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lunedì 11 luglio 2016

PERCHE' LO FAI?

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Le persone assumono droga perché vogliono cambiare qualcosa nella propria vita:
Per inserirsi
Per evadere o rilassarsi
Per ammazzare la noia
Per sembrare più grandi
Per ribellarsi
Per sperimentare
Loro pensano che le droghe siano una soluzione. Ma alla fine le droghe diventano il problema.

Anche se è difficile affrontare i propri problemi, le conseguenze dell’uso di droga sono sempre peggiori del problema che si sta cercando di risolvere. La vera risposta è quella di informarsi e di non far uso di droga in primo luogo.

Il modo più semplice con cui un individuo diventa tossicodipendente è il contatto con un gruppo che fa uso di droghe e nel quale, in maniera più o meno consapevole, sperimenta il desiderio di divertirsi e di provare sensazioni fuori dalla norma. Lo scopo apparentemente ricreativo dell'assunzione di droghe finisce spesso per mescolarsi con le dinamiche di gruppo, con il desiderio di essere accettati all'interno di un certo ambiente, di migliorare persino le proprie “prestazioni” sociali all'interno del gruppo (come avviene per esempio nella tossicodipendenza da cocaina) e magari di soddisfare le aspettative di una figura che viene riconosciuta come il capobranco. Il salto da un uso sporadico a quello abituale di droga – come ben sappiamo – è facile e frequente e, nel momento in cui le sostanze stupefacenti hanno innescato un meccanismo di dipendenza fisica, anche quella psicologica subentra: la persona tossicodipendente finisce per credere che senza la droga non potrà più reggere la gara con se stesso per l'appartenenza al gruppo e teme che il rifiuto possa causare l'estromissione dal gruppo stesso. 
Esistono poi tutta una serie di difficoltà esterne, che possono essere ricondotte ai rapporti familiari o più semplicemente interpersonali, al lavoro e alle aspettative dell'ambiente di lavoro, alle delusioni emotive, economiche e via discorrendo, che possono essere addotte come responsabili di un ricorso all'assunzione di droga. Di fatto si tratta di difficoltà comuni a molte persone e che da sole non possono spiegare l'inizio di una tossicodipendenza. Ecco perché qui si inseriscono fattori interiori, che fanno capo al disagio della persona.

La teoria di origine psicologica che cerca di spiegare la dipendenza dall'alcol e che ha fatto scuola nell'analisi delle altre forme di dipendenza vuole che il consumo di sostanze stupefacenti serva a rinforzare le esperienze piacevoli e ad allontanare quelle negative. Sotto gli effetti della dipendenza, il soggetto perde la consapevolezza che nessuna droga può farlo star meglio se non sta bene con se stesso e che la droga altro non fa che amplificare i propri stati d'animo. Depressione, ansia, impulso alla trasgressione, eccessiva sensibilità, insoddisfazione verso la propria vita, paura di affrontare la vita stessa, con le sue difficoltà e le sue responsabilità sono tutte motivazioni che possono spingere a cercare una soluzione nella droga, una risposta artificiale al proprio disagio. La droga diventa una forma di automedicazione e di rifugio da conflitti interiori, ammessi o non, ed esteriori.

L’adolescenza è un periodo molto particolare per lo sviluppo dell’identità, ci si allontana dalla famiglia, con cui si entra spesso in opposizione, ci si identifica con il gruppo dei pari, il corpo matura con una velocità maggiore rispetto alla psiche, e si muovono i primi passi verso l’autonomia.
I genitori accettano con difficoltà questa fase, perché vengono a perdere un ruolo di primaria importanza nella vita dei figli, si rendono conto che anche per loro il tempo passa, e che tutte le attenzioni spese nella cura dei figli, vanno rimodulate se intendono favorire il processo che li porterà allo svincolo.




Questo processo che dovrebbe essere naturale e sano, può avvenire in modo problematico per differenti motivi: difficoltà da parte dei genitori a favorire lo svincolo; insicurezza da parte dei figli nello svincolarsi; presenza di malattie fisiche o psichiche in uno dei membri; esperienze di un lutto o di separazioni improvvise, etc… Il non riuscire svincolarsi dalla propria famiglia, equivale a restare in una posizione di dipendenza, questa è in genere la caratteristica di chi inizia a far uso di droghe.
Naturalmente solo una minima parte di adolescenti che hanno una problematica di dipendenza potrebbe diventare un tossicodipendente, anche perché non è detto che provare una sostanza, porterà conseguentemente alla dipendenza da essa.

Sono molteplici i motivi per cui ci si avvicina all’uso di una droga e in genere avviene con molta superficialità, poiché le viene attribuita la funzione di fornire delle risposte immediate ai seguenti bisogni e desideri personali:
 alterare gli stati di coscienza e espandere i livelli di consapevolezza personale;
sperimentare nuove sensazioni per ricercare una dimensione diversa da quella della quotidianità;
facilitare l’integrazione col gruppo dei pari;
rendere più soddisfacente l’immagine di sé favorendo sentimenti di maggior efficacia e controllo personale;
rafforzare l’autostima, riducendo autovalutazioni negative o favorendo la definizione dell’identità;
essere aiutati ad affrontare differenti esperienze personali di disagio.
Nonostante sia abbastanza frequente la possibilità di entrare in contatto con le droghe, non tutti diventeranno dei consumatori abituali. La tossicodipendenza è una malattia che si fonda sull’intenso desiderio psichico della droga, la cui funzione è simile a quella di un farmaco.
Gli studi sulle famiglie dei tossicodipendenti, fatti secondo un’ottica relazionale, hanno permesso di evidenziare che il disagio psichico di uno dei membri costituisce il segnale di un malessere più esteso che riguarda il gruppo familiare rispetto ai compiti evolutivi del ciclo vitale. In questa prospettiva il fenomeno della tossicodipendenza è visto come un modo per perpetuare la storia familiare in maniera ripetitiva, dove le posizioni dei singoli membri si trovano in una configurazione relazionale immobile.

Il drogarsi assume una duplice funzione relazionale: da una parte permette al tossicomane di essere distante e indipendente, dall'altra lo rende dipendente in termini di danaro, di mantenimento e fedele alla famiglia.

Malgrado la voglia di indipendenza, la maggioranza dei tossicomani tende a mantenere stabili legami con l'ambiente familiare restandovi a vivere a lungo nel tempo. Nella fase in cui si dovrebbe attuare lo svincolo adolescenziale, l’esterno viene avvertito come minaccioso e si ha la percezione della casa come microcosmo sociale in cui rinchiudersi.
Per il tossicodipendente l’uso della sostanza, con le sue qualità anestetizzanti, può impedire di pensare e di sentire il disagio presente dentro di lui. La presenza di un figlio con problematiche di tossicodipendenza può avere un beneficio secondario per una coppia genitoriale in crisi, poiché può servire a mantenere insieme i genitori o a raggiungere l’obiettivo di far interrompere un litigio tra loro. Si può parlare di una frequente triangolazione del paziente in un rapporto preferenziale col genitore che sente più in difficoltà in una coppia in crisi.
Egli ha il ruolo, emotivamente difficile, di mediare la tensione latente tra i genitori e di colmare artificialmente un vuoto affettivo.

In questi giochi di triangolazione il figlio svolgerebbe la funzione di contenimento e di mascheramento di conflitti genitoriali perché focalizzando l’attenzione sul proprio disagio, li permette di rimandare la ricerca di nuove soluzioni per superare i motivi di insoddisfazione reciproca. Il paziente sembra accentrare su di sé le tensioni familiari poiché è demandato a lui di rappresentare un centro focale intorno a cui la famiglia si aggrega. Il tossicomane e la famiglia hanno difficoltà a trattenere i contenuti mentali emozionanti che spesso vengono trasformati in agiti, questo è il motivo per cui spesso le emozioni appaiono sotto forma di aggressività fisica o verbale. Riuscire ad uscire da questo stato di malessere, è difficile ma non impossibile.



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lunedì 21 marzo 2016

ALDA MERINI



Alda Merini è stata una poetessa, aforista e scrittrice italiana.
Alda Giuseppina Angela Merini nasce il 21 marzo 1931 a Milano in viale Papiniano 57 in una famiglia di condizioni economiche modeste. Il padre, Nemo Merini, era dipendente presso le assicurazioni la "Vecchia Mutua Grandine ed Eguaglianza il Duomo" , la madre, Emilia Painelli, casalinga. Alda era secondogenita di tre figli, tra Anna, nata il 26 novembre 1926 ed Ezio, nato il 23 gennaio 1943, che la scrittrice fa comparire, sia pure con un certo distacco, nelle sue poesie. Della sua infanzia si conosce quel poco che lei stessa scrisse in brevi note autobiografiche in occasione della seconda edizione dell'Antologia dello Spagnoletti: "ragazza sensibile e dal carattere malinconico, piuttosto isolata e poco compresa dai suoi genitori ma molto brava ai corsi elementari: ... perché lo studio fu sempre una mia parte vitale".

Dopo aver terminato il ciclo elementare con voti molto alti, frequenta i tre anni di avviamento al lavoro presso l'Istituto "Laura Solera Mantegazza" in via Ariberto a Milano tentando di essere ammessa al Liceo Manzoni, ma non riesce in quanto non supera la prova di italiano. Nello stesso periodo si dedica allo studio del pianoforte, strumento da lei particolarmente amato. Esordisce come autrice giovanissima, a soli quindici anni, sotto la guida di Giacinto Spagnoletti che scoprì il suo talento artistico. Nel 1947, la Merini incontra "le prime ombre della sua mente" e viene internata per un mese nella clinica Villa Turro a Milano. Quando ne esce alcuni amici le sono vicini e Giorgio Manganelli, conosciuto a casa di Spagnoletti insieme a Luciano Erba e David Maria Turoldo, la indirizza dagli psicoanalisti Fornari e Musatti.

Giacinto Spagnoletti sarà il primo a pubblicarla nel 1950, nell’Antologia della poesia italiana contemporanea 1909-1949, con le liriche Il gobbo, datata 22 dicembre 1948, e Luce, del 22 dicembre 1949, dedicata a Giacinto Spagnoletti. Nel 1951, su suggerimento di Eugenio Montale e di Maria Luisa Spaziani, l'editore Giovanni Scheiwiller pubblica due poesie inedite dell'autrice in, Poetesse del Novecento. Dal 1950 al 1953 frequenta per lavoro e per amicizia Salvatore Quasimodo. Terminata la difficile relazione con Giorgio Manganelli, il 9 agosto 1953 sposa Ettore Carniti, proprietario di alcune panetterie di Milano. Nello stesso anno esce, presso l'editore Schwarz, il primo volume di versi intitolato La presenza di Orfeo. Nel 1955 esce la seconda raccolta di versi intitolata, Paura di Dio con le poesie scritte dal 1947 al 1953, alla quale fa seguito Nozze romane e, nello stesso anno, edita da Bompiani, viene pubblicata l'opera in prosa, La pazza della porta accanto.

Nasce in quello stesso anno la prima figlia, Emanuela, e al medico curante della bambina, Pietro De Pascale, Alda Merini dedica la raccolta di versi Tu sei Pietro, pubblicata nel 1962 dall'editore Scheiwiller. Dopo,Tu sei Pietro inizia un difficile periodo di silenzio e di isolamento, dovuto all'internamento al "Paolo Pini", che dura fino al 1972, con alcuni ritorni in famiglia durante i quali nascono altre tre figlie. Si alterneranno in seguito periodi di salute e malattia, probabilmente dovuti al disturbo bipolare, della quale hanno patito anche altri grandi poeti ed artisti quali Charles Baudelaire, Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, George Gordon Byron, August Strindberg e Virginia Woolf. Nel 2007 con Alda e Io – Favole, scritto a quattro mani con il favolista Sabatino Scia, vince il premio Elsa Morante Ragazzi. Il 17 ottobre 2007 la poetessa ottiene la laurea honoris causa in, "Teorie della comunicazione e dei linguaggi" presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Messina, tenendo una lectio magistralis sui meandri tortuosi del suo vissuto.

