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mercoledì 20 gennaio 2016

SAN SEBASTIANO



San Sebastian ga la viola in man (detto veneto per significare che, usualmente, il giorno di San Sebastiano si respira un clima primaverile)

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Nel 260 l’imperatore Galliano aveva abrogato gli editti persecutori contro i cristiani, ne seguì un lungo periodo di pace, in cui i cristiani pur non essendo riconosciuti ufficialmente, erano però stimati, occupando alcuni di loro, importanti posizioni nell’amministrazione dell’impero.
E in questo clima favorevole, la Chiesa si sviluppò enormemente anche nell’organizzazione; Diocleziano che fu imperatore dal 284 al 305, desiderava portare avanti questa situazione pacifica, ma poi 18 anni dopo, su istigazione del suo cesare Galerio, scatenò una delle persecuzioni più crudeli in tutto l’impero.
Sebastiano, che secondo s. Ambrogio era nato e cresciuto a Milano, da padre di Narbona (Francia meridionale) e da madre milanese, era stato educato nella fede cristiana, si trasferì a Roma nel 270 e intraprese la carriera militare intorno al 283, fino a diventare tribuno della prima coorte della guardia imperiale a Roma, stimato per la sua lealtà e intelligenza dagli imperatori Massimiano e Diocleziano, che non sospettavano fosse cristiano.
Grazie alla sua funzione, poteva aiutare con discrezione i cristiani incarcerati, curare la sepoltura dei martiri e riuscire a convertire militari e nobili della corte, dove era stato introdotto da Castulo, domestico (cubicolario) della famiglia imperiale, che poi morì martire.
La leggendaria ‘Passio’, racconta che un giorno furono arrestati due giovani cristiani Marco e Marcelliano, figli di un certo Tranquillino; il padre ottenne un periodo di trenta giorni di riflessione prima del processo, affinché potessero salvarsi dalla certa condanna sacrificando agli dei.
Nel tetro carcere i due fratelli stavano per cedere alla paura, quando intervenne il tribuno Sebastiano riuscendo a convincerli a perseverare nella fede; mentre nel buio della cella egli parlava ai giovani, i presenti lo videro circondato di luce e tra loro c’era anche Zoe, moglie del capo della cancelleria imperiale, diventata muta da sei anni. La donna si inginocchiò davanti a Sebastiano, il quale dopo aver implorato la grazia divina fece un segno di croce sulle sue labbra, restituendole la voce.
A ciò seguì una collana di conversioni importanti, il prefetto di Roma Cromazio e suo figlio Tiburzio, Zoe col marito Nicostrato e il cognato Castorio; tutti in seguito subirono il martirio, come pure i due fratelli Marco e Marcelliano e il loro padre Tranquillino.
Sebastiano per la sua opera di assistenza ai cristiani, fu proclamato da papa s. Caio “difensore della Chiesa” e proprio quando, secondo la tradizione, aveva seppellito i santi martiri Claudio, Castorio, Sinforiano, Nicostrato, detti Quattro Coronati, sulla via Labicana, fu arrestato e portato da Massimiano e Diocleziano, il quale già infuriato per la voce che si diffondeva in giro, che nel palazzo imperiale si annidavano i cristiani persino tra i pretoriani, apostrofò il tribuno: “Io ti ho sempre tenuto fra i maggiorenti del mio palazzo e tu hai operato nell’ombra contro di me, ingiuriando gli dei”.
Sebastiano fu condannato ad essere trafitto dalle frecce; legato ad un palo in una zona del colle Palatino chiamato ‘campus’, fu colpito seminudo da tante frecce da sembrare un riccio; creduto morto dai soldati fu lasciato lì in pasto agli animali selvatici.
Ma la nobile Irene, vedova del già citato s. Castulo, andò a recuperarne il corpo per dargli sepoltura, secondo la pia usanza dei cristiani, i quali sfidavano il pericolo per fare ciò e spesso venivano sorpresi e arrestati anche loro.
Ma Irene si accorse che il tribuno non era morto e trasportatolo nella sua casa sul Palatino, prese a curarlo dalle numerose lesioni. Miracolosamente Sebastiano riuscì a guarire e poi nonostante il consiglio degli amici di fuggire da Roma, egli che cercava il martirio, decise di proclamare la sua fede davanti a Diocleziano e al suo associato Massimiano, mentre gli imperatori si recavano per le funzioni al tempio eretto da Elagabolo, in onore del Sole Invitto, poi dedicato ad Ercole.
Superata la sorpresa, dopo aver ascoltato i rimproveri di Sebastiano per la persecuzione contro i cristiani, innocenti delle accuse fatte loro, Diocleziano ordinò che questa volta fosse flagellato a morte; l’esecuzione avvenne nel 304 ca. nell’ippodromo del Palatino, il corpo fu gettato nella Cloaca Massima, affinché i cristiani non potessero recuperarlo.
L’abbandono dei corpi dei martiri senza sepoltura, era inteso dai pagani come un castigo supremo, credendo così di poter trionfare su Dio e privare loro della possibilità di una resurrezione.
La tradizione dice che il martire apparve in sogno alla matrona Lucina, indicandole il luogo dov’era approdato il cadavere e ordinandole di seppellirlo nel cimitero “ad Catacumbas” della Via Appia.
Le catacombe, oggi dette di San Sebastiano, erano dette allora ‘Memoria Apostolorum’, perché dopo la proibizione dell’imperatore Valeriano del 257 di radunarsi e celebrare nei cosiddetti “cimiteri cristiani”, i fedeli raccolsero le reliquie degli Apostoli Pietro e Paolo dalle tombe del Vaticano e dell’Ostiense, trasferendoli sulla via Appia, in un cimitero considerato pagano.
Costantino nel secolo successivo, fece riportare nei luoghi del martirio i loro corpi e dove si costruirono poi le celebri basiliche.
Sulla Via Appia si costruì un’altra basilica costantiniana la “Basilica Apostolorum”, in memoria dei due apostoli.
Fino a tutto il VI secolo, i pellegrini che vi si recavano attirati dalla ‘memoria’ di s. Pietro e s. Paolo, visitavano in quel cimitero anche la tomba del martire, la cui figura era per questo diventata molto popolare e quando nel 680 si attribuì alla sua intercessione, la fine di una grave pestilenza a Roma, il martire s. Sebastiano venne eletto taumaturgo contro le epidemie e la chiesa cominciò ad essere chiamata “Basilica Sancti Sebastiani”.
Il santo venerato il 20 gennaio, è considerato il terzo patrono di Roma, dopo i due apostoli Pietro e Paolo.
Le sue reliquie, sistemate in una cripta sotto la basilica, furono divise durante il pontificato di papa Eugenio II (824-827) il quale ne mandò una parte alla chiesa di S. Medardo di Soissons il 13 ottobre 826; mentre il suo successore Gregorio IV (827-844) fece traslare il resto del corpo nell’oratorio di San Gregorio sul colle Vaticano e inserendo il capo in un prezioso reliquiario, che papa Leone IV (847-855) trasferì poi nella Basilica dei Santi Quattro Coronati, dove tuttora è venerato.
Gli altri resti di s. Sebastiano rimasero nella Basilica Vaticana fino al 1218, quando papa Onorio III concesse ai monaci cistercensi, custodi della Basilica di S. Sebastiano, il ritorno delle reliquie risistemate nell’antica cripta; nel XVII secolo l’urna venne posta in una cappella della nuova chiesa, sotto la mensa dell’altare, dove si trovano tuttora.



Dato storico certo, che ne testimonia il culto sin dai primi secoli, è l'inserimento del nome di Sebastiano nella Depositio martyrum, il più antico calendario della Chiesa di Roma e risalente al 354.

San Sebastiano è invocato come patrono delle Confraternite di Misericordia italiane, poiché si rileva in lui l'aspetto del soccorritore che interviene in favore dei martirizzati, dei sofferenti (l'agiografia vuole che fosse proprio lui a soccorrere i suoi colleghi uccisi in odio alla fede cristiana e/o a provvedere almeno alla loro sepoltura). Questo tipo di confraternita infatti ha tuttora un preciso carisma assistenziale e gestisce direttamente, con l'opera dei propri volontari, una fitta e variegata rete di servizi socio-sanitari di precisa ispirazione e collocazione cristiana e cattolica. San Sebastiano è anche patrono degli Agenti di Polizia Locale e dei loro comandanti, ufficiali e sottufficiali (Breve apostolico del 3 maggio 1957 di sua santità Pio XII, di venerata memoria).

Come si può facilmente intuire dalla lettura del suo profilo biografico (sua esperienza lavorativa, sua testimonianza di fede, ecc.), si capisce perché un "miliziano" sia stato individuato, appunto, come patrono dei suoi "commilitoni" e non solo, data l'affinità simbolica tra categorie e/o strumenti (gli arcieri ad es. scagliano frecce, come quelle che colpirono il santo durante il suo martirio, ecc.). L'esempio più attinente è, simbolicamente, costituito dalle frecce quali prefigurazioni di punizioni (la malattia in senso lato): come il santo riuscì ad evitare che le frecce lo uccidessero, così egli viene invocato come intercessore che riesce a scansare possibili cause di sofferenza. Se si considera che la malattia può essere vista nell'accezione di "punizione", si comprende perché il santo abbia tra i suoi patronati pure quello di essere invocato contro le malattie (specie quelle contagiose, viste come frecciate), per esserne preservati. In questo senso, se San Rocco viene considerato il taumaturgo che cura le pestilenze, san Sebastiano viene considerato il santo taumaturgo che ne costituisce la "profilassi".

San Sebastiano ha un'importanza particolare per la comunità LGBT, all'interno della quale numerosi omosessuali lo rivendicano come santo patrono e come intercessore, senza che però questo culto sia riconosciuto dalla Chiesa Cattolica. Il suo ruolo di santo protettore contro le epidemie è stato talvolta esteso alla più grave epidemia della contemporaneità, l'AIDS.

Spesso, in passato, Sebastiano veniva invocato come protettore contro la peste. Attualmente, in Italia, è il santo patrono della polizia municipale. Oggi è anche invocato contro le epidemie in generale, insieme a san Rocco.

San Sebastiano è particolarmente venerato in Sicilia fin dal 1575, anno in cui infuriò la peste e in molte città veniva invocato contro la terribile epidemia.
Ma il culto si diffonde sin dal 1414 anno in cui, secondo un antichissimo documento custodito negli archivi della Basilica in Melilli, una statua del Santo martire sarebbe stata ritrovata presso il luogo denominato Stentinello a circa tre km a sud di Thapsos, l'attuale isola Magnisi in provincia di Siracusa. Sempre secondo questo documento alcuni marinai sostennero di essersi salvati da un naufragio grazie alla protezione di quella statua. Subito accorsero in quel luogo centinaia di persone incuriosite da tutta la provincia. Nessuno riuscì a sollevare la cassa contenente il simulacro del santo, nemmeno il vescovo di Siracusa accompagnato dal clero e dai fedeli della città. Ma i cittadini di Melilli il 1º maggio 1414 giunti sul posto riuscirono a risollevare la cassa che entrata in paese tra invocazioni e preghiere divenne di nuovo pesante: segno che San Sebastiano voleva fermarsi lì. All'ingresso del paese si sarebbe verificato il primo miracolo: un lebbroso venne guarito. Da allora ogni anno (la festa è stata spostata al 4 maggio per motivi di ordine pubblico da quando fu istituita la festa del lavoro) San Sebastiano viene festeggiato solennemente. Il 4 maggio alle ore 04.00 del mattino viene aperto il santuario per accogliere i pellegrini provenienti da ogni parte invocando il santo: "semu vinuti di tantu luntanu, Primu Diu e Sammastianu! E chiamamulu ca n'ajuta!" Melilli si popola di tantissimi fedeli provenienti da tutta la Sicilia orientale e oltre. Anche all'estero gli emigrati hanno diffuso la devozione. Commovente l'arrivo dei nuri di Melilli e di Solarino. Questi pellegrini sono chiamati nuri perché in passato facevano il pellegrinaggio quasi nudi, con pantaloncini o mutande e a torso scoperto, con in mano fiori in omaggio al Santo. Oggi, invece, i nuri di San Sebastiano indossano vestiti bianchi e fascia rossa, camminando sempre scalzi. Affrontano chilometri di strada, offrendo torce e ceri votivi (ex voto) rappresentanti parti di corpo guarite miracolosamente o per le quali si chiede la grazia. Dopo il 4 maggio segue il solenne ottavario che si conclude il giorno 11 maggio quando tra grida di invocazione e richieste di intercessione il simulacro viene velato e conservato. Ritornerà ai fedeli il 20 gennaio giorno della sua festa liturgica.
San Sebastiano è poi particolarmente venerato ad Acireale perché, durante la seconda guerra mondiale, sotto la minaccia di un bombardamento, gli Acesi fecero voto affinché la città non fosse bombardata e così fu. San Sebastiano è quindi, assieme a santa Venera, patrono di Acireale: il 20 gennaio si svolge una festa a lui dedicata.

