne aggiunto il cupolino barocco "a cipolla" in sostituzione dell'originaria guglia conica. La Torre ha una forma originale che, nell'800, fu il modello per la torre del Filarete nel Castello Sforzesco di Milano; è costituita da sezioni che si restringono avvicinandosi alla cima. DaI terrazzi è possibile ammirare un'ottima visuale della Piazza Ducale, del Castello e di tutta la città.
La cella campanaria, inaccessibile al pubblico, ospita "il campanone", una grande campana seicentesca "fessa" per necessità. Infatti nell'Ottocento non esistevano i moderni sistemi elettronici per controllare le campane, e l'orologio della Torre, all'epoca meccanico, batteva ogni mezz'ora anche di notte. Pare che il suono del "campanone" fosse così forte, che gli abitanti delle case addossate al Castello e alla Piazza fossero praticamente impossibilitati a prendere sonno. Così presentarono in Comune una petizione in cui si chiedeva di "zittire" il bronzeo disturbatore! Alla fine si raggiunse un compromesso: dalla campana, con precisione quasi chirurgica, venne asportato uno spicchio in modo da renderla fessa ed attutire il suono. Ed è così che ancora oggi la si può ascoltare battere i rintocchi ogni quarto d'ora.
Alta ben 75 metri dal livello della piazza, la Torre del Bramante è l'attuale Torre Civica della città di Vigevano, di cui da sempre è il simbolo.

All'interno del Castello Sforzesco sono presenti il Museo internazionale della calzatura e la Pinacoteca Civica. Il Museo dell'Imprenditoria vigevanese è invece ubicato presso le sale dell'ex orfanatrofio Merula, in via Merula 40. L’intero nucleo dei Musei Civici è stato dedicato a Luigi Barni (1º ottobre 1877 – 28 maggio 1952), uomo di grande lungimiranza e passione che contribuì significativamente alla nascita e alla crescita delle collezioni d’Arte esposte.

La stagione della grande pittura italiana ed europea del XIX secolo costituisce il cuore pulsante della Pinacoteca Civica. Una stagione che a Vigevano si apre con la figura di Giovanni Battista Garberini, (1819-1896) maestro riconosciuto della pittura vigevanese moderna ed autore di una imponente galleria di ritratti di esponenti della borghesia cittadina. L’impetuoso sviluppo industriale di Vigevano seguito all’unità nazionale porta alla ribalta una nuova classe imprenditoriale che manifesta uno spiccato gusto per l’arte pittorica: appartengono a quell’epoca gli acquisiti della “Marina” di Pompeo Mariani e della monumentale composizione storica “La morte di Carlo Emanuele II” di Francesco Valaperta. Gli anni settanta dell’Ottocento segnano un rinnovamento formale per la pittura lombarda e quindi, di riflesso, per la pittura vigevanese. Gli esponenti di punta della nuova stagione sono Ambrogio Raffele (1845-1928) e Casimiro Ottone (1856-1942) che suscitarono l’interesse e la menzione di Federico Zeri in occasione di una mostra organizzata nel 1997. Se Raffele si dedica quasi esclusivamente al paesaggio privilegiando le vedute di località alpestri (specialmente della Valle d’Aosta), Ottone si rivolge alla figura come dimostra la folta sequenza di intensi volti femminili che richiamano stilemi tardo scapigliati. La generazione di pittori a cavallo dei due secoli è bene rappresentata da Luigi Bocca (1872-1930), Luigi Barni (1877-1952) e dai fratelli Cesare e Ferdinando Villa. Luigi Bocca è il personaggio di maggior spessore, come testimonia la sua produzione incentrata sul ritratto e sulla composizione con figure umane bene esemplificata nel delicato “Per tua dote”. La stagione del Novecento pittorico ha invece in Mario Ornati (1887-1955) e Carlo Zanoletti (1898-1981) i protagonisti principali. In particolare Zanoletti si distingue per la sua particolare lettura dei paesaggi del fiume Ticino e dei suoi frequentatori (barcaioli, ma anche gente comune). Tra i rappresentanti della scultura di Otto e Novecento a Vigevano, che trovano spazio nel percorso di visita, in un dialogo perfetto tra pittura e scultura, troviamo Pasquale Miglioretti, Alfredo Berengario Ubezio, Giovan Battista Ricci e Cesare Villa.