Nel 1979 la Merini ritorna a scrivere, dando il via ai suoi testi più intensi sulla drammatica e sconvolgente esperienza dell'ospedale psichiatrico, testi contenuti in quello che può essere inteso, come scrive Maria Corti "il suo capolavoro": La Terra Santa con la quale vincerà nel 1993 il Premio Librex Montale. Ma le pene della scrittrice continuano: il 7 luglio 1983 muore il marito, ed Alda, rimasta sola e ignorata dal mondo letterario, cerca inutilmente di diffondere i propri versi. Racconta Maria Corti che lei stessa si era recata presso i maggiori editori italiani senza alcun successo fintanto che, nel 1982, dopo aver raccontato a Paolo Mauri la sua amarezza, le offrì uno spazio sulla sua rivista per trenta poesie da pubblicare sul nº 4, inverno 1982 - primavera 1983, che, insieme a lei, aveva scelto da un dattiloscritto di un centinaio di testi; in seguito, insieme all'editore Scheiwiller, avrebbero aggiunto altre dieci liriche, e nel 1984 veniva dato alla stampa La Terra Santa.

In quel periodo la Merini affitta una camera della propria abitazione ad un pittore di nome Charles, iniziando a comunicare telefonicamente con l'anziano poeta Michele Pierri, che, in quel difficile periodo di ritorno nel mondo letterario, aveva dimostrato di apprezzare la sue poesie. Nell'ottobre del 1983 Alda e Michele si sposano e vanno a vivere a Taranto. Alda è curata e protetta dal marito, che prima di andare in pensione era un medico, ex primario di Cardiologia all'ospedale SS. Annunziata. In questo periodo, scrive venti poesie-ritratti de, La gazza ladra, probabilmente risalenti al 1985, inedite fino al volume Vuoto d'amore, oltre alcuni testi per Pierri. Sempre a Taranto porta a termine L'altra verità. Diario di una diversa.

Nel luglio del 1986, dopo aver sperimentato nuovamente gli orrori dell'Ospedale Psichiatrico di Taranto, fa ritorno a Milano ed inizia una terapia con la dottoressa Marcella Rizzo, alla quale dedica più di una poesia. Nello stesso anno riprende a scrivere e ad incontrare i vecchi amici, tra cui Vanni Scheiwiller, che le pubblica "L'altra verità. Diario di una diversa", il suo primo libro in prosa che, come scrive Giorgio Manganelli nella prefazione al testo, "... non è un documento, né una testimonianza sui dieci anni trascorsi dalla scrittrice in manicomio. È una ricognizione, per epifanie, deliri, nenie, canzoni, disvelamenti e apparizioni, di uno spazio - non un luogo - in cui, venendo meno ogni consuetudine e accortezza quotidiana, irrompe il naturale inferno e il naturale numinoso dell'essere umano" al quale seguiranno Fogli bianchi nel 1987, La volpe e il sipario (1997) e Testamento (1988). Nel 1987 è finalista nel premio letterario Premio Bergamo.
Sono questi, per la Merini, anni fecondi dal punto di vista letterario e di conquista di una certa serenità. Nell'inverno del 1989 la poetessa frequenta il caffè-libreria Chimera, situato poco lontano dalla sua abitazione sui Navigli, e offre agli amici del caffè i suoi dattiloscritti. Sarà in questo periodo che nasceranno libri come, Delirio amoroso (1989) e Il tormento delle figure (1990). Negli anni seguenti diverse pubblicazioni consolidano il ritorno sulla scena letteraria. Nel 1991 escono Le parole di Alda Merini e Vuoto d'amore a cui fa seguito nel 1992 Ipotenusa d'amore; nel 1993 viene dato alle stampe La palude di Manganelli o il monarca del re, il volumetto Aforismi, con fotografie di Giuliano Grittini e Titano amori intorno . È questo l'anno in cui le viene assegnato il Premio Librex Montale per la Poesia, premio che la consacra tra i grandi letterati contemporanei e la accosta a scrittori come Giorgio Caproni, Attilio Bertolucci, Mario Luzi, Andrea Zanzotto, Franco Fortini.

Nel 1994 vede la luce il volume Sogno e Poesia, da L'incisione di Corbetta, con venti incisioni di altrettanti artisti contemporanei. Nel 1995 viene pubblicato da Bompiani il volume, La pazza della porta accanto e da Einaudi Ballate non pagate. Il musicista pugliese Vincenzo Mastropirro musica alcune liriche tratte da "Ballate non pagate" (Einaudi editore). Sempre nel 1994 esce nelle Edizioni Melusine Reato di vita, autobiografia e poesia. Nel 1996, con il volume La vita facile, le viene assegnato il Premio Viareggio e nel 1997 il Premio Procida - Elsa Morante.

Risale al 1996 anche la pubblicazione di una libretto edito da La Vita Felice intitolato Un'anima indocile, composto da poesie vecchie e nuove, da un diario-confessione, da brevi racconti e da un'intervista fatta all'autrice. Nello stesso anno conosce l'artista bergamasco Giovanni Bonaldi col quale stringe una forte e sincera amicizia e una stretta collaborazione per la pubblicazione di diversi libri d'artista. Nel 1997 viene pubblicata dall'editore Girardi la raccolta di poesie, La volpe e il sipario, con illustrazioni di Gianni Casari, dove è più che mai evidente la tecnica della poesia spontanea in forma orale e che altri trascrivono.

Fenomeno, questo, che «pur essendo tipicamente contemporaneo, di una scelta dell'oralità a svantaggio della scrittura, è per ora unico dentro all'universo della poesia contemporanea...». Si assiste pertanto, nell'autrice, al fenomeno di un'oralità che conduce sempre più verso testi assai brevi e, infine, all'aforisma. Nel novembre dello stesso anno viene pubblicato, con le edizioni dell'Ariete, il libro, Curva di fuga e presentato da Alda Merini presso il Castello Sforzesco di Soncino, in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria alla poetessa milanese. Sempre nel 1997 Bonaldi illustra con cinque disegni una raccolta di poesie ed epigrammi della Merini dal titolo, Salmi della gelosia, stampata dalle edizioni dell'Ariete.

Un altro libro d'artista con copertina in metallo, accompagna, nel giugno del 1997, i lavori di Giovanni Bonaldi, esposti alla Galleria ArsMedia di Bergamo, in occasione della prima mostra personale dal titolo, Certificazioni d'esistenza, presentata da Riccardo Barletta, dalla stessa Alda Merini e Lucio Del Pezzo. Dal 1997 al 1999 è ospite per tre edizioni consecutive al Premio Città di Recanati in occasione del quale legge alcuni versi di Giacomo Leopardi da L'infinito. Nel 1999 le edizioni Pulcinoelefante pubblicano 21 febbraio contenente una poesia di Alda Merini e una incisione di Bonaldi con intervento tattile.



Sono questi gli anni in cui la produzione aforistica della Merini diventa molto ricca, come testimonia nel 1997 "Il Catalogo Generale delle Edizioni Pulcinoelefante", edito da Scheiwiller. I minitesti di Alda Merini risultano essere più di cinquecento. Nel 1999 in Aforismi e magie, pubblicato da Rizzoli, viene raccolto per la prima volta il meglio di quel genere. Il volume viene illustrato dai disegni di Alberto Casiraghi, amico, poeta ed editore della Merini che ha sollecitato, raccolto e accompagnato con i suoi piccoli libri "Pulcinoelefante", questa nuova vocazione. È questo il periodo in cui viene insignita del titolo di vincitrice honoris causa del Concorso Nazionale Garzanti. La collaborazione con i piccoli editori - che comprendono, oltre Pulcinoelefante, lo Zanetto, La Vita Felice, il Melangolo e altri - ha portato ad altri "minitesti" come, tra gli ultimi pubblicati, Lettera ai figli, edito da Michelangelo Camilliti per l'edizione Lietocollelibri e illustrato da otto disegni onirici e surreali di Alberto Casiraghi. Da ricordare il volume edito da l'Incisione, Alda Merini, che contiene poesie inedite della poetessa e disegni dell'artista Aligi Sassu, opere stampate su torchio in litografia e serigrafia.

Nel 2000 esce nell'edizione Einaudi, Superba è la notte, un volume risultato di un lavoro minuzioso compiuto su numerose poesie inviate all'editore Einaudi e ad Ambrogio Borsani. I versi che compongono la raccolta sono stati scritti dal 1996 al 1999. Non essendo stato possibile dare al materiale un ordine cronologico i curatori si sono basati sull'omogeneità tematica e stilistica complessiva dell'opera. Per l'editore Gabriele Mazzotta, insieme con Alberto Fiz, cura il catalogo della mostra di Giovanni Bonaldi dal titolo Il peso non dorme. Sempre in questo anno le edizioni Il dodecaedro di Leonardo di Milano pubblicano una poesia inedita di Alda Merini con una incisione di Bonaldi dal titolo Splenduisti et vocasti. Tra il 2001 e il 2002 viene pubblicato in quaranta esemplari, dalle edizioni Lo Sciamano, un ulteriore libro d'artista dal titolo Amore di carta che raccoglie cinque incisioni di Giovanni Bonaldi e nove poesie inedite di Alda Merini. Nel 2001 posa seminuda per la copertina dell'album Canto di Spine del complesso degli Altera, nel quale sono messe in musica composizioni sue e di altri poeti e poetesse del Novecento.

Nel 2002 viene stampato dall'editore Salani un volumetto dal titolo Folle, folle, folle d'amore per te, con un pensiero di Roberto Vecchioni e nel 2003 la Einaudi Stile Libero pubblica un cofanetto con videocassetta e testo dal titolo Più bella della poesia è stata la mia vita. Nel mese di giugno, presso la Galleria ArsMedia di Bergamo vengono presentati gli ultimi lavori dell'artista serinese Bonaldi Giovanni; la mostra, introdotta da Alda Merini, è accompagnata da un catalogo curato da Sara Fontana. Nel 2003, a seguito dell'inaugurazione delle opere d'arte realizzate da Bonaldi Giovanni per la Cappella dell'Oratorio della Parrocchia di Mozzo, viene presentato il catalogo delle opere dal titolo L'ospitalità dell'Arca edito da Silvana Editoriale con contributi del Cardinale, Gianfranco Ravasi, del monsignor, Carlo Chenis, Giuseppe Laras, del mons, Pierangelo Sequeri, Silvia Gervasoni, la stessa Alda Merini e Franco Bonilauri.

Nel 2009 esce il documentario, Alda Merini, una donna sul palcoscenico, del regista Cosimo Damiano Damato, presentato alle Giornate degli Autori della 66ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia. Il film, prodotto da Angelo Tumminelli per la Star Dust International srl di Roma, vede la partecipazione di Mariangela Melato e le fotografie di Giuliano Grittini. Dall'incontro del regista con la poetessa nasce una grande amicizia e tante poesie inedite inserite nel documentario.

Molto importante è il carattere mistico della più recente poetica di Alda Merini, che è connessa alla prima vena creativa con cui esordì e che aveva in sé una forte componente di misticismo. Ambrogio Borsani, nel volume, Il suono dell'ombra, edito da Mondadori e che rappresenta la raccolta più completa dell'opera della Merini, cita una lettera indirizzata alla giovanissima Alda da una suora in cui quest'ultima risponde a una richiesta di Alda Merini di poter entrare in convento e prendere i voti. È dall'incontro e dall'amicizia tra Alda Merini e Arnoldo Mosca Mondadori che questa «vena» viene di nuovo stimolata, e nascono una serie di libri editi da Frassinelli che hanno come filo conduttore la mistica della poetessa. Mosca Mondadori propone a Merini una serie di temi di carattere spirituale, ne raccoglie e cura i versi: il primo libro pubblicato è L'anima innamorata (2000), cui seguono testi sempre di carattere religioso, tre dei quali (Corpo d'amore, Poema della croce, Francesco, canto di una creatura), introdotti da Monsignor Gianfranco Ravasi.