Ad Accadia, in provincia di Foggia, il 20 gennaio si svolge la festa patronale di San Sebastiano animata da tipici falò rionali. Dopo la solenne processione del santo e la benedizione di tutti i falò si tiene il palio di San Sebastiano giunto nel 2013 alla XXX edizione a cui partecipano i vari rioni e le frazioni del comune.

È santo patrono di Mistretta e la festa si svolge due volte all'anno: il 20 gennaio e il 18 agosto. È pure santo patrono di Tortorici e la festa si svolge due volte l'anno: il 20 gennaio con replica la prima domenica successiva (l'ottava) e la prima domenica di maggio. San Sebastiano è anche santo protettore di Cerami e la festa si svolge ogni anno il 28 agosto.

In Calabria, venerato e festeggiato a Pernocari (VV) il 20 gennaio e la terza domenica di agosto. È inoltre festeggiato come patrono a Fagnano Castello e Orsomarso, in provincia di Cosenza e ad Anoia Superiore il 20 di gennaio in provincia di RC, dove viene acceso un grande falò in suo onore e durante la festa viene baciata la reliquia.

San Sebastiano è festeggiato anche a Termoli (CB) il 20 gennaio, quando gruppi di persone intonano un brano dedicato al Santo per le strade della città ricevendo in dono soldi o leccornie. Lo spettacolo viene riproposto anche durante il periodo estivo, precisamente il 7 agosto, per permettere a coloro che vivono fuori città di potervi assistere.

San Sebastiano è venerato nella cittadina di Barcellona Pozzo di Gotto di cui ne è anche il santo patrono cittadino. Qui, nella basilica minore di S.Sebastiano sita in piazza duomo, nel centro città, è custodita un inestimabile reliquia che consiste nell'osso dell'avambraccio del santo martire detto ivi "Brazzu di San Bastianu", spesso citato in detti del luogo come "Ci voli u brazzu di san Bastianu!", il quale si invoca in un momento dove sarebbe propizio un ausilio.

A Cassaro (Siracusa) si festeggia il 20 gennaio con l'uscita di "san mastianeddu" una piccola statua che viene portata in processione di corsa per le vie del piccolo comune dai "nudi". L'ultima domenica di luglio di ogni 3 anni, dalla chiesa a lui dedicata, esce alle 12:00 in processione solenne la cinquecentesca statua di San Sebastiano

Il culto di San Sebastiano è presente anche a Berchidda e ad Ulassai in Sardegna. La sua festività ricorre il 20 gennaio, data in cui tradizionalmente viene realizzato un grande fuoco e si offrono arance in un grande banchetto. La notte di San Sebastiano apre le porte ai riti dell'antico carnevale denominato su Maimulu.

Anche in Liguria è presente il culto del santo da lungo tempo. A Costarainera si trova una chiesa dedicata a San Sebastiano, edificata probabilmente del XIV secolo e attualmente in degrado. Fu probabilmente edificata sull'antico tracciato della via Aurelia che in quel tratto passava nell'entroterra e non sulla costa ligure, a causa delle frequenti incursioni di pirati.

Bellissima struttura è il Protocenobio di San Sebastiano ad Alatri (Frosinone), dove, secondo diversi documenti, avrebbe avuto origine la Regula Magistri.

Anche ad Ales (OR), viene festeggiato il Santo con il tipico falò, detto in "abaresu" (lingua Sarda locale) "su fogadoni" dall'altezza di svariati metri. Il 20 di gennaio, la sera, il falò ("sa tuva") viene benedetto dal vescovo prima di essere acceso, una volta dato alle fiamme, su sonadori (il musicista di organetto/fisarmonica-launeddas) inizia a suonare balli tipici del luogo e della Sardegna intera, i tipici "ballus sardus" (balli sardi), nel frattempo viene distribuita la cena, composta da specialità del luogo come cixiri, brobei a buddiu, proceddu e druccis, tottu isciustu de 'inu bellu (ceci, pecora bollita, maialetto e dolci (tipici sardi), tutto bagnato da del buon vino. Il giorno dopo si ha la processione per riportare il Santo nella sua chiesa dalla cattedrale e, subito dopo la messa si ha il tipico rinfresco "su cumbidu", a base di dolci sardi e "crannaccia" (vernaccia).

La leggenda del soldato martire dal corpo efebico e glabro ha interessato pittori e scultori di ogni era, il che ha portato a concentrare gli artisti sull'iconografia del santo nudo dalla bella anatomia a discapito di quella del militare maturo. Il santo era tra l'altro una delle poche figure nude che avevano il diritto di stare in una chiesa. Emblematico è l'episodio tramandato da Giorgio Vasari nelle Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori in merito al pittore Fra Bartolomeo.
Sicché il suo stato di santo ha cristallizzato per secoli le raffigurazioni del giovane ignudo col corpo bello e virile trafitto da frecce, o dal fisico nudo che si abbandona languidamente alle cure di angeli.

La rappresentazione più antica del santo è nel mosaico della Basilica di Sant'Apollinare Nuovo a Ravenna, datato tra 527 e il 565. La parete laterale sulla destra contiene grandi mosaici che raffigurano la processione di 26 martiri, condotta da san Martino e presieduta, tra gli altri, dallo stesso Sebastiano, ma i martiri sono rappresentati nello stile bizantino e non sono individualizzati, per cui hanno un'espressione identica.

Un'altra raffigurazione antica di Sebastiano è in un mosaico nella Basilica di San Pietro in Vincoli a Roma, che si fa risalire al 682 e rappresenta un uomo barbuto rivestito da un'armatura ma che non reca l'attributo della freccia.

Il soggetto del santo ignudo e disteso dal viso languido risanato dopo il martirio da un gruppo di pie donne riscuote particolare fortuna nella pittura del XVII secolo, con schizzi di luce irradiati da una candela che rischiarano il corpo incorrotto del soldato, in lotta tra la vita e la morte, in una scena notturna e intima. Testimoniano gli effetti luminosi che si dipanano sul corpo nudo del santo gli esempi di Georges de La Tour e Jusepe de Ribera.




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martedì 29 dicembre 2015

LA VAL DI LEI

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La Val di Lei è l'unica valle alpina italiana che appartiene al bacino idrografico del Reno. Delle acque del lago artificiale posto sul fondo della valle è immissario ed emissario il Reno di Lei.

Attualmente la Val di Lei è disabitata e viene usata come alpeggio d'estate, mentre d'inverno è possibile sciare sul versante del Pizzo Groppera che scende verso la valle stessa. Le piste da sci che qui si trovano fanno parte del comprensorio di Madesimo.

La valle, per lo sfruttamento come pascolo, fu acquistata dal comune di Piuro già nel 1462.

L'intera Valchiavenna fu poi occupata dai Grigioni, successivamente uniti alla Svizzera, ma nel 1797 chiese, insieme alla Valtellina, di far parte della Repubblica Cisalpina, e nel 1814/15 il Congresso di Vienna confermò il passaggio al Regno Lombardo-Veneto, in deroga al principio di legittimità. La definitiva conferma del confine di stato con l'inclusione della Val di Lei nel Regno d'Italia avvenne nel 1863.

Dopo la seconda guerra mondiale una società con interessi misti italiani e svizzeri chiese le autorizzazioni per lo sfruttamento idroelettrico. Ci fu però l'opposizione delle autorità militari elvetiche, perché un crollo o un attentato alla diga avrebbe provocato gravissimi danni alla popolazione svizzera della Val Ferrera e della Val Schons.

Dopo una lunga trattativa tra i due governi la soluzione fu trovata in un accordo internazionale. L'Italia cedette alla Svizzera una striscia di terreno di circa mezzo kilometro quadrato, sulla quale costruire la diga, ottenendo in cambio una porzione equivalente di territorio poco più a nord. Si ha perciò una linea di confine molto curiosa: il lago artificiale alimentato dal Reno di Lei è in territorio italiano, mentre la diga è in territorio svizzero.

La valle è raggiungibile con la macchina solo attraverso la strada che la collega con il comune svizzero di Ferrera (GR), mentre dall'Italia si può giungere fin qui solo a piedi, superando il passo Angeloga o uno degli altri passi minori che separano la Val di Lei dalla valle Spluga.

Anticamente era in funzione una funivia che partiva dal comune di Campodolcino, in frazione Tini e, attraversando il Pizzo Stella, portava soprattutto gli operai in Val di Lei.

Esiste, in Valchiavenna, una valle dal nome singolare, la valle di Lei, la cui denominazione allude ad una figura femminile (o parrebbe alludere: in realtà il toponimo significa "lago"). Sull’identità di questa figura, però, le spiegazioni divergono.
Una prima storia rimanda ad uno sfondo storico assai lontano nel tempo, cioè all’epoca della dominazione romana della Rezia. Ne è infelice protagonista la moglie di un soldato romano, un centurione di stanza in val Ferrera, attualmente in territorio svizzero. Costei tradì il marito, che non la prese affatto bene e le inflisse una punizione terribile: la rinchiuse in una caverna e la lasciò morire lì.
Passarono circa mille anni, prima che alcuni pastori di Piuro (i pascoli della valle di Lei, assai pregiati, sono, infatti, nel territorio di tale comune) rinvenissero quel che restava della sventurata, sopra l’alpe del Scengio. Come abbiano fatto a ricostruire la vicenda che aveva portato alla tragica fine, non ci è dato sapere: la scoperta, però, suscitò tale impressione e mosse gli animi a tali sentimenti di pietà, che la valle, da allora, assunse il nome che doveva ricordare lei, la donna che trovò nel cuore dei suoi monti la propria tomba.
Da allora quando il vento sibila e pare produrre gemiti lamentosi, i pastori dicono che è l'anima di "lei", un'anima in pena, che piange per il suo tradimento e la sua terribile sorte.
Esistono, però, almeno un paio di altre leggende, che ci portano a scenari decisamente più fantastici, anche se non meno tragici.
La prima ci presenta un tempo in cui la valle godeva di un clima particolarmente favorevole e caldo, ed era quindi particolarmente prospera.Vi dimorava allora una principessa, che possedeva consistenti ricchezze. Purtroppo le situazioni felici, anche nel mondo fantastico delle leggende, non sono mai durature, ed ecco, quindi, entrare in scena un perfido mago, che le intimò di consegnarle tutto l'oro. Inizialmente la principessa resistette alla sua prepotenza, ma quando questi minacciò di congelare la sua bella valle, fu presa dalla paura e cedette.
Aver donato tutto il suo oro, però, non le valse a nulla, perché il mago si fece avanti ancora, con pretese maggiori: questa volta voleva l'intera valle. Questa volta la principessa rispose che non avrebbe mai acconsentito a cedere la sua bella valle. Questo rifiuto segnò il suo destino, perché il mago la uccise. Era tanto malvagio, che neppure volle godersi la valle conquistata con il sopruso, preferendo godersi il gusto di un atto di malvagità gratuita: usò, infatti, le sue arti magiche per stendervi sopra una coltre di ghiaccio. Da allora, in memoria della sua ultima sventurata principessa, la valle assunse l'attuale denominazione.
Una seconda leggenda spiega il nome con una vicenda per certi versi analoga. Questa volta la protagonista è una ragazza di grande bellezza, che abitava sul versante montuoso che scende ad oriente del pizzo Groppera, la vetta che segna il confine sud-occidentale della valle. La sua bellezza non sfuggì ad un malvagio stregone, che passò un giorno nella valle, e che le chiese di sposarlo. La ragazza oppose un netto rifiuto, anche perché, come tutti gli esseri malvagi nell'universo delle leggende, costui era davvero brutto. Brutto e vendicativo: non ci pensò su due volte, e trasformò la ragazza in una grande massa di ghiaccio, in un vero e proprio ghiacciaio. Anche in questo caso alla sventurata venne tributato l'omaggio del ricordo nel nome della valle.
Le due leggende prendono spunto dalla presenza, nella valle, di ghiacciai, in particolare di quello della Ponciagna, che occupa il vallone dello Stella, il quale, a sua volta, scende dal versante settentrionale del pizzo Stella (m. 3163), ed il ghiacciaio della cima di Lago (m. 3083), che presidia l'angolo di sud-est della valle. Le diverse leggende fiorite sull'origine del suo nome testimoniano della singolarità della valle, che, idrograficamente appartiene al territorio elvetico, essendo tributaria del bacino del Reno, mentre politicamente appartiene all'Italia.