Il primato di Vigevano quale capitale della calzatura, è un primato che arrivava da lontano per poi emergere in modo significativo a livello industriale nel corso del ‘900, quando a Vigevano si era arrivati a produrre addirittura 20 milioni di paia di scarpe l’anno.
Nel 1866 due fratelli, Luigi e Pietro Bocca, diedero vita al primo calzaturificio modernamente inteso per divisione e specializzazione delle fasi lavorative. Nel 1929 Vigevano fu la prima città italiana ad avviare la produzione di calzature in gomma.
Questa tradizione si trova oggi documentata nel Museo Internazionale della Calzatura, la prima ed unica istituzione pubblica in Italia dedicata alla storia e all’evoluzione della scarpa intesa come indumento e come oggetto di design e moda.
Il Museo della Calzatura, inaugurato nel 1972 per volontà dello storico locale Luigi Barni e dell’imprenditore Pietro Bertolini, cui é dedicato, dopo un’iniziale collocazione presso Palazzo Crespi, a partire dal 2003 si trova all’interno del Castello, al piano primo della seconda scuderia.

Il museo dell’Imprenditoria Vigevanese presenta all’interno delle sue sale, un percorso storico attraverso i due secoli ('800/'900) in cui si è sviluppato il processo di industrializzazione della città e del territorio, con uno sguardo sul futuro, ipotecato dall’utilizzo delle nuove tecnologie.

Da segnalare anche il teatro Cagnoni inaugurato nel 1873, sede ogni anno di una stagione teatrale ricca di eventi e manifestazione.

Tra le svariate proposte di piatti e delizie gastronomiche che impreziosiscono Vigevano e la Lomellina, spiccano insaccati, formaggi e i piatti a base di riso, questi ultimi presenti in tutti i tipi di portate, dagli antipasti ai dolci.

Si dice che il Dolceriso sia stato sfornato per la prima volta nelle cucine del Castello Sforzesco di Vigevano. Era la primavera del 1491, Beatrice d'Este, la raffinata, giovane moglie di Ludovico Maria Sforza, detto il Moro, voleva un dolce speciale da offrire al "signor suo consorte" e agli ospiti che qui trascorrevano "tutto il die et persino a mezza nocte passata in zoghi e feste". E il dolce è vera espressione rinascimentale. Legato al territorio, perché ripieno di quel riso la cui coltivazione si andava affermando nelle terre del Vigevanasco, e ricercato, perché profumato dall'acqua di rose e ricco di cedri canditi dei confettieri genovesi. Lo stampo inciso con l'impresa araldica dello "scovino", caro al Moro, ne impreziosisce la forma.

Le maggiori realtà calcistiche cittadine sono il Vigevano Calcio e la Pro Vigevano Suardese (militante nel girone A dell'Eccellenza Lombardia e con un fiorente settore giovanile, con il quale partecipa ai campionati regionali con Juniores, Allievi e Giovanissimi, è inoltre un Centro Pilota FIGC e una "Scuola di Calcio Specializzata").

Le altre realtà calcistiche ducali sono:

A.C.D. Gambolò Gifra: frutto dell'unione della vigevanese GiFra Vigor e dell'A.C. Gambolo', milita nel campionato di Seconda Categoria;
G.S. Superga, militante in terza categoria;
Accademia Lomellina, società satellite della Pro Vigevano Suardese di esclusivo settore giovanile.
Vigevano è città dalla grande tradizione cestistica, arrivando con la società Pallacanestro Vigevano, sponsorizzata Mecap, alla Serie A1 nella seconda metà degli anni settanta, annoverando negli anni campioni di grande prestigio come Albanese, Malagoli, Solman, Mayes, Iellini, Polesello, Franzin, Crippa, Delle Vedove, Thomas, Urga, Zanatta, Boni, Dellavalle, Premier e molti altri. Negli anni più recenti la principale realtà cestistica cittadina è stata la Nuova Pallacanestro Vigevano, che nella stagione 2008/2009 è tornata nel basket professionistico (Lega2) dopo 25 anni, passati per la maggior parte in A dilettanti (ex-B1). Nel 2010, a causa di problemi fiscali, la squadra è stata retrocessa dalla Lega Nazionale in Prima Divisione e successivamente non si è iscritta al campionato. Da segnalare tuttavia, nell'estate del 2013, la nascita del progetto Nuova Pallacanestro Vigevano 1955, la cui prima squadra militerà nel campionato di serie C Gold. Esistono molte altre realtà minori, quali la C.A.T. (Congregatio Altae Turris), che dopo aver disputato molti campionati in serie C e D, è ora di puro settore giovanile, fornendo giovani atleti alle maggiori realtà della zona, quindi la Pro Vigevano Parona, la Junior Basket, e il Nuovo Basket Vigevano militanti nel campionato di Promozione, e altre squadre militanti in Prima Divisione e campionati U.I.S.P.