Nel 2002 viene pubblicato Magnificat, un incontro con Maria, corredato da disegni di Ugo Nespolo e rappresentato nel 2006 con Valentina Cortese al Teatro Lauri Rossi di Macerata per lo Sferisterio Opera Festival, nel 2003 La carne degli Angeli, con venti opere inedite di Domenico Paladino; poi Corpo d'amore (2004) con le opere di Luca Pignatelli, Poema della Croce(2005), Cantico dei Vangeli (2006), Francesco, canto di una creatura (2007), Mistica d'amore (2008), Padre mio (2009). Di questo lavoro avvenuto tra il 1997 e il 2009 sono viva testimonianza le registrazioni, raccolte nel libro e nel documentario Eternamente vivo (Frassinelli editore, regia di Daniele Pignatelli, a cura di Arnoldo Mosca Mondadori), grazie a cui è possibile ascoltare la voce di Alda Merini mentre crea i propri versi.

Nel 2003 e 2004 viene pubblicato da Einaudi Clinica dell'abbandono con l'introduzione di Ambrogio Borsani e con uno scritto di Vincenzo Mollica. Il libro è diviso in due sezioni: la prima, Poemi eroici, che comprende versi scritti alla fine degli anni novanta, la seconda, Clinica dell'abbandono, che raccoglie i versi degli ultimi anni. Questo volume riproduce, con alcune aggiunte, il testo del cofanetto con videocassetta Più bella della poesia è stata la mia vita. Nel febbraio del 2004 la Merini viene ricoverata all'Ospedale San Paolo di Milano per problemi di salute. Da tutta Italia vengono inviate e-mail a sostegno di un appello lanciato da un amico della scrittrice che richiede aiuto economico. Sorgono numerosi blog telematici e siti internet nei quali viene richiesto l'intervento del sindaco di Milano Gabriele Albertini. La scrittrice ritorna successivamente nella propria casa di Porta Ticinese.

Nel marzo del 2004 esce l'album, intitolato Milva canta Merini, che contiene undici motivi cantati da Milva tratti dalle poesie di Alda Merini, più una traccia cd rom. L'autore delle musiche è Giovanni Nuti. Il 21 marzo, presente la stessa Merini, in occasione del suo settantatreesimo compleanno, viene eseguito un recital al Teatro Strehler di Milano, in occasione della presentazione del disco; il disco venne riproposto poi con successo nello stesso teatro per un ciclo di serate musicali nel maggio 2005, sempre con la presenza della poetessa sul palco. Durante l'estate 2004 molte sono state le iniziative sorte per far conoscere in maniera più diffusa la poesia di Alda Merini.

Muore il 1º novembre 2009 a causa di un tumore osseo (sarcoma) all'Ospedale San Paolo di Milano. Dopo l'allestimento della camera ardente, aperta il 2 e il 3 del mese, i funerali di stato sono stati celebrati nel pomeriggio del 4 novembre nel Duomo di Milano. Nel 2010 esce postumo l'album Una piccola ape furibonda – Giovanni Nuti canta Alda Merini, contenente undici brani (otto poesie inedite) e una "traccia fantasma" con Alda Merini che canta con Giovanni Nuti Prima di venire. Nel marzo 2010 il Comune di Milano appone una targa sul muro dell'abitazione della poetessa sui Navigli. Nel 2013 è omaggiata da Norman Zoia (con lei a Milano nel 1990 alla sesta rassegna internazionale di poesia) a pagina 19 di passi perversi: Nobile grazia di Venere e coraggio di Madre / dolcezza dell'umano genere / diangelo di stile".

In memoria della sua persona e della sua opera, le figlie Emanuela, Barbara, Flavia e Simonetta, hanno dato vita al sito internet www.aldamerini.it, un'antologia in ricordo della poetessa, un elogio all'"ape furibonda", alla sua figura di scrittrice e madre.


.LEGGI ANCHE : http://asiamicky.blogspot.it/2015/02/i-navigli.html



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domenica 17 gennaio 2016

SANT'ANTONIO ABATE

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Antonio nacque verso il 250 da una agiata famiglia di agricoltori nel villaggio di Coma, attuale Qumans in Egitto e verso i 18-20 anni rimase orfano dei genitori, con un ricco patrimonio da amministrare e con una sorella minore da educare.
Attratto dall’ammaestramento evangelico “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo, poi vieni e seguimi”, e sull’esempio di alcuni anacoreti che vivevano nei dintorni dei villaggi egiziani, in preghiera, povertà e castità, Antonio volle scegliere questa strada e venduto i suoi beni, affidata la sorella a una comunità di vergini, si dedicò alla vita ascetica davanti alla sua casa e poi al di fuori del paese.
Alla ricerca di uno stile di vita penitente e senza distrazione, chiese a Dio di essere illuminato e così vide poco lontano un anacoreta come lui, che seduto lavorava intrecciando una corda, poi smetteva si alzava e pregava, poi di nuovo a lavorare e di nuovo a pregare; era un angelo di Dio che gli indicava la strada del lavoro e della preghiera, che sarà due secoli dopo, la regola benedettina “Ora et labora” del Monachesimo Occidentale.
Parte del suo lavoro gli serviva per procurarsi il cibo e parte la distribuiva ai poveri; dice s. Atanasio, che pregava continuamente ed era così attento alla lettura delle Scritture, che ricordava tutto e la sua memoria sostituiva i libri.
Dopo qualche anno di questa edificante esperienza, in piena gioventù cominciarono per lui durissime prove, pensieri osceni lo tormentavano, dubbi l’assalivano sulla opportunità di una vita così solitaria, non seguita dalla massa degli uomini né dagli ecclesiastici, l’istinto della carne e l’attaccamento ai beni materiali che erano sopiti in quegli anni, ritornavano prepotenti e incontrollabili.
Chiese aiuto ad altri asceti, che gli dissero di non spaventarsi, ma di andare avanti con fiducia, perché Dio era con lui e gli consigliarono di sbarazzarsi di tutti i legami e cose, per ritirarsi in un luogo più solitario.
Così ricoperto appena da un rude panno, si rifugiò in un’antica tomba scavata nella roccia di una collina, intorno al villaggio di Coma, un amico gli portava ogni tanto un po’ di pane, per il resto si doveva arrangiare con frutti di bosco e le erbe dei campi.
In questo luogo, alle prime tentazioni subentrarono terrificanti visioni e frastuoni, in più attraversò un periodo di terribile oscurità spirituale, ma tutto superò perseverando nella fede in Dio, compiendo giorno per giorno la sua volontà, come gli avevano insegnato i suoi maestri.
Quando alla fine Cristo gli si rivelò illuminandolo, egli chiese: “Dov’eri? Perché non sei apparso fin da principio per far cessare le mie sofferenze?”. Si sentì rispondere: “Antonio, io ero qui con te e assistevo alla tua lotta…”.
Scoperto dai suoi concittadini, che come tutti i cristiani di quei tempi, affluivano presso gli anacoreti per riceverne consiglio, aiuto, consolazione, ma nello stesso tempo turbavano la loro solitudine e raccoglimento, allora Antonio si spostò più lontano verso il Mar Rosso.
Sulle montagne del Pispir c’era una fortezza abbandonata, infestata dai serpenti, ma con una fonte sorgiva e qui nel 285 Antonio si trasferì, rimanendovi per 20 anni.
Due volte all’anno gli calavano dall’alto del pane; seguì in questa nuova solitudine l’esempio di Gesù, che guidato dallo Spirito si ritirò nel deserto “per essere tentato dal demonio”; era comune convinzione che solo la solitudine, permettesse alla creatura umana di purificarsi da tutte le cattive tendenze, personificate nella figura biblica del demonio e diventare così uomo nuovo.
Certamente solo persone psichicamente sane potevano affrontare un’ascesi così austera come quella degli anacoreti; non tutti ci riuscivano e alcuni finivano per andare fuori di testa, scambiando le proprie fantasie per illuminazioni divine o tentazioni diaboliche.
Non era il caso di Antonio; attaccato dal demonio che lo svegliava con le tentazioni nel cuore della notte, dandogli consigli apparentemente di maggiore perfezione, spingendolo verso l’esaurimento fisico e psichico e per disgustarlo della vita solitaria; invece resistendo e acquistando con l’aiuto di Dio, il “discernimento degli spiriti”, Antonio poté riconoscere le apparizioni false, compreso quelle che simulavano le presenze angeliche.
E venne il tempo in cui molte persone che volevano dedicarsi alla vita eremitica, giunsero al fortino abbattendolo e Antonio uscì come ispirato dal soffio divino; cominciò a consolare gli afflitti ottenendo dal Signore guarigioni, liberando gli ossessi e istruendo i nuovi discepoli.
Si formarono due gruppi di monaci che diedero origine a due monasteri, uno ad oriente del Nilo e l’altro sulla riva sinistra del fiume, ogni monaco aveva la sua grotta solitaria, ubbidendo però ad un fratello più esperto nella vita spirituale; a tutti Antonio dava i suoi consigli nel cammino verso la perfezione dello spirito uniti a Dio.
Nel 307 venne a visitarlo il monaco eremita s. Ilarione (292-372), che fondò a Gaza in Palestina il primo monastero, scambiandosi le loro esperienze sulla vita eremitica; nel 311 Antonio non esitò a lasciare il suo eremo e si recò ad Alessandria, dove imperversava la persecuzione contro i cristiani, ordinata dall’imperatore romano Massimino Daia († 313), per sostenere e confortare i fratelli nella fede e desideroso lui stesso del martirio.
Forse perché incuteva rispetto e timore reverenziale anche ai Romani, fu risparmiato; le sue uscite dall’eremo si moltiplicarono per servire la comunità cristiana, sostenne con la sua influente presenza l’amico vescovo di Alessandria, s. Atanasio che combatteva l’eresia ariana, scrisse in sua difesa anche una lettera a Costantino imperatore, che non fu tenuta di gran conto, ma fu importante fra il popolo cristiano.
Tornata la pace nell’impero e per sfuggire ai troppi curiosi che si recavano nel fortilizio del Mar Rosso, decise di ritirarsi in un luogo più isolato e andò nel deserto della Tebaide, dove prese a coltivare un piccolo orto per il suo sostentamento e di quanti, discepoli e visitatori, si recavano da lui per aiuto e ricerca di perfezione.
Visse nella Tebaide fino al termine della sua lunghissima vita, poté seppellire il corpo dell’eremita s. Paolo di Tebe con l’aiuto di un leone, per questo è considerato patrono dei seppellitori.
Negli ultimi anni accolse presso di sé due monaci che l’accudirono nell’estrema vecchiaia; morì a 106 anni, il 17 gennaio del 356 e fu seppellito in un luogo segreto.
La sua presenza aveva attirato anche qui tante persone desiderose di vita spirituale e tanti scelsero di essere monaci; così fra i monti della Tebaide (Alto Egitto) sorsero monasteri e il deserto si popolò di monaci; primi di quella moltitudine di uomini consacrati che in Oriente e in Occidente, intrapresero quel cammino da lui iniziato, ampliandolo e adattandolo alle esigenze dei tempi.
I suoi discepoli tramandarono alla Chiesa la sua sapienza, raccolta in 120 detti e in 20 lettere; nella Lettera 8, s. Antonio scrisse ai suoi “Chiedete con cuore sincero quel grande Spirito di fuoco che io stesso ho ricevuto, ed esso vi sarà dato”.
Nel 561 fu scoperto il suo sepolcro e le reliquie cominciarono un lungo viaggiare nel tempo, da Alessandria a Costantinopoli, fino in Francia nell’XI secolo a Motte-Saint-Didier, dove fu costruita una chiesa in suo onore.
In questa chiesa a venerarne le reliquie, affluivano folle di malati, soprattutto di ergotismo canceroso, causato dall’avvelenamento di un fungo presente nella segala, usata per fare il pane.
Il morbo era conosciuto sin dall’antichità come ‘ignis sacer’ per il bruciore che provocava; per ospitare tutti gli ammalati che giungevano, si costruì un ospedale e una Confraternita di religiosi, l’antico Ordine ospedaliero degli ‘Antoniani’; il villaggio prese il nome di Saint-Antoine di Viennois.
Il papa accordò loro il privilegio di allevare maiali per uso proprio e a spese della comunità, per cui i porcellini potevano circolare liberamente fra cortili e strade, nessuno li toccava se portavano una campanella di riconoscimento.
Il loro grasso veniva usato per curare l’ergotismo, che venne chiamato “il male di s. Antonio” e poi “fuoco di s. Antonio” (herpes zoster); per questo nella religiosità popolare, il maiale cominciò ad essere associato al grande eremita egiziano, poi fu considerato il santo patrono dei maiali e per estensione di tutti gli animali domestici e della stalla.
Nella sua iconografia compare oltre al maialino con la campanella, anche il bastone degli eremiti a forma di T, la ‘tau’ ultima lettera dell’alfabeto ebraico e quindi allusione alle cose ultime e al destino.
Nel giorno della sua festa liturgica, si benedicono le stalle e si portano a benedire gli animali domestici; in alcuni paesi di origine celtica, s. Antonio assunse le funzioni della divinità della rinascita e della luce, LUG, il garante di nuova vita, a cui erano consacrati cinghiali e maiali, così s. Antonio venne rappresentato in varie opere d’arte con ai piedi un cinghiale.
Patrono di tutti gli addetti alla lavorazione del maiale, vivo o macellato; è anche il patrono di quanti lavorano con il fuoco, come i pompieri, perché guariva da quel fuoco metaforico che era l’herpes zoster, ma anche in base alla leggenda popolare che narra che s. Antonio si recò all’inferno, per contendere l’anima di alcuni morti al diavolo e mentre il suo maialino sgaiattolato dentro, creava scompiglio fra i demoni, lui accese col fuoco infernale il suo bastone a ‘tau’ e lo portò fuori insieme al maialino recuperato e lo donò all’umanità, accendendo una catasta di legna.
Per millenni e ancora oggi, si usa nei paesi accendere il giorno 17 gennaio, i cosiddetti “focarazzi” o “ceppi” o “falò di s. Antonio”, che avevano una funzione purificatrice e fecondatrice, come tutti i fuochi che segnavano il passaggio dall’inverno alla imminente primavera. Le ceneri poi raccolte nei bracieri casalinghi di una volta, servivano a riscaldare la casa e con apposita campana fatta con listelli di legni per asciugare i panni umidi.
È invocato contro tutte le malattie della pelle e contro gli incendi. Veneratissimo lungo i secoli, il suo nome è fra i più diffusi del cattolicesimo, anche se poi nella devozione onomastica è stato soppiantato dal XIII sec. dal grande omonimo santo taumaturgo di Padova.
Nell’Italia Meridionale per distinguerlo è chiamato “Sant’Antuono”.