La valle si mostra ampia, aperta, luminosa, ma il senso di solitudine rimane: si intuisce la presenza umana, ma questa non cancella l’impressione di un luogo remoto, sconosciuto agli uomini. Tutto ciò, unito alla dolcezza del paesaggio, genera un fortissimo senso di pace e di armonia, che vale interamente le tre ore e mezza approssimativamente necessarie per giungere fin qui, superando i 950 metri circa di dislivello in salita. Nulla sembra suggerire, dunque, la tragedia delle tre donne che si contendono il privilegio di essere la “lei” evocata dal nome della valle.

Il Lago di Lei è la caratteristica principale della vallata. Lungo quasi otto chilometri e largo mediamente mezzo, ne occupa tutto il fondo valle. E' circondato da due file di monti che culminano in fondo con l'imponente mole del Pizzo Stella (m. 3163).


LEGGI ANCHE : http://asiamicky.blogspot.it/2015/12/la-valchiavenna.html





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sabato 26 dicembre 2015

SANTO STEFANO

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Santo Stefano, protomartire, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, che, primo dei sette diaconi scelti dagli Apostoli come loro collaboratori nel ministero, fu anche il primo tra i discepoli del Signore a versare il suo sangue a Gerusalemme, dove, lapidato mentre pregava per i suoi persecutori, rese la sua testimonianza di fede in Cristo Gesù, affermando di vederlo seduto nella gloria alla destra del Padre.

La celebrazione liturgica di s. Stefano è stata da sempre fissata al 26 dicembre, subito dopo il Natale, perché nei giorni seguenti alla manifestazione del Figlio di Dio, furono posti i “comites Christi”, cioè i più vicini nel suo percorso terreno e primi a renderne testimonianza con il martirio.
Di s. Stefano, si ignora la provenienza, si suppone che fosse greco, in quel tempo Gerusalemme era un crocevia di tante popolazioni, con lingue, costumi e religioni diverse; il nome Stefano in greco ha il significato di “coronato”.
Si è pensato anche che fosse un ebreo educato nella cultura ellenistica; certamente fu uno dei primi giudei a diventare cristiani e che prese a seguire gli Apostoli e visto la sua cultura, saggezza e fede genuina, divenne anche il primo dei diaconi di Gerusalemme.
Gli Atti degli Apostoli, ai capitoli 6 e 7 narrano gli ultimi suoi giorni; qualche tempo dopo la Pentecoste, il numero dei discepoli andò sempre più aumentando e sorsero anche dei dissidi fra gli ebrei di lingua greca e quelli di lingua ebraica, perché secondo i primi, nell’assistenza quotidiana, le loro vedove venivano trascurate.
Allora i dodici Apostoli, riunirono i discepoli dicendo loro che non era giusto che essi disperdessero il loro tempo nel “servizio delle mense”, trascurando così la predicazione della Parola di Dio e la preghiera, pertanto questo compito doveva essere affidato ad un gruppo di sette di loro, così gli Apostoli potevano dedicarsi di più alla preghiera e al ministero.
La proposta fu accettata e vennero eletti, Stefano uomo pieno di fede e Spirito Santo, Filippo, Procoro, Nicanore, Timone, Parmenas, Nicola di Antiochia; a tutti, gli Apostoli imposero le mani; la Chiesa ha visto in questo atto l’istituzione del ministero diaconale.
Nell’espletamento di questo compito, Stefano pieno di grazie e di fortezza, compiva grandi prodigi tra il popolo, non limitandosi al lavoro amministrativo ma attivo anche nella predicazione, soprattutto fra gli ebrei della diaspora, che passavano per la città santa di Gerusalemme e che egli convertiva alla fede in Gesù crocifisso e risorto.
Nel 33 o 34 ca., gli ebrei ellenistici vedendo il gran numero di convertiti, sobillarono il popolo e accusarono Stefano di “pronunziare espressioni blasfeme contro Mosè e contro Dio”.
Gli anziani e gli scribi lo catturarono trascinandolo davanti al Sinedrio e con falsi testimoni fu accusato: “Costui non cessa di proferire parole contro questo luogo sacro e contro la legge. Lo abbiamo udito dichiarare che Gesù il Nazareno, distruggerà questo luogo e cambierà le usanze che Mosè ci ha tramandato”.
E alla domanda del Sommo Sacerdote “Le cose stanno proprio così?”, il diacono Stefano pronunziò un lungo discorso, il più lungo degli ‘Atti degli Apostoli’, in cui ripercorse la Sacra Scrittura dove si testimoniava che il Signore aveva preparato per mezzo dei patriarchi e profeti, l’avvento del Giusto, ma gli Ebrei avevano risposto sempre con durezza di cuore.
Rivolto direttamente ai sacerdoti del Sinedrio concluse: “O gente testarda e pagana nel cuore e negli orecchi, voi sempre opponete resistenza allo Spirito Santo; come i vostri padri, così anche voi. Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccisero quelli che preannunciavano la venuta del Giusto, del quale voi ora siete divenuti traditori e uccisori; voi che avete ricevuto la Legge per mano degli angeli e non l’avete osservata”.
Mentre l’odio e il rancore dei presenti aumentava contro di lui, Stefano ispirato dallo Spirito, alzò gli occhi al cielo e disse: “Ecco, io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo, che sta alla destra di Dio”.
Fu il colmo, elevando grida altissime e turandosi gli orecchi, i presenti si scagliarono su di lui e a strattoni lo trascinarono fuori dalle mura della città e presero a lapidarlo con pietre, i loro mantelli furono deposti ai piedi di un giovane di nome Saulo (il futuro Apostolo delle Genti, s. Paolo), che assisteva all’esecuzione.
In realtà non fu un’esecuzione, in quanto il Sinedrio non aveva la facoltà di emettere condanne a morte, ma non fu in grado nemmeno di emettere una sentenza in quanto Stefano fu trascinato fuori dal furore del popolo, quindi si trattò di un linciaggio incontrollato.
Mentre il giovane diacono protomartire crollava insanguinato sotto i colpi degli sfrenati aguzzini, pregava e diceva: “Signore Gesù, accogli il mio spirito”, “Signore non imputare loro questo peccato”.
Gli Atti degli Apostoli dicono che persone pie lo seppellirono, non lasciandolo in preda alle bestie selvagge, com’era consuetudine allora; mentre nella città di Gerusalemme si scatenò una violenta persecuzione contro i cristiani, comandata da Saulo.


Tra la nascente Chiesa e la sinagoga ebraica, il distacco si fece sempre più evidente fino alla definitiva separazione; la Sinagoga si chiudeva in se stessa per difendere e portare avanti i propri valori tradizionali; la Chiesa, sempre più inserita nel mondo greco-romano, si espandeva iniziando la straordinaria opera di inculturazione del Vangelo.
Dopo la morte di Stefano, la storia delle sue reliquie entrò nella leggenda; il 3 dicembre 415 un sacerdote di nome Luciano di Kefar-Gamba, ebbe in sogno l’apparizione di un venerabile vecchio in abiti liturgici, con una lunga barba bianca e con in mano una bacchetta d’oro con la quale lo toccò chiamandolo tre volte per nome.
Gli svelò che lui e i suoi compagni erano dispiaciuti perché sepolti senza onore, che volevano essere sistemati in un luogo più decoroso e dato un culto alle loro reliquie e certamente Dio avrebbe salvato il mondo destinato alla distruzione per i troppi peccati commessi dagli uomini.
Il prete Luciano domandò chi fosse e il vecchio rispose di essere il dotto Gamaliele che istruì s. Paolo, i compagni erano il protomartire s. Stefano che lui aveva seppellito nel suo giardino, san Nicodemo suo discepolo, seppellito accanto a s. Stefano e s. Abiba suo figlio seppellito vicino a Nicodemo; anche lui si trovava seppellito nel giardino vicino ai tre santi, come da suo desiderio testamentario.
Infine indicò il luogo della sepoltura collettiva; con l’accordo del vescovo di Gerusalemme, si iniziò lo scavo con il ritrovamento delle reliquie. La notizia destò stupore nel mondo cristiano, ormai in piena affermazione, dopo la libertà di culto sancita dall’imperatore Costantino un secolo prima.
Da qui iniziò la diffusione delle reliquie di s. Stefano per il mondo conosciuto di allora, una piccola parte fu lasciata al prete Luciano, che a sua volta le regalò a vari amici, il resto fu traslato il 26 dicembre 415 nella chiesa di Sion a Gerusalemme.
Molti miracoli avvennero con il solo toccarle, addirittura con la polvere della sua tomba; poi la maggior parte delle reliquie furono razziate dai crociati nel XIII secolo, cosicché ne arrivarono effettivamente parecchie in Europa, sebbene non si sia riusciti a identificarle dai tanti falsi proliferati nel tempo, a Venezia, Costantinopoli, Napoli, Besançon, Ancona, Ravenna, ma soprattutto a Roma, dove si pensi, nel XVIII secolo si veneravano il cranio nella Basilica di S. Paolo fuori le Mura, un braccio a S. Ivo alla Sapienza, un secondo braccio a S. Luigi dei Francesi, un terzo braccio a Santa Cecilia; inoltre quasi un corpo intero nella basilica di S. Lorenzo fuori le Mura.
La proliferazione delle reliquie, testimonia il grande culto tributato in tutta la cristianità al protomartire santo Stefano, già veneratissimo prima ancora del ritrovamento delle reliquie nel 415.

Chiese, basiliche e cappelle in suo onore sorsero dappertutto, solo a Roma se ne contavano una trentina, delle quali la più celebre è la basilica di Santo Stefano Rotondo al Celio, costruita nel V secolo da papa Simplicio.

Ancora oggi in Italia vi sono ben quattordici comuni che portano il suo nome; nell'arte è stato sempre raffigurato con indosso la dalmatica, veste liturgica dei diaconi; suo attributo sono le pietre della lapidazione: per questo è invocato contro il mal di pietra (cioè i calcoli) ed è il patrono di tagliapietre e muratori.

Per il fatto di essere stato il primo dei martiri cristiani, la sua festa liturgica si celebra il 26 dicembre, cioè immediatamente dopo il Natale che celebra la nascita di Cristo. Il colore della veste indossata dal sacerdote durante la Messa in questo giorno è il rosso, come in tutte le occasioni in cui si ricorda un martire.