Il team sportivo lomellino che sia arrivato più in alto in qualsiasi disciplina sportiva è la Paolo Bonomi, squadra di hockey vigevanese ma giocante a Castel d'Agogna, la quale ha vinto due scudetti, nel 1972/1973 sponsorizzata dalla ditta vigevanese Co.Ge.Ca, e nella stagione1979/1980. È ritornata nel 2009 in serie A1, lega alla quale è ancora scritta alla stagione 2015/16

La tradizionale gara podistica internazionale denominata "Scarpa d'Oro" si svolge all'inizio della stagione primaverile.
È una corsa di mezzofondo, su strada, nata nel 1980 da un'idea di Lord Sebastian Coe, ex atleta, Pari d'Inghilterra e presidente della candidatura olimpica di Londra per i Giochi organizzati nel 2012.
Il percorso, di circa 8 km, si snoda tra le vie storiche della città con arrivo nella Piazza Ducale.
Dal 2006 la corsa ha ottenuto la denominazione di Half Marathon: in programma tradizionalmente l'ultima domenica di marzo e affiancata alla Family Run, corsa a passo libero per le famiglie, ha negli anni visto un incremento dei partecipanti.

Hip-Hop Zema Contest si svolge tutti gli anni al Teatro Civico Cagnoni di Vigevano

È un concorso di danza Hip-Hop riservato a gruppi di ballerini nata nel 2009 fondata e gestita da un gruppo di amici di Daniele Conversa, ballerino di Vigevano scomparso in un tragico incidente stradale. Il concorso viene gestito dall'Associazione culturale sportiva dilettantistica Art On Stage fondata dagli amici di Daniele al fine di poter ripetere l'evento nell'anno e di conservarne il ricordo. Hip-Hop zema contest riceve ogni anno numerosi gruppi di ballerini provenienti da tutta Italia che si sfidano sul lussuoso palco del Teatro Cagnoni.


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sabato 14 novembre 2015

SCALDASOLE



Scaldasole è un comune situato nella Lomellina meridionale, nella pianura tra il Terdoppio e l'Erbognone (affluente dell'Agogna).

Il paese è noto per il suo imponente castello medioevale, una delle più importanti architetture fortificate della Lombardia.

Il toponimo Scaldasole, che si trova anche in altri luoghi in Lombardia, deriva probabilmente dalla voce longobarda sculdascio indicante un giudice locale: se è corretta questa ipotesi, Scaldasole doveva essere già un centro di qualche importanza in epoca longobarda (secoli VI - VIII). La prima citazione risale al X secolo; appartenne alla Contea di Lomello, dipendente dai Conti Palatini. Nel 1250 è incluso nell'elenco delle terre del dominio pavese, nell'ambito della Lomellina. Nel XIV secolo il paese era sotto la signoria dei Campeggi di Pavia, che nel 1334 lo subinfeudarono ai Folperti, anch'essi di Pavia. Il feudo rimarrà in seguito ai Folperti, salvo alcuni anni (1436-1451) in cui ne sono investiti gli Avalos. Nel 1456 però Stefano Folperti lo vendette a Francesco III Pico della Mirandola, che risiedette nel castello e vi morì nel 1461.

Gli sopravvisse la figlia Taddea, Signora di Scaldasole, sposa di Giacomo I Malaspina di Fosdinovo, marchese sovrano di Fosdinovo e Signore di Massa. Ciò diede l'occasione per il potente Malaspina di acquistare anche il vicino vasto feudo di Sannazzaro de' Burgondi, di cui avrà in seguito la signoria una linea dei Malaspina che ne prenderà il nome. Invece Scaldasole, primo feudo malaspiniano in Lomellina, sarà ceduto nel 1577 da Giulio Cesare Malaspina, discendente di Giacomo I, al conte Rinaldo Tettoni, che lo rivendette nel 1582 al cardinal Tolomeo Gallio, nella cui famiglia (Gallio duchi di Alvito, con titolo di Marchesi dal 1613) rimase fino all'abolizione dei feudi (1797).

Scaldasole, con tutta la Lomellina, nel 1713 fu incluso nei domini di casa Savoia, e nel 1859 entrò a far parte della provincia di Pavia.

Il castello di Scaldasole comprende oltre al castello vero e proprio anche un ricetto secondo uno stile architettonico raro in Lombardia ma molto comune in Piemonte.

Ha origini antichissime si stima sia stato costruito verso la fine del X secolo. Fu presto utilizzato come dimora signorile e vennero presto integrati nel  complesso un portico ed una loggia. Il complesso comprende sette torri medioevali, diverse volte e camini rinascimentali, alcune sale ottocentesche, la cappella e il giardino dove si conservano ancora due enormi magnolie.