La storia della traslazione delle reliquie di sant'Antonio in Occidente si basa principalmente sulla ricostruzione elaborata nel XVI secolo da Aymar Falco, storico ufficiale dell'Ordine dei Canonici Antoniani.

Dopo il ritrovamento del luogo di sepoltura nel deserto egiziano, le reliquie sarebbero state prima traslate, nella città di Alessandria, nella metà del VI secolo – così come espresso da numerosi martirologi medievali che datano la traslazione al tempo di Giustiniano (527-565) –, poi, a seguito dell'occupazione araba dell'Egitto, sarebbero state portate a Costantinopoli attorno al 670. Successivamente, nell'XI secolo, il nobile francese Jaucelin, signore di Châteauneuf, nella diocesi di Vienne, le ottenne in dono dall'imperatore di Costantinopoli e le portò in Francia nel Delfinato.



Qui il nobile Guigues de Didier fece poi costruire, nel villaggio di La Motte (in seguito Saint-Antoine), una chiesa che accolse le reliquie poste sotto la tutela del priorato benedettino che faceva capo all'abbazia di Montmajour (vicino ad Arles).

Nello stesso luogo si originò il primo nucleo di quello che poi divenne l'Ordine dei Canonici Ospedalieri Antoniani la cui vocazione originaria era quella dell'accoglienza dei malati di fuoco di sant'Antonio. L'afflusso di denaro proveniente dalla questua fece nascere forti contrasti tra il priorato e gli Ospedalieri. I primi furono costretti così ad andarsene per poi iniziare a sostenere, a partire dal XV secolo, di essere i veri possessori delle reliquie, sottratte durante la fuga agli antoniani, e quindi solennemente riposte ad Arles nella chiesa di Saint-Julien, di loro proprietà. Si creò quindi uno sdoppiamento del corpo del santo.

La tradizione che si riferisce alla traslazione delle reliquie di Antonio è in realtà molto complessa e le testimonianze più antiche identificano Jocelino come nipote di Guglielmo, colui che, parente di Carlomagno, dopo essere stato al suo fianco in diverse battaglie, si era ritirato a vita monastica e aveva fondato il monastero di Gellone (oggi Saint-Guilhelm-le-Désert).

Inoltre, se a partire dall'XI secolo inizia a svilupparsi il culto taumaturgico nella città di Saint-Antoine, attorno alle spoglie di Antonio, nello stesso periodo si origina la tradizione che narra della presenza di un altro corpo del santo all'interno dell'abbazia di Lézat (Lézat-sur-Léze). Quindi i corpi di Antonio, in Occidente, diventano tre, e tali rimarranno fino al XVIII secolo.

Per la prima volta nella storia, nel gennaio 2006, in occasione del Giubileo antoniano, le reliquie di sant'Antonio abate hanno lasciato la città di Arles (Francia). Dal 6 al 13 gennaio 2006 sono state ospitate nel Comune di Novoli in provincia di Lecce, comune che ne conserva la reliquia del braccio. Dal 13 al 17 gennaio 2006 sono state accolte sull'Isola d'Ischia. Il 20 agosto 2006 sono giunte ad Aci Sant'Antonio.

Nell'anno 2012 dal 16/01 al 22/01 le reliquie di sant'Antonio Abate giungono a Gubbio dove nella Chiesa dei Neri, dedicata a S.Giovanni Decollato e di proprietà della Famiglia dei Santantoniari, vengono visitate dalla quasi totalità del Popolo Eugubino.

Nell'anno 2014 le reliquie di sant'Antonio Abate giungono a Sutri (VT) nel giorno della vigilia della festività del santo 16 gennaio. L'Amministrazione Comunale, il Vescovo della Diocesi S.E. Rev. Mons. Romano Rossi, ma soprattutto, le due società di sant'Antonio: l'Antica e la Nuova sono state le fautrici del grande avvenimento culturale e religioso. Le reliquie sono state portate in processione dai soci delle due Società per ben due volte e poi ricollocate nella Chiesa Cattedrale di Santa Maria Assunta in cielo. Osservate e venerate in turni H24 dai soci delle due Società che hanno permesso ai cittadini di Sutri, a quelli della diocesi e oltre di pregare davanti alle spoglie di sant'Antonio Abate. Grande è stata l'affluenza di fedeli e palese è stata l'emozione dimostrata dagli abitanti di Sutri nel custodire sant'Antonio tanto da far registrare un record nella presenza di cavalli e cavalieri il giorno della festa il 17 gennaio. La mattina di sabato 24 gennaio, le reliquie, dopo 10 giorni di sosta a Sutri, partono per essere ricollocate ad Arles.

La popolarità della vita del santo – esempio preclaro degli ideali della vita monastica - spiega il posto centrale che la sua raffigurazione ha costantemente avuto nell'arte sacra. Una delle più antiche immagini pervenutaci, risalente all'VIII secolo, è contenuta in un frammento di affresco proveniente dal monastero di Bawit (Egitto), fondato da Sant'Apollo.

A causa della diffusissima venerazione, troviamo immagini del santo, solitamente raffigurato come un anziano monaco dalla lunga barba bianca, nei codici miniati, nei capitelli, nelle vetrate (come in quelle del coro della cattedrale di Chartres), nelle sculture lignee destinate agli altari ed alle cappelle, negli affreschi, nelle tavole e nelle pale poste nei luoghi di culto. Con l'avvento della stampa la sua immagine comparve anche in molte incisioni che i devoti appendono nelle loro case così come nelle loro stalle.

Nel periodo medievale, il culto di Sant'Antonio fu reso popolare soprattutto per opera dell'ordine degli Ospedalieri Antoniani, che ne consacrarono altresì la iconografia: essa ritrae il santo ormai avanti negli anni, mentre incede scuotendo un campanello (come facevano appunto gli Antoniani), in compagnia di un maiale (animale dal quale essi ricavavano il grasso per preparare emollienti da spalmare sulle piaghe). Il bastone da pellegrino termina spesso (come nel dipinto di Matthias Grünewald per l'altare di Isenheim) con una croce a forma di tau che gli Antoniani portavano cucita sul loro abito (thauma in greco antico significa stupore, meraviglia di fronte al prodigio). Tra gli insediamenti degli Ospedalieri è famoso quello di Issenheim (Alto Reno), mentre in Italia deve essere ricordata almeno la precettoria di Sant'Antonio in Ranverso (vicino a Torino) ove si conservano affreschi con le storie del santo dipinte da Giacomo Jaquerio (circa 1426).

In numerosi dipinti l'immagine di Sant'Antonio è associata a quella di altri santi, in contemplazione spesso di una scena sacra. Ricordiamo ad esempio la suggestiva tavola del Pisanello (ca.1440-50) conservata alla National Gallery di Londra, che raffigura una visione della Madonna col Bambino che appare ad un rude e barbuto Sant'Antonio e ad un San Giorgio elegantemente vestito; ed ancora la tavola con il nostro santo accovacciato assieme a San Nicola di fronte alla scena della Visitazione in una tavola di Piero di Cosimo (circa 1490) conservata alla National Gallery of Art di Washington.

Grande popolarità ebbero anche le scene di incontro tra Sant'Antonio e San Paolo eremita, narrate da San Girolamo. Nel Camposanto di Pisa il pittore fiorentino Buonamico Buffalmacco affrescò (circa 1336) – con un linguaggio pittorico popolare ed ironico alquanto dissacrante – scene di vita che hanno per protagonisti i due grandi eremiti ambientate nel paesaggio roccioso della Tebaide.

Il tema dell'incontro dei due santi eremiti venne ripreso innumerevoli volte: citiamo la tavola del Sassetta alla National Gallery of Art di Washington (circa 1440), la tela di Gerolamo Savoldo alla Gallerie dell'Accademia in Venezia (circa 1510) e quella di Diego Velázquez (circa 1635) al Museo del Prado.

Ma l'abate Antonio, per la storia dell'arte, è soprattutto il santo delle tentazioni demoniache: sia che esse assumano – in accordo con la Vita Antonii scritta da Atanasio di Alessandria – l'aspetto dell'oro, come avviene nella tavola del Beato Angelico (circa 1436) posta nel Museo delle Belle Arti di Houston, oppure l'aspetto delle lusinghe muliebri come avviene nella tavola centrale del celebre trittico delle tentazioni di Hieronymus Bosch al Museo nazionale dell'Arte antica di Lisbona, oppure ancora quello della lotta, contro inquietanti demoni, scena che fu popolarissima nel XVI e XVII secolo soprattutto nella pittura del Nord.