Fino al 1960 si celebrava anche la festa della "Invenzione" (cioè "rinvenimento", dal latino invenio) delle reliquie di santo Stefano il 3 agosto, giorno in cui questo ritrovamento sarebbe avvenuto. Tuttora in alcune località si ricorda il protomartire anche in questo giorno, a Vimercate (Monza-Brianza), a Putignano (Bari) di cui è protettore e dove si conserva un frammento del suo cranio, a Concordia Sagittaria e in tutta la diocesi di Concordia-Pordenone, a Selci, delle quali è patrono. Anche la Chiesa ortodossa ricorda il santo in questa data.

A Laveno Mombello esiste una chiesa dedicata proprio a questo avvenimento.



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lunedì 28 settembre 2015

BUON ONOMASTICO MICHAEL

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Gloriosissimo Principe della Milizia Celeste, Arcangelo San Michele, difendeteci in questa ardente battaglia contro tutte le potenze delle tenebre e la loro spirituale malizia.
Venite in soccorso degli uomini creati da Dio a sua immagine e somiglianza e riscattati a gran prezzo dalla tirannia del demonio.
Voi siete venerato dalla Santa Chiesa quale suo custode e patrono, ed a Voi il Signore ha affidato le anime che un giorno occuperanno le sedi celesti. Pregate, dunque, il Dio della pace a tenere schiacciato satana sotto i nostri piedi, affinché non possa continuare a tenere schiavi gli uomini e a danneggiare la Chiesa.
Presentate all’Altissimo, con le Vostre, le nostre preghiere, perché scendano presto su di noi le Sue Divine Misericordie e Voi possiate incatenare il dragone, il serpente antico satana ed incatenarlo negli abissi. Solo così non sedurrà più le anime.



L'origine di questo nome utilizzato in Germania e nei Paesi Anglosassoni è ebraica: ricorda infatti il grido dell'Arcangelo che ha scacciato gli angeli ribelli dal Paradiso. Le sue parole furono 'Michael?!', vale a dire 'Chi è come Dio?!' L'onomastico viene festeggiato in suo onore, cioè dell'Arcangelo Michele, il 29 settembre, giorno della consacrazione del Santuario Gargano effettuata, secondo la leggenda, personalmente da egli stesso.

Per significato ed etimologia, è affine ai nomi Misaele e Michea; la forma ceca e slovacca Michal coincide inoltre con la forma ebraica originale di Micol, ma i due nomi non sono correlati. Il nome inglese Mitchell, infine, è un derivato di Michele.

La figura dell'arcangelo, popolarissima, portò notevole fortuna al nome, che è assai diffuso nell'Europa occidentale sin dal Medioevo, e in Inghilterra dal XII secolo; è stato portato da numerosi sovrani, fra i quali nove imperatori bizantini e svariati re di Russia, Polonia, Romania e Portogallo.

L'onomastico viene festeggiato il 29 settembre in ricordo della consacrazione del santuario dedicato all'arcangelo Michele sul monte Gargano; effettuata secondo una pia leggenda, personalmente da San Michele Arcangelo. Patrono degli agenti di PS, armaioli, arrotini, bancari, commercianti, giudici, paracadutisti, pasticcieri, merciai, radiologi, radioterapisti, di Feletto (To), Caltanissetta, Caserta, Cuneo, Verduno, Argelato, Arisio e Arpaia.

In un’epoca in cui le forze del male hanno enorme libertà di azione, fuorviando e rapendo anime, la figura di San Michele assume un valore di prim’ordine. Il suo nome deriva dall’espressione «Mi-ka-El», che significa «chi è come Dio?» e poiché nessuno è come l’Onnipotente, l’Arcangelo combatte tutti coloro che si innalzano con superbia, sfidando l’Altissimo.  Nella Sacra Scrittura è citato cinque volte:  nel libro di Daniele, di Giuda, nell’Apocalisse e in tutti i brani biblici è considerato «capo supremo dell’esercito celeste», ovvero degli angeli in guerra contro il male.
Nella Tradizione Michele è l’antitesi di Lucifero, capo degli angeli che decisero di fare a meno di Dio e perciò precipitarono negli Inferi. Michele, generale degli angeli, è colui che difende la Fede, la Verità e la Chiesa. Dante (1265-1321) illustra mirabilmente la bellezza e la potenza di questo Principe celeste e la sua solerzia nel proteggere il genere umano dalle insidie di Satana. Nelle litanie dei Santi pregate in Purgatorio da coloro che in terra furono invidiosi, San Michele è il secondo nominato, dopo Maria Santissima, segno del suo grande potere di intercessione (Purgatorio XIII, 51).
Maria Vergine e l’Arcangelo Michele sono associati nel loro combattimento contro il demonio ed entrambi, iconograficamente parlando, hanno sotto i loro piedi, a seconda dei casi, il serpente, il drago, il diavolo in persona, che l’Arcangelo tiene incatenato e lo minaccia, pronto a trafiggerlo, con la sua spada. Il suo culto è molto diffuso sia in Oriente che in Occidente, ne danno testimonianza le innumerevoli chiese, santuari, monasteri e anche monti a lui intitolati. In Europa, durante l’alto Medioevo, furono edificati in suo onore tre gioielli di devozione, di storia, di architettura ed arte: l’abbazia di Mont Saint-Michel in Normandia, La Sacra di San Michele sul Monte Pirchiriano, in Piemonte e il santuario del Monte Gargano in Puglia. Difensore della Chiesa, la sua statua compare sulla sommità di Castel Sant’Angelo a Roma ed egli è protettore del popolo cristiano, come un tempo lo era dei pellegrini medievali contro le insidie che incontravano lungo la via.
Leone XIII (1810-1903), il 13 ottobre 1884, dopo aver terminato di celebrare la Santa Messa nella cappella vaticana, restò immobile una decina di minuti in stato di profondo turbamento. In seguito si precipitò nel suo studio. Fu allora che il Papa compose la preghiera a San Michele Arcangelo.



Successivamente racconterà il Pontefice di aver udito Gesù e Satana e di aver avuto una terrificante visione dell’Inferno: «ho visto la terra avvolta dalle tenebre e da un abisso, ho visto uscire legioni di demoni che si spargevano per il mondo per distruggere le opere della Chiesa ed attaccare la stessa Chiesa che ho visto ridotta allo stremo. Allora apparve San Michele e ricacciò gli spiriti malvagi nell’abisso. Poi ho visto San Michele Arcangelo intervenire non in quel momento, ma molto più tardi, quando le persone avessero moltiplicato le loro ferventi preghiere verso l’Arcangelo».
Dopo circa mezz’ora fece chiamare il Segretario della Sacra Congregazione dei Riti, ordinandogli di far stampare il foglio che aveva in mano e farlo pervenire a tutti i Vescovi della Chiesa: il manoscritto conteneva la preghiera che il Papa dispose di far recitare al termine della Santa Messa, la supplica a Maria Santissima e l’invocazione al Principe delle milizie celesti, per mezzo del quale si implora Dio affinché ricacci il Principe del mondo nell’Inferno. Tale supplica è caduta in disuso. Nessun Pontefice ha abrogato questa preghiera dopo il Santo Sacrificio e neppure il Novus Ordo la nega, anche se dagli anni Settanta si prese a non più recitarla, privando la Chiesa di una preziosa arma di difesa.

In altre scritture, il dragone è un angelo che aveva voluto farsi grande quanto Dio e che Dio fece scacciare, facendolo precipitare dall’alto verso il basso, insieme ai suoi angeli che lo seguivano.
Michele è stato sempre rappresentato e venerato come l’angelo-guerriero di Dio, rivestito di armatura dorata in perenne lotta contro il Demonio, che continua nel mondo a spargere il male e la ribellione contro Dio.
Egli è considerato allo stesso modo nella Chiesa di Cristo, che gli ha sempre riservato fin dai tempi antichissimi, un culto e devozione particolare, considerandolo sempre presente nella lotta che si combatte e si combatterà fino alla fine del mondo, contro le forze del male che operano nel genere umano. Dopo l’affermazione del cristianesimo, il culto per san Michele, che già nel mondo pagano equivaleva ad una divinità, ebbe in Oriente una diffusione enorme, ne sono testimonianza le innumerevoli chiese, santuari, monasteri a lui dedicati; nel secolo IX solo a Costantinopoli, capitale del mondo bizantino, si contavano ben 15 fra santuari e monasteri; più altri 15 nei sobborghi.
Tutto l’Oriente era costellato da famosi santuari, a cui si recavano migliaia di pellegrini da ogni regione del vasto impero bizantino e come vi erano tanti luoghi di culto, così anche la sua celebrazione avveniva in tanti giorni diversi del calendario.
Perfino il grande fiume Nilo fu posto sotto la sua protezione, si pensi che la chiesa funeraria del Cremlino a Mosca in Russia, è dedicata a S. Michele. Per dirla in breve non c’è Stato orientale e nord africano, che non possegga oggetti, stele, documenti, edifici sacri, che testimoniano la grande venerazione per il santo condottiero degli angeli, che specie nei primi secoli della Chiesa, gli venne tributata.



La celebrazione religiosa era all’8 maggio, data praticata poi nella Sabina, nel Reatino, nel Ducato Romano e ovunque fosse estesa l’influenza della badia benedettina di Farfa, a cui i Longobardi di Spoleto, avevano donato quel santuario.
Ma il più celebre santuario italiano dedicato a S. Michele, è quello in Puglia sul Monte Gargano; esso ha una storia che inizia nel 490, quando era papa Gelasio I; la leggenda racconta che casualmente un certo Elvio Emanuele, signore del Monte Gargano (Foggia) aveva smarrito il più bel toro della sua mandria, ritrovandolo dentro una caverna inaccessibile.
Visto l’impossibilità di recuperarlo, decise di ucciderlo con una freccia del suo arco; ma la freccia inspiegabilmente invece di colpire il toro, girò su sé stessa colpendo il tiratore ad un occhio. Meravigliato e ferito, il signorotto si recò dal suo vescovo s. Lorenzo Maiorano, vescovo di Siponto (odierna Manfredonia) e raccontò il fatto prodigioso.
Il presule indisse tre giorni di preghiere e di penitenza; dopodiché s. Michele apparve all’ingresso della grotta e rivelò al vescovo: “Io sono l’arcangelo Michele e sto sempre alla presenza di Dio. La caverna è a me sacra, è una mia scelta, io stesso ne sono vigile custode. Là dove si spalanca la roccia, possono essere perdonati i peccati degli uomini…Quel che sarà chiesto nella preghiera, sarà esaudito. Quindi dedica la grotta al culto cristiano”.
Ma il santo vescovo non diede seguito alla richiesta dell’arcangelo, perché sul monte persisteva il culto pagano; due anni dopo, nel 492 Siponto era assediata dalle orde del re barbaro Odoacre (434-493); ormai allo stremo, il vescovo e il popolo si riunirono in preghiera, durante una tregua, e qui riapparve l’arcangelo al vescovo s. Lorenzo, promettendo loro la vittoria, infatti durante la battaglia si alzò una tempesta di sabbia e grandine che si rovesciò sui barbari invasori, che spaventati fuggirono.
Tutta la città con il vescovo, salì sul monte in processione di ringraziamento; ma ancora una volta il vescovo non volle entrare nella grotta. Per questa sua esitazione che non si spiegava, s. Lorenzo Maiorano si recò a Roma dal papa Gelasio I (490-496), il quale gli ordinò di entrare nella grotta insieme ai vescovi della Puglia, dopo un digiuno di penitenza.
Recatosi i tre vescovi alla grotta per la dedicazione, riapparve loro per la terza volta l’arcangelo, annunziando che la cerimonia non era più necessaria, perché la consacrazione era già avvenuta con la sua presenza. La leggenda racconta che quando i vescovi entrarono nella grotta, trovarono un altare coperto da un panno rosso con sopra una croce di cristallo e impressa su un masso l’impronta di un piede infantile, che la tradizione popolare attribuisce a s. Michele.
Il vescovo san Lorenzo fece costruire all’ingresso della grotta, una chiesa dedicata a s. Michele e inaugurata il 29 settembre 493; la Sacra Grotta è invece rimasta sempre come un luogo di culto mai consacrato da vescovi e nei secoli divenne celebre con il titolo di “Celeste Basilica”.
Attorno alla chiesa e alla grotta è cresciuta nel tempo la cittadina di Monte Sant’Angelo nel Gargano. I Longobardi che avevano fondato nel secolo VI il Ducato di Benevento, vinsero i feroci nemici delle coste italiane, i saraceni, proprio nei pressi di Siponto, l’8 maggio 663, avendo attribuito la vittoria alla protezione celeste di s. Michele, essi presero a diffondere come prima accennato, il culto per l’arcangelo in tutta Italia, erigendogli chiese, effigiandolo su stendardi e monete e instaurando la festa dell’8 maggio dappertutto.