Degne di nota sono la quattrocentesca Camera Longa adibita fino all'inizio del XIX secolo all'amministrazione del feudatario e alle riunioni del Consiglio della Comunità locale, la sala da ballo in stile Luigi Filippo affrescata nel 1846 dal Maggi, allievo dell'Appiani. Inoltre all'interno del ricetto si possono inoltre ammirare delle carrozze del XIX secolo, splendidamente conservate, un'armatura medievale ed una raccolta di armi d'epoca.

Una sala del castello è riservata alla raccolta archeologica Antonio Strada (1904-1968), ispettore onorario alle antichità e ai beni librari per la Lomellina, comprendente reperti di varia tipologia ed epoca, dall'età neolitica al periodo longobardo.

Il castello fu costruito alla fine del X secolo. Nel 1404 Ardengo Folperti, alto funzionario visconteo, appartenente ad una nobile famiglia pavese, fece realizzare il ricetto dagli architetti Milanino de Saltariis, Bernardo e Martino de Soncino, per utilizzarlo come rifugio popolare, mentre il castello fungeva da dimora signorile. Nella seconda metà del secolo i marchesi Malaspina divennero nuovi feudatari di Scaldasole e lo arricchirono di un portico ed una loggia.

Nella sua lunga storia il castello di Scaldasole ha prestato la sua ospitalità a importanti personalità come nel 1491 Isabella d'Aragona, figlia di Alfonso duca di Calabria e promessa sposa di Gian Galeazzo Sforza, nel 1497 l'imperatore Massimiliano I d'Asburgo e nel 1533 Carlo V d'Asburgo; nel XIX secolo anche il ministro Camillo Benso conte di Cavour.

La proprietà del castello passò dai marchesi Sannazzaro ai nobili Campeggi e, nel XIV secolo, ai Folperti. Nel 1436 fu da Filippo Maria Visconti  ceduto a messer Jñigo d'Avalos conte di Ribaldeo e nel 1444 a Giovanni Pietro da Sesto. Nel 1451 ritornò ai Folperti per poi pervenire poco dopo a Francesco Pico della Mirandola conte di Concordia e nel 1461, per atto di successione, a suo genero Giacomo Malaspina marchese di Fosdinovo. Nel 1577 divenne proprietà del conte Rinaldo Tettoni, il quale la vendette al cardinale Tolomeo Gallio di Como nel 1582. Gli eredi, i Gallio Trivulzio duchi d'Alvito, alienarono le proprietà locali al loro livellario Carlo Brielli nel 1799 che, tre anni dopo, le diede in investitura perpetua al nobile Giovanni Antonio Strada.


Nei registri delle rationes decimarum del 1322-1323 redatti per la diocesi pavese è annoverata la chiesa di San Giuliano di Scaldasole (Chiappa Mauri 1972), che venne istituita nel XVI secolo come parrocchia; sia il Pianzola che il Bergamo sostengono fosse un'antica cappellania, di patronato nobiliare, sotto il titolo di San Giuliano martire con rettore dipendente da Dorno (Bergamo 1995).

Secondo quanto riportato dal Pianzola, nel XVI secolo apparteneva al vicariato di Galliavola; e nel XVIII secolo a quello di Dorno (Pianzola 1917).

Con la bolla 17 agosto 1817 di Pio VII "Beati Petri apostoli principis" (bolla 17 agosto 1817) e con il breve 26 settembre 1817 "Cum per nostras litteras" (breve 26 settembre 1817), sempre di Pio VII, venne aggregata alla diocesi di Vigevano (Diocesi di Vigevano 1987); rimase inserita nel vicariato di Dorno (circolare Toppia 1819), mentre nel sinodo del vescovo di Vigevano monsignor Giovanni Toppia del 1823 è attestata appartenere al vicariato di Sannazzaro (Sinodo Toppia 1823).
Dagli atti della visita pastorale del 1845 del vescovo di Vigevano monsignor Vincenzo Forzani, si desume che la popolazione della parrocchia di San Giuliano martire, di patronato del principe di Colobrano duca d'Alvito di Napoli e dei marchesi Malaspina, era composta da 212 famiglie per un totale di 1.101 persone. I redditi della parrocchia assommavano a 90 lire piemontesi, date dalla comunità a titolo di rimborso spese; il reddito del beneficio parrocchiale era composto da 2.850 lire piemontesi. Nel territorio parrocchiale esisteva la chiesa dei Santi Rocco e Bernardino, la cappella di Santa Lucia presso il cimitero, e quella privata della famiglia Strada presso il castello. Nella chiesa dei Santi Rocco e Bernardino aveva sede l'omonima confraternita (Visita Forzani 1845).