Tra le opere più celebri a questo riguardo va menzionata la celebre tavola (ca 1515-20) di Matthias Grünewald che fa parte dell'altare di Isenheim conservato al Musée d'Unterlinden a Colmar. Essa è spesso citata assieme alla irriverente incisione (circa 1480-90) di Martin Schongauer al Metropolitan Museum of Art di New York, New York.

Vanno poi ricordate anche le molteplici Tentazioni dipinte dai fiamminghi David Teniers il Giovane e da Jan Brueghel il Vecchio, con la raffigurazione di paesaggi popolati da presenze demoniache che congiurano contro il santo, mentre sullo sfondo ardono misteriosi incendi (richiamo evidente al fuoco di Sant'Antonio); esse segnarono per molti anni un genere imitato da numerosi artisti minori.

Il tema delle Tentazioni di Sant'Antonio riletto con una diversa sensibilità, si ritrova anche in non pochi pittori moderni. Ricordiamo innanzi tutto Paul Cézanne con la sua tentazione (circa 1875) della Collezione "E. G. Bührle" (Svizzera); poi la serie di tre litografie eseguite (1888) da Odilon Redon per illustrare il romanzo La tentation de Saint-Antoine di Gustave Flaubert.

Relativamente al XX secolo vanno menzionate le interpretazioni date a questo tema - con scoperta attenzione alla lezione psicoanalitica - da pittori quali Max Ernst e Salvador Dalí, entrambe eseguite nel 1946.

Sant'Antonio fu presto invocato in Occidente come patrono dei macellai e salumai, dei contadini e degli allevatori e come protettore degli animali domestici; fu reputato essere potente taumaturgo capace di guarire malattie terribili.

La tradizione di benedire gli animali (in particolare i maiali) non è legata direttamente a sant'Antonio: nasce nel Medioevo in terra tedesca, quando era consuetudine che ogni villaggio allevasse un maiale da destinare all'ospedale, dove prestavano il loro servizio i monaci di sant'Antonio.

A partire dall'XI secolo gli abitanti delle città si lamentavano della presenza di maiali che pascolavano liberamente nelle vie e i Comuni s'incaricarono allora di vietarne la circolazione ma fatta sempre salva l'integrità fisica dei suini «di proprietà degli Antoniani, che ne ricavavano cibo per i malati (si capirà poi che per guarire bastava mangiare carne anziché segale), balsami per le piaghe, nonché sostentamento economico. Maiali, dunque, che via via acquisiscono un'aura di sacralità e guai a chi dovesse rubarne uno, perché Antonio si sarebbe vendicato colpendo con la malattia, anziché guarirla.»

Secondo una leggenda del Veneto (dove viene chiamato San Bovo o San Bò, da non confondere con l'omonimo santo), la notte del 17 gennaio gli animali acquisiscono la facoltà di parlare. Durante questo evento i contadini si tenevano lontani dalle stalle, perché udire gli animali conversare era segno di cattivo auspicio.


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venerdì 16 ottobre 2015

LA MAMMA

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I tempi storici nei quali stiamo vivendo, ci fanno vedere una figura di "madre" diversa da quella che una volta si aveva.

Quando nasce un figlio, la prima volta che sentiamo che pronuncia il nome “mamma” per noi diventa qualcosa di grandioso e di stupendo.

E’ una gioia indescrivibile, è qualcosa che dal di dentro ti dice che sei stata in grado di mettere al mondo una creatura.

Nei tempi che stiamo vivendo ultimamente l’essere madre sta acquistando colori e significati diversi.

Ci sono mamme per vocazione e madri che vogliono diventarlo per forza, anche mettendo a repentaglio la vita di altri figli, pur di ottenerne uno per se stesse.

Da sempre la madre è colei che mette al mondo il figlio, che si occupa principalmente delle cure da dargli e della sua educazione, soprattutto nei primi anni di vita, anzi possiamo dire che lo faccia già dal grembo.

Pure se oggi c’è una maggiore partecipazione del padre nella crescita ed educazione dei figli, il compito primario resta sempre a lei, alla mamma, perché in fondo è propria della sua vocazione lo svolgere tutto questo.

Nell’epoca della contraddizione colei che non riesce a concepire un figlio ne vuole uno a tutti i costi, senza guardare in faccia a niente ed a nessuno, neppure agli altri figli che butterà via solo per averne uno tutto per sé.

Forse bisognerebbe riguardare cosa sia la maternità, dove nasce ed a cosa tende, perché se per maternità si deve intendere l’avere un figlio per forza, un costruirlo in laboratorio, distruggendo per esso altri figli, allora la maternità non è più questa, non la si può chiamare tale.

Madre è colei che si sacrifica per la vita di suo figlio, ne abbiamo tanti esempi di donne che muoiono per far nascere il loro bambino, che sacrificano la loro vita purché si salvi quella della creatura che portano in grembo.

Qui, per l’appunto, sta la questione: la madre si sacrifica per il figlio ma non sacrifica il figlio per se stessa.

Mettere al mondo un figlio per forza, sacrificandone altri, non è più amore di madre, non è più maternità, ma solo onnipotenza e delirio procreatico, voglia di possedere un figlio come cosa propria e non più come nuova vita da amare e rispettare.

Per quanto possano essere comprensibili le ragioni di coloro che ricorrono a determinate tecniche di procreazione artificiale per avere un figlio, non è certo condivisibile che per essere madre di un figlio si legittimi l’uccisione di molti altri.

Non è più maternità questa: è solo egoismo.

La vita umana è un dono da amare e rispettare, da tutelare e coltivare, ma non da pretendere e costruire artificialmente.

Un bambino non è un bel giocattolo da far costruire come si desidera e da avere a tutti i costi.

La vita umana, racchiusa già in quella monocellula che si è appena formata con la fecondazione umana, va amata sempre, fin da quel primo istante…………altrimenti, se non si ama la vita appena formata, come possiamo aspettarci che si riesca ad amare la vita di chi ci passa accanto?

Essere madre oggi significa essere pronta a dare la vita per i propri figli: ma non è una cosa nuova, è sempre stato così ogni volta che si accetta la vita quale dono da amare, custodire e far crescere.



domenica 4 ottobre 2015

SAN FRANCESCO D'ASSISI Patrono d'Italia

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Altissimo, onnipotente, bon Signore 
Tue so' le laude, la gloria et l'honore 
et onne benedictione. 
A te solo, Altissimo, se konfanno 
Et nullo homo ene digno te mentovare. 
Laudato si', mi' Signore, cum tucte le tue creature, 
specialmente messer lo frate sole 
lo quale è iorno et allumini noi per lui, 
et ellu è bellu e radiante, cum grande splendore: 
de te, Altissimo, porta significatione. 
Laudato si', mi' Signore, per sora luna e le stelle: 
in celu l'ài formate clarite et pretiose et belle. 
Laudato si', mi' Signore, per frate vento 
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo, 
per lo quale alle tue creature dai sostentamento. 
Laudato si', mi' Signore, per sora acqua,
la quale è molto utile et humile
et pretiosa et casta.
Laudato si', mi' Signore, per frate focu
per lo quale enallumini la nocte
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte. 
Laudato si', mi' Signore, per sora nostra madre terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti fiori et herba.
Laudato si', mi' Signore, per quelli ke perdonano 
per lo tuo amore,
et sostengo' infirmitate et tribolatione.
Beati quelli ke le sosterranno in pace 
ka da te, Altissimo, sirano incoronati.
Laudato si', mi' Signore, 
per sora nostra morte corporale
da la quale nullo homo vivente po' skappare.
Guai a quelli ke morranno ne le peccata mortali; 
beati quelli ke trovarà
ne le sue sanctissime volutati,
ka la morte secunda nol farrà male.
Laudate et benedicete mi' Signore,
et rengratiate et serviteli
cum grande humilitate.
(S. Francesco d'Assisi)


Diacono e fondatore dell'ordine che da lui poi prese il nome, è venerato come santo dalla Chiesa cattolica. Il 4 ottobre ne viene celebrata la memoria liturgica in tutta la Chiesa cattolica (festa in Italia; solennità per la Famiglia francescana). È stato proclamato, assieme a santa Caterina da Siena, patrono principale d'Italia il 18 giugno 1939 da papa Pio XII.

Conosciuto anche come "il poverello d'Assisi", la sua tomba è meta di pellegrinaggio per centinaia di migliaia di devoti, pellegrini e ammiratori ogni anno. La città di Assisi, a motivo del suo illustre cittadino, è assurta a simbolo di pace, soprattutto dopo aver ospitato i tre grandi incontri tra gli esponenti delle maggiori religioni del mondo, promossi da papa Giovanni Paolo II nel 1986 e nel 2002, e da papa Benedetto XVI nel 2011. San Francesco d'Assisi è uno dei santi più popolari e venerati del mondo.

Oltre all'opera spirituale, Francesco, grazie al Cantico delle creature, è riconosciuto come uno degli iniziatori della tradizione letteraria italiana.

Il cardinale Jorge Mario Bergoglio, eletto papa nel conclave del 2013, ha assunto il nome pontificale di Francesco in onore del santo di Assisi, primo nella storia della chiesa.

Francesco nacque nel 1182 da Pietro di Bernardone e dalla nobile Giovanna Pica, in una famiglia della borghesia emergente della città di Assisi, che, grazie all'attività di commercio di stoffe, aveva raggiunto ricchezza e benessere. Sua madre lo fece battezzare con il nome di Giovanni (dal nome di Giovanni Battista) nella chiesa costruita in onore del patrono della città, il vescovo e martire Rufino, cattedrale dal 1036. Tuttavia il padre decise di cambiargli il nome in Francesco, insolito per quel tempo, in onore della Francia che aveva fatto la sua fortuna.




La sua casa, situata al centro della città, era provvista di un fondaco utilizzato come negozio e magazzino per lo stoccaggio e l'esposizione di quelle stoffe che il mercante si procurava con i suoi frequenti viaggi in Provenza. Il padre Pietro vendeva la sua pregiata merce in tutto il territorio del Ducato di Spoleto in cui all'epoca rientrava anche la città di Assisi.

Il francescanesimo si inserisce in quel vasto movimento pauperistico del XIII secolo, in uno spirito di riforma volto contro la corruzione dei costumi degli ecclesiastici del tempo, troppo coinvolti negli interessi materiali e politici, nella sanguinosa Lotta per le investiture. A questo si deve aggiungere la fioritura del comune medioevale: la nascita delle ricche città-stato, se da un lato arricchì una parte del popolo, determinò la formazione di quei ricchi ceti mercantili, il cosiddetto popolo grasso, che acquistava potere a scapito della vecchia nobiltà feudale, facendo della vita metropolitana il centro della civiltà, pur lasciandovi dentro larghissime fette del ceto contadino più indigente, dall'altro causò una forte disuguaglianza sociale e anche crisi dell'assetto sociale medievale che dovette coinvolgere Francesco in prima persona mentre esercitava la professione di mercante.