Intanto la Sacra Grotta diventò per tutti i secoli successivi, una delle mete più frequentate dai pellegrini cristiani, diventando insieme a Gerusalemme, Roma, Loreto e S. Giacomo di Compostella, i poli sacri dall’Alto Medioevo in poi.
Sul Gargano giunsero in pellegrinaggio papi, sovrani, futuri santi. Sul portale dell’atrio superiore della basilica, che non è possibile descrivere qui, vi è un’iscrizione latina che ammonisce: “che questo è un luogo impressionante. Qui è la casa di Dio e la porta del Cielo”.
Il santuario e la Sacra Grotta sono pieni di opere d’arte, di devozione e di voto, che testimoniano lo scorrere millenario dei pellegrini e su tutto campeggia nell’oscurità la statua in marmo bianco di S. Michele, opera del Sansovino, datata 1507.
L’arcangelo è comparso lungo i secoli altre volte, sia pure non come sul Gargano, che rimane il centro del suo culto, ed il popolo cristiano lo celebra ovunque con sagre, fiere, processioni, pellegrinaggi e non c’è Paese europeo che non abbia un’abbazia, chiesa, cattedrale, ecc. che lo ricordi alla venerazione dei fedeli.
Apparendo ad una devota portoghese Antonia de Astonac, l’arcangelo promise la sua continua assistenza, sia in vita che in purgatorio e inoltre l’accompagnamento alla S. Comunione da parte di un angelo di ciascuno dei nove cori celesti, se avessero recitato prima della Messa la corona angelica che gli rivelò.
I cori sono: Serafini, Cherubini, Troni, Dominazioni, Potestà, Virtù, Principati, Arcangeli ed Angeli. La sua festa liturgica principale in Occidente è iscritta nel Martirologio Romano al 29 settembre e nella riforma del calendario liturgico del 1970, è accomunato agli altri due arcangeli più conosciuti, Gabriele e Raffaele nello stesso giorno, mentre l’altro arcangelo a volte nominato nei testi apocrifi, Uriele, non gode di un culto proprio.
Difensore della Chiesa, la sua statua compare sulla sommità di Castel S. Angelo a Roma, che come è noto era diventata una fortezza in difesa del Pontefice; protettore del popolo cristiano, così come un tempo lo era dei pellegrini medievali, che lo invocavano nei santuari ed oratori a lui dedicati, disseminati lungo le strade che conducevano alle mete dei pellegrinaggi, per avere protezione contro le malattie, lo scoraggiamento e le imboscate dei banditi.
Per quanto riguarda la sua raffigurazione nell’arte in generale, è delle più vaste; ogni scuola pittorica in Oriente e in Occidente, lo ha quasi sempre raffigurato armato in atto di combattere il demonio.
Sul Monte Athos nel convento di Dionisio del 1547, i tre principale arcangeli sono così raffigurati, Raffaele in abito ecclesiastico, Michele da guerriero e Gabriele in pacifica posa e rappresentano i poteri religioso, militare e civile.





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martedì 11 agosto 2015

CAPOVALLE



Capovalle (fino al 1907 Hano) è un comune dell'alta Valle Sabbia.

Capovalle è situato sulle montagne dell'alta Valle Sabbia sul confine con la Val Vestino, tra il lago d'Idro e il Lago di Garda. È raggiungibile sia percorrendo la provinciale che sale da Idro o da Gargnano. È uno dei venticinque comuni membri della Comunità Montana della Valle Sabbia con sede a Vestone e il suo territorio comprende il monte Stino e il monte Manos.

Il comune che si chiamava Hano fino alla promulgazione del RD 27 ottobre 1907, n. 464 in quanto l'antico termine era stato giudicato "trasparente e volgare", è composto dalle tre contrade di Zumiè, Vico e Viè.

Di probabile origine retica sarebbe il termine Zumiè da "zum" che indica un recinto abitato mentre le voci di Vico e Viè sembrano risalire all'epoca romana, Vico da "vicus" che significa villaggio e Viè da "viae" che indica un incrocio stradale. Le stesse etimologie dei nomi delle contrade confermano che Capovalle svolgeva un ruolo molto importante nelle comunicazioni tra Valle Sabbia, Riviera del Garda e Trentino.

La tesi di luogo di transito sembra avvalorata anche da alcuni ricercatori per i quali il toponimo deriverebbe dall'idioma latino "ianua" che significa appunto porta. Altri sostengono invece che derivi dalla parola latina "vannus" nel senso di conca per indicare quindi un villaggio costruito in una depressione o dalla voce armena utilizzata per giogo, oppure da una voce preceltica o retica come "anon", da cui deriva anche il nome della Val di Non, in Trentino.

Nei vari secoli le strade che attraversarono Capovalle furono percorse da mercanti, contrabbandieri ed eserciti.
Da qui passarono i soldati del Barbarossa (1162), del Piccinino (1437-39), i Lanzichenecchi del Frundsberg (1526), i fanti di Napoleone (1796), i bersaglieri di Durando (1848-49), la cavalleria del Cialdini (1859), le camicie rosse di Garibaldi (1866).
Dopo la caduta dell'Impero Romano, la zona fece parte dell'arimannia longobarda, che si estendeva dal Maniva a S. Pietro di Salò; quindi della Quadra vescovile di Bagolino.
I Visconti di Milano lo inclusero nella Quadra di Valle Sabbia; il governo di Venezia lo aggregò alla Quadra di Montagna della Riviera di Salò; la Repubblica Cisalpina nel 1798 lo fece frazione di Idro, dal quale comune ottenne la separazione col governo di Vienna, e tale rimase nell'ordinamento amministrativo del Regno d'Italia pubblicato nel 1868.
Nel periodo alto-medioevale tutta la comunità dipendeva ecclesiasticamente dalla Pieve di S. Maria ad Undas, dalla quale si emancipò nella seconda metà del XVII secolo, rendendosi autonoma parrocchia.
Capovalle ebbe un periodo sereno e di relativo benessere durante il dominio veneto che con le ducali del 1440, del 1449, del 1557 e del 1612 lo esentò dal pagamento dei dazi sullo scambio delle merci e dall'obbligo di alloggiare la milizia.
La crisi della seconda metà del 1800, le sopravvenute condizioni di povertà, alla fine della prima guerra mondiale, spinsero la popolazione ad emigrare in massa.
Dopo la ricostruzione del decennio '50-'60, con le rimesse degli emigranti e grazie al ritorno degli stessi, il paese si è incamminato in una graduale rinascita, sia sul versante artigianale che su quello turistico.
Anticamente il comune lo troviamo indicato con Ano (sec. XV) e con Hano (sec. XVI). Conservò il nome di Hano sino all'inizio del nostro secolo, quando il consiglio comunale (giugno 1907), presieduto dal sindaco Pietro Lombardi, deliberò di chiedere l'autorizzazione a cambiare il nome.
Nel novembre dello stesso anno fu emesso il decreto ed autorizzata la denominazione di Capovalle, che significa, appunto, posizione di inizio della Valle Sabbia.

A pochi Km dal centro abitato sorge il bellissimo Santuario di Rio Secco. Dietro la costruzione di questo santuario si racconta una singolare leggenda ...

Nella prima metà del XVII secolo (non si sa di preciso l’anno), alcuni montanari carbonai e custodi d’armamenti, videro fra il buio della notte, un vivo e arcano splendore circondare la roccia di Rio Secco, la quale è situata di fronte alla via che conduce al Passo della Fobbia, a circa un’ ora di cammino dal paese di Hano.
Meravigliati quegli uomini a tale inaspettato spettacolo, accorsero verso quel poggio.
Qui, con grande stupore, videro tra gli abeti e sopra un muretto, mai osservato prima, un grazioso dipinto raffigurante la Vergine con uno sguardo così dolce e maestoso da ispirare a chiunque viva devozione e tenera fiducia. Dopo aver attentamente contemplato con sguardo attonito tale apparizione, piegarono il ginocchio e per primi vennero e supplicarono la Madre del Signore. Ella aveva piantato le sue tende in quel luogo sperduto, che da quel momento divenne uno splendido teatro delle grazie e delle misericordie di Maria.
I montanari non aspettarono il levar del sole ad indorare le creste dei monti circostanti, ma immediatamente scesero nei vicini paesi, specialmente ad Hano a portare alla popolazione la lieta novella. Così la gente accorse da ogni parte, fra le meraviglie, lo stupore e le calde lacrime della pietà riconoscono la prodigiosa apparizione.
Fu quella la prima volta che centinaia di cuori e di lingue fecero echeggiare quelle cime e quelle vallette di devoti entusiastici inni alle glorie della Gran Vergine.
Si decise dunque di mettere al riparo dalle intemperie la cara immagine; ed i devoti che accorrevano sin dai primi giorni ad implorare la sua mercè, fecero sorgere sopra la ispida roccia di Rio Secco, una cappelletta.
La cappelletta fu eretta con le offerte della pietà del popolo di Hano.
Gli stucchi che ornano il volto della cappella, rivelano lo stile barocco che era in voga nel 1600.
Di anno in anno cresceva la folla dei devoti affluenti dai vicini paesi e, soprattutto dalla limitrofa Valvestino, venivano ad onorare la Madonna di Rio Secco. Il popolo decise dunque di edificare in quel luogo una chiesa, dove si poteva celebrare la Santa Messa e gli uffici divini in onore della Vergine. Una volta ottenuto il permesso dalla Suprema Autorità Ecclesiastica, raccolsero le offerte e s’accinsero all’opera. Si discusse dapprima circa il luogo più opportuno ove innalzare il tempio e, sembrando loro angusto il poggio di Rio Secco (luogo dell’apparizione), troppo malagevole la strada che vi fa capo e troppo solitaria quella posizione, stabilirono di fabbricare la chiesa a circa un chilometro di distanza da Hano, in un luogo ed in uno spazio più aperto. Scelto il luogo dunque iniziarono il lavoro per la fabbricazione della chiesa. Scavavano fosse per le fondamenta, trasportarono appresso pietre, mattoni, travi, badili, calce, leve, martelli, cazzuole, e tutti gli attrezzi di cui i muratori avevano bisogno per realizzare l’opera. Il secondo giorno, di buon mattino, molti muratori, manovali, ed altre persone addette ai lavori, s’ incamminarono lungo la via per raggiungere il “cantiere”. Quando però giunsero sul posto, ebbero una grossa sorpresa: videro spianate le fossa e tutti i materiali e gli attrezzi preparati il giorno prima erano spariti. Gli operai si guardarono in faccia l’uno con l’altro stupiti di tutto ciò, non sapendo cosa dire ne cosa pensare. Sarà opera dei ladri? Ma quella non era certo merce da far gola a dei ladri. In seguito pensarono che ci fosse un nemico o una persona ostile al progetto della nuova chiesa. Iniziarono dunque a guardarsi intorno, per cercare cosa mancava e con gran meraviglia trovarono tutto il materiale ben in ordine sulla rupe di Rio Secco vicino alla Cappella. La cosa strana che i poveri uomini non capivano era come avessero fatto i ladri a trasportare tutto il materiale nell’arco di una notte, da un luogo all’altro. Gli uomini dunque ripresero il materiale e senza pensare ad altro lo riportarono nel luogo dove si era stabilito di costruire la chiesa, impiegando cosi tutta la giornata. Durante la sera gli uomini tornarono al paese con l’intenzione dare inizio ai lavori il mattino seguente. Appena ritornata la luce del giorno, i muratori e una folla di popolo tornò sul luogo del lavoro. Nuova sorpresa e nuovo sbigottimento, il materiale e gli attrezzi erano nuovamente spariti, furono ritrovati nuovamente di fianco alla Cappella di Rio Secco. Fu dunque chiaro a tutti che tutto ciò non poteva essere opera dell’uomo, ma bensì di forze superiori: il prodigio era avvenuto. La Madonna Santissima, voleva che il suo tempio sorgesse nel luogo dove era apparsa la sua immagine. Nel giro di poco tempo dunque sorse un piccolo tempio per porre omaggio alla Madonna.