Nel 1924, la parrocchia di Scaldasole fu elevata a prepositura con decreto del vescovo di Vigevano monsignor Angelo Scapardini (Rivista diocesana vigevanese 1924).

Nel 1971, la parrocchia di Scaldasole venne assegnata alla zona pastorale est, con decreto 6 gennaio 1971 del vescovo di Vigevano monsignor Luigi Barbero (decreto 6 gennaio 1971) (Rivista diocesana vigevanese 1971); dal 1972 vicariato di Sannazzaro, con decreto 1 gennaio 1972 del vescovo di Vigevano monsignor Mario Rossi (decreto 1 gennaio 1972) (Rivista diocesana vigevanese 1972).


Il Bosco Scaldasole occupa un dosso sabbioso ed è una delle pochissime zone forestali residue della Lomellina. Occupa una superficie di 73 ettari circa.
Questa riserva naturale deve la sua importanza alla compresenza di due fattori; costituisce, infatti, una delle pochissime zone forestali residue della Lomellina, e inoltre il bosco occupa un dosso sabbioso.
Nella fascia di rispetto si trovano prevalentemente seminativi, come, il mais, il frumento e l'erba medica, mentre il bosco è occupato in parte da giovani robinie affiancate da specie arbustive, quali il rovo, il sambuco, il nocciolo e il biancospino.
Interessante è la presenza della farnia con esemplari di 20 metri di altezza, la cui esistenza è però minacciata dall'attacco di parassiti che sono un segnale del grave stato di compromissione del bosco.
In generale la limitatezza che qui si riscontra nelle specie vegetative, riflette la povertà floristica tipica dei boschi xerofili su dosso e influenza negativamente anche la presenza faunistica, soprattutto dei volatili.
Nonostante tutto nel Boschetto trovano fissa dimora i colombacci, la tortora, l'usignolo di fiume, la capinera, le cince, oltre alle specie più comuni come i fagiani, gli storni e le cornacchie grigie.
Unico rapace è l'allocco, mentre tra i picchi si trova soltanto il picchio rosso maggiore. Infine sono presenti numerosi conigli selvatici, specie tipica di questi ambienti sabbiosi dove possono costruire le loro tane sotterranee.




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giovedì 17 settembre 2015

CICOGNOLA

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Cigognola è un comune italiano situato nell'Oltrepò Pavese, su un colle dominante lo sbocco in pianura della valle Scuropasso, percorsa dell'omonimo torrente, di fronte a Broni. La cima del colle è ornata da uno scenografico castello.

Cigognola è citato nel diploma federiciano del 1164, con cui il territorio dell'Oltrepò settentrionale e centrale venne posto sotto la giurisdizione di Pavia. Da questo si deduce che doveva essere una località fortificata sotto un proprio signore locale (dominus loci). Fu successivamente signoria della potente casata pavese Sannazzaro, principale esponente di parte guelfa in Oltrepò, qui rappresentata da uno dei principali rami della famiglia (i de Cigognola). Nel 1406 furono estromessi, per gli intrighi dei Beccaria di Pavia, che si impadronirono del feudo. Nel 1415 però i Beccaria, coinvolti in una congiura contro Filippo Maria Visconti, conte di Pavia e duca di Milano, ebbero confiscato il feudo, che fu concesso allo scopritore della congiura, Giorgio Aicardi, e ai suoi famigliari, che per il privilegio concesso dai Visconti di assumere il loro cognome, diedero origine alla casata dei Visconti Aicardi, detti anche Visconti Scaramuzza da un soprannome. In realtà agli Aicardi toccava metà circa del feudo di Broni, comprese le terre usurpate ai Sannazzaro, come Cigognola; tuttavia di fatto ai discendenti rimasero, oltre al titolo nominale di conti di Broni, solo Cigognola con le sue lontane dipendenze di Canevino e Albaredo Arnaboldi (su cui ancora avanzavano pretese i Sannazzaro, quietati poi con un indennizzo in denaro).

I Visconti Aicardi Scaramuzza tennero il feudo di Cigognola, fino all'estinzione nel XVIII secolo, dopodiché passò a Barbara d'Adda e al figlio di lei, Alberico XII Barbiano di Belgioioso, ultimo feudatario di Cigognola. Il feudalesimo infatti fu abolito nel 1797. I feudatari avevano estesissimi beni a Cigognola, comprendenti anche il castello: in epoca napoleonica furono acquistati dai Gazzaniga e passarono per eredità agli Arnaboldi-Gazzaniga e agli attuali proprietari, Brichetto-Arnaboldi.

