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lunedì 13 giugno 2016

SANT'ANTONIO DI PADOVA

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Fernando di Buglione nasce a Lisbona. A 15 anni è novizio nel monastero di San Vincenzo, tra i Canonici Regolari di Sant'Agostino. Nel 1219, a 24 anni, viene ordinato prete. Nel 1220 giungono a Coimbra i corpi di cinque frati francescani decapitati in Marocco, dove si erano recati a predicare per ordine di Francesco d'Assisi. Ottenuto il permesso dal provinciale francescano di Spagna e dal priore agostiniano, Fernando entra nel romitorio dei Minori mutando il nome in Antonio. Invitato al Capitolo generale di Assisi, arriva con altri francescani a Santa Maria degli Angeli dove ha modo di ascoltare Francesco, ma non di conoscerlo personalmente. Per circa un anno e mezzo vive nell'eremo di Montepaolo. Su mandato dello stesso Francesco, inizierà poi a predicare in Romagna e poi nell'Italia settentrionale e in Francia. Nel 1227 diventa provinciale dell'Italia settentrionale proseguendo nell'opera di predicazione. Il 13 giugno 1231 si trova a Camposampiero e, sentondosi male, chiede di rientrare a Padova, dove vuole morire: spirerà nel convento dell'Arcella.

Nasce in Portogallo, a Lisbona, il 15 agosto del 1195  da una famiglia di origini nobili. Non appena adolescente, decide di entrare nel monastero agostiniano di São Vicente, fuori le mura di Lisbona, per vivere l’ideale evangelico senza compromessi.

Sant’Antonio, prima francescano poi missionario, fu un instancabile viaggiatore. Visitò molte terre desolate e disperate dalla fame del tempo e dopo aver percorso la Francia e l’Italia in viaggi apostolici estenuanti, Antonio si ritira a Camposampiero, località situata nei pressi di Padova.

Qui il Conte Tiso ha l’opportunità di assistere a un miracolo, cioè il Bambino Gesù accolto tra le braccia del frate. Accortosi che la vita lo sta ormai abbandonando, Antonio chiede a Tiso di essere portato a Padova. Assistito dai francescani, Sant’Antonio da Padova muore all’età di trentasei anni, sussurrando le parole “Vedo il mio Signore”. E’ il 13 giugno del 1231. Meno di un anno dopo, Papa Gregorio IX lo nominerà santo.

Sant’Antonio da buon predicatore  parlava con la gente, ne condivideva l’esistenza umile e tormentata, impegnandosi a diffondere la conversione alla religione cristiana propugnando sempre valori di pace. Attendeva alle confessioni, si confrontava personalmente o in pubblico con i sostenitori di eresie.

Sant’Antonio ha avuto una particolare predilezione per i bambini. Tra i miracoli da lui compiuti, quand’era in vita, più di uno riguarda proprio loro. Per questo è invalsa la tradizione di porre i piccoli, fin dalla nascita, sotto la protezione del Santo.

Non mancano i miracoli, dalla predica ai pesci alla mula rimasta a digiuno per tre giorni che si inginocchia di fronte all’Ostensorio, favorendo la conversione del suo padrone precedentemente ateo. Tra preghiere, penitenze, mortificazioni e sacrifici, Antonio ha modo di incontrare, tra l’altro, il dittatore Ezzelino da Romano a Verona. Egli diventa il primo dei Frati Minori a insegnare, su manifesta volontà di Francesco, teologia all’Università di Bologna.

La notizia della morte di Antonio si diffuse rapidamente e quel che temeva padre Vinotto s'avverò. Le reliquie di un Santo erano viste come portatrici, oltre che di vantaggi spirituali e miracoli, di prosperità sicura in tempi di pellegrinaggi e di fede diffusa. Gli abitanti di Capodiponte, nella cui giurisdizione si trovava Arcella, arrivarono per primi: «Qui è morto e qui resta»; spalleggiati dalle clarisse: «Non lo abbiamo potuto vedere da vivo, che ci resti almeno da morto». L'indomani giunsero all'Arcella i frati di Santa Maria Mater Domini per traslare la salma, ma furono affrontati, armi in pugno, dagli uomini più giovani di Capodiponte. Ogni forma di dialogo pacato risultò inutile, sicché i frati rientrarono a Padova dove si rivolsero al Vescovo. Questi, saputo che Antonio aveva espresso precisa volontà di morire in città, nel suo convento, diede loro ragione e incaricò il Podestà di sedare gli animi, anche con la forza, se necessario. L'uso della forza non si rese necessario e il 17 giugno, all'Arcella, si svolse la cerimonia funebre. La sera dello stesso giorno, la salma del Santo fu trasportata al convento di Santa Maria Mater Domini a Padova.



La Chiesa nella persona del papa Gregorio IX, in considerazione della mole di miracoli attribuitagli, lo canonizzò dopo solo un anno dalla morte. Pio XII, che nel 1946 ha innalzato sant'Antonio tra i Dottori della Chiesa cattolica, gli ha conferito il titolo di Doctor Evangelicus, in quanto nei suoi scritti e nelle prediche che ci sono giunte era solito sostenere le sue affermazioni con citazioni del Vangelo.

Gli fu dedicata la grande Basilica di Padova; sia la basilica che Sant'Antonio vengono comunemente chiamati in città "il Santo". La sua data di nascita ci è stata tramandata dalla tradizione, e la sua festa cade il 13 giugno, giorno della sua morte; a Padova, in occasione della ricorrenza, si svolge un'imponente celebrazione con una grande e sentita processione.

Fin dal giorno dei funerali la tomba di Antonio divenne meta di pellegrinaggi che durarono per giorni. Devoti di ogni condizione sociale sfilavano davanti alla sua tomba toccando il sarcofago e chiedendo miracoli, grazie e guarigioni. A causa della folla le autorità decisero di disciplinare il flusso e tutta Padova – si legge nell'Assidua –«nei giorni prefissati veniva in processione a piedi nudi», anche di notte.

In quel periodo furono attribuiti alla sua intercessione molti miracoli e, «a furor di popolo», il vescovo e il podestà li sottoposero al giudizio del Papa.

Papa Gregorio IX, che conosceva Antonio, avendo assistito alle sue prediche, accolse gli ambasciatori padovani e nominò una commissione di periti, presieduta dal vescovo di Padova, per raccogliere le testimonianze e le prove documentarie utili al processo di canonizzazione.

Secondo l'Assidua la commissione fu sommersa a Padova «da una gran folla, accorsa per deporre con le prove della verità, di essere stata liberata da svariate sciagure grazie ai meriti gloriosi del beato Antonio». Il Vescovo ascoltò «le deposizioni confermate con giuramento», mise per iscritto i «miracoli» approvati e promosse le indagini necessarie. Completato l'esame diocesano, inviò al Papa una seconda delegazione. A Roma l'istruttoria fu assegnata al cardinale Giovanni d'Abbeville, che in pochi mesi esaurì il compito assegnatogli.

Fu Gregorio IX stesso che pose fine al processo quando tagliò ogni ritrosia rimasta fissando al 30 maggio, festa di Pentecoste, la cerimonia ufficiale di canonizzazione e che inviò per questo una Bolla ai fedeli e al podestà di Padova. Nel Duomo di Spoleto, Gregorio IX ascoltò la lettura dei cinquantatré miracoli approvati e, dopo il canto del Te Deum, proclamò solennemente e ufficialmente santo frate Antonio, fissandone la festa liturgica nel giorno anniversario della sua nascita in cielo, il 13 giugno. I fedeli poterono festeggiare Antonio come santo esattamente un anno dopo la sua morte. Completato dopo soli 352 giorni, il suo processo di canonizzazione è da sempre considerato il più veloce della storia della Chiesa Cattolica (più veloce di soli due giorni rispetto a quello di Pietro da Verona, avvenuto dopo soli 354 giorni dalla morte del domenicano e quindi il secondo processo di canonizzazione più veloce della Chiesa Cattolica).

Per l'afflusso di pellegrini che affluiva a Padova sulla tomba, si iniziò la costruzione di una chiesa più capiente che fu terminata nel 1240. Nel 1263 il Ministro Generale dei francescani, Bonaventura da Bagnoregio, fece traslare la salma di Antonio di Padova nella nuova basilica. Si narra che durante l'ispezione prima del trasporto dei resti mortali, sarebbe stata rinvenuta la lingua intatta e rosea come fosse viva. Ogni anno, ancora oggi, i frati Antoniani in Padova ricordano quel ritrovamento.

Ancora oggi sono milioni le persone che annualmente visitano la sua tomba nella Basilica di Padova, e la maggior parte di queste persone porta nell'animo una profonda venerazione per questo grande frate francescano.

Sebbene "il Santo" venga comunemente chiamato "Sant'Antonio da Padova", questa denominazione non indica la sua originaria provenienza poiché egli era nato e cresciuto nel Portogallo. Il suo nome viene affiancato alla città di Padova perché qui ha avuto luogo la sua attività più significativa. Tra l'altro è usanza che i frati prendano il nome di provenienza dal convento a cui appartengono, quindi in questo senso è corretto riferirsi a Sant'Antonio di Padova (nel senso di appartenenza) ma non da Padova. Soltanto in Portogallo egli è chiamato comunemente Santo António de Lisboa, ovvero "Sant'Antonio da Lisbona", sua città natale.

Una reliquia di Sant'Antonio di Padova si trova anche a Zugliano (VI), dove si può visitare la chiesa di San Zenone, santuario antoniano. Subito dopo l'entrata a destra si trova l'Arca del Santo, all'altare che custodisce, per singolare privilegio, alcuni frammenti dell'osso radio, preziosissime reliquie date in dono alla parrocchia nel lontano 1656.

Una insigne Reliquia del Santo è custodita, dal febbraio 1995, presso la Basilica-Santuario di Afragola (NA), il secondo luogo di culto (per importanza) dedicato al Santo, per tale ragione i Frati Conventuali di Padova hanno ben ritenuto di affidarle il titolo puramente onorifico di "Padova del Sud".

 Tredici è il numero ricorrente in Sant’Antonio infatti quando si dice la Tredicina con questo termine si intendono innanzitutto i tredici giorni di preparazione alla festa di sant’Antonio che ha luogo il 13 giugno. La Tredicina si ripete ancora oggi nella Basilica e in altri santuari antoniani o chiese francescane, come pure privatamente in tante famiglie.

Ma con lo stesso termine si intende anche una preghiera articolata in tredici punti e tredici sono anche i miracoli che si dice possa compiere Sant’Antonio in una sola giornata.

Numerose associazioni nel mondo sono nate e operano nel nome di Sant’Antonio, portando la sua presenza soprattutto caritativa. Da secoli, in tutto il mondo, milioni di persone si dimostrano legate a Sant’Antonio con grande amore e devozione autentica.

I devoti vedono in Sant’Antonio un amico, ascoltatore e confidente. Egli è l’interlocutore dei poveri, che dialoga con chiunque abbia da condividere qualche sofferenza nel corpo o nello spirito.

A Sant’Antonio viene chiesta luce per illuminare la propria esistenza, aiutare chi è smarrito, consolare chi soffre e soccorrere i bisognosi. I devoti lo riconoscono e lo amano con il giglio ( purezza e trasparenza della vita) con il Gesù Bambino (segno di amore tenero e disponibile) e il libro (parola di Dio). In alcune chiese francescane o, comunque, legate particolarmente a sant’Antonio, il giorno della sua festa (13 giugno) si è soliti benedire dei piccoli pani, che poi vengono distribuiti ai fedeli e consumati per devozione. In alcuni paesi sono gli stessi fedeli o qualcuno di loro a prendere l’iniziativa.

Tale devozione deriva certamente dall’iniziativa dei “pane dei poveri” che nel passato era molto viva presso le chiese.

La morte avvenne di venerdì, il 13 giugno 1231, sul far della sera. Per questo i frati della Basilica ogni venerdì sera, con una semplice ma toccante funzione, rievocano il momento del transito.



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domenica 14 febbraio 2016

SAN VALENTINO

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San Valentino da Terni (Terni, 176 circa – Roma, 14 febbraio 273), è stato un vescovo romano, martire.