Era il 1° aprile 1899 quando nella parrocchia di Hano fece il suo ingresso il rettore e parroco Don Gaudenzio Squaratti. In seguito, sentendo quanto la popolazione era devota alla Madonna di Rio Secco, decise di ampliare il Santuario e di abbellirlo. Così dopo aver portato a termine alcune opere per la parrocchia, tra cui il nuovo concerto di 5 campane, nel gennaio 1906 radunò tutto il popolo in chiesa e parlò con persuasione dell’importanza dell’opera di ampliamento. Fu subito eletta una commissione che aveva il compito di dirigere i lavori. Questa commissione era composta dalle principali autorità del paese: il signor Sindaco Pietro Lombardi, il consiglio comunale al completo ed i fabbricanti d’allora. Si ordinò in seguito all’ingegnere Vaglia di Anfo di esaminare in che modo si potesse ampliare il tempio che era situato in un luogo stretto ed angusto.
L’ingegnere fece il progetto e con molta soddisfazione venne approvato dal comune. Iniziarono i lavori e fu inaugurato il 15 Agosto 1928.

Nel 1994 il quadro della Madonna di Rio Secco fu trafugato dal Santuario e  fu ritrovato per una casualità solo nel 2009. Nel frattempo, nel 1995 il Signor Gino Bianco, fece rifare il quadro della Madonna e lo donò alla comunità di Capovalle.

Da vedere sul Monte Stino il Museo dei reperti storici e bellici della guerra 1915/18.

Come ogni borgo che è rimasto legato alle tradizioni montanare, Capovalle festeggia particolarmente la vigilia dell'Epifania: la festa della stella; il 24 giugno la sagra di S. Giovanni Battista; il 15 luglio la festa del Monte Stino, organizzata dagli alpini presso la chiesetta; il 15 agosto la festa della Madonna di Rio Secco.


LEGGI ANCHE : http://asiamicky.blogspot.it/2015/07/le-prealpi-bresciane-e-gardesane.html






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mercoledì 15 luglio 2015

COLERE

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Colere è composto da numerose frazioni e situato sulla destra orografica del torrente Dezzo, in Val di Scalve.

L’origine del borgo origine risale al periodo della dominazione romana, quando venivano utilizzate le grandi risorse minerarie di ferro e zinco della zona. Tale tesi è suffragata da ritrovamenti avvenuti nella contrada Carbonera, che attestano l’esistenza di piccoli insediamenti.

Alcune leggende narrano di una cruenta battaglia avvenuta in queste zone, sulle pendici della Presolana, tra i Romani stessi ed il popolo degli Alani per il controllo della zona.

I secoli successivi videro il borgo passare sotto il controllo del Sacro Romano Impero guidato da Carlo Magno, che donò l’intera zona ai monaci di Tours. Questi successivamente la permutarono in favore del Vescovo di Bergamo, il quale diede investitura feudale ai Capitani di Scalve.

Questi ultimi furono di fatto esautorati dalla costituzione dell'Universitas di Scalve, una piccola istituzione feudale molto simile ad una repubblica, che garantiva grandi privilegi agli abitanti ed un’autonomia al limite dell’indipendenza. Questa garantiva l’esenzione del servizio militare, libertà di caccia e pesca, nonché sgravi fiscali e la possibilità di sfruttamento delle miniere presenti in zona.

Con il passaggio alla Repubblica di Venezia, avvenuto nel XV secolo, Colere mantenne i privilegi conquistati precedentemente, ma venne aggregato nella Comunità grande di Scalve.

Soltanto nel 1797, con la fine della Serenissima e l’avvento della Repubblica Cisalpina, acquisì la propria autonomia comunale, inglobando nei propri confini anche la parte della contrada di Dezzo posta alla destra dell’omonimo torrente ed il borgo di Teveno.

Lo status di comune durò poco più di un decennio, dopodiché venne nuovamente accorpato alla Repubblica di Scalve con sede di Vilminore, unitamente al vicino borgo di Azzone.

La fine della dominazione francese ebbe ripercussioni anche sulle piccole comunità scalvine che riaquisirono la propria autonomia, anche con le nuove delimitazioni territoriali: Colere perse Teveno.

Con l'attivazione dei comuni della provincia di Bergamo, in base al compartimento territoriale del regno lombardo-veneto, venne collocato, con 417 abitanti, nel distretto XIV di Clusone; fu confermato nel medesimo distretto in forza del successivo compartimento territoriale delle province lombarde. Nel 1853 fu inserito nel distretto XVI; a quella data era comune, con convocato generale, di 588 abitanti.

In seguito all'unione temporanea delle province lombarde al regno di Sardegna, in base al compartimento territoriale stabilito con la legge 23 ottobre 1859, il comune di Colere con 584 abitanti, retto da un consiglio di quindici membri e da una giunta di due membri fu incluso nel mandamento I di Clusone, circondario III di Clusone, provincia di Bergamo. Alla costituzione nel 1861 del Regno d'Italia, il comune aveva una popolazione residente di 677 abitanti (Censimento 1861). In base alla legge sull'ordinamento comunale del 1865 il comune veniva amministrato da un sindaco, da una giunta e da un consiglio. Nel 1867 il comune risultava incluso nel mandamento di Vilminore, circondario di Clusone e provincia di Bergamo. Popolazione residente nel comune: abitanti 711 (Censimento 1871); abitanti 787 (Censimento 1881); abitanti 766 (Censimento 1901); abitanti 964 (Censimento 1911); abitanti 1.008 (Censimento 1921). Nel 1924 il comune risultava incluso nel circondario di Clusone della provincia di Bergamo. In seguito alla riforma dell'ordinamento comunale disposta nel 1926 il comune veniva amministrato da un podestà.

Questa situazione durò fino al 1927, anno in cui il regime fascista fece una grande opera di accorpamento tra parecchi comuni del regno d’Italia. Fu il caso anche di Colere, che si trovò nuovamente unito ad Azzone, con la denominazione di Dezzo di Scalve.

Soltanto nell’immediato dopoguerra, precisamente nel 1947, i comuni si separarono definitivamente, con Dezzo nuovamente relegato a ruolo di frazione, diviso a metà tra Colere ed Azzone.

Attualmente Colere fa parte della Comunità Montana di Scalve, composta dai Comuni di Azzone, Colere, Schilpario e Vilminore di Scalve.

Il Comune abbraccia le frazioni di Cantoniera della Presolana, Albarete, Valle Sponda, Castello, Valle Richetti, Carbonera, Valzella, Dezzo di Scalve.

L’origine del nome Colere è avvolto da un alone di mistero.
Diverse sono infatti le ipotesi sulla genesi della sua denominazione:
Correnti di pensiero sostengono che il nome Colere derivi dalla radice Indoeuropea KWEL che significa coltivazione, proprio perchè i primi abitanti basavano la loro sussistenza sulle attività connesse all’agricoltura prettamente montana.
Un’altra interpretazione è strettamente legata all’attività di estrazione mineraria da dove deriverebbe il nome CARBONERA.
La terza è sostenuta dal geografo Nangeroni il quale legherebbe il nome Colere alla denominazione scientifica delle piante di nocciolo ovvero CORYLUSAVELLANA di cui i boschi circostanti son particolarmente ricchi.

Le miniere erano molto importanti perchè rappresentavano l’unico posto di lavoro dal quale i residenti guadagnavano un modesto salario per sfamare le famiglie. Nelle miniere di Schilpario si estraeva la siderite, mentre nelle miniere di Colere si estraeva la flourite. Oggi, quest’ultime non sono più in funzione, ma prossima sarà la loro apertura, grazie alla società che gestisce il parco minerario “A.Bonicelli” di Schilpario.
Possono essere visitate da chi vuol rivivere quella drammatica situazione di lavoro caratterizzata da moltissimi minatori morti di silicosi (malattia che colpisce i polmoni a causa della continua esalazione di polvere).

A Colere ogni angolo, anche nelle frazioni, parla di un profondo amore dei suoi abitanti per la montagna: a Magnone, per esempio, oltre all'antico idolo pagano si può ammirare il panorama incantevole di tutta la Valle di Scalve, immersa nella sua verde conca alpina; l'ambiente è incontaminato e la prorompente bellezza della natura è sempre la caratteristica principale di ogni veduta. La frazione Magnone sembra aver preso il nome dal passaggio in loco di Carlo Magno con le sue truppe. Nella zona del Gromo, dove esiste un piccolo pittoresco borgo storico, si trova anche il Cesulì, antica parrocchiale del paese risalente al 1600 circa, posta su una piccola altura panoramica. Da Colere si può partire per moltissime escursioni trekking: il Rifugio Albani, posto a 1939 mt., oltre ad una vista incantevole, offre un valido punto di arrivo o di partenza per chi ama scoprire le Orobie; per gli appassionati della corda, si possono fare ascensioni in parete di varie difficoltà, sulle numerosissime vie della parete nord della Presolana. Gli impianti sciistici sono rinomati da diversi anni non solo per le kilometriche piste innevate fino a primavera inoltrata, ma anche per l'incomparabile bellezza del paesaggio in quota: cime rocciose e ripidi pendii fanno di Colere uno dei paesi più attraenti di tutto l'arco alpino bergamasco. Sopra il paese, inserita nella cresta della Presolana Orientale, spicca la composizione rocciosa delle quattro Matte a cui è legata un'antichissima leggenda che ancora affascina e sorprende. Una ricca flora montana, impreziosita anche da parecchie specie rare e una notevole varietà di piante e arbusti caratterizzano da sempre la Valle di Scalve, la cui vita economica del passato è stata strettamente legata alla presenza massiccia di aree boschive che ancora oggi conferiscono un aspetto affascinante alla Valle di Scalve. Ogni cosa in questa piccola valle parla esplicitamente dello stretto legame che unisce la  vita della gente scalvina alla montagna,  e che  ancora si manifesta nel rispetto quasi integrale dei ritmi naturali che qui si impongono.

Sul luogo dove si trova il celeberrimo Santuario della Madonnina, a 500 metri dal Dezzo salendo verso Schilpario, pare esistesse fin dal Quattrocento una modesta cappella molto venerata.

Un povero pastore di Borno, Bartolomeo Burat, era giunto faticosamente con il suo gregge in Val di Scalve. Il povero uomo, ammalato di tubercolosi, la mattina del 2 luglio 1654 si era spinto, camminando faticosamente, sino al Dezzo, in località Fontane, dove si trovavano una sorgente e una piccola cappella dedicata alla Madonna.
Mentre le pecore si abbeveravano, il pastore fissò l'immagine della Vergine pregando e cercando la forza per continuare. Fu colpito da un forte attacco tanto che credette di morire. Improvvisamente apparve, avvolta da una forte luce, una maestosa Signora che, immersa la mano nella fontana, toccò la fronte di Bartolomeo e scomparve. Il pastore si sentì subito perfettamente guarito e per la gioia gridò al miracolo. La notizia dell'apparizione prodigiosa si velocemente. I pellegrini vennero alla santella da ogni parte per pregare e chiedere grazie.