"Povertà", "obbedienza" e "castità" sono aspetti fondamentali della vita di Francesco e dei suoi discepoli. Dopo un primo periodo passato in solitudine, Francesco iniziò a vivere la propria vocazione insieme a dei compagni che volevano imitare il suo esempio. L'umiltà e l'ascetismo al quale si accompagnò l'opera del santo gli valse il nome di Imitator Christi ("Imitatore di Cristo"): da qui inizia l'esperienza della "fraternità", nella quale ciascun membro è dunque un imitator Francisci ("Imitatore di Francesco"), e dunque un imitator Christi. Secondo la regola dettata da Francesco, la vita comunitaria deve cercare di conformarsi a questi principi:

Fraternità: i frati non devono vivere soli, ma devono prendersi cura dei propri fratelli (e in generale di tutti) con amore e dedizione. La stessa cura si estende incondizionatamente non solo alle creature umane, ma a tutto il creato in quanto opera di Dio e dunque sacro, vivendo in questo modo la fraternità universale.
Umiltà: porsi al di sotto di tutto e di tutti, al servizio dell'ultimo per essere davvero al servizio di Dio, liberarsi dai desideri terreni che allontanano l'uomo dal bene e dalla giustizia
Povertà: rinuncia a possedere qualsiasi bene condividendo tutto ciò che ci è dato con tutti i fratelli, partendo dai più bisognosi.
Alla preghiera e alla meditazione, la Regola francescana aggiunge lo "spirito missionario", in conformità ai precetti evangelici, assumendo una condotta completamente diversa rispetto alla norma seguita fino ad allora. È chiaro come a San Francesco interessassero soprattutto i ceti sociali più deboli, tendesse con amore fraterno verso quel "prossimo" spesso respinto e disprezzato dalla società, cioè verso il povero, il malato, il perdente, l'ultimo.

Francesco vuole essere il «minore tra i minori» (umile tra gli umili). Si sostiene che egli applicò ai compagni l'appellativo minores, dato in spregio ai popolani dai ricchi, perché lui stesso voleva incarnare la figura di "uomo del popolo". Assisi e Santa Maria degli Angeli furono e sono tuttora il cuore pulsante da cui parte e a cui ritorna l'attività missionaria di questo nuovo Ordine dei minori, come da allora in poi furono chiamati tutti coloro che seguirono (e che seguono) il santo fondatore assisano. In questo modo, lo spirito di condivisione è esempio concreto della comunione dell'anima con Dio, Gesù il Cristo, testimonianza di fede e di amore cristiano.

A imitazione dei poveri e dei mendicanti, è l'aspetto itinerante dei francescani, secondo il principio di portare il proprio sostegno materiale e spirituale al prossimo andandogli incontro là dove egli si trova: applicando questa regola alla prima persona Francesco visse e scontò un incessante vagare, portandosi fino ai confini dell'Europa, sostentandosi del frutto del lavoro che gli veniva offerto per strada e dove questo non fosse possibile, attraverso l'elemosina.
Nell’ultimo biennio di vita di Francesco si colloca la composizione del Cantico di frate sole (o Cantico delle creature). Sono anni questi in cui Francesco è sempre più tribolato dalla malattia (soffriva di gravi disturbi al fegato e di un tracoma agli occhi). Quando le sue condizioni si aggravarono in maniera definitiva Francesco fu riportato alla Porziuncola, dove morì nella notte fra il 3 e il 4 ottobre 1226. Il giorno seguente il suo corpo, dopo una sosta presso San Damiano, fu portato in Assisi e venne sepolto nella chiesa di San Giorgio.




Dopo le ultime prediche all'inizio del 1225, Francesco si rifugiò a San Damiano, nel piccolo convento annesso alla chiesetta da lui restaurata tanti anni prima e dove viveva Chiara e le sue suore.
E in questo suggestivo e spirituale luogo di preghiera, egli compose il famoso “Cantico di frate Sole” o “Cantico delle Creature”, sublime poesia, ove si comprende quanto Francesco fosse penetrato nella più intima realtà della natura, contemplando sotto ogni creatura l'adorabile presenza di Dio.
Se la fede gli aveva fatto riscoprire la fratellanza universale degli uomini, tutti figli dello stesso Padre, nel 'Cantico' egli coglieva il legame d'amore che lega tutte le creature, animate ed inanimate, tra loro e con l'uomo, in un abbraccio planetario di fratelli e sorelle che hanno un solo scopo, dare gloria a Dio.
In questo periodo, ospite per un certo tempo nel palazzo vescovile, dettò anche il suo famoso 'Testamento', l'ultimo messaggio d'amore del Poverello ai suoi figli, affinché rimanessero fedeli a madonna Povertà.
Poi per l'interessamento del cardinale Ugolino e di frate Elia, Francesco accettò di sottoporsi alle cure dei medici della corte papale a Rieti; poi ancora a Fabriano, Siena e Cortona, ma nell'estate del 1226 non solo non era migliorato, ma si fece sempre più evidente il sorgere di un'altra grave malattia, l'idropisia.
Dopo un'altra sosta a Bagnara sulle montagne vicino a Nocera Umbra, perché potesse avere un po' di refrigerio, i frati visto l'aggravarsi delle sue condizioni, decisero di trasportarlo ad Assisi e su sua richiesta all'amata Porziuncola, dove a tarda sera del 3 ottobre 1226, Francesco morì recitando il salmo 141, adagiato sulla nuda terra, aveva circa 45 anni.
Le allodole, amanti della luce e timorose del buio, nonostante che fosse già sera, vennero a roteare sul tetto dell'infermeria, a salutare con gioia il santo, che un giorno (fra Camara e Bevagna), aveva invitato gli uccelli a cantare lodando il Signore; e in altra occasione in un campo verso Montefalco aveva tenuto loro una predica, che gli uccelli immobili ascoltarono, esplodendo poi in cinguetii e voli di gioia.
La mattina del 4 ottobre, il suo corpo fu traslato con una solenne processione dalla Porziuncola alla chiesa parrocchiale di S. Giorgio ad Assisi, dove era stato battezzato e dove aveva cominciato nel 1208 la predicazione.
Lungo il percorso il corteo si fermò a San Damiano, dove la cassa fu aperta, affinché santa Chiara e le sue “povere donne” potessero baciargli le stimmate.
Nella chiesa di San Giorgio rimase tumulato fino al 1230, quando venne portato nella Basilica inferiore, costruita da frate Elia, diventato Ministro Generale dell'Ordine.
Intanto il 16 luglio 1228, papa Gregorio IX a meno di due anni dalla morte, proclamò santo il Poverello d'Assisi, alla presenza della madre madonna Pica, del fratello Angelo e altri parenti, del vescovo Guido di Assisi, di numerosi cardinali e vescovi e di una folla di popolo mai vista, fissandone la festa al 4 ottobre.

Gli episodi della sua vita e dei suoi primi seguaci, furono raccolti e narrati nei “Fioretti di San Francesco”, opera di anonimo trecentesco, che contribuì nel tempo alla larga diffusione del suo culto, unitamente alla prima e seconda 'Vita', scritte dal suo discepolo Tommaso da Celano (1190-1260), su richiesta di papa Gregorio IX.
Alcuni episodi sono entrati nell'iconografia del santo e riprodotti dall'arte, come la predica agli uccelli, il roseto in cui si rotolò per sfuggire alla tentazione, il lupo che ammansì a Gubbio, il ricevimento delle Stimmate, ecc.
È patrono dell'Umbria e di molte città, fra le quali San Francisco negli USA che da lui prese il nome; innumerevoli sono le chiese, le parrocchie, i conventi, i luoghi pubblici che portano il suo nome; come pure tanti altri santi e beati, venuti dopo di lui, che ebbero al battesimo o adottarono nella vita religiosa il suo nome.
Il grande santo di Assisi, che lo storico e scrittore, don Enrico Pepe definisce “Patrimonio dell'umanità”, fu riconosciuto da papa Pio XII, come il “più italiano dei santi e più santo degli italiani” e il 18 giugno 1939, lo proclamò Patrono principale d'Italia.





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sabato 29 agosto 2015

BUONGIORNO


Buongiorno a questo giorno che si sveglia oggi con me, 
buongiorno al latte ed al caffè, 
buongiorno a chi non c'è... 
... e al mio amore buongiorno per dirle 
che è lei, 
che per prima al mattino veder'io vorrei 
È un giorno nuovo e spero che sia buono 
anche per te. 



Buongiorno voce, vita mia, buongiorno Fantasia, 
Buongiorno Musica che sei l'oblio dei giorni miei... 
... e a coloro che aiutan chi non ce la fa, 
per donar loro un giorno che migliorerà... 
È un giorno nuovo, e poi chissà, se il mondo 
cambierà e ballerà. 



Come un walzer, la vita danzarla dovrai, 
è un vestito da sera che tu indosserai, 
è una festa con mille invitati, un po' belli 
e un po' odiati, con cui ballerai. 
Ma è danzando la vita che tu imparerai 
che ogni grande proposito è un passo che fai! 
È un giorno nuovo anche per te, 
festeggialo 
con me! 



Buongiorno cari figli mei, buongiorno a tutti voi ! 
Pensate al giorno che verrà come una novità, 
Ed un dono inatteso che vi arricchirà, 
di una nuova esperienza che si può ballar. 
E un passo nuovo e un altro ancor, e il 
mondo cambierà e ballerà. 



Come un walzer, la vita danzarla dovrai, 
è un vestito da sera che tu indosserai, 
è una festa con mille invitati, un po' belli 
e un po' odiati, con cui ballerai. 
Ma è danzando la vita che tu imparerai 
che ogni grande proposito è un passo che fai! 
È un giorno nuovo anche per te, 
festeggialo 
con me ! 



Ma è danzando la vita che tu imparerai 
che ogni grande proposito è un passo che fai, 
È un giorno nuovo e prego che sia tutto 
da ballar con te

.

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martedì 16 giugno 2015

PERSONE DI BRESCIA : PAPA PAOLO VI


“Dite ai giovani che il mondo esisteva già prima di loro, e ricordate ai vecchi che il mondo esisterà anche dopo di loro.”

Papa Paolo VI è stato il 262º vescovo di Roma e papa della Chiesa cattolica, primate d'Italia e 4º sovrano dello Stato della Città del Vaticano a partire dal 21 giugno 1963 fino alla morte. Venerabile dal 20 dicembre 2012, dopo che papa Benedetto XVI ne aveva riconosciuto le virtù eroiche, è stato beatificato il 19 ottobre 2014 da papa Francesco.

Giovanni Battista Montini nacque il 26 settembre 1897 a Concesio, un piccolo paese all'imbocco della Val Trompia, a nord di Brescia, dove la famiglia Montini, di estrazione borghese, aveva una casa per le ferie estive.
La famiglia Montini, originaria della provincia bresciana, contò tra Settecento e Ottocento numerosi medici. Medico fu anche Lodovico (1830-1871), che nel 1848 s'arruolò tra i volontari bresciani insorti contro l'esercito austriaco e fu poi pioniere del locale movimento cattolico; nel 1857 sposò la bresciana Francesca Buffali (1835-1921), di rigorosa religiosità, che ricordava d'esser stata elogiata dal generale garibaldino N. Bixio per l'aiuto prestato ai feriti della seconda guerra d'indipendenza e che fu l'unica tra i nonni conosciuta da Battista (com'era chiamato in famiglia e come sempre si firmò nelle lettere ai familiari). Il maggiore dei loro figli fu Giorgio (1860-1943), laureato in legge all'Università di Padova e dal 1881 al 1911 direttore del piccolo quotidiano dei cattolici "Il Cittadino di Brescia", fondato nel 1878. Di fronte alla linea intransigente, che dopo la traumatica fine del potere temporale del papa nel 1870 mirava a impedire ai cattolici italiani di partecipare alla vita politica con la parola d'ordine "né eletti né elettori", il giornale cattolico bresciano s'era fatto già dal 1879 sostenitore di un atteggiamento possibilista, riassunto nella più morbida formula "preparazione nell'astensione". A Brescia questa lunga evoluzione del cattolicesimo, diviso sull'opportunità di entrare nella lotta politica ma fecondo d'iniziative e opere religiose, culturali, sociali ed economiche, portò a un'alleanza con i liberali moderati, e questa coalizione nelle elezioni amministrative del maggio 1895 risultò vittoriosa sui radicali che si rifacevano a G. Zanardelli.