Venerato come santo dalla Chiesa cattolica, da quella ortodossa e successivamente dalla Chiesa anglicana, è considerato patrono degli innamorati e protettore degli epilettici.

La più antica notizia di san Valentino è in Martyrologium Hieronymianum, un documento ufficiale della Chiesa dei secc. V-VI dove compare il suo nome e anniversario di morte. Ancora nel secolo VIII un altro documento, Passio Sancti Valentini, ci narra alcuni particolari del martirio: la tortura, la decapitazione notturna, la sepoltura a Terni ad opera dei discepoli Proculo, Efebo e Apollonio, il successivo martirio di questi e la loro sepoltura.

Nato in una famiglia patrizia, fu convertito al cristianesimo e consacrato vescovo di Terni nel 197, a soli 21 anni.

Nell'anno 270 Valentino si trovava a Roma, giunto su invito dell'oratore greco e latino Cratone, per predicare il Vangelo e convertire i pagani.

Invitato dall'imperatore Claudio II il Gotico a sospendere la celebrazione religiosa e ad abiurare la propria fede, rifiutò di farlo, tentando anzi di convertire l'imperatore al cristianesimo. Claudio II lo graziò dall'esecuzione capitale affidandolo a una nobile famiglia.

Valentino venne arrestato una seconda volta sotto Aureliano, succeduto a Claudio II. L'impero proseguiva nelle sue persecuzioni contro i cristiani e, poiché la popolarità di Valentino stava crescendo, i soldati romani lo catturarono e lo portarono fuori città lungo la via Flaminia per flagellarlo, temendo che la popolazione potesse insorgere in sua difesa. Fu decapitato il 14 febbraio 273, a 97 anni, per mano del soldato romano Furius Placidus, agli ordini dell'imperatore Aureliano.

È commemorato nel martirologio romano il 14 febbraio, giorno in cui veniva celebrata l'antica festa di santa Febronia.
Le sue spoglie furono sepolte sulla collina di Terni, al LXIII miglio della via Flaminia, nei pressi di una necropoli. Le reliquie del Santo sono nella Chiesa della Madonna di Loreto a Rovereto.

S.Valentino fu sepolto in un’area cimiteriale nei pressi dell’attuale Basilica. E’ sicuro che quel cimitero già esisteva in età pagana. Da questa zona provengono alcuni reperti le più antiche risalgono ai secc. IV-V. Si tratta di titoli sepolcrali. Il pezzo più interessante è il sarcofago a “teste allineate” del sec.IV ora conservato in Palazzo Carrara. E’il tradizionale sarcofago paleocristiano dove sono scolpite attorno alla figura del defunto orante, Scene della vita di Cristo. La prima basilica fu costruita nel sec.IV dato che la collocazione dell’edificio, fuori delle mura della città e in area cimiteriale e sopra la tomba del martire. Distrutta dai Goti, insieme alla città nel sec. VI, sarebbe stata ricostruita nel sec.VII. A conferma di questa ultima costruzione fu il rinvenimento di una moneta di Eraclio del 641. Al periodo della prima costruzione o a quella della ricostruzione del sec.VII, dovrebbe risalire la cripta con l’altare ad arcosolio, cioè sotto una nicchia coperta da un arco e sopra la tomba del martire. Intorno al sec.VII la basilica fu affidata ai Benedettini. Nel 742 vi avvenne l’incontro storico tra il papa Zaccaria partito da Roma verso Terni e il vecchio re longobardo Liutprando. La scelta della Basilica di S.Valentino fu fatta dal re perché all’interno di quella si veneravano le spoglie del glorioso martire alle quali egli attribuiva un valore taumaturgico. Da quell’incontro il re donava al pontefice alcune città italiane tra le quali Sutri.
Qui il pontefice ordinò il nuovo vescovo di Terni alla cui morte (760) la città rimase priva del pastore fino al 1218. In questo periodo la basilica fu oggetto di scorrerie prima di Ungari poi Normanni e Saraceni poi degli abitanti di Narni che vantavano pretese su alcuni territori e sulla Basilica. Onorio III nel 1219 vi si recò e consegnò la Basilica al clero locale. Da questo anno in poi non sappiamo più nulla dello stato di conservazione della Basilica. Agli inizi del 1600 doveva apparire fatiscente.

Nel 1605 il vescovo Giovanni Antonio Onorati, ottenuto il permesso da papa Paolo V, fece iniziare le ricerche del corpo del Santo. Erano partite da tempo anche a Roma le ricerche dei primi martiri della Chiesa e per autenticare la loro esistenza e per accrescerne la venerazione. Il corpo di S.Valentino fu presto rinvenuto in una cassa di piombo contenuta entro un’urna di marmo rozza esternamente ma all’interno intagliata con rilievi. La testa era separata dal busto a conferma della morte avvenuta per decapitazione. Fu portata subito in Cattedrale. Nessuno in città voleva che il corpo del loro martire riposasse nella chiesa madre. Neanche la Congregazione dei Riti era favorevole poiché le reliquie dovevano essere venerate là dove erano state sepolte. Così si decise di ricostruire una nuova Basilica.



I lavori per la costruzione della Basilica iniziarono nel 1606 e durarono alcuni anni ma già dal 1609 questa poté essere officiata dai PP.Carmelitani, chiamati a custodirla. Nel 1618 il corpo del santo vescovo e martire venne solennemente riportato nella sua Basilica. Nel 1625 l’Arciduca Leopoldo d’Austria, diretto a Roma, fece visita alla Basilica e si assunse la spese per la costruzione di un nuovo altare maggiore in marmo, completato nel 1632, impegnandosi a rendere alla Basilica una parte del cranio del Santo donata alcuni secoli prima ad un suo antenato. Dietro all’altare maggiore è il coro con la “confessione” di S.Valentino, un altare costruito sopra la tomba del martire. Al centro è una tela ovale che ricorda il martirio del santo, opera della fine del sec. XVII. L’episodio del Duca Leopoldo fornì l’occasione per un radicale rinnovamento dell’architettura del tempio, condotto a termine grazie anche all’opera di molti ternani. La Basilica si presenta secondo uno schema caro ai teorici della Controriforma: grande navata unica con attorno cappelle laterali, due grandi cappelle costituiscono il transetto, presbiterio e dietro l’altare del martire con la “confessione”. La facciata del sec.XVII è animata da paraste, un grande portale sormontato da un finestrone. Le statue in stucco raffigurano in alto i santi patroni della città Valentino e Anastasio (+649) e sono state aggiunte nel sec.XIX. L’interno è animato da grandi paraste con capitelli in stile ionico con ghirlande. Queste sorreggono un architrave sporgente dentellato. Due cappelle per lato erano proprietà di alcune famiglie importanti della città. Le più interessanti sono le cappelle del transetto. Quella di destra è dedicata a S.Michele arcangelo ed era la cappella privata della famiglia Sciamanna. Ai lati infatti sono i monumenti funebri di alcuni membri tra i quali un certo Brunoro, vescovo di Caserta morto nel 1647. Al centro è la bella pala con S.Michele che sconfigge il demonio dell’artista romano Giuseppe Cesari detto il “Cavalier d’Arpino”. Esponente di una pittura colta e raffinata, docile alle richieste della Chiesa, che tornava a privilegiare chiarezza dell’espressione e il decoro nella rappresentazione delle figure sacre. Questa immagine è una chiara ripresa del classicismo di Raffaello: equilibrio della posa e fermezza dell’atteggiamento. L’altra cappella è dedicata alla santa carmelitana Teresa d’Avila. La bella pala centrale raffigura la Madonna con il Bambino tra i SS.Giuseppe e Teresa dell’artista Lucas De La Haye, monaco carmelitano della seconda metà del sec. XVII. L’artista fu l’incarico principale della decorazione della basilica. Infatti oltre a questa lascia altri capolavori tra i quali la bella pala centrale con S.Valentino chiede la protezione della Vergine su Terni e ancora una Adorazione dei pastori e una Adorazione dei Magi. Sempre per la basilica realizza le tele con i Quattro evangelisti e una serie con i Martiri ternani (Catulo, Saturnino, Lucio e magno discepoli di Valentino) conservati nella navata. Il suo stile è pienamente barocco: figure ricoperte di sontuosi panneggi che si agitano al vento, intrisi di un colore caldo che fa pensare anche ad un’influenza sull’artista della pittura veneta forse filtrata dal Rubens romano. Al centro del coro è una grande tela raffigurante la Crocifissione dove traspaiono figure intrise di grande drammaticità. Un ultimo capolavoro si può ammirare in una delle cappelle della navata. Si tratta di una tela raffigurante la Madonna con il Bambino ed i SS. Lorenzo, Giovanni Battista e Bartolomeo del 1635, opera di Andrea Polinori, cittadino di Todi. L’ispirazione dell’artista è il Caravaggio ma è abile a regolarizzarlo e depurarlo di ogni aggressività.
L’ambiente della cripta presenta l’antico altare ad arcosolio (inserito in una nicchia voltata a botte sopra la tomba del martire) nel quale furono rinvenute le reliquie di S.Valentino. Alcuni reperti dell’area valentiniana sono stati riuniti nell’ambiente accanto alla cripta.

La festa del vescovo e martire Valentino si riallaccia agli antichi festeggiamenti di Greci, Italici e Romani che si tenevano il 15 febbraio in onore del dio Pane, Fauno e Luperco. Questi festeggiamenti erano legati alla purificazione dei campi e ai riti di fecondità. Divenuti troppo orridi e licenziosi, furono proibiti da Augusto e poi soppressi da Gelasio nel 494. La Chiesa cristianizzò quel rito pagano della fecondità anticipandolo al giorno 14 di febbraio attribuendo al martire ternano la capacità di proteggere i fidanzati e gli innamorati indirizzati al matrimonio e ad un’unione allietata dai figli. Da questa vicenda sorsero alcune leggende. Le più interessanti sono quelle che dicono il santo martire amante delle rose, fiori profumati che regalava alle coppie di fidanzati per augurare loro un’unione felice. Oggi la festa di S.Valentino è celebrata ovunque come Santo dell’Amore. L’invito e la forza dell’amore che è racchiuso nel messaggio di S.Valentino deve essere considerato anche da altre angolazioni, oltre che dall’ormai esclusivo significato del rapporto tra uomo e donna. L’Amore è Dio stesso e caratterizza l’uomo, immagine di Dio. Nell’Amore risiede la solidarietà e la pace, l’unità della famiglia e dell’intera umanità.

A Terni è sorta la “Fondazione S.Valentino”, che cura il culto del Santo durante l’intero mese di febbraio:vi sono programmate grandi iniziative di fede e di cultura, di arte e di scienza, di spettacolo e di divertimento.Da quest'anno è nata inoltre l'Associazione "San Valentino Festival" promossa da Comune, Provincia, Camera di Commercio, Diocesi, Sviluppumbria e Consorzio Cometa per organizzare eventi valentiniani anche nel resto dell'anno.

Sono molte le leggende entrate a far parte della cultura popolare, su episodi riguardanti la vita di san Valentino:
Una di esse narra che Valentino, graziato ed "affidato" ad una nobile famiglia, compì il miracolo di ridare la vista alla figlia cieca del suo "carceriere": Valentino, quando stava per essere decapitato, teneramente legato alla giovane, la salutò con un messaggio d'addio che si chiudeva con le parole: « dal tuo Valentino...».
Un'altra, di origine statunitense, narra come un giorno il vescovo, passeggiando, vide due giovani che stavano litigando ed andò loro incontro porgendo una rosa e invitandoli a tenerla unita nelle loro mani: i giovani si allontanarono riconciliati. Un'altra versione di questa storia narra che il santo sia riuscito ad ispirare amore ai due giovani facendo volare intorno a loro numerose coppie di piccioni che si scambiavano dolci gesti d'affetto; da questo episodio si crede possa derivare anche la diffusione dell'espressione piccioncini.
Secondo un altro racconto, Valentino, già vescovo di Terni, unì in matrimonio la giovane cristiana Serapia e il centurione romano Sabino: l'unione era ostacolata dai genitori di lei ma, vinta la resistenza di questi, si scoprì che la giovane era gravemente malata. Il centurione chiamò Valentino al capezzale della giovane morente e gli chiese di non essere mai più separato dall'amata: il santo vescovo lo battezzò e quindi lo unì in matrimonio a Serapia, dopo di che morirono entrambi.
La città del santo, Terni, invoca san Valentino come principale patrono, numerosi eventi e celebrazioni sono organizzati nel corso del mese di febbraio, il più noto è probabilmente la festa della promessa, la domenica precedente il 14 febbraio, in cui centinaia di giovani vengono a Terni in vista del loro matrimonio nei mesi seguenti.