Il Cesuli piccolo gioiello quattrocentesco, reca inciso nel portale la data 1585, mentre il campanile sembra risalire al 1619. Presenta nell'abside tracce di affreschi del tardo '400. Il terreno circostante all'antica chiesa parrocchiale posta su una piccola altura, fu destinato, secoli fa, anche a luogo di sepoltura. Abilmente restaurata nel 1980 dal Gruppo Alpini locale, si presenta oggi con tutta la sua straordinaria semplicità, quale unico significativo monumento architettonico locale giunto fino a noi.

La Chiesa di San Michele in Valle Sponda è piuttosto antica: ci sono tracce della sua esistenza già nel 1576. Dedicata al'Arcangelo San Michele, è stata accuratamente restaurata e può essere considerata un piccolo gioiello locale.

La nuova parrocchia di Colere dedicata a San Bartolomeo venne costruita nel 1788, data incisa nell’architrave della porta centrale, dopo circa mezzo secolo di dispute e liti tra gli abitanti delle varie contrade per decidere se ristrutturare la vecchia chiesa o procedere ad una nuova costruzione.

Il Campanile venne completato tra il 1870 e il 1879 grazie alla tenacia del parroco Don Zaverio Cesari che dovette scontrarsi con non poche contraddizioni. Resta a testimonianza di ciò la pietra incastonata nel primo tratto del campanile riportante l’incisione I.M.A.C. “IN MEZZO ALLE CONTRADDIZIONI”

La Parrocchiale sorge praticamente nel centro del Paese ed è una delle più belle chiese di tutta la Valle per linee e temperanza degli stucchi.

La festa patronale in onore di San Bartolomeo è ancora oggi molto sentita. Celebrazioni solenni, la processione con la statua del santo per le vie del paese, i tradizionali botti e la fiera la rendono una giornata “speciale”.

Il nome – via Mala – dice già molto. E ripercorrendo questo antico tracciato (esisteva già nell’Alto Medioevo e venne rifatto tra il 1473 e il 1827) che collega la valle di Scalve alla Valcamonica, lungo la valle del Dezzo, la conferma arriva puntuale: i vertiginosi precipizi che terrorizzavano i viaggiatori del passato lasciano tuttora senza fiato, e anche se le auto utilizzano una nuova strada, quasi interamente in galleria, il vecchio itinerario può essere tranquillamente ripercorso. Si può, volendo, affrontare anche dal basso e cioè lungo il sentiero sul fondo della gola. Qui i precipizi si trasformano in pareti alte fino a 500 metri. E lo spettacolo è ugualmente suggestivo con un ponte osservatorio sulla stessa gola che ne è diventato il simbolo.

Tra le arterie panoramiche delle Alpi la Via Mala bergamasca detiene infatti un primato di spettacolarità che la colloca quasi alla pari con un’altra Via Mala molto più celebre. Si tratta della strada che collega Zillis, nel cantone svizzero dei Grigioni, capoluogo della valle dello Schons, e la cittadina di Thusis. Arteria antichissima, esisteva già nell’Alto Medioevo e venne rifatta nel 1473 e nel 1827.

La suggestiva grotta del ghiaccio, è così chiamata per la presenza, in ogni periodo dell’anno, di uno strato di ghiaccio che ne ostruisce l’ingresso.

Tutto il territorio fa parte del parco delle Orobie Bergamasche e vigono rigide normative per la salvaguardia della flora e della fauna.

Rinomato per le piste da sci in inverno e per le innumerevoli escursioni in estate, il borgo è stato recentemente interessato da un boom del turismo che ha di fatto modificato la vita degli abitanti stessi, da sempre dediti alla pastorizia ed all’agricoltura.

Le pendici della Presolana e del Monte Ferrante, esposte a nord, garantiscono un innevamento duraturo, permettendo talvolta la pratica di sport invernali (pattinaggio su ghiaccio, sci alpino e nordico) fino all’inizio della primavera, mentre nei mesi più caldi sono un’ottima palestra per arrampicatori ed appassionati di trekking.

Dal paese si può giungere, attraverso vari sentieri, abbastanza facili, al Rifugio Luigi Albani, inserito nel Sentiero delle Orobie orientali.

Fino agli anni 1970 la principale attività era quella estrattiva, con miniere di blenda e fluorite, risalente ai romani. Si insediarono aziende italiane e francesi, fino all'arrivo della Montedison e poi dell'EGAM (ente minerario dell'Eni).

Negli anni '70 del secolo XX l'Amministrazione Comunale realizzò una piccola area industriale, la prima della Lombardia in area montana, con indediamento di attività artigianali nel settore della meccanica e di collanti. Furono altresì ristrutturate le vecchie laverie del minerale, ricavandone locali per l'insediamento di Cooperative del settore dell'abbigliamento. Nel 2010 fu realizzato anche un Ecomuseo della Presolana, con una raccolta di reperti minerari e della montagna locale.

Tra i principali eventi sportivi che hanno interessato il paese, è d'obbligo segnalare l'arrivo della 19ª tappa del Giro d'Italia 2004,il 29 maggio 2004. L'arrivo, posto al Passo della Presolana, ha visto la vittoria di Stefano Garzelli.

Colere è la principale località sciistica della Val di Scalve. Le piste di sci di Colere, situate sotto la parete nord della Presolana, si affacciano sulla Val di Scalve ed il Pizzo Camino, coprendo un dislivello di ben 1200 metri e godono di un'esposizione che permette alla neve di mantenere un'ottima qualità durante tutta la stagione. L'auspicato collegamento con la val Seriana (stazione sciistica di Lizzola) potrebbe portare alla creazione di un unico polo turistico con evidenti vantaggi sull'economia di entrambe le valli. Le piste hanno ospitato varie edizioni dei Campionati Italiani Assoluti di Sci Alpino.

Colere ha ospitato anche alcune edizioni dei campionati italiani di sci alpinismo.

Inoltre, dal 22 al 25 marzo 2006, si sono svolti i Campionati Italiani di Snow-Board.

Dal 2007 tutti gli anni verso la fine di giugno viene organizzata una gara podistica in salita verso il Rifugio Luigi Albani di circa 5,2 km ma con 900 metri di dislivello.

La parete nord della Presolana è meta ambita e molto conosciuta da chi pratica l'arrampicata.



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lunedì 13 luglio 2015

LA CHIESA DI SANTA MARGHERITA A CASARGO



La leggenda narra che  Santa Margherita aveva otto fratelli, di cui uno morì per un atto di scherno e di poca fede nella Provvidenza. Gli altri fratelli colpiti dalla tragedia sarebbero divenuti eremiti, e avrebbero scelto la loro dimora in luoghi solitari sui monti intorno alla valle di Casargo. I tempietti costruiti in questi luoghi avrebbero preso il nome dell'eremita che vi si era stabilito. Solamente Margherita, unica sorella, si sarebbe fermata in un luogo pianeggiante della valle (Somadino) e si recava a visitare ciascuno dei fratelli nelle rispettive località. Dai singoli romitaggi i santi erano in grado di comunicare, accendendo dei fuochi. Nelle varie versioni della leggenda l'identità dei vari santi (quindi dei rispettivi oratori montani) cambia. Fra i nomi più ricorrenti,oltre naturalmente a Santa Margherita, c'è quello di san Sfirio, il cui tempietto si trova sul culmine del Legnoncino, a quota 1714, in un punto eccezionale di osservazione del lago e della prima parte della Val Varrone; Sant'Ulderico, la cui chiesa è collacata sulle pendici settentrionali del monte Muggio (a quota 1392) e facilmente comunicante con San Sfirio; San Grato, nella Muggiasca e prospiciente sul lago; San Fedele sulla Alpe di Paglio, scomparsa da molto tempo. Altri santi, citati di volta in volta, sarebbero Defendente, Girolamo, Eusebio, Bernardino ecc.
Queste "chiese emeritiche" facevano parte di un fittissimo tessuto paramilitare-strategico di origine medioevale con chiari scopi di avvistamento e segnalazione. San Sfiro comunicava con Sant'Ulderico e questo con Tremenico e Pagnona, nella Val Varrone. Dalla torre di quest'ultimo paese (i cui resti sono tutt'oggi ancora visibili) si poteva scavalcare la sella di Piazzo ed entrare in comunicazione ottica con la zona più a valle del Pioverna o con la soprastante Muggiasca.

Santa Margherita a differenza di tutte le altre chiese del territorio, che hanno subito molteplici trasformazioni nel corso dei secoli, conserva tuttora gran parte delle antiche forme romaniche, soprattutto nella parte absidale, dove è custodito il ciclo di affreschi più antichi della Valsassina. La sua costruzione, secondo gli studiosi, è da collocarsi tra la fine dell'XI ed i primi del XII secolo. Il piccolo oratorio è comunque citato nel "Liber Notitiae Sanctorum Mediolani" del 1266 di Goffredo da Bussero, in cui viene riportato l'elenco delle chiese presenti all'epoca nell'arcidiocesi di Milano ("In Vasaxina, loco Somadino, ecclesia sancte Margherite").

Ancora oggi l'edificio si presenta con forme omogenee se si esclude il portichetto aggiunto in epoca più tarda ed è composta da una piccola navata suddivisa in due campate con volte a vela rivolta ad oriente e da un'abside semicircolare sovrastata dal catino. La facciata, stando sotto il portico, ha un portale di accesso e due finestre munite di grata. Sul lato meridionale c'è un'apertura di dimensioni maggiori che illumina l'interno. Intorno all'abside sono visibili gli archetti sotto gronda e le tre monofore. Il tetto a due falde e la conica copertura dell'abside sono rivestite da spesse piode locali. In corrispondenza della facciata svetta un campaniletto a vela senza campana. I muri esterni, per la caduta degli intonaci, mettono in luce, nella zona absidale e nella parete meridionale, una tessitura muraria di pietre a vista.

La costruzione originaria, senza portico e con una piccola porta sul lato nord, ha comunque subito nei tempi rimaneggiamenti e aggiunte. Infatti è solo tra la metà del XIII e il XV secolo che viene aggiunto il portico in dimensioni più piccole dell'attuale e sostitute le primitive capriate interne del tetto con una duplice volta sorretta da pilastri sporgenti dal muro (lesene). Nel XVII secolo vengono chiuse le monofore e la porticina laterale, su ordine di Carlo Borromeo e ricavata una finestra sul lato meridionale e due gradini nel presbiterio all'epoca di Federico Borromeo. Nel settecento viene ampliato il portico con l'aggiunta di sedili in pietra e aperta una finestra di sinistra nella facciata. L'altra finestra della facciata, la riapertura delle monofore e di una nicchia interna per gli olii santi risalgono all'epoca contemporanea (fine XX secolo).