Il 23 marzo 1919 Benito Mussolini fondò in Piazza San Sepolcro a Milano il "fascio di combattimento". Fu così che quando sorse il fascismo, queste leghe e cooperative appena nate e conquistate attraverso lotte e sacrifici, diventarono subito dei focolai di resistenza ed il fascismo trovò grosse difficoltà ad imporsi in Oltrepò. Alla fondazione ufficiale del fascismo in Italia partecipava il professor Giovanni Masnata di Stradella che l'11 aprile 1919 fondò il "fascio stradellino", il primo della provincia di Pavia. Dopo vari tentativi falliti, la direzione provinciale del Partito Fascista riuscì, all'inizio del 1921, ad instaurare la dittatura anche nell'Oltrepò Pavese. Alla vigilia della "Marcia su Roma", l'amministrazione socialista di Cigognola (come avvenne anche per gli altri Comuni dell'Oltrepò) si dimise mentre la minoranza popolare dovette accettare, suo malgrado, i nuovi padroni. Lo squadrismo presente in Oltrepò costituì la struttura militare a sostegno del nascente regime, con tre legioni: l'ottava con sede a Stradella, la nona, denominata "Montebello", con sede a Voghera e la decima ("Monte Penice"), con sede a Varzi. Inizia così la dittatura fascista per Cigognola e tutto l'Oltrepò. Le squadre fasciste avevano armi, mezzi di trasporto, il tacito consenso di Carabinieri e Polizia per cui fu possibile per loro avere il sopravvento anche sui lavoratori più sovversivi come lo erano i contadini dell'Oltrepò Pavese e moltissimi antifascisti finirono in carcere o furono costretti ad espatriare. Il regime fascista raggiunse l'apice dei consensi negli anni Trenta quando Mussolini conquistò l'Etiopia (1935-1936); ben presto però l'Italia, per volere del Duce, entrò nella Seconda Guerra Mondiale al fianco dei tedeschi. L'esercito italiano fu sconfitto in Libia, in Grecia, in Etiopia ed in Russia. Fu subito chiaro come questa guerra, iniziata con l'appoggio dei tedeschi di Hitler, stesse diventando una guerra al loro servizio. A cavallo tra il 1942 ed il 1943 anche le truppe tedesche furono sonoramente sconfitte in Russia ed in Africa; crollò così il mito dell'invincibilità delle armate naziste. La situazione in Italia era drammatica: particolarmente difficile era la situazione nelle grandi città come Milano, Torino, Genova, Pavia e Voghera: ogni notte centinaia di vittime e migliaia di sfollati a causa dei continui bombardamenti aerei. Gli sfollati si rifugiarono così ancora una volta in Oltrepò, ritenuto zona più sicura, provocando disagi notevoli anche agli abitanti del posto. Problemi grossi dovuti alla scarsità di mano d'opera (essendo gli uomini impegnati nella guerra) portarono allo sfruttamento del lavoro femminile e minorile. Un elemento che assunse una grande importanza in questa situazione fu la stampa, arrivata dalle città anche in Oltrepò. Infatti, grazie ad essa, le idee avverse al regime cominciarono ad espandersi a macchia d'olio.
In un simile contesto di malcontento e disagio, la fine del fascismo era alle porte; la popolazione aveva maturato la capacità di mobilitarsi per distruggere l'ultima istituzione nazifascista, la Repubblica Sociale Italiana. Il contenzioso avviato agli inizi degli anni Venti e mai spento negli anni successivi stava per arrivare al suo epilogo. Sarà grazie alla RESISTENZA ed alla durissima e commevente lotta partigiana che il sogno della liberazione dai fascisti si realizzerà.

Le prime proteste del popolo si manifestano nella primavera del 1943 attraverso scioperi nelle fabbriche. Così fecero le maestranze della Cementifera di Broni, grazie soprattutto all'iniziativa delle donne che, nonostante divieti e minacce, avviarono la lotta e la inoltrarono per alcuni giorni. Fu questo uno dei primi segnali di protesta dell'Oltrepò Pavese. In seguito a tutte queste pressioni, unitamente allo sbarco anglo-americano del 10 luglio in Sicilia, il Duce viene arrestato. La notizia provoca in tutta Italia manifestazioni di gioia ed entusiasmo del popolo; anche in Oltrepò, vengono distrutti i simboli del regime fascista. Ma il 16 settembre 1943, il Duce, liberato dai Tedeschi, annuncia la formazione di un nuovo governo che prenderà il nome di Repubblica Sociale Italiana (con sede a Salò) e promette che spazzerà via "i traditori" del 25 luglio. Attraverso i famosi "bandi Graziani", i giovani vengono chiamati alle armi, con le buone o con le cattive maniere. Ma ormai l'animo partigiano e gli ideali antifascisti sono vivi in tutta la popolazione e la determinazione di schiacciare le forze nemiche è alta. Iniziano così, in tutta Italia, gli anni del terrore caratterizzati da scontri, guerriglie, torture, fucilazioni, evasioni.....