Il bel paesino di Panchià (TN) lo festeggia come patrono della parrocchia. In provincia di Verona il paese di Bussolengo lo invoca come santo patrono. Qui si svolge, ormai da più di cinquecento anni, la Fiera di San Valentino nella settimana a cavallo del 14 febbraio, ed è la festa principale e caratterizzante di Bussolengo, inizialmente del bestiame, poi diventata gradualmente esposizione di numerose macchine agricole e ora anche di automobili. La festa si protrae per più di un mese grazie alla presenza, consolidata nei decenni, di un esteso Luna Park, con stand enogastronomici e altre attività che si sono aggiunte negli anni, come l'organizzazione in tensostrutture di spettacoli ed una porzione di fiera commerciale al coperto. Patrono del paese di Sadali (CA), considerato protettore dei matrimoni, san Valentino, la cui chiesa fu forse edificata da monaci bizantini, viene qui ricordato non a febbraio, ma ad ottobre e la festa sarda dura tre giorni. Il santo è anche patrono del paese lucano di Abriola (PZ) e di Vico del Gargano in provincia di Foggia. In provincia di Brescia il paese di Breno lo invoca come patrono ed è festeggiato a Cossirano, la frazione di Trenzano. È festeggiato inoltre a Quero in Provincia di Belluno: in un pendio annesso all'oratorio, dopo la messa, vengono fatte rotolare delle arance che i fedeli cercano di raccogliere prima che finiscano nel canale sottostante. Si onora come patrono anche nella cittadina che dal santo trae il proprio nome San Valentino Torio (SA) e durante i festeggiamenti c'è la sagra della purpetta e pastenaca (polpetta di carote). In provincia di Teramo il paese di Fano Adriano lo invoca come patrono, e dove fino agli anni '90 veniva festeggiato la prima settimana di settembre. È anche il patrono del paesino "Chiasiellis di Mortegliano" in provincia di Udine, è raffigurato da una statua di un prete molto giovane, e si festeggia la prima domenica dopo il 14 febbraio. Festeggiato a Zoppola (Pordenone) con consegna di una candela da accendere durante i temporali che scongiura grandine e tempeste Inoltre è patrono anche della città di Limana, un paese in provincia di Belluno dove ogni anno si festeggia con una festa in piazza. È il patrono anche di Quinto di Treviso (TV) che lo festeggia con una bella festa in piazza che dura una settimana. I festeggiamenti sono dedicati ai bambini, con giostre, frittelle e tanti giochi. La festa si conclude il sabato o la domenica successivi al 14 febbraio con una bella sfilata di carri mascherati.

Il tentativo della Chiesa cattolica di porre termine ad un popolare rito pagano per la  fertilità, è all'origine di questa festa degli innamorati.

Fin dal quarto secolo A. C. i romani pagani rendevano omaggio, con un singolare rito annuale, al dio Lupercus. I nomi delle donne e degli uomini che adoravano questo Dio venivano messi in un'urna  e opportunamente mescolati. Quindi un bambino sceglieva a caso alcune coppie che per un intero anno avrebbero vissuto in intimità affinché il rito della fertilità fosse concluso. L'anno successivo sarebbe poi ricominciato nuovamente con altre coppie.

Determinati a metter fine a questa primordiale vecchia pratica, i padri precursori della Chiesa hanno cercato un santo "degli innamorati per sostituire il deleterio Lupercus. Così trovarono un candidato probabile in Valentino, un vescovo che era stato martirizzato circa duecento anni prima.


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mercoledì 3 febbraio 2016

SAN BIAGIO

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San Biagio era un medico armeno, vissuto nel III secolo d.C.: si narra che compì un miracolo quando una madre disperata gli portò il figlio morente per una lisca conficcata in gola. San Biagio gli diede una grossa mollica di pane che, scendendo in gola, rimosse la lisca salvando il ragazzo. Inutile aggiungere che, dopo aver subito il martirio, Biagio venne fatto santo e dichiarato protettore della gola.

S. Biagio nacque a Sebaste nell'Armenia. Passò la giovinezza fra gli studi, dedicandosi in modo particolare alla medicina. Al letto dei sofferenti curava le infermità del corpo, e con la buona parola e l'esempio cristiano cercava pure di risanare le infermità spirituali.

Geloso della sua purezza ed amatissimo della vita religiosa, pensava di entrare in un monastero, quando, morto il vescovo di Sebaste, venne eletto a succedergli. Da quell'istante la sua vita fu tutta spesa per il bene dei suoi fedeli.

In quel tempo la persecuzione scatenata da Diocleziano e continuata da Licinio infuriava nell'Armenia per opera dei presidi Lisia ed Agricola°. Quest'ultimo, appena prese possesso della sua sede, Sebaste, si pose con febbrile attività in cerca di Biagio, il vescovo di cui sentiva continuamente magnificare lo zelo. Ma il sagace pastore, per non lasciare i fedeli senza guida. ai primordi della procella, si era eclissato in una caverna del monte Argeo.

Per moltissimo tempo rimase celato in quella solitudine, vivendo in continua preghiera e continuando sempre il governo della Chiesa con messaggi segreti. Un giorno però un drappello di soldati mandati alla caccia delle belve per i giochi dell'anfiteatro, seguendo le orme delle fiere, giunsero alla sua grotta. Saputo che egli era precisamente il vescovo Biagio, lo arrestarono subito e lo condussero al preside.

Il tragitto dal monte alla città fu un vero trionfo, perchè il popolo, nonostante il pericolo che correva, venne in folla a salutare colui che aveva in somma venerazione. Fra tanta gente corse anche una povera donna che, tenendo il suo povero bambino moribondo sulle sue braccia, scongiurava con molte lacrime il Santo a chiedere a Dio la guarigione del figlio. Una spina di pesce gli si era fermata in gola e pareva lo volesse soffocare da un momento all'altro. Biagio, mosso a compassione di quel bambino, sollevò gli occhi al cielo e fece sul sofferente il segno della croce.

Giunto a Sebaste, il prigioniero venne condotto dal giudice Agricola, che voleva convincerlo a sacrificare agli idoli; ma il Santo con gran calma gli dimostrò che quello era un atto indegno di una creatura ragionevole, perché la ragione dice all'uomo che vi è un Dio solo, eterno, e creatore di ogni cosa. Per tutta risposta il giudice lo fece battere con verghe e poi gettare in carcere.

Dopo qualche tempo lo volle di nuovo al tribunale, per interrogarlo nuovamente, ma trovò sempre in lui la più grande fermezza. Gli furono allora lacerate le carni con pettini di ferro e così lacero com'era fu sospeso ad un tronco d'albero. Sperimentati ancora contro l'invitto martire tutti i supplizi più inumani, fu condannato ad essere sommerso in un lago. I carnefici condottolo sulla sponda lo lanciarono nell'acqua, e mentre tutti si aspettavano di vederlo annegare. Biagio tranquillamente si pose a camminare sull'acqua finché raggiunse la sponda opposta. Il giudice. fuori di sè, vedendo di non poter spegnere altrimenti quella vita prodigiosa, lo fece decapitare.

La sua memoria è celebrata il 3 febbraio.
Il corpo di san Biagio fu sepolto nella cattedrale di Sebaste. Nel 732 una parte dei suoi resti mortali, deposti in un'urna di marmo, furono imbarcati, per esser portati a Roma. Una tempesta fermò la navigazione sulla costa di Maratea, dove i fedeli accolsero l'urna contenente le reliquie – il "sacro torace" e altre parti del corpo – e la conservarono nella Basilica di Maratea, sul monte San Biagio. La cappella con le reliquie fu poi posta sotto la tutela della Regia Curia dal re Filippo IV d'Asburgo, con lettera reale datata 23 dicembre 1629: da allora è nota popolarmente col nome di Regia Cappella.

Un gran numero di località vantano di possedere un frammento del corpo del santo. Ciò è dovuto, oltre all'antica usanza di sezionare i corpi dei santi e distribuirne le parti per soddisfare le richieste dei fedeli, alla pratica della simonia, una delle cui forme consisteva nel vendere reliquie false, o reliquie di santi omonimi ma meno conosciuti.

A Casal di Principe (CE) si festeggia il 3 febbraio con la venerazione e l'apertura di un santuario a Lui dedicato dove vi è conservata la reliquia di un ossicino della mano del Santo.

A Carosino, un paesino in provincia di Taranto, è custodita una delle reliquie: un pezzo della lingua, conservato in un'ampolla incastonata in una croce d'oro massiccio.

Ad Avetrana (Taranto) è custodito in un ostensorio d'argento e d'oro un frammento della gola di san Biagio, sul quale si legge l'iscrizione "GUTTURRE SANCTI BLASI" ("la gola di san Biagio", in latino-barbara).

A Caramagna Piemonte (Cuneo) è custodita dall'anno 1000 una sua reliquia (un pezzo del cranio), conservata in un busto argenteo; si ha notizia della sua presenza già dall'atto di fondazione dell'antica abbazia di Santa Maria di Caramagna, datato 1028.

Nella parrocchia di San Biagio di Montefiore, frazione del comune di Recanati, in provincia di Macerata, si conserva, in un reliquiario a forma di braccio benedicente con palma del martirio, un osso intero dell'avambraccio.

Nel santuario di Cardito (NA), è conservato un ossicino del braccio. Sempre in Campania, a Palomonte (in provincia di Salerno), nella chiesa madre della Santa Croce si conserva un'altra reliquia del santo.

A Mugnano di Napoli (NA), nella chiesa di San Biagio, si conserva una reliquia del santo.

A Penne, in Abruzzo, è invece venerato il cranio del santo. Sempre in Abruzzo, nel duomo di San Flaviano a Giulianova, è conservato il braccio di san Biagio, racchiuso in un raffinato reliquiario d'argento, in forma di braccio con mano benedicente e recante una palma, datato 1394 e firmato da Bartolomeo di ser Paolo da Teramo.

Nella parrocchia di Lanzara, frazione del comune di Castel San Giorgio, in provincia di Salerno, sono conservati due piccoli ossi d'una mano.

Nella parrocchia di San Biagio in San Simone, frazione di Sannicola, diocesi di Nardò-Gallipoli, provincia di Lecce, si conserva una reliquia del corpo del Santo, con festeggiamenti due volte l'anno.



Nella cattedrale di Ruvo di Puglia si venera nel giorno di san Biagio un frammento del braccio di questo santo, racchiuso in un reliquiario a forma di braccio benedicente. La reliquia è portata in processione dal vescovo e esposta alla pubblica venerazione dopo la solenne messa pontificale, che si celebra in cattedrale al vespro del 3 febbraio.

Nella chiesa a lui dedicata nella città dalmata di Ragusa (oggi in Croazia), si conserva, secondo la tradizione, il cranio del santo patrono, in un ricco reliquiario a forma di corona bizantina, che viene portato solennemente in processione nella ricorrenza liturgica del santo.

A Ostuni è conservato un frammento d'un osso del martire, venerato e posto sulla gola di ogni fedele che si presenta in pellegrinaggio al santuario di San Biagio, sui colli ostunesi, il 3 di febbraio.

A San Piero Patti (Messina) è custodito, in una teca d'argento nella chiesa di Santa Maria Assunta, un molare di san Biagio. La teca è portata in processione in occasione delle due feste che la cittadina dedica al santo: il 3 febbraio e la prima domenica d'ottobre.

A Mercato Vecchio di Montebelluna, in provincia di Treviso, nella chiesa di San Biagio è custodito un pezzo di veste, e ogni anno, il 3 febbraio, per tutto il giorno vi si benedicono, in onore del santo, pani e arance.