All'interno, a sinistra per chi entra, nella prima campatella della navata è presente un affresco che rappresenta la Vergine con Bambino, santa Margherita alla sua sinistra e un santo martire alla sua destra, che il Borghi identifica con San Giorgio. I sacerdoti Pasetti e Uberti nel 1911, denunciando lo stato di precarietà del dipinto, così lo descrivono: "Le figure sono a circa due terzi della grandezza naturale. A sinistra (per chi osserva) è ritto un giovane soldato, in clamide verdognola, e gambe rosse. Colla destra regge l'asta di un gonfalone spiegato, recante la croce; la manca è poggiato sull'elsa di un enorme spadone con la punta verso terra, Guarda verso la Madonna, che campeggia un po' più in alto, nel mezzo della scena. La Vergine è molto bella, sebbene volgaruccia; ha tinta rossigna, veste rossa, manto azzurro. Colla destra si tien sul petto un libro legato in verde, colla sinistra tien saldo il Bambinello, in vestina color carne, meno leggiadro della divina sua Madre. Egli è in atto di benedire, e nella sinistra regge la palla che rappresenta il mondo. A destra vi è santa Margherita, ritta in piedi, con lungo abito tutto di un pezzo; presso il collo spunta una camicia a ricami. Qui il colore è più morbido che nelle altre figure, ricciuti i capelli, gentile l'aspetto e il portamento. Nella destra la Santa stringe una crocetta semplicissima di legno lunga quasi mezza la persona. Vicino ai piedi della Santa c'è una specie di vilucchio o roveto, ma coperto in parte da una grossa macchia rossa, sovrapposta. Può darsi che vi fosse dipinto un diavolo. Qua e là, mani irriverenti e rozzissime hanno da secoli segnato date: 1519; 1548, colla parola Hispania 1570;1604; 1654". I sacerdoti richiamano l'attenzione su un cartiglio a fianco del dipinto che indica la data di esecuzione e che interpretano come "1470, die 7 augusti" ma con dubbi nella interpretazione delle cifre perché propongono anche 1420 o 1429. Dubbi giustificati secondo Zastrow ("Repertorio di arte medioevale in Alta Valsassina", Noseda Editrice, Como, 1976) perché la seconda cifra deve essere letta come "5" e non come "4" (le ultime due cifre sono illeggibili). Considerando lo stile compositivo, il dipinto è concordemente collocato nell'ambito della produzione rinascimentale (XVI secolo), cioè successivamente all'epoca dei lavori di voltatura della navata. C'è chi sulla scorta dei collegamenti tra la Val Varrone e Venezia, ipotizza possibili influenze della pittura veneta. Nei primi anni settanta, è stato portato alla luce, sotto lo spesso strato di imbiancature e ridipinture, un ciclo di affreschi nell'abside scandito dalle tre monofore riccamente decorate da motivi fitomorfi. Nel catino absidale, separata da una marcata fascia rossa dal ciclo sottostante, si intravede all'altezza della monofora centrale un piede poggiato su una bassa pedana. Questo dettaglio presumibilmente è da identificare con un Cristo Pantocratore, anche se alcuni documenti delle visite pastorali parlano di un Cristo crocefisso. Solo i futuri restauri potranno sciogliere il dubbio e mostrare se ai lati di questa figura siano rappresentati, come è stato ipotizzato da Zastrow, i simboli apocalittici degli Evangelisti. Sul semicilindro absidale, partendo dalla parte sinistra, è possibile osservare la rappresentazione di un santo identificato come San Quirico; tra questa e la prima monofora si vedono semplici ornamentazioni vegetali, mentre di seguito trovano posto la raffigurazione della Madonna con Bambino. La postura dei personaggi sacri (il Bambino appoggia dolcemente la tempia sulla guancia della Madre, che abbraccia con affetto) avvicina questa rappresentazione al tipo iconografico della Madonna della Tenerezza, che si caratterizza per una maggiore intensità espressiva e umanità. Nell'intervallo tra la seconda e la terza finestrella sono rappresentate due sante: sono Santa Margherita, e Santa Brigida. Infatti due chiare iscrizioni hanno permesso di identificarle con certezza. Nell'ultimo spazio sono affiorate le figure aureolate di due santi: le scritte "Holomeus" e "As", sotto i volti delle figure maschili hanno fatto supporre che riguardino San Bartolomeo e Sant'Andrea.

L'architetto Suor Paola Dell'Oro, che ha curato il recente restauro conservativo della chiesa, nella sua relazione storica così descrive l'affresco: "I personaggi realizzati con tinte di terra a tonalità calde comprese tra il rosso e l'ocra, con sottolineature bianche e verdi, emergono sopra uno sfondo blu che comincia all'altezza dei fianchi delle figure. Nella parte inferiore non è possibile vedere cosa è rappresentato, se non nel caso della Madonna che è posta su un trono bianco con inserti rossi...Partendo dal lato nord incontriamo la figura anonima (della santa) ; non è visibile nella sua interezza per la mancanza della pellicola pittorica sia per la presenza nella parte inferiore di un grossolano arriccio. È visibile essenzialmente il volto, di sembianze femminili aureolato. In posizione quasi centrale, ma non in asse con la chiesa, incontriamo la Madonna con il Bambino che è il frammento più completo e più raffinatamente realizzato. Sono infatti accuratamente sottolineati i profili delle sopracciglia, curvilinee e continue, del naso stretto e affilato e delle palpebre che definiscono nettamente l'arcata sopraccigliare. Il carattere più interessante è appunto l'uso della terra verde per gli incarnati, ben visibile sulla fronte, riscontrabile anche a Civate, dove però differisce per tratti meno sicuri e più chiaroscurati. Ancora, il viso è sottolineato da un'ombra di colore verde-grigio, la stessa che segna le occhiaie e le guance. Da notare anche gli zigomi definiti inferiormente da una linea che, partendo dall'angolo interno dell'orbita oculare giunge sotto la base dell'orecchio. I due personaggi hanno forme piuttosto affusolate sia nella foggia delle vesti, che del corpo, ma soprattutto per quanto riguarda il volto. I personaggi ritratti alla destra, Santa Margherita e Santa Brigida, come San Bartolomeo e Sant'Andrea ripetono le caratteristiche stilistiche appena denunciate. Santa Margherita rivolta leggermente di tre quarti verso Santa Brigida regge nelle mani degli oggetti non identificabili; Santa Brigida è posta simmetricamente, con un braccio piegato...Il campo che contiene San Bartolomeo e Sant'Andrea è nella parte inferiore, in parte scialbato e in parte lacunoso anche dell'intonaco; solo il volto di Sant'Andrea è chiaramente percepibile: secondo la diffusa iconografia presenta una folta barba e porge il libro in una mano".

L'identificazione dei personaggi permette di capire la ragione per cui è stato scelto di raffigurare assieme dei santi generalmente non in relazione tra loro: infatti nell'affresco essi rappresentano i santi patroni delle chiese del territorio limitrofo: Santa Brigida identifica Narro, San Bartolomeo Margno, Sant'Andrea Pagnona e naturalmente Santa Margherita Somadino. Del resto tutte queste chiese sono molto antiche e tutte sono citate dal "Liber Notitiae Sanctorum Mediolani" del 1266 di Goffredo da Bussero. Questo ciclo pittorico, che risente ancora dei rigidi schematismi della pittura bizantina, è datato tra il XII e i primi del XIII secolo e costituisce l'unico affresco romanico conservatosi in Valsassina. Certamente opera di un unico pittore, esso presenta, secondo Zastrow  delle particolarità significative rispetto ai diffusi canoni della pittura medioevale coeva. Infatti, sotto l'immagine del Cristo, è rara la presenza di un numero così ristretto di santi e ancor più quella della Vergine con il Bambino. Normalmente, secondo lo studioso, alla base dell'abside "era più comune incontrare le figure dei dodici apostoli, eventualmente anche in compagnia della Vergine e di altri Santi", magari ridotti in dimensioni, come nel non lontano tempietto di San Fedelino sul lago di Mezzola.

Un'altra anomalia è la rappresentazione della Vergine proprio nell'abside, "quando principalmente la si nota lungo le pareti della navata e per lo più come affresco votivo". Del resto è inconsueta per l'epoca anche la "duplicazione della figura di Gesù" che torreggia nelle vesti del Pantocratore nel catino dell'abside e nel contempo più sotto è rappresentato nelle braccia della Vergine. Anche la stessa struttura della chiesetta presenta aspetti singolari. Per esempio il diametro dell'abside non è perpendicolare con l'asse della navata. Le stesse monofore inoltre non si trovano in posizione simmetrica e questo comporta che la figura della Madonna col Bambino, tra la prima e la seconda apertura, non sia al centro del semicilindro dell'abside come ci si aspetterebbe. Questa "apparente disarmonia", rilevata anche per la chiesetta di Sant'Ulderico, è stata spesso imputata alla "rozzezza" degli artefici medioevali che operavano in un'area marginale come quella dell'alta Valsassina. Zastrow invece, considerando i manufatti romanici di questa zona, tra cui anche San Rocco a Narro, e giudicandoli di livello qualitativo considerevole, propende per "una filtrazione personalizzata dei generali canoni creativi medioevali".

Un'altra particolarità di Santa Margherita, messa il luce di recente sempre dallo Zastrow ("La chiesa matrice di San Bartolomeo a Margno, Lecco, 2001) solleva invece interrogativi sulle originarie funzioni sacre di questo oratorio. Già in una relazione di una visita fatta nel 1579 da Mons. Luigi Sanpietro, delegato dell'arcivescovo, si suppone che la chiesetta fosse in antico l'unica chiesa parrocchiale di tutta l'Alta Valsassina. Nello studio del Mastalli viene riportato quanto si afferma nella relazione e cioè: "In essa si vede una buca o lavello de pietra rusticho... che si dice fusse l'anticho fonte battesimal". Negli atti della seconda visita pastorale di San Carlo Borromeo, nel 1582, descrivendo lo stato di abbandono della chiesetta, si prescrive di togliere il contenitore litico collocato in un angolo dell'edificio. Si tratta dello stesso contenitore di cui si era già fatto cenno negli atti della visita, nel 1579, dal delegato dell'arcivescovo che aveva indicato il suo utilizzo "pro baptisterio". Questa laconica notazione indicherebbe che Santa Margherita, fin dall'epoca medioevale, avrebbe avuto la prerogativa di chiesa battesimale, di norma riservato alla chiesa principale della pieve, nel caso della Valsassina a San Pietro a Primaluna. Secondo lo storico, per spiegare questa anomalia, rara nella diocesi ambrosiana, occorre prendere in considerazione "la particolare configurazione "di frontiera" e di luogo fortificato che ebbe a caratterizzare anticamente l'estremità settentrionale della pieve Valsassina: in particolare la valle di Casargo e l'alta testata della Val Varrone". Quindi, proprio per le caratteristiche di chiusura di questo territorio e il relativo isolamento rispetto alla sede prepositurale, nell'area "periferica" della val Casargo, si sarebbe realizzata una forma di autonomia ecclesiastica già dall'epoca feudale; l'oratorio di Santa Margherita ne sarebbe stato il principale tempio sacro e proprio per questo dotato di una prerogativa tanto importante. Tutto questo sembrerebbe essere avvenuto prima che si affermasse l'effettiva indipendenza (rispetto a San Pietro di Primaluna) della parrocchia di Margno (prima metà del XIV secolo) , sotto il cui controllo passeranno in seguito tutte chiese della val Casargo e Sant'Andrea a Pagnona. Alla luce di queste considerazioni, il ciclo di affreschi con i santi delle varie chiese della val Casargo e di Pagnona acquisterebbe un significato coerente: i santi chiamati a raccolta, sotto l'immagine del Cristo, intorno alla fonte battesimale rappresenterebbero le comunità religiose di questa area che riconoscevano in Santa Margherita, forse il più antico edificio sacro del luogo, il loro centro spirituale e religioso. Una ulteriore conferma della presenza nella chiesetta di un battistero è la scoperta, nel corso dei recenti restauri, di una fonte sotto il pavimento del presbiterio nella parte sinistra dell'abside, vicino alla piccola porta fatta chiudere da San Carlo. L'acqua sgorga ancora oggi direttamente da una frattura della roccia, su cui peraltro poggia l'intero edificio. Per il suo deflusso è stato necessario approntare una canaletta di scolo per portare all'esterno l'acqua e costruire un piccolo vespaio sotto il pavimento per consentire una maggiore aerazione e diminuire l'umidità sottostante.

Forse la presenza di questa fonte che sgorga dallo sperone roccioso non è del tutto estranea alla fondazione, proprio in questo particolare luogo, dell'edificio religioso. E forse era proprio questa l'acqua che serviva per il battesimo dei primi fedeli nell'antica comunità cristiana dell'alta Valsassina.


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