Poche settimane dopo Giorgio Montini sposò Giuditta Alghisi (1874-1943), anch'essa di famiglia bresciana; rimasta molto presto orfana d'entrambi i genitori, fu educata a Milano nella cultura e nella spiritualità del cattolicesimo francese ed ebbe come tutore il sindaco radicale di Brescia, G. Bonardi, vecchio garibaldino. Questi le negò il consenso a sposare il cattolico Montini, che nelle elezioni del 1895 fu eletto consigliere comunale e provinciale, e solo il raggiungimento della maggiore età della giovane pupilla, poche settimane dopo la sconfitta politica del sindaco suo tutore, permise le nozze. Dopo la morte prematura nel 1897 di G. Tovini, che era stato l'animatore del movimento cattolico bresciano, l'avvocato Montini ne divenne la guida riconosciuta, dedicandosi sempre più alla vita pubblica: assessore al Comune nel 1914, nel 1917-1918 presidente dell'Unione elettorale cattolica e quindi tra i fondatori a Brescia del Partito Popolare Italiano, nelle prime elezioni politiche del dopoguerra tenutesi nel 1919 fu eletto alla Camera dei deputati e vi venne confermato nel 1921 e poi nel 1924, finché nel 1926, per la sua appartenenza al gruppo secessionista dell'Aventino opposto alla dittatura fascista, fu dichiarato decaduto dal mandato parlamentare. Oltre a Battista, dal matrimonio nacquero altri due figli: il primogenito Lodovico (1896-1990), anch'egli avvocato, poi membro dell'Assemblea costituente, deputato dal 1948 al 1963 e senatore dal 1963 al 1968, sempre eletto per la Democrazia Cristiana, e il terzogenito Francesco (1900-1971), medico. Tra il 1903 e il 1915 Battista frequentò come esterno, con interruzioni dovute alla salute precaria, le scuole elementari, il ginnasio e parte del liceo nel collegio Cesare Arici, tenuto a Brescia dai Gesuiti, e negli stessi anni partecipò ai gruppi giovanili animati dagli Oratoriani di S. Maria della Pace, uno dei luoghi socialmente più avanzati e dal punto di vista religioso più aperti del cattolicesimo bresciano. Nell'aprile 1907 compì con la famiglia per la prima volta un viaggio a Roma (dove i Montini furono ricevuti in udienza privata da Pio X) e nel giugno successivo, a Brescia, ricevette il 6 la prima comunione e il 21 la cresima. Tra i preti oratoriani incontrati in quegli anni alla Pace, due figure incisero soprattutto nella vita di Battista, G. Bevilacqua e P. Caresana, e anzi quest'ultimo fu dal 1913 suo direttore di coscienza e confessore. In quello stesso anno, se non addirittura prima, l'adolescente prese a frequentare a Chiari, nella provincia bresciana, una comunità di monaci benedettini lì trasferitisi dalla Francia a causa delle leggi antireligiose, rimanendo affascinato dalla maniera di vita e dalle liturgie monastiche. Fu allora che iniziò a maturare in lui l'idea di prepararsi al sacerdozio. Nel 1915 l'Italia entrava in guerra e il fratello Lodovico, ufficiale d'artiglieria, venne mandato al fronte, mentre Battista, dichiarato inabile al servizio militare per la debole costituzione fisica, concludeva nel 1916 gli studi secondari conseguendo la licenza presso il liceo classico statale di Brescia.

Nell'autunno del 1916 Battista iniziò a seguire le lezioni del Seminario di Brescia come uditore esterno, obbligato dal suo fragile stato fisico ad altre ripetute sospensioni degli studi. Le tristezze degli anni di guerra e le difficoltà di salute si sommarono nell'animo del giovane seminarista, opprimendolo ma anche abituandolo a riflettere sulla sofferenza, come appare in lettere indirizzate in quel tempo ad alcuni giovani amici. Con uno di questi, A. Trebeschi, concepì nella primavera del 1918 il progetto d'un periodico studentesco, che iniziò a uscire il 15 giugno dello stesso anno e fu pubblicato a Brescia senza regolarità, con frequenza mensile o quindicinale, fino agli inizi del 1926; il suo senso fu riassunto poco più tardi dallo stesso Montini (che vi pubblicò una cinquantina di scritti) in una bozza di lettera, senza data, a Pio XI: "Il giornale 'La Fionda' è nato durante la guerra, traendo da essa in un'ora terribile non meno per le nazioni che per l'anima delle giovani generazioni, l'ispirazione appassionata di un rinnovamento spirituale. Pochi giovani, senza molto pensare ma coll'intuito e il proposito d'incominciare una nuova e non piccola opera, iniziarono la pubblicazione del periodico, che voleva esprimere la voce dello spirito nuovo ai fratelli della scuola. Sorreggeva quest'umile tentativo un grande desiderio di portare la parola cristiana nell'anima studentesca moderna, con sincerità audace ma insieme con serenità alta e gioiosa, di confortare con giovanile ardore la purezza insidiata dei giovani, di preparare con palestra elementare le coscienze degli studenti secondari ai futuri doveri religiosi e civili. Questa fu l'anima fiondista" (il testo è citato nell'introduzione alle Lettere ai familiari, p. XXI). Intanto il 21 novembre 1919 Battista, che nel settembre precedente aveva partecipato a Montecassino a un convegno della FUCI, la Federazione Universitaria Cattolica Italiana, aveva ricevuto a Brescia la veste ecclesiastica, quindi nelle settimane successive ebbe la tonsura, poi gli ordini minori e maggiori fino al diaconato, accolto con la coscienza di dover predicare il messaggio cristiano "a una società che tutto ha inventato e scoperto fuorché il Vangelo", come scrisse a un prete amico (ibid., p. XXIII), e finalmente il 29 maggio 1920 nella cattedrale di Brescia ricevette l'ordinazione sacerdotale dal vescovo G. Gaggia. Pochi giorni dopo don Battista si recò a Roma, dove il padre si trovava per i lavori parlamentari e il fratello Lodovico stava terminando gli studi all'Università, disse messa a S. Pietro e nelle catacombe, fu ricevuto in udienza privata da Benedetto XV (che aveva visto in un precedente viaggio nell'autunno del 1917, quando incontrò per la prima volta anche A. Ratti, il futuro Pio XI, allora prefetto della Biblioteca Vaticana) e assistette il 9 giugno alla tempestosa seduta della Camera dei deputati durante la quale il presidente del Consiglio F.S. Nitti annunciò le dimissioni del governo, ricavandone amare impressioni comunicate lo stesso giorno in una lettera ai familiari. A Roma don Battista tornò dopo l'estate ed entrò il 10 novembre 1920 come alunno nel Seminario Lombardo, iscrivendosi alla facoltà di filosofia della Pontificia Università Gregoriana e, con permesso speciale del vescovo, in quella di lettere dell'Università di Roma. Abbandonato il desiderio di restare in diocesi come parroco o professore in seminario, l'idea era quella di seguire studi umanistici e in particolare storici; il progetto, rettificato in un indirizzo piuttosto filosofico e teologico, fu però completamente mutato da un intervento presso il cardinale segretario di Stato P. Gasparri dell'amico di famiglia G.M. Longinotti (uomo politico bresciano, tra i fondatori del Partito Popolare): il giovane prete, dopo un decisivo incontro con il sostituto della Segreteria di Stato G. Pizzardo, avvenuto il 26 ottobre 1921 e narrato nella lettera del 29 ai familiari (mentre in due precedenti a padre Caresana aveva espresso il turbamento e il dispiacere per la prospettiva d'essere allontanato dall'attività strettamente pastorale), fu così destinato al servizio diplomatico e il 20 novembre successivo entrò nella Pontificia Accademia dei Nobili Ecclesiastici, l'istituto preposto a questo tipo di formazione; negli anni seguenti, interrotti con grande dispiacere gli studi di lettere, seguì quelli di diritto, laureandosi poi in sedi diverse, tra il 1922 e il 1924, in filosofia, diritto canonico e diritto civile (cfr. Anni e opere, p. 19). Nel frattempo, mentre a Benedetto XV era succeduto Pio XI (che il più giovane alunno dell'Accademia incontrò per la prima volta come papa il 6 marzo 1922) e in Italia la situazione politica evolveva rapidamente verso l'instaurazione e il consolidamento del regime fascista, tra il giugno e l'inizio d'ottobre del 1923 don Battista fu improvvisamente mandato in Polonia come addetto alla Nunziatura apostolica di Varsavia per un periodo quasi di prova, dal quale fu richiamato a Roma. Poche settimane dopo il suo rientro a Roma, verso la fine di novembre del 1923, Montini fu nominato assistente ecclesiastico del Circolo universitario cattolico romano, inserito nella FUCI, e per circa un anno si dedicò quasi esclusivamente a un incarico che avrebbe poi combinato con quello al servizio diretto della Santa Sede. Il 24 ottobre 1924, dopo un viaggio estivo in Francia, che durante quasi tutto l'agosto comprese un soggiorno parigino per lo studio della lingua e della letteratura, il giovane prete bresciano entrò infatti in Segreteria di Stato e nell'aprile successivo vi fu promosso minutante (ricevendo nell'ottobre seguente il titolo curiale di cameriere segreto soprannumerario, che comportava anche l'appellativo di monsignore, poi seguito l'8 luglio 1931 dal titolo di prelato domestico); nell'ottobre del 1925, infine, all'impegno in Vaticano s'aggiunse la nomina ad assistente ecclesiastico nazionale della FUCI. L'incertezza sul suo destino, caratteristica dei primi anni sacerdotali lontani dalla famiglia e dalla diocesi, sembrava così dissolversi e ricomporsi in un doppio gravoso impegno, nella coscienza tuttavia di continue deviazioni dalle sue aspirazioni più profonde a una vita di raccoglimento e di studio avvertita con lucidità in una lettera da Parigi del 9 agosto 1924: "E se così fosse la linea spezzata, ch'è la traccia della mia vita, avrebbe il suo nuovo svolto, imprevisto e improvviso; quando dopo una lunga ginnastica cominciavo ad assuefarmi al pensiero della vita romana, ricercandone con l'aiuto divino la parte mistica ed evangelica; e riuscivo a persuadermi e della vanità, dura talvolta, del suo lato umano, e dell'universalità unica e divina della sua concezione cristiana; così che non saprò dolermi degli anni ora passati come se fossero, nella deviazione, perduti" (Lettere ai familiari, p. 330).