Ad Acquaviva Collecroce, in provincia di Campobasso, nella parrocchia di Santa Maria Ester si conserva una reliquia del santo donata alla comunità verso la metà del Settecento.

A Napoli, nella Sala del Tesoro della basilica di San Domenico Maggiore, si conserva, in un reliquiario a forma di braccio, un frammento d'un dito del martire.

Ad Avellino, nella chiesina dell'Arciconfraternita dell'Immacolata (adiacente alla Cattedrale di Avellino), è conservato un frammento osseo della mano del santo.

A Bindo di Cortenova, in provincia di Lecco, ogni anno si celebra la grande festa di san Biagio. Tra gli usi tradizionali, il bacio delle candele benedette, il falò e i tipici ravioli molto aromatici chiamati in insubre scapinasc.

A Eboli, in provincia di Salerno, nella chiesa di San Nicola si conservano un dito e altre reliquie di san Biagio.

Ad Asti, presso la chiesa di Santa Maria Nuova, nell'altar maggiore si conservano un dente e alcuni altri resti.

A Brescia, nel tesoro della chiesa di San Lorenzo, si conserva il reliquiario di san Biagio, con alcuni denti e un osso ritenuti del santo.

A Caronia in provincia di Messina, Diocesi di Patti, si venerano una falange del dito mignolo e un frammento del braccio e sono conservati in due preziosi reliquiari.

A Orbetello in provincia di Grosseto era conservato il teschio di San Biagio, rubato 2 anni fa e non più trovato. I festeggiamenti in onore del patrono continuano comunque.

A Rubiera, in provincia di Reggio Emilia, all'interno di un reliquiario a forma di braccio benedicente è conservato un frammento di avambraccio del Santo. Con la reliquia, al termine della Solenne celebrazione, il 3 febbraio, viene impartita la benedizione e invocata l'intercessione del Santo per la protezione dai mali del corpo e dello spirito.

Nella Basilica di San Biagio a Maratea, alla destra della Regia Cappella dedicata al santo, vi è la palla di ferro sparata dai cannoni francesi durante l'assedio del dicembre 1806; su questa palla di ferro, inesplosa, sono ben visibili delle impronte che, secondo la tradizione, sarebbero le dita della mano destra di san Biagio.

Relativamente alla sola esperienza della cittadina di Fiuggi, si narra che nel 1298 fece apparire delle finte fiamme sul paese, proprio mentre questi era in procinto di essere messo sotto assedio dalle truppe papali. La cittadina, che all'epoca si chiamava Anticoli di Campagna, era feudo dei Colonna che a loro volta erano in guerra con la nobile famiglia romana dei Cajetani. L'intenzione dei Cajetani era quella di attaccare il paese da due lati: dal basso scendendo dal castello di Monte Porciano e dall'alto, alle spalle di Fiuggi dalla parte di Torre Cajetani; in virtù di tale piano divisero le proprie forze. San Biagio avrebbe fatto apparire delle finte fiamme che indussero le truppe nemiche, che oramai si accingevano all'attacco, a pensare di essere state precedute dalle forze alleate. Di conseguenza mossero oltre, ritornando ai loro alloggiamenti. I fedeli il giorno successivo lo elessero patrono della città.
A ricordo di ciò persiste tuttora l'antica tradizione paesana di bruciare grandi cataste di legna di forma piramidale, denominate stuzze, a ricordo dell'"apparizione". Tale manifestazione avviene la sera del 2 febbraio di ogni anno nella piazza più alta del paese (p.za Trento e Trieste), dinnanzi al Municipio.

A Salemi in provincia di Trapani, san Biagio è compatrono assieme a san Nicola della città dal 1542. Si narra che in quell'anno, sotto il regno di Carlo V, la città di Salemi e le campagne circostanti, venissero invase dalle cavallette che ne distrussero i raccolti procurando, così, fame e carestia; allora i salemitani pregarono san Biagio, protettore delle messi e dei cereali, di liberarli da tale flagello ed il santo esaudì queste loro preghiere. Da allora i salemitani, in ricordo di questo evento, nella ricorrenza della festa del santo, ogni anno il 3 febbraio, preparano dei pani in miniatura: i "cavadduzzi", cioè le cavallette e i "cuddureddi", (impastando farina e acqua) questi ultimi rappresentano la gola di cui san Biagio è protettore. La chiesetta dedicata al santo si trova nel quartiere del Rabbato. Il 3 febbraio "cuddureddi" e "cavadduzzi" vengono benedetti e distribuiti ai fedeli che accorrono da ogni parte della città per pregare il santo e per farsi benedire la gola dal sacerdote con le candele accese ed incrociate. Dal 2008 viene fatta una rievocazione storica del miracolo delle cavallette, che vede dame, nobili e cavalieri, clero e popolani in costume medievale, uscire dal castello, percorrere tutto il centro storico ed arrivare alla chiesa del santo per deporre i doni e benedire le gole. Manifestazione a cui partecipano tutte le associazioni cittadine e le scuole.

In Albania, a Durazzo nel monastero di san Biagio durante la prima metà del XX secolo secondo migliaia di testimoni vi sarebbe avvenuto il miracolo di una roccia dalla quale sgorgava olio con effetti curativi per i credenti. Tale monastero è tuttora meta di pellegrinaggio da parte di numerosi fedeli albanesi sia musulmani che cristiani.

In molti luoghi, a motivo del miracolo del salvataggio di un bambino che stava soffocando dopo aver ingerito una lisca di pesce, il 3 febbraio, giorno di san Biagio, è tradizione compiere una benedizione della gola con le candele benedette il giorno precedente, festa della Presentazione di Gesù al tempio.
A Comiso all'uscita del simulacro viene eseguito l' "Inno a San Biagio".

A Lanzara, in Campania, è consuetudine mangiare la famosa "Polpetta di S.Biagio", e, per tener viva questa tradizione, nel periodo della festa viene fatta la "Sagra della Polpetta", tra le più longeve dell'Agro Nocerino Sarnese.
A Cannara, in Umbria, si festeggia il 3 febbraio con lo svolgimento di giochi popolari di abilità. Sin dal giorno prima è usanza far rotolare, quanto più a lungo possibile, forme di formaggio per le vie del centro storico secondo una tradizione già attestata nel XVI secolo col nome di Ruzzolone. Altri giochi consistono nella corsa con i sacchi o nel rompere con un bastone, e bendati, delle brocche appese fra le case che si affacciano in piazza Garibaldi (già del Grano) dove si svolgono la maggior parte delle altre prove. Molto seguito è anche il "gioco degli spaghetti" che premia colui che riesce a finire per primo il piatto di pasta con le mani legate dietro la schiena. Momento solenne è quello della processione religiosa con la statua lignea del Santo, accompagnata dai fedeli e dalle note della banda musicale cittadina.
A valle del paese di Romallo, in Trentino, si trova un interessante eremo dedicato a S. Biagio. Il 3 di febbraio si celebra la messa e viene impartita la benedizione della gola.
Il 3 febbraio si celebra la festa di San Biagio anche a Taranta Peligna, in Abruzzo. In onore del Santo protettore dei lanaioli, con una cerimonia di grande fascino, vengono preparate le "Panicelle", pani a forma di mano che vengono distribuite fra le genti del Paese. Il legame tra Taranta Peligna e il culto di San Biagio è testimoniato anche dalla presenza dei lanifici che hanno dato lustro al pese per la lavorazione delle coperte abruzzesi chiamate "tarante".
A Maratea si tengono due feste in onore del santo: una è quella del 3 febbraio, quando si tiene la benedizione della gola dei fedeli; la seconda, più fastosa, è quella dell'anniversario della traslazione delle reliquie, che si svolge a partire dal primo sabato fino alla seconda domenica di maggio, settimana in cui si svolgono ben quattro processioni del simulacro del santo.
San Biagio si festeggia il 3 febbraio anche ad Acquaviva Collecroce, in Molise. Durante la celebrazione liturgica si benedicono le gole dei fedeli. Anticamente con l'olio benedetto, ora mediante due candele incrociate. Per l'occorrenza si preparano le "Pandiçe" (pane di San Biagio) e dei dolci di forma circolare chiamati "Colaci". La Parrocchia conserva una pregevole tela del Cinquecento raffigurante il martirio di San Biagio; una reliquia donata al popolo verso la metà del Settecento e un'artistica statua in cartapesta del 1886 dello scultore sordomuto Gabriele Falcucci di Atessa.
Si festeggia San Biagio anche a Cessalto, in Veneto. Si racconta che il Santo salvò un bambino da morte sicura per aver ingoiato una lisca di pesce. Invocato il Santo, il bambino sputò la lisca di pesce e si salvò.
Il 3 febbraio a Lettomanoppello si celebra la festa liturgica di San Biagio. Durante la celebrazione eucaristica il parroco, oltre a benedire la gola dei fedeli con due candele incrociate, benedice, come da secolare tradizione, i "tarallucci di San Biagio" che sono dei dolci a forma di piccola ciambella impastati con semini di anice. I tarallucci poi vengono riportati a casa e donati a parenti ed amici che dopo averli baciati ne mangiano per ingraziarsi la protezione di San Biagio, particolarmente a protezione della gola e dai mali di stagione.
A Caronia si celebra la festa di San Biagio con grande devozione e pietà. Il giorno della festa, per antica consuetudine si benedicono i "cudduri di San Brasi", pani e dolci a forma di ciambella di nocciole e mandorle fuse con il miele. Questi segni di devozione vengono benedetti dall'Arciprete durante la Santa Messa Solenne e poi sono donati ai malati e alle persone che ne fanno espressa richiesta in Parrocchia.
Il 3 febbraio, a San Marco in Lamis, la gente sin dal mattino subito affolla la chiesa per la benedizione del pane che verrà distribuito ai poveri. La sera dopo una Santa Messa solenne, vi è l'imposizione delle Candele alla gola, da parte del parroco.
Nella parrocchia di Montefiore di Recanati il patrono San Biagio si festeggia la prima domenica di febbraio. Durante la celebrazione liturgica si benedicono le gole dei fedeli con due candele incrociate e viene benedetto il pane. Dopo la S.Messa principale delle 11,15 viene portata in processione per il paese la reliquia del santo.
A Plaesano, alla fine della processione, prima di rientrare in chiesa, vengono effettuati tre giri di corsa intorno alla chiesa con la statua del santo in spalla.
A Orbetello il 3 febbraio si celebra la festa liturgica del santo, dove i pescatori della laguna donano il loro pesce. Il 12 maggio c'è la Traslazione, ovvero i pellegrini prelevano il teschio del Santo dalla Chiesa di Ansedonia e lo portano in processione lungo la laguna, fino alla parrocchia di Orbetello.
A San Biagio, frazione di Garlasco, dopo l'invocazione: "San Bias, la gula e al nas", si procede alla benedizione della gola e del naso nella chiesa parrocchiale a lui dedicata, e a pranzo si consumano i ravioli di magro con ripieno di grana e barlande, seguiti dal tradizionale panettone di San Biagio.
A Ruvo di Puglia, dove San Biagio è anche Santo Patrono, il 3 febbraio si celebra la Messa di devozione nella Concattedrale di età romanica, dove è custodita la reliquia del Santo. Inoltre si Benedicono i "friciduzze" (taralli realizzati nelle forme di mano, bastone, piede e Mitra di San Biagio) e le "fettuccine di San Biagio", nastrini colorati che proteggono dal mal di gola.
A Chiavari in Liguria, San Biagio è contitolare della parrocchia di Bacezza. Ogni 3 febbraio nel Santuario di Nostra Signora dell'Olivo si celebra l'Eucaristia con la benedizione del grano e la venerazione di una reliquia del Santo.
Ad Alvito il 3 febbraio nella Cappella di San Biagio, costruita nel XVIII secolo, il parroco unge le gole dei fedeli con dell'olio benedetto per proteggerli dal mal di gola.
a Vignanello il 3 febbraio, dopo la solenne messa, il parroco unge le gole dei fedeli per proteggerli, inoltre nel primo fine settimana di agosto si svolgono festeggiamenti in onore di san Biagio con processioni concerti etc.