L'episodio che segna la storia di Cigognola si ricollega a quel lasso di tempo che precede la liberazione, fine delle illusioni nazi-fasciste. Nell'autunno del 1944, avendo i nazi-fascisti individuata la presenza di una radiotrasmittente nel castello di Cigognola, procedettero all'occupazione del luogo con forze della Sicherheits Abteilung. Questa unità faceva parte della 162° Divisione Germanica ed "era un corpo di polizia politica che aveva il compito di torturare e di uccidere più che di fare la guerra. Era sorto a Voghera per opera di Alfieri, un ex colonnello di aviazione divenuto tristemente famoso per le sue atrocità, cui più avanti sarebbe succeduto il colonnello Fiorentini. Vi si arruolarono uomini attempati e ragazzi. Molti purtroppo, assetati di sangue e di strage. A noi giungeva l'eco delle loro scelleratezze, catture, saccheggi, incendi, distruzioni, violenze, soprusi di ogni genere" scrisse Don Rino Cristiani. Ad occupare Cigognola fu il tenente Livio Campagnolo con le sue squadre, coadiuvato dal sergente Serra. Questi stazionarono nel castello per quasi sei mesi durante i quali si resero autori di indescrivibili atrocità. Il 20 marzo 1945 la liberazione era alle porte e la Sicherheits lasciava Cigognola nelle mani dei militi della Brigata Nera, in buona parte originari del luogo e assai meno feroci. Annotava mons. De Tommasi:" Da Cigognola scendono carri di ogni ben di dio della Sicherheits, hanno svuotato il castello che ora viene occupato dai militi della Brigata Nera". La formazione nazi-fascista vi ritornò però il 22 aprile per l'estrema resistenza prevista contro la calata dei partigiani. Dall'opera "Le brigate Garibaldi nella resistenza", al documento n°752 si legge: "a Cigognola la lotta è stata dura e lunga; gli uomini della 6° brigata che avevano circoscritto fin dall'alba il fortilizio nemico riuscirono ad occuparlo dopo un combattimento durato ben dieci ore".

La costruzione del castello di Cigognola viene fatta risalire al secolo XIII, ad opera dei Sannazzaro, in una posizione strategicamente importante, a guardia della Valle Scuropasso. Oltre alla sua posizione strategica per l'avvistamento, il castello possedeva anche due cerchia di mura atte, l'una, meno fortificata,ancora oggi ben visibile sul versante della Chiesa parrocchiale, a dar rifugio al popolo in caso di attacco. L'altra, più robusta, corrispondente al manufatto volto a sud, nel quale fu ricavato il portale d'ingresso al cortile del castello a difendere il castello stesso . La costruzione era anche dotata di un ponte levatoio che serviva ad attraversare uno scavo, detto "falsa braza", posto fra le due cerchia murarie e completamente diverso dai tradizionali fossati dei castelli di pianura. La parte più antica della costruzione si presenta verso nord- est, ed è contrassegnata da mattoni di cotto a vista e pietre di notevole dimensione. La rocca si accresce materialmente, adeguandosi alle esigenze difensive, ma la sua posizione la pone al centro delle continue lotte locali che devono lasciare vistosi segni se tra il 1444 e il 1447 la famiglia Astori, investita dallo Scaramuzza Visconti della terra di Cigognola, fa "riparare il castello che andava in rovina". La parte di edificio volgente a sud è di epoca successiva. Essa dovrebbe risalire al 1663, come testimonia una lapide in pietra bianca infissa nella muratura; la sua formazione fu certamente dovuta alle mutate esigenze d'uso del castello che, da prettamente difensivo si fece, col trascorrere dei secoli, residenziale. Nel cortile del castello è presente un finto pozzo con una sottostante cisterna, usata un tempo per la raccolta dell'acqua piovana, nella quale, durante il periodo nazifascista, venivano gettati, dopo averli torturati, i partigiani. Il vero pozzo si trova a poca distanza e forniva acqua potabile per gli abitanti del castello. Il più consistente rimaneggiamento, effetto dell'epoca romantica ottocentesca, è dovuto alla famiglia Arnaboldi. E' grazie agli Arnaboldi si intraprendono una serie di lavori per "ridurre all'antica" il fortilizio. Con queste opere di risanamento il castello fu definitivamente trasformato in una dimora di villeggiatura. L'intervento, svoltosi in tempi differenti, riguarda inizialmente il ripristino dell'immagine medievale della rocca: le mura vengono ornate alla ghibellina e si procede alla costruzione dell'imponente torre quadrangolare conclusa alla sommità da beccatelli coronati da merli ghibellini. Sotto a tanto coronamento vengono aperte, su ogni lato, due finestre ogivali. La torre viene eretta seguendo le forme di quella superstite della rocca di Stradella. Alla fine dell'800 il conte Bernardo Arnaboldi prosegue l'intervento. L'attenzione si sposta sul cortile e su alcune sale interne che vengono ornate con decori di gusto medievaleggiante. Labili tracce di queste decorazioni sono ancora visibili dopo l'incendio del 1982 che distrusse completamente l'interno del castello.