I fedeli si rivolgono a san Biagio nella sua qualità di medico, anche per la cura dei mali fisici e in particolare per la guarigione dalle malattie della gola: è tra i quattordici santi ausiliatori. Durante la sua celebrazione liturgica, in molte chiese i sacerdoti benedicono le gole dei fedeli accostando ad esse due candele; per questo è anche patrono degli specialisti otorinolaringoiatri. È anche protettore dei cardatori di lana, degli animali e delle attività agricole. In mancanza di un santo patrono a loro dedicato, a cavallo tra il 2013 e il 2014 alcune equipe d'animazione l'hanno eletto a protettore, indicandolo come patrono degli animatori.

San Biagio è il santo patrono delle diocesi di Cassano allo Ionio e di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi.

Il panettone di San Biagio è una tradizione di Milano poco conosciuta al di fuori dei confini della città, ma utilissima per finire i panettoni avanzati dalle feste di Natale.

Perchè bisogna mangiare il panettone di San Biagio? E’ presto detto: il 3 febbraio è la giornata che la chiesa cattolica dedica alla celebrazione di San Biagio, una figura che secondo la tradizione popolare milanese ‘benedis la gola e él nas‘. I milanesi, infatti, sono soliti mangiare un panettone benedetto proprio in questa giornata (anche se non è freschissimo, anzi meglio).
Una massaia prima di Natale portò a un frate un panettone perchè lo benedicesse. Essendo molto impegnato, il frate – che si chiamava Desiderio – le disse di lasciarglielo e passare nei giorni successivi a riprenderlo. Ma la donna se ne dimenticò e frate Desiderio, dopo averlo benedetto, iniziò a sbocconcellarlo finchè si accorse di averlo finito.

La donna si ripresentò a chiedere il suo panettone benedetto proprio il 3 febbraio, giorno di San Biagio: il frate si preparò a consegnarle l’involucro vuoto e a scusarsi, ma al momento di consegnarglielo si accorse che nell’involucro era comparso un panettone grosso il doppio rispetto all’originale. Era stato un miracolo di San Biagio, che diede il via alla tradizione di portare un panettone avanzato a benedire ogni 3 febbraio e poi mangiarlo a colazione  per proteggere la gola.




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giovedì 21 gennaio 2016

SANT'AGNESE

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De S. Agnes la luserta la cor gió per la scies (A Sant'Agnese la lucertola corre lungo la siepe)
A Sant'Agnésa, un'ura distésa 
(A sant'Agnese un'ora abbondante, cioè il giorno si è allungato di un'ora abbondante dal solstizio d'inverno del 21 dicembre)

Agnese (Roma, 290-293 – Roma, 21 gennaio 305) era, secondo la tradizione latina, una nobile appartenente alla gens Clodia che subì il martirio durante la persecuzione dei cristiani sotto Diocleziano all'età di 12 anni.

La parola “Agnese”, traduzione dell’aggettivo greco “pura” o “casta”, fu usato forse simbolicamente come soprannome per esplicare le sue qualità. Visse in un periodo in cui era illecito professare pubblicamente la fede cristiana. Secondo il parere di alcuni storici Agnese avrebbe versato il sangue il 21 gennaio di un anno imprecisato, durante la persecuzione di Valeriano (258-260), ma secondo altri, con ogni probabilità ciò sarebbe avvenuto durante la persecuzione dioclezianea nel 304. Durante la persecuzione perpetrata dall’imperatore Diocleziano, infatti, i cristiani furono uccisi così in gran numero tanto da meritare a tale periodo l’appellativo di “era dei martiri” e subirono ogni sorta di tortura.
Anche alla piccola Agnese toccò subire subire una delle tante atroci pene escogitate dai persecutori. La sua leggendaria Passio, falsamente attribuita al milanese Sant’Ambrogio, essendo posteriore al secolo V ha perciò scarsa autorità storica. Della santa vergine si trovano notizie, seppure vaghe e discordanti, nella “Depositio Martyrum” del 336, più antico calendario della Chiesa romana, nel martirologio cartaginese del VI secolo, in “De Virginibus” di Sant’Ambrogio del 377, nell’ode 14 del “Peristefhanòn” del poeta spagnolo Prudenzio ed infine in un carme del papa San Damaso, ancora oggi conservato nella lapide originale murata nella basilica romana di Sant’Agnese fuori le mura. Dall’insieme di tutti questi numerosi dati si può ricavare che Agnese fu messa a morte per la sua forte fede ed il suo innato pudore all’età di tredici anni, forse per decapitazione come asseriscono Ambrogio e Prudenzio, oppure mediante fuoco, secondo San Damaso. L’inno ambrosiano “Agnes beatae virginia” pone in rilievo la cura prestata dalla santa nel coprire il suo verginale corpo con le vesti ed il candido viso con la mano mentre si accasciava al suolo, mentre invece la tradizione riportata da Damaso vuole che ella si sia coperta con le sue abbondanti chiome. Il martirio di Sant’Agnese è inoltre correlato al suo proposito di verginità. La Passione e Prudenzio soggiungono l’episodio dell’esposizione della ragazza per ordine del giudice in un postribolo, da cui uscì miracolosamente incontaminata.



Assai articolata è anche la storia delle reliquie della piccola martire: il suo corpo venne inumato nella galleria di un cimitero cristiano sulla sinistra della via Nomentana. In seguito sulla sua tomba Costantina, figlia di Costantino il Grande, fece edificare una piccola basilica in ringraziamento per la sua guarigione ed alla sua morte volle essere sepolta nei pressi della tomba. Accanto alla basilica sorse uno dei primi monasteri romani di vergini consacrate e fu ripetutamente rinnovata ed ampliata. L’adiacente cimitero fu scoperto ed esplorato metodicamente a partire dal 1865. Il cranio della santa martire fu posto dal secolo IX nel “Sancta Sanctorum”, la cappella papale del Laterano, per essere poi traslato da papa Leone XIII nella chiesa di Sant’Agnese in Agone, che sorge sul luogo presunto del postribolo ove fu esposta. Tutto il resto del suo corpo riposa invece nella basilica di Sant’Agnese fuori le mura in un’urna d’argento commissionata da Paolo V.

Ad Agnese sono dedicati, a Roma, la Chiesa di Sant'Agnese in Agone, in piazza Navona, il luogo supposto del martirio, e il complesso monumentale di Sant'Agnese fuori le mura, fatto erigere dalla principessa Costantina, figlia dell'imperatore Costantino I, sulle catacombe nelle quali fu sepolto il suo corpo. Qui, ogni anno il 21 gennaio, due agnelli allevati da religiose vengono benedetti e offerti al papa perché dalla loro lana siano tessuti i palli dei patriarchi e dei metropoliti del mondo cattolico.

Sant'Agnese è la patrona delle vergini, delle fidanzate, dei giardinieri, dei tricologi e dell'Ordine della Santissima Trinità. Anche l'Almo collegio Capranica, tradizionalmente costruito sul luogo della sua casa natale, la venera come patrona.

A L'Aquila è patrona della Festa di Sant'Agnese e delle Malelingue.

Sant'Agnese è figura importante del romanzo Fabiola (di Nicholas Wiseman), di cui si ricorda la trasposizione cinematografica realizzata da Alessandro Blasetti nel 1949.




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mercoledì 20 gennaio 2016

SAN SEBASTIANO



San Sebastian ga la viola in man (detto veneto per significare che, usualmente, il giorno di San Sebastiano si respira un clima primaverile)

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Nel 260 l’imperatore Galliano aveva abrogato gli editti persecutori contro i cristiani, ne seguì un lungo periodo di pace, in cui i cristiani pur non essendo riconosciuti ufficialmente, erano però stimati, occupando alcuni di loro, importanti posizioni nell’amministrazione dell’impero.
E in questo clima favorevole, la Chiesa si sviluppò enormemente anche nell’organizzazione; Diocleziano che fu imperatore dal 284 al 305, desiderava portare avanti questa situazione pacifica, ma poi 18 anni dopo, su istigazione del suo cesare Galerio, scatenò una delle persecuzioni più crudeli in tutto l’impero.
Sebastiano, che secondo s. Ambrogio era nato e cresciuto a Milano, da padre di Narbona (Francia meridionale) e da madre milanese, era stato educato nella fede cristiana, si trasferì a Roma nel 270 e intraprese la carriera militare intorno al 283, fino a diventare tribuno della prima coorte della guardia imperiale a Roma, stimato per la sua lealtà e intelligenza dagli imperatori Massimiano e Diocleziano, che non sospettavano fosse cristiano.
Grazie alla sua funzione, poteva aiutare con discrezione i cristiani incarcerati, curare la sepoltura dei martiri e riuscire a convertire militari e nobili della corte, dove era stato introdotto da Castulo, domestico (cubicolario) della famiglia imperiale, che poi morì martire.
La leggendaria ‘Passio’, racconta che un giorno furono arrestati due giovani cristiani Marco e Marcelliano, figli di un certo Tranquillino; il padre ottenne un periodo di trenta giorni di riflessione prima del processo, affinché potessero salvarsi dalla certa condanna sacrificando agli dei.
Nel tetro carcere i due fratelli stavano per cedere alla paura, quando intervenne il tribuno Sebastiano riuscendo a convincerli a perseverare nella fede; mentre nel buio della cella egli parlava ai giovani, i presenti lo videro circondato di luce e tra loro c’era anche Zoe, moglie del capo della cancelleria imperiale, diventata muta da sei anni. La donna si inginocchiò davanti a Sebastiano, il quale dopo aver implorato la grazia divina fece un segno di croce sulle sue labbra, restituendole la voce.
A ciò seguì una collana di conversioni importanti, il prefetto di Roma Cromazio e suo figlio Tiburzio, Zoe col marito Nicostrato e il cognato Castorio; tutti in seguito subirono il martirio, come pure i due fratelli Marco e Marcelliano e il loro padre Tranquillino.
Sebastiano per la sua opera di assistenza ai cristiani, fu proclamato da papa s. Caio “difensore della Chiesa” e proprio quando, secondo la tradizione, aveva seppellito i santi martiri Claudio, Castorio, Sinforiano, Nicostrato, detti Quattro Coronati, sulla via Labicana, fu arrestato e portato da Massimiano e Diocleziano, il quale già infuriato per la voce che si diffondeva in giro, che nel palazzo imperiale si annidavano i cristiani persino tra i pretoriani, apostrofò il tribuno: “Io ti ho sempre tenuto fra i maggiorenti del mio palazzo e tu hai operato nell’ombra contro di me, ingiuriando gli dei”.
Sebastiano fu condannato ad essere trafitto dalle frecce; legato ad un palo in una zona del colle Palatino chiamato ‘campus’, fu colpito seminudo da tante frecce da sembrare un riccio; creduto morto dai soldati fu lasciato lì in pasto agli animali selvatici.
Ma la nobile Irene, vedova del già citato s. Castulo, andò a recuperarne il corpo per dargli sepoltura, secondo la pia usanza dei cristiani, i quali sfidavano il pericolo per fare ciò e spesso venivano sorpresi e arrestati anche loro.
Ma Irene si accorse che il tribuno non era morto e trasportatolo nella sua casa sul Palatino, prese a curarlo dalle numerose lesioni. Miracolosamente Sebastiano riuscì a guarire e poi nonostante il consiglio degli amici di fuggire da Roma, egli che cercava il martirio, decise di proclamare la sua fede davanti a Diocleziano e al suo associato Massimiano, mentre gli imperatori si recavano per le funzioni al tempio eretto da Elagabolo, in onore del Sole Invitto, poi dedicato ad Ercole.
Superata la sorpresa, dopo aver ascoltato i rimproveri di Sebastiano per la persecuzione contro i cristiani, innocenti delle accuse fatte loro, Diocleziano ordinò che questa volta fosse flagellato a morte; l’esecuzione avvenne nel 304 ca. nell’ippodromo del Palatino, il corpo fu gettato nella Cloaca Massima, affinché i cristiani non potessero recuperarlo.
L’abbandono dei corpi dei martiri senza sepoltura, era inteso dai pagani come un castigo supremo, credendo così di poter trionfare su Dio e privare loro della possibilità di una resurrezione.
La tradizione dice che il martire apparve in sogno alla matrona Lucina, indicandole il luogo dov’era approdato il cadavere e ordinandole di seppellirlo nel cimitero “ad Catacumbas” della Via Appia.
Le catacombe, oggi dette di San Sebastiano, erano dette allora ‘Memoria Apostolorum’, perché dopo la proibizione dell’imperatore Valeriano del 257 di radunarsi e celebrare nei cosiddetti “cimiteri cristiani”, i fedeli raccolsero le reliquie degli Apostoli Pietro e Paolo dalle tombe del Vaticano e dell’Ostiense, trasferendoli sulla via Appia, in un cimitero considerato pagano.
Costantino nel secolo successivo, fece riportare nei luoghi del martirio i loro corpi e dove si costruirono poi le celebri basiliche.
Sulla Via Appia si costruì un’altra basilica costantiniana la “Basilica Apostolorum”, in memoria dei due apostoli.
Fino a tutto il VI secolo, i pellegrini che vi si recavano attirati dalla ‘memoria’ di s. Pietro e s. Paolo, visitavano in quel cimitero anche la tomba del martire, la cui figura era per questo diventata molto popolare e quando nel 680 si attribuì alla sua intercessione, la fine di una grave pestilenza a Roma, il martire s. Sebastiano venne eletto taumaturgo contro le epidemie e la chiesa cominciò ad essere chiamata “Basilica Sancti Sebastiani”.
Il santo venerato il 20 gennaio, è considerato il terzo patrono di Roma, dopo i due apostoli Pietro e Paolo.
Le sue reliquie, sistemate in una cripta sotto la basilica, furono divise durante il pontificato di papa Eugenio II (824-827) il quale ne mandò una parte alla chiesa di S. Medardo di Soissons il 13 ottobre 826; mentre il suo successore Gregorio IV (827-844) fece traslare il resto del corpo nell’oratorio di San Gregorio sul colle Vaticano e inserendo il capo in un prezioso reliquiario, che papa Leone IV (847-855) trasferì poi nella Basilica dei Santi Quattro Coronati, dove tuttora è venerato.
Gli altri resti di s. Sebastiano rimasero nella Basilica Vaticana fino al 1218, quando papa Onorio III concesse ai monaci cistercensi, custodi della Basilica di S. Sebastiano, il ritorno delle reliquie risistemate nell’antica cripta; nel XVII secolo l’urna venne posta in una cappella della nuova chiesa, sotto la mensa dell’altare, dove si trovano tuttora.



Dato storico certo, che ne testimonia il culto sin dai primi secoli, è l'inserimento del nome di Sebastiano nella Depositio martyrum, il più antico calendario della Chiesa di Roma e risalente al 354.

San Sebastiano è invocato come patrono delle Confraternite di Misericordia italiane, poiché si rileva in lui l'aspetto del soccorritore che interviene in favore dei martirizzati, dei sofferenti (l'agiografia vuole che fosse proprio lui a soccorrere i suoi colleghi uccisi in odio alla fede cristiana e/o a provvedere almeno alla loro sepoltura). Questo tipo di confraternita infatti ha tuttora un preciso carisma assistenziale e gestisce direttamente, con l'opera dei propri volontari, una fitta e variegata rete di servizi socio-sanitari di precisa ispirazione e collocazione cristiana e cattolica. San Sebastiano è anche patrono degli Agenti di Polizia Locale e dei loro comandanti, ufficiali e sottufficiali (Breve apostolico del 3 maggio 1957 di sua santità Pio XII, di venerata memoria).

Come si può facilmente intuire dalla lettura del suo profilo biografico (sua esperienza lavorativa, sua testimonianza di fede, ecc.), si capisce perché un "miliziano" sia stato individuato, appunto, come patrono dei suoi "commilitoni" e non solo, data l'affinità simbolica tra categorie e/o strumenti (gli arcieri ad es. scagliano frecce, come quelle che colpirono il santo durante il suo martirio, ecc.). L'esempio più attinente è, simbolicamente, costituito dalle frecce quali prefigurazioni di punizioni (la malattia in senso lato): come il santo riuscì ad evitare che le frecce lo uccidessero, così egli viene invocato come intercessore che riesce a scansare possibili cause di sofferenza. Se si considera che la malattia può essere vista nell'accezione di "punizione", si comprende perché il santo abbia tra i suoi patronati pure quello di essere invocato contro le malattie (specie quelle contagiose, viste come frecciate), per esserne preservati. In questo senso, se San Rocco viene considerato il taumaturgo che cura le pestilenze, san Sebastiano viene considerato il santo taumaturgo che ne costituisce la "profilassi".

San Sebastiano ha un'importanza particolare per la comunità LGBT, all'interno della quale numerosi omosessuali lo rivendicano come santo patrono e come intercessore, senza che però questo culto sia riconosciuto dalla Chiesa Cattolica. Il suo ruolo di santo protettore contro le epidemie è stato talvolta esteso alla più grave epidemia della contemporaneità, l'AIDS.

Spesso, in passato, Sebastiano veniva invocato come protettore contro la peste. Attualmente, in Italia, è il santo patrono della polizia municipale. Oggi è anche invocato contro le epidemie in generale, insieme a san Rocco.

San Sebastiano è particolarmente venerato in Sicilia fin dal 1575, anno in cui infuriò la peste e in molte città veniva invocato contro la terribile epidemia.
Ma il culto si diffonde sin dal 1414 anno in cui, secondo un antichissimo documento custodito negli archivi della Basilica in Melilli, una statua del Santo martire sarebbe stata ritrovata presso il luogo denominato Stentinello a circa tre km a sud di Thapsos, l'attuale isola Magnisi in provincia di Siracusa. Sempre secondo questo documento alcuni marinai sostennero di essersi salvati da un naufragio grazie alla protezione di quella statua. Subito accorsero in quel luogo centinaia di persone incuriosite da tutta la provincia. Nessuno riuscì a sollevare la cassa contenente il simulacro del santo, nemmeno il vescovo di Siracusa accompagnato dal clero e dai fedeli della città. Ma i cittadini di Melilli il 1º maggio 1414 giunti sul posto riuscirono a risollevare la cassa che entrata in paese tra invocazioni e preghiere divenne di nuovo pesante: segno che San Sebastiano voleva fermarsi lì. All'ingresso del paese si sarebbe verificato il primo miracolo: un lebbroso venne guarito. Da allora ogni anno (la festa è stata spostata al 4 maggio per motivi di ordine pubblico da quando fu istituita la festa del lavoro) San Sebastiano viene festeggiato solennemente. Il 4 maggio alle ore 04.00 del mattino viene aperto il santuario per accogliere i pellegrini provenienti da ogni parte invocando il santo: "semu vinuti di tantu luntanu, Primu Diu e Sammastianu! E chiamamulu ca n'ajuta!" Melilli si popola di tantissimi fedeli provenienti da tutta la Sicilia orientale e oltre. Anche all'estero gli emigrati hanno diffuso la devozione. Commovente l'arrivo dei nuri di Melilli e di Solarino. Questi pellegrini sono chiamati nuri perché in passato facevano il pellegrinaggio quasi nudi, con pantaloncini o mutande e a torso scoperto, con in mano fiori in omaggio al Santo. Oggi, invece, i nuri di San Sebastiano indossano vestiti bianchi e fascia rossa, camminando sempre scalzi. Affrontano chilometri di strada, offrendo torce e ceri votivi (ex voto) rappresentanti parti di corpo guarite miracolosamente o per le quali si chiede la grazia. Dopo il 4 maggio segue il solenne ottavario che si conclude il giorno 11 maggio quando tra grida di invocazione e richieste di intercessione il simulacro viene velato e conservato. Ritornerà ai fedeli il 20 gennaio giorno della sua festa liturgica.
San Sebastiano è poi particolarmente venerato ad Acireale perché, durante la seconda guerra mondiale, sotto la minaccia di un bombardamento, gli Acesi fecero voto affinché la città non fosse bombardata e così fu. San Sebastiano è quindi, assieme a santa Venera, patrono di Acireale: il 20 gennaio si svolge una festa a lui dedicata.

Ad Accadia, in provincia di Foggia, il 20 gennaio si svolge la festa patronale di San Sebastiano animata da tipici falò rionali. Dopo la solenne processione del santo e la benedizione di tutti i falò si tiene il palio di San Sebastiano giunto nel 2013 alla XXX edizione a cui partecipano i vari rioni e le frazioni del comune.

È santo patrono di Mistretta e la festa si svolge due volte all'anno: il 20 gennaio e il 18 agosto. È pure santo patrono di Tortorici e la festa si svolge due volte l'anno: il 20 gennaio con replica la prima domenica successiva (l'ottava) e la prima domenica di maggio. San Sebastiano è anche santo protettore di Cerami e la festa si svolge ogni anno il 28 agosto.

In Calabria, venerato e festeggiato a Pernocari (VV) il 20 gennaio e la terza domenica di agosto. È inoltre festeggiato come patrono a Fagnano Castello e Orsomarso, in provincia di Cosenza e ad Anoia Superiore il 20 di gennaio in provincia di RC, dove viene acceso un grande falò in suo onore e durante la festa viene baciata la reliquia.

San Sebastiano è festeggiato anche a Termoli (CB) il 20 gennaio, quando gruppi di persone intonano un brano dedicato al Santo per le strade della città ricevendo in dono soldi o leccornie. Lo spettacolo viene riproposto anche durante il periodo estivo, precisamente il 7 agosto, per permettere a coloro che vivono fuori città di potervi assistere.

San Sebastiano è venerato nella cittadina di Barcellona Pozzo di Gotto di cui ne è anche il santo patrono cittadino. Qui, nella basilica minore di S.Sebastiano sita in piazza duomo, nel centro città, è custodita un inestimabile reliquia che consiste nell'osso dell'avambraccio del santo martire detto ivi "Brazzu di San Bastianu", spesso citato in detti del luogo come "Ci voli u brazzu di san Bastianu!", il quale si invoca in un momento dove sarebbe propizio un ausilio.

A Cassaro (Siracusa) si festeggia il 20 gennaio con l'uscita di "san mastianeddu" una piccola statua che viene portata in processione di corsa per le vie del piccolo comune dai "nudi". L'ultima domenica di luglio di ogni 3 anni, dalla chiesa a lui dedicata, esce alle 12:00 in processione solenne la cinquecentesca statua di San Sebastiano

Il culto di San Sebastiano è presente anche a Berchidda e ad Ulassai in Sardegna. La sua festività ricorre il 20 gennaio, data in cui tradizionalmente viene realizzato un grande fuoco e si offrono arance in un grande banchetto. La notte di San Sebastiano apre le porte ai riti dell'antico carnevale denominato su Maimulu.

Anche in Liguria è presente il culto del santo da lungo tempo. A Costarainera si trova una chiesa dedicata a San Sebastiano, edificata probabilmente del XIV secolo e attualmente in degrado. Fu probabilmente edificata sull'antico tracciato della via Aurelia che in quel tratto passava nell'entroterra e non sulla costa ligure, a causa delle frequenti incursioni di pirati.

Bellissima struttura è il Protocenobio di San Sebastiano ad Alatri (Frosinone), dove, secondo diversi documenti, avrebbe avuto origine la Regula Magistri.

Anche ad Ales (OR), viene festeggiato il Santo con il tipico falò, detto in "abaresu" (lingua Sarda locale) "su fogadoni" dall'altezza di svariati metri. Il 20 di gennaio, la sera, il falò ("sa tuva") viene benedetto dal vescovo prima di essere acceso, una volta dato alle fiamme, su sonadori (il musicista di organetto/fisarmonica-launeddas) inizia a suonare balli tipici del luogo e della Sardegna intera, i tipici "ballus sardus" (balli sardi), nel frattempo viene distribuita la cena, composta da specialità del luogo come cixiri, brobei a buddiu, proceddu e druccis, tottu isciustu de 'inu bellu (ceci, pecora bollita, maialetto e dolci (tipici sardi), tutto bagnato da del buon vino. Il giorno dopo si ha la processione per riportare il Santo nella sua chiesa dalla cattedrale e, subito dopo la messa si ha il tipico rinfresco "su cumbidu", a base di dolci sardi e "crannaccia" (vernaccia).