Nel 1623 papa Urbano VII, su espressa richiesta dei Visconti Scaramuzza, erse l'oratorio di S. Bernardo Abate, fino ad allora di privato possesso della famiglia, in parrocchia. Posto a breve distanza dal muro più fortificato del castello, questo oratorio si presume che esistesse già nel secolo XIV durante il dominio dei nobili Sannazzaro. Nel 1718 il conte Giuseppe Visconti Scaramuzza provvederà al restauro ed ampliamento della chiesa parrocchiale; in quella occasione vennero innalzati gli altari attuali, dotati di marmo, e probabilmente anche il campanile. Al termine della bufera napoleonica, Cigognola entrerà a far parte della ricostituita Diocesi di Tortona, staccandosi da quella di Piacenza. La chiesa conserva inoltre un dipinto raffigurante S. Mauro Abate, risalente al secolo scorso opera del pittore Rodolfo Arata; un'altra valida opera si trova nella pala ad olio dell'altare della B.V. della Cintura, raffigurante la Vergine con angeli e santi, opera del secolo XVIII realizzata dal pittore genovese Giovanni Evangelista Draghi, su commissione della contessa Barbara d'Adda.

L'oratorio di Vicomune, oggi Parrocchia, dipese sempre dalla Parrocchia di Cigognola.
L'oratorio, dedicato a S. Rocco, era già esistente nel 1518 e nel 1625, per comodità degli infermi, si celebrava la messa sia nei giorni festivi che nei feriali. Dal questionario pastorale del 1878 si apprende che detto oratorio aveva un solo altare e, in quel periodo non vi si celebravano funzioni ad eccezione di una messa festiva. La crescita della popolazione ed il disagio causato ai fedeli dal doversi recare sino a Cigognola per le Sacre funzioni, porteranno alla costituzione della nuova parrocchia di Vicomune che sarà eretta il 10 ottobre 1943 ed affidata a don Ernesto Guarnoni.

Il Parco delle Rimembranze è un simbolo emblematico di Cigognola, punto panoramico di straordinaria bellezza raggiungibile attraverso l'omonimo Viale.

Qui ippocastani secolari e cedri del Libano guidano i visitatori lungo un percorso di incredibile piacevolezza: raggiunto il Parco lo sguardo potrà spaziare sulle valli sottostanti fino a perdersi nell'orizzonte e scorgere, nelle limpide giornate primaverili la catena montuosa delle Alpi e le vetta del Monte Rosa.

All'interno del Parco, inoltre, è possibile ammirare il Monumento ai Caduti delle due Guerre.

Di significativa importanza è lo storico Pozzo di Talanca. Le opere di costruzione del Pozzo Comunale di Talanca con annesso abbeveratoio risalgono, come riportato da alcuni documenti dell'epoca, all'anno 1859.

La fonte di Talanca ha avuto primaria importanza per la vita cittadina di Cigognola in epoche passate, quale sorgente naturale di inestimabile valore e risorsa dalle proprietà benefiche e addirittura miracolose.

Oggi il Pozzo di Talanca rappresenta uno dei punti più caratteristici del borgo grazie alla vista che si estende sulla Vallescuropasso. Il Pozzo viene utilizzato, oggigiorno, quasi esclusivamente per scopi agricoli.

Il Comune è costituito da tre frazioni: Cigognola capoluogo, Vallescuropasso e Vicomune. Queste due ultime frazioni sono entrambe poste in pianura: l’una costeggia le rive del torrente Scuropasso e si trova ad est del centro principale; l’altra, situata invece a nord-ovest, è denominata Vicomune e la sua origine è probabilmente romana: “Vicum Viae” perché era precisamente un “vicum” che sorgeva a lato della via costruita da Paolo Emilio, detta tuttora Via Emilia.


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