La leggenda del soldato martire dal corpo efebico e glabro ha interessato pittori e scultori di ogni era, il che ha portato a concentrare gli artisti sull'iconografia del santo nudo dalla bella anatomia a discapito di quella del militare maturo. Il santo era tra l'altro una delle poche figure nude che avevano il diritto di stare in una chiesa. Emblematico è l'episodio tramandato da Giorgio Vasari nelle Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori in merito al pittore Fra Bartolomeo.
Sicché il suo stato di santo ha cristallizzato per secoli le raffigurazioni del giovane ignudo col corpo bello e virile trafitto da frecce, o dal fisico nudo che si abbandona languidamente alle cure di angeli.

La rappresentazione più antica del santo è nel mosaico della Basilica di Sant'Apollinare Nuovo a Ravenna, datato tra 527 e il 565. La parete laterale sulla destra contiene grandi mosaici che raffigurano la processione di 26 martiri, condotta da san Martino e presieduta, tra gli altri, dallo stesso Sebastiano, ma i martiri sono rappresentati nello stile bizantino e non sono individualizzati, per cui hanno un'espressione identica.

Un'altra raffigurazione antica di Sebastiano è in un mosaico nella Basilica di San Pietro in Vincoli a Roma, che si fa risalire al 682 e rappresenta un uomo barbuto rivestito da un'armatura ma che non reca l'attributo della freccia.

Il soggetto del santo ignudo e disteso dal viso languido risanato dopo il martirio da un gruppo di pie donne riscuote particolare fortuna nella pittura del XVII secolo, con schizzi di luce irradiati da una candela che rischiarano il corpo incorrotto del soldato, in lotta tra la vita e la morte, in una scena notturna e intima. Testimoniano gli effetti luminosi che si dipanano sul corpo nudo del santo gli esempi di Georges de La Tour e Jusepe de Ribera.




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domenica 17 gennaio 2016

SANT'ANTONIO ABATE

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Antonio nacque verso il 250 da una agiata famiglia di agricoltori nel villaggio di Coma, attuale Qumans in Egitto e verso i 18-20 anni rimase orfano dei genitori, con un ricco patrimonio da amministrare e con una sorella minore da educare.
Attratto dall’ammaestramento evangelico “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo, poi vieni e seguimi”, e sull’esempio di alcuni anacoreti che vivevano nei dintorni dei villaggi egiziani, in preghiera, povertà e castità, Antonio volle scegliere questa strada e venduto i suoi beni, affidata la sorella a una comunità di vergini, si dedicò alla vita ascetica davanti alla sua casa e poi al di fuori del paese.
Alla ricerca di uno stile di vita penitente e senza distrazione, chiese a Dio di essere illuminato e così vide poco lontano un anacoreta come lui, che seduto lavorava intrecciando una corda, poi smetteva si alzava e pregava, poi di nuovo a lavorare e di nuovo a pregare; era un angelo di Dio che gli indicava la strada del lavoro e della preghiera, che sarà due secoli dopo, la regola benedettina “Ora et labora” del Monachesimo Occidentale.
Parte del suo lavoro gli serviva per procurarsi il cibo e parte la distribuiva ai poveri; dice s. Atanasio, che pregava continuamente ed era così attento alla lettura delle Scritture, che ricordava tutto e la sua memoria sostituiva i libri.
Dopo qualche anno di questa edificante esperienza, in piena gioventù cominciarono per lui durissime prove, pensieri osceni lo tormentavano, dubbi l’assalivano sulla opportunità di una vita così solitaria, non seguita dalla massa degli uomini né dagli ecclesiastici, l’istinto della carne e l’attaccamento ai beni materiali che erano sopiti in quegli anni, ritornavano prepotenti e incontrollabili.
Chiese aiuto ad altri asceti, che gli dissero di non spaventarsi, ma di andare avanti con fiducia, perché Dio era con lui e gli consigliarono di sbarazzarsi di tutti i legami e cose, per ritirarsi in un luogo più solitario.
Così ricoperto appena da un rude panno, si rifugiò in un’antica tomba scavata nella roccia di una collina, intorno al villaggio di Coma, un amico gli portava ogni tanto un po’ di pane, per il resto si doveva arrangiare con frutti di bosco e le erbe dei campi.
In questo luogo, alle prime tentazioni subentrarono terrificanti visioni e frastuoni, in più attraversò un periodo di terribile oscurità spirituale, ma tutto superò perseverando nella fede in Dio, compiendo giorno per giorno la sua volontà, come gli avevano insegnato i suoi maestri.
Quando alla fine Cristo gli si rivelò illuminandolo, egli chiese: “Dov’eri? Perché non sei apparso fin da principio per far cessare le mie sofferenze?”. Si sentì rispondere: “Antonio, io ero qui con te e assistevo alla tua lotta…”.
Scoperto dai suoi concittadini, che come tutti i cristiani di quei tempi, affluivano presso gli anacoreti per riceverne consiglio, aiuto, consolazione, ma nello stesso tempo turbavano la loro solitudine e raccoglimento, allora Antonio si spostò più lontano verso il Mar Rosso.
Sulle montagne del Pispir c’era una fortezza abbandonata, infestata dai serpenti, ma con una fonte sorgiva e qui nel 285 Antonio si trasferì, rimanendovi per 20 anni.
Due volte all’anno gli calavano dall’alto del pane; seguì in questa nuova solitudine l’esempio di Gesù, che guidato dallo Spirito si ritirò nel deserto “per essere tentato dal demonio”; era comune convinzione che solo la solitudine, permettesse alla creatura umana di purificarsi da tutte le cattive tendenze, personificate nella figura biblica del demonio e diventare così uomo nuovo.
Certamente solo persone psichicamente sane potevano affrontare un’ascesi così austera come quella degli anacoreti; non tutti ci riuscivano e alcuni finivano per andare fuori di testa, scambiando le proprie fantasie per illuminazioni divine o tentazioni diaboliche.
Non era il caso di Antonio; attaccato dal demonio che lo svegliava con le tentazioni nel cuore della notte, dandogli consigli apparentemente di maggiore perfezione, spingendolo verso l’esaurimento fisico e psichico e per disgustarlo della vita solitaria; invece resistendo e acquistando con l’aiuto di Dio, il “discernimento degli spiriti”, Antonio poté riconoscere le apparizioni false, compreso quelle che simulavano le presenze angeliche.
E venne il tempo in cui molte persone che volevano dedicarsi alla vita eremitica, giunsero al fortino abbattendolo e Antonio uscì come ispirato dal soffio divino; cominciò a consolare gli afflitti ottenendo dal Signore guarigioni, liberando gli ossessi e istruendo i nuovi discepoli.
Si formarono due gruppi di monaci che diedero origine a due monasteri, uno ad oriente del Nilo e l’altro sulla riva sinistra del fiume, ogni monaco aveva la sua grotta solitaria, ubbidendo però ad un fratello più esperto nella vita spirituale; a tutti Antonio dava i suoi consigli nel cammino verso la perfezione dello spirito uniti a Dio.
Nel 307 venne a visitarlo il monaco eremita s. Ilarione (292-372), che fondò a Gaza in Palestina il primo monastero, scambiandosi le loro esperienze sulla vita eremitica; nel 311 Antonio non esitò a lasciare il suo eremo e si recò ad Alessandria, dove imperversava la persecuzione contro i cristiani, ordinata dall’imperatore romano Massimino Daia († 313), per sostenere e confortare i fratelli nella fede e desideroso lui stesso del martirio.
Forse perché incuteva rispetto e timore reverenziale anche ai Romani, fu risparmiato; le sue uscite dall’eremo si moltiplicarono per servire la comunità cristiana, sostenne con la sua influente presenza l’amico vescovo di Alessandria, s. Atanasio che combatteva l’eresia ariana, scrisse in sua difesa anche una lettera a Costantino imperatore, che non fu tenuta di gran conto, ma fu importante fra il popolo cristiano.
Tornata la pace nell’impero e per sfuggire ai troppi curiosi che si recavano nel fortilizio del Mar Rosso, decise di ritirarsi in un luogo più isolato e andò nel deserto della Tebaide, dove prese a coltivare un piccolo orto per il suo sostentamento e di quanti, discepoli e visitatori, si recavano da lui per aiuto e ricerca di perfezione.
Visse nella Tebaide fino al termine della sua lunghissima vita, poté seppellire il corpo dell’eremita s. Paolo di Tebe con l’aiuto di un leone, per questo è considerato patrono dei seppellitori.
Negli ultimi anni accolse presso di sé due monaci che l’accudirono nell’estrema vecchiaia; morì a 106 anni, il 17 gennaio del 356 e fu seppellito in un luogo segreto.
La sua presenza aveva attirato anche qui tante persone desiderose di vita spirituale e tanti scelsero di essere monaci; così fra i monti della Tebaide (Alto Egitto) sorsero monasteri e il deserto si popolò di monaci; primi di quella moltitudine di uomini consacrati che in Oriente e in Occidente, intrapresero quel cammino da lui iniziato, ampliandolo e adattandolo alle esigenze dei tempi.
I suoi discepoli tramandarono alla Chiesa la sua sapienza, raccolta in 120 detti e in 20 lettere; nella Lettera 8, s. Antonio scrisse ai suoi “Chiedete con cuore sincero quel grande Spirito di fuoco che io stesso ho ricevuto, ed esso vi sarà dato”.
Nel 561 fu scoperto il suo sepolcro e le reliquie cominciarono un lungo viaggiare nel tempo, da Alessandria a Costantinopoli, fino in Francia nell’XI secolo a Motte-Saint-Didier, dove fu costruita una chiesa in suo onore.
In questa chiesa a venerarne le reliquie, affluivano folle di malati, soprattutto di ergotismo canceroso, causato dall’avvelenamento di un fungo presente nella segala, usata per fare il pane.
Il morbo era conosciuto sin dall’antichità come ‘ignis sacer’ per il bruciore che provocava; per ospitare tutti gli ammalati che giungevano, si costruì un ospedale e una Confraternita di religiosi, l’antico Ordine ospedaliero degli ‘Antoniani’; il villaggio prese il nome di Saint-Antoine di Viennois.
Il papa accordò loro il privilegio di allevare maiali per uso proprio e a spese della comunità, per cui i porcellini potevano circolare liberamente fra cortili e strade, nessuno li toccava se portavano una campanella di riconoscimento.
Il loro grasso veniva usato per curare l’ergotismo, che venne chiamato “il male di s. Antonio” e poi “fuoco di s. Antonio” (herpes zoster); per questo nella religiosità popolare, il maiale cominciò ad essere associato al grande eremita egiziano, poi fu considerato il santo patrono dei maiali e per estensione di tutti gli animali domestici e della stalla.
Nella sua iconografia compare oltre al maialino con la campanella, anche il bastone degli eremiti a forma di T, la ‘tau’ ultima lettera dell’alfabeto ebraico e quindi allusione alle cose ultime e al destino.
Nel giorno della sua festa liturgica, si benedicono le stalle e si portano a benedire gli animali domestici; in alcuni paesi di origine celtica, s. Antonio assunse le funzioni della divinità della rinascita e della luce, LUG, il garante di nuova vita, a cui erano consacrati cinghiali e maiali, così s. Antonio venne rappresentato in varie opere d’arte con ai piedi un cinghiale.
Patrono di tutti gli addetti alla lavorazione del maiale, vivo o macellato; è anche il patrono di quanti lavorano con il fuoco, come i pompieri, perché guariva da quel fuoco metaforico che era l’herpes zoster, ma anche in base alla leggenda popolare che narra che s. Antonio si recò all’inferno, per contendere l’anima di alcuni morti al diavolo e mentre il suo maialino sgaiattolato dentro, creava scompiglio fra i demoni, lui accese col fuoco infernale il suo bastone a ‘tau’ e lo portò fuori insieme al maialino recuperato e lo donò all’umanità, accendendo una catasta di legna.
Per millenni e ancora oggi, si usa nei paesi accendere il giorno 17 gennaio, i cosiddetti “focarazzi” o “ceppi” o “falò di s. Antonio”, che avevano una funzione purificatrice e fecondatrice, come tutti i fuochi che segnavano il passaggio dall’inverno alla imminente primavera. Le ceneri poi raccolte nei bracieri casalinghi di una volta, servivano a riscaldare la casa e con apposita campana fatta con listelli di legni per asciugare i panni umidi.
È invocato contro tutte le malattie della pelle e contro gli incendi. Veneratissimo lungo i secoli, il suo nome è fra i più diffusi del cattolicesimo, anche se poi nella devozione onomastica è stato soppiantato dal XIII sec. dal grande omonimo santo taumaturgo di Padova.
Nell’Italia Meridionale per distinguerlo è chiamato “Sant’Antuono”.

La storia della traslazione delle reliquie di sant'Antonio in Occidente si basa principalmente sulla ricostruzione elaborata nel XVI secolo da Aymar Falco, storico ufficiale dell'Ordine dei Canonici Antoniani.

Dopo il ritrovamento del luogo di sepoltura nel deserto egiziano, le reliquie sarebbero state prima traslate, nella città di Alessandria, nella metà del VI secolo – così come espresso da numerosi martirologi medievali che datano la traslazione al tempo di Giustiniano (527-565) –, poi, a seguito dell'occupazione araba dell'Egitto, sarebbero state portate a Costantinopoli attorno al 670. Successivamente, nell'XI secolo, il nobile francese Jaucelin, signore di Châteauneuf, nella diocesi di Vienne, le ottenne in dono dall'imperatore di Costantinopoli e le portò in Francia nel Delfinato.



Qui il nobile Guigues de Didier fece poi costruire, nel villaggio di La Motte (in seguito Saint-Antoine), una chiesa che accolse le reliquie poste sotto la tutela del priorato benedettino che faceva capo all'abbazia di Montmajour (vicino ad Arles).

Nello stesso luogo si originò il primo nucleo di quello che poi divenne l'Ordine dei Canonici Ospedalieri Antoniani la cui vocazione originaria era quella dell'accoglienza dei malati di fuoco di sant'Antonio. L'afflusso di denaro proveniente dalla questua fece nascere forti contrasti tra il priorato e gli Ospedalieri. I primi furono costretti così ad andarsene per poi iniziare a sostenere, a partire dal XV secolo, di essere i veri possessori delle reliquie, sottratte durante la fuga agli antoniani, e quindi solennemente riposte ad Arles nella chiesa di Saint-Julien, di loro proprietà. Si creò quindi uno sdoppiamento del corpo del santo.

La tradizione che si riferisce alla traslazione delle reliquie di Antonio è in realtà molto complessa e le testimonianze più antiche identificano Jocelino come nipote di Guglielmo, colui che, parente di Carlomagno, dopo essere stato al suo fianco in diverse battaglie, si era ritirato a vita monastica e aveva fondato il monastero di Gellone (oggi Saint-Guilhelm-le-Désert).

Inoltre, se a partire dall'XI secolo inizia a svilupparsi il culto taumaturgico nella città di Saint-Antoine, attorno alle spoglie di Antonio, nello stesso periodo si origina la tradizione che narra della presenza di un altro corpo del santo all'interno dell'abbazia di Lézat (Lézat-sur-Léze). Quindi i corpi di Antonio, in Occidente, diventano tre, e tali rimarranno fino al XVIII secolo.

Per la prima volta nella storia, nel gennaio 2006, in occasione del Giubileo antoniano, le reliquie di sant'Antonio abate hanno lasciato la città di Arles (Francia). Dal 6 al 13 gennaio 2006 sono state ospitate nel Comune di Novoli in provincia di Lecce, comune che ne conserva la reliquia del braccio. Dal 13 al 17 gennaio 2006 sono state accolte sull'Isola d'Ischia. Il 20 agosto 2006 sono giunte ad Aci Sant'Antonio.

Nell'anno 2012 dal 16/01 al 22/01 le reliquie di sant'Antonio Abate giungono a Gubbio dove nella Chiesa dei Neri, dedicata a S.Giovanni Decollato e di proprietà della Famiglia dei Santantoniari, vengono visitate dalla quasi totalità del Popolo Eugubino.

Nell'anno 2014 le reliquie di sant'Antonio Abate giungono a Sutri (VT) nel giorno della vigilia della festività del santo 16 gennaio. L'Amministrazione Comunale, il Vescovo della Diocesi S.E. Rev. Mons. Romano Rossi, ma soprattutto, le due società di sant'Antonio: l'Antica e la Nuova sono state le fautrici del grande avvenimento culturale e religioso. Le reliquie sono state portate in processione dai soci delle due Società per ben due volte e poi ricollocate nella Chiesa Cattedrale di Santa Maria Assunta in cielo. Osservate e venerate in turni H24 dai soci delle due Società che hanno permesso ai cittadini di Sutri, a quelli della diocesi e oltre di pregare davanti alle spoglie di sant'Antonio Abate. Grande è stata l'affluenza di fedeli e palese è stata l'emozione dimostrata dagli abitanti di Sutri nel custodire sant'Antonio tanto da far registrare un record nella presenza di cavalli e cavalieri il giorno della festa il 17 gennaio. La mattina di sabato 24 gennaio, le reliquie, dopo 10 giorni di sosta a Sutri, partono per essere ricollocate ad Arles.

La popolarità della vita del santo – esempio preclaro degli ideali della vita monastica - spiega il posto centrale che la sua raffigurazione ha costantemente avuto nell'arte sacra. Una delle più antiche immagini pervenutaci, risalente all'VIII secolo, è contenuta in un frammento di affresco proveniente dal monastero di Bawit (Egitto), fondato da Sant'Apollo.

A causa della diffusissima venerazione, troviamo immagini del santo, solitamente raffigurato come un anziano monaco dalla lunga barba bianca, nei codici miniati, nei capitelli, nelle vetrate (come in quelle del coro della cattedrale di Chartres), nelle sculture lignee destinate agli altari ed alle cappelle, negli affreschi, nelle tavole e nelle pale poste nei luoghi di culto. Con l'avvento della stampa la sua immagine comparve anche in molte incisioni che i devoti appendono nelle loro case così come nelle loro stalle.

Nel periodo medievale, il culto di Sant'Antonio fu reso popolare soprattutto per opera dell'ordine degli Ospedalieri Antoniani, che ne consacrarono altresì la iconografia: essa ritrae il santo ormai avanti negli anni, mentre incede scuotendo un campanello (come facevano appunto gli Antoniani), in compagnia di un maiale (animale dal quale essi ricavavano il grasso per preparare emollienti da spalmare sulle piaghe). Il bastone da pellegrino termina spesso (come nel dipinto di Matthias Grünewald per l'altare di Isenheim) con una croce a forma di tau che gli Antoniani portavano cucita sul loro abito (thauma in greco antico significa stupore, meraviglia di fronte al prodigio). Tra gli insediamenti degli Ospedalieri è famoso quello di Issenheim (Alto Reno), mentre in Italia deve essere ricordata almeno la precettoria di Sant'Antonio in Ranverso (vicino a Torino) ove si conservano affreschi con le storie del santo dipinte da Giacomo Jaquerio (circa 1426).

In numerosi dipinti l'immagine di Sant'Antonio è associata a quella di altri santi, in contemplazione spesso di una scena sacra. Ricordiamo ad esempio la suggestiva tavola del Pisanello (ca.1440-50) conservata alla National Gallery di Londra, che raffigura una visione della Madonna col Bambino che appare ad un rude e barbuto Sant'Antonio e ad un San Giorgio elegantemente vestito; ed ancora la tavola con il nostro santo accovacciato assieme a San Nicola di fronte alla scena della Visitazione in una tavola di Piero di Cosimo (circa 1490) conservata alla National Gallery of Art di Washington.

Grande popolarità ebbero anche le scene di incontro tra Sant'Antonio e San Paolo eremita, narrate da San Girolamo. Nel Camposanto di Pisa il pittore fiorentino Buonamico Buffalmacco affrescò (circa 1336) – con un linguaggio pittorico popolare ed ironico alquanto dissacrante – scene di vita che hanno per protagonisti i due grandi eremiti ambientate nel paesaggio roccioso della Tebaide.

Il tema dell'incontro dei due santi eremiti venne ripreso innumerevoli volte: citiamo la tavola del Sassetta alla National Gallery of Art di Washington (circa 1440), la tela di Gerolamo Savoldo alla Gallerie dell'Accademia in Venezia (circa 1510) e quella di Diego Velázquez (circa 1635) al Museo del Prado.

Ma l'abate Antonio, per la storia dell'arte, è soprattutto il santo delle tentazioni demoniache: sia che esse assumano – in accordo con la Vita Antonii scritta da Atanasio di Alessandria – l'aspetto dell'oro, come avviene nella tavola del Beato Angelico (circa 1436) posta nel Museo delle Belle Arti di Houston, oppure l'aspetto delle lusinghe muliebri come avviene nella tavola centrale del celebre trittico delle tentazioni di Hieronymus Bosch al Museo nazionale dell'Arte antica di Lisbona, oppure ancora quello della lotta, contro inquietanti demoni, scena che fu popolarissima nel XVI e XVII secolo soprattutto nella pittura del Nord.

Tra le opere più celebri a questo riguardo va menzionata la celebre tavola (ca 1515-20) di Matthias Grünewald che fa parte dell'altare di Isenheim conservato al Musée d'Unterlinden a Colmar. Essa è spesso citata assieme alla irriverente incisione (circa 1480-90) di Martin Schongauer al Metropolitan Museum of Art di New York, New York.

Vanno poi ricordate anche le molteplici Tentazioni dipinte dai fiamminghi David Teniers il Giovane e da Jan Brueghel il Vecchio, con la raffigurazione di paesaggi popolati da presenze demoniache che congiurano contro il santo, mentre sullo sfondo ardono misteriosi incendi (richiamo evidente al fuoco di Sant'Antonio); esse segnarono per molti anni un genere imitato da numerosi artisti minori.

Il tema delle Tentazioni di Sant'Antonio riletto con una diversa sensibilità, si ritrova anche in non pochi pittori moderni. Ricordiamo innanzi tutto Paul Cézanne con la sua tentazione (circa 1875) della Collezione "E. G. Bührle" (Svizzera); poi la serie di tre litografie eseguite (1888) da Odilon Redon per illustrare il romanzo La tentation de Saint-Antoine di Gustave Flaubert.

Relativamente al XX secolo vanno menzionate le interpretazioni date a questo tema - con scoperta attenzione alla lezione psicoanalitica - da pittori quali Max Ernst e Salvador Dalí, entrambe eseguite nel 1946.

Sant'Antonio fu presto invocato in Occidente come patrono dei macellai e salumai, dei contadini e degli allevatori e come protettore degli animali domestici; fu reputato essere potente taumaturgo capace di guarire malattie terribili.

La tradizione di benedire gli animali (in particolare i maiali) non è legata direttamente a sant'Antonio: nasce nel Medioevo in terra tedesca, quando era consuetudine che ogni villaggio allevasse un maiale da destinare all'ospedale, dove prestavano il loro servizio i monaci di sant'Antonio.

A partire dall'XI secolo gli abitanti delle città si lamentavano della presenza di maiali che pascolavano liberamente nelle vie e i Comuni s'incaricarono allora di vietarne la circolazione ma fatta sempre salva l'integrità fisica dei suini «di proprietà degli Antoniani, che ne ricavavano cibo per i malati (si capirà poi che per guarire bastava mangiare carne anziché segale), balsami per le piaghe, nonché sostentamento economico. Maiali, dunque, che via via acquisiscono un'aura di sacralità e guai a chi dovesse rubarne uno, perché Antonio si sarebbe vendicato colpendo con la malattia, anziché guarirla.»

Secondo una leggenda del Veneto (dove viene chiamato San Bovo o San Bò, da non confondere con l'omonimo santo), la notte del 17 gennaio gli animali acquisiscono la facoltà di parlare. Durante questo evento i contadini si tenevano lontani dalle stalle, perché udire gli animali conversare era segno di cattivo auspicio.


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