L'occasione della riflessione era un'offerta ad assumere l'incarico di assistente spirituale degli studenti dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, da tre anni costituita a Milano, che tuttavia gli apparve non "conforme né al dovere d'obbedienza, né all'interesse d'un buon nome e d'una qualsiasi collocazione". Il nuovo indirizzo di vita, pur assorbente per le crescenti responsabilità dell'ufficio vaticano e l'estensione dell'impegno con gli universitari, si rivelò comunque fecondo: "Per un decennio visse tra i giovani, avviati agli studi e alle professioni. Era giovane anch'egli, di ventisei anni, ma la sua vita precedente era stata per le circostanze ristretta e concentrata, e ne fu come riscosso, per contatti e relazioni che si allargarono rapidamente, con il carattere genuino dell'amicizia. L'animo sacerdotale trovò il primo campo di ministero e la gioia di dispensare i suoi carismi in una dilatazione ancora non provata. Tornò, così, in altro modo al mondo della cultura, e la condizione di guida e di maestro spirituale gli fece anche riprendere la penna, con più lucidità e concretezza" (ibid., p. XXVII). L'incarico con gli universitari lo portò, soprattutto dopo la nomina del 1925, a moltiplicare viaggi faticosi per tutta l'Italia, in una situazione per più d'un motivo complessa e difficile. La FUCI stava vivendo un momento critico perché la dirigenza precedente era stata sostituita d'autorità dalla Santa Sede con l'intento di un controllo più saldo dell'associazione, e i nuovi capi, l'assistente Montini e il presidente I. Righetti, furono per lungo tempo guardati con sospetto dai fucini di cui dovettero lentamente conquistarsi la fiducia attraverso un programma che mirava a "fare per prima, per massima cosa, azione interiore, culturale e spirituale", come sottolineò lo stesso Montini. La riorganizzazione della FUCI passò anche attraverso lo sviluppo della stampa: della rivista "Studium", pubblicata in precedenza fuori Roma, e dei nuovi periodici "La Sapienza" (dal 1926) e "Azione Fucina" (dal 1928); su questi, in particolare su "Studium", l'assistente ecclesiastico pubblicò quasi duecento scritti, tra articoli e recensioni, alcuni dei quali furono raccolti e pubblicati nel volumetto Coscienza universitaria (1930) dalla Società Editrice Studium, fondata nel 1927. La stessa editrice stampò poi di Montini tre volumi di "schemi di lezioni": La via di Cristo, sui "precetti della morale cattolica" (1931), Introduzione allo studio di Cristo (1934) e Introduzione al dogma cattolico (1935), frutto quest'ultimo di un corso tenuto nel primo semestre dell'anno accademico 1934-1935 alla facoltà giuridica del Pontificio Istituto Utriusque Iuris della Pontificia Università Lateranense; nella stessa facoltà già nel 1931 aveva assunto l'insegnamento di storia della diplomazia pontificia, che mantenne fino al 1937. Nell'attività di formazione principalmente rivolta ai giovani vanno inquadrate anche le versioni di due opere francesi che Montini pubblicò con sue introduzioni presso l'editrice Morcelliana di Brescia: nel 1928 i Tre riformatori: Lutero Cartesio Rousseau di J. Maritain (al quale restò sempre legato) e nel 1934 La religione personale del gesuita L. de Grandmaison; diverse tra loro, entrambe le opere sono però significative nel porre il problema della fede all'interno della modernità e delle sue contraddizioni. Altrettanto emblematici della sensibilità culturale dell'assistente Montini appaiono nel 1931 la sua sottoscrizione al programma della nuova rivista "Arte Sacra", come appartenente al comitato di redazione, e un suo articolo Su l'arte sacra futura pubblicato sul primo numero del periodico.

Il clima politico e culturale imposto dal fascismo s'era intanto fatto asfissiante per un'associazione estranea al regime come la FUCI e per altre organizzazioni cattoliche. Già nel corso del 1925 si ebbero ripetute e gravi violenze fasciste contro i cattolici in diverse città italiane, e nel 1926 il congresso nazionale della FUCI, aperto a Macerata il 27 agosto e subito trasferito ad Assisi, fu turbato da violente provocazioni; benché poi fossero stati avviati colloqui per la soluzione della "questione romana", che si ebbe l'11 febbraio 1929 con la firma dei Patti Lateranensi, le ostilità e le pressioni si moltiplicarono nel quadro di ricorrenti polemiche e tensioni fino alla crisi del 1931, quando il 29 maggio il capo del governo B. Mussolini diede ordine ai prefetti di sciogliere in tutta Italia le associazioni giovanili cattoliche. La reazione di Pio XI fu molto energica e arrivò il 29 giugno alla pubblicazione di un'enciclica, intitolata Non abbiamo bisogno, fortemente polemica contro la decisione governativa: nei giorni immediatamente precedenti, per divulgarla fuori d'Italia nel timore che ne fosse impedita la pubblicazione all'interno, monsignor Montini ebbe l'incarico di portarne in incognito il testo alle Nunziature di Monaco e di Berna (cfr. Lettere ai familiari, pp. 690-91 n. 2). Verso la fine di luglio tuttavia l'avvio da parte vaticana di una trattativa con il governo italiano iniziò a placare la polemica che aveva raggiunto toni violentissimi, nonostante che solo due anni prima fosse stata chiusa la questione romana. Nell'imminenza della sua soluzione don Battista aveva manifestato ai familiari, in una lettera del 19 gennaio 1929, interrogativi e preoccupazioni: "Se la libertà del Papa non è garantita dalla forte e libera fede del popolo, e specialmente di quello italiano, quale territorio e quale trattato lo potrà?"; e concludeva: "Bisogna indubbiamente pregare molto perché il Signore assista la Chiesa di Roma in questi frangenti e non permetta al Suo Capo di acquistare una terrena libertà con la perdita di quella spirituale, sua e dei suoi figli". Antifascista per formazione familiare e per convinzione, Montini aveva espresso già nel 1926, in una lettera scritta ai familiari il 4 novembre, un duro giudizio sul regime che aveva propiziato eccessi e violenze: "I governi precedenti avevano la paura del coraggio; questo ha il coraggio di mostrarsi pauroso; è la propaganda del sospetto; è la smania d'individuare avversari; è la logica della rivoluzione. Il fascismo morirà d'indigestione, se così continuerà, e sarà vinto dalla propria prepotenza. Quello che è doloroso è che il popolo italiano venga così a ricevere la esiziale educazione della volubilità e dell'avventura e che sia continuamente eccitato non a contenersi nell'ambito del diritto ma a sfrenarsi nella brutalità improvvisa degli odi di parte". Il cammino della FUCI, già non facile per motivi politici, fu reso ancor più difficile da alcuni ambienti ecclesiastici in un contesto cattolico italiano comunque non univoco e anzi diviso non solo sul giudizio a proposito del regime fascista ma anche su indirizzi e scelte d'ordine culturale e spirituale. A essere preso di mira fu in particolare l'assistente Montini, che già nel maggio 1925 dovette difendersi con il cardinale vicario di Roma B. Pompilj dall'accusa, proveniente dal vicecamerlengo U. Boncompagni Ludovisi, che il circolo universitario fosse asservito alla linea del Partito Popolare. L'accusa si sommava all'ostilità dei Gesuiti, che dirigevano alcune opere rivolte al mondo studentesco romano con metodi educativi tradizionalistici dai quali la FUCI si distingueva nettamente per una linea formativa molto più aperta. La situazione si aggravò quando nel 1931 a Pompilj succedette il cardinale F. Marchetti Selvaggiani, deciso fautore dei Gesuiti: al nuovo vicario di Roma Montini fu denunciato nel maggio 1932 e quindi all'inizio del 1933 fu lo stesso cardinale vicario ad accusare l'assistente nazionale della FUCI presso i suoi superiori della Segreteria di Stato; fattasi insostenibile la situazione "in una Curia preoccupata di mantenere la quiete concordataria" (ibid., p. XXVIII), in febbraio Montini (al quale tuttavia Pio XI attestò la sua stima) con amarezza presentò le dimissioni, che in marzo furono accettate e pubblicate, adducendo come spiegazione i suoi impegni in Segreteria di Stato, di fatto crescenti e che inoltre furono vissuti dal giovane prete bresciano "nel disagio intimamente avvertito di essere condotto, per rigorosa fedeltà di esecutore, ad assumere comportamenti e a compiere atti alieni dai suoi convincimenti e vedute" (ibid., p. XXIX). Pur tra difficoltà (e nel 1935 una lunga interruzione dal lavoro per motivi di salute), avido di conoscenze e intellettualmente curioso, Montini riuscì a mantenersi dopo le dimissioni forzate, la cui vicenda ricostruì in una ampia lettera del 19 marzo 1933 al vescovo Gaggia (cfr. ibid., pp. 726-27 n. 2 e 747 n. 1), in contatto con molti giovani amici e anche a partecipare alle iniziative del Movimento Laureati di Azione Cattolica nato in quegli anni dalla FUCI; in alcune vacanze estive aveva poi sempre continuato a viaggiare, anche fuori d'Italia (nel 1926 e nel 1930 tornò in Francia, nel 1928 si recò in Belgio e Germania, e nel 1934 fu nelle isole britanniche); in ragione dell'ufficio si moltiplicavano poi le occasioni d'incontro con persone e personalità di diversi Paesi.

Agli inizi di febbraio del 1930 vi era stato un cambiamento importante ai vertici della Santa Sede perché era stato nominato segretario di Stato il cardinale E. Pacelli in sostituzione del cardinale Gasparri, che aveva lasciato l'incarico, assunto nel 1914, per divergenze personali con Pio XI. E del nuovo segretario di Stato Pacelli monsignor Montini, che dal 1932 si trasferì nella Città del Vaticano assumendone anche la cittadinanza, divenne progressivamente uno dei più stretti collaboratori finché il 16 dicembre 1937 fu pubblicata la sua nomina a sostituto della Segreteria di Stato e segretario della Cifra; la sua candidatura a questa importante carica, che lo poneva ai vertici della Santa Sede, fu sostenuta dal cardinale Pacelli, prevalendo su quella del segretario personale del papa, C. Confalonieri, che Pio XI avrebbe preferito; nell'ufficio Montini succedeva a D. Tardini, che lo stesso giorno fu nominato segretario della Congregazione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari. Nelle settimane e nei mesi successivi s'aggiunsero le nomine di Montini a consultore delle Congregazioni del Sant'Uffizio e Concistoriale e quella a protonotario apostolico (cfr. Anni e opere, pp. 32-3) e nel settembre 1939 avvenne il suo trasloco in un appartamento del Palazzo Apostolico, spettante alla sua carica ma nello stesso tempo espressivo della crescita del ruolo personale di Montini, tra l'altro sempre più al centro di incontri, relazioni e amicizie. Come voleva il suo ruolo istituzionale, nel maggio 1938 il nuovo sostituto accompagnò a Budapest il segretario di Stato, legato pontificio al trentaquattresimo congresso eucaristico internazionale, e all'alba del 10 febbraio 1939 fu il primo a essere chiamato al capezzale del papa morente. Eletto come suo successore Pacelli, Montini restò sostituto anche con il nuovo cardinale segretario di Stato L. Maglione e soprattutto continuò a godere della fiducia e dell'amicizia del suo antico superiore divenuto Pio XII; la sua importanza anzi s'accrebbe dopo l'agosto del 1944 quando, morto Maglione, il papa non nominò un suo successore e decise di governare direttamente la Segreteria di Stato attraverso i suoi due più stretti collaboratori, e cioè Montini e Tardini, che il 29 novembre 1952 vennero nominati entrambi prosegretari di Stato (in continuità con le cariche precedenti, rispettivamente per gli Affari Ordinari e per gli Affari Straordinari). La promozione avrebbe dovuto essere seguita secondo la prassi dalla creazione cardinalizia dei due ecclesiastici (e dall'eventuale scelta di uno dei due come segretario di Stato), ma questi non vennero compresi tra i cardinali creati nel Concistoro del gennaio 1953. La decisione papale fu tanto inconsueta che Pio XII si sentì in dovere di giustificarla, affermando nell'allocuzione concistoriale che erano stati i suoi due vicinissimi collaboratori a declinare l'offerta del cappello cardinalizio, ma con ogni probabilità l'offerta di papa Pacelli era stata solo un gesto di cortesia di fronte al quale Pio XII si aspettava appunto una rinuncia, non avendo intenzione di creare cardinali i due responsabili della Segreteria di Stato; questi mantennero così le loro cariche, sino alla fine del 1954 Montini e per tutto il pontificato Tardini.

La lunga permanenza di monsignor Montini ai vertici della Segreteria di Stato (quindici anni come sostituto e altri due come prosegretario di Stato per gli Affari Ordinari, preceduti da tredici anni di gavetta come minutante) è il periodo meno conosciuto della sua vita. Nelle lettere ai familiari molto sobri e contenuti sono gli accenni al suo ufficio e anzi questi si fanno più rari con il passare degli anni e il crescere parallelo delle responsabilità e della riservatezza. Questa fonte, molto preziosa ma particolare e certo non esaustiva, viene poi meno nei primi mesi del 1943, con il dissolversi del nucleo centrale della famiglia alla morte dei genitori (il 12 gennaio quella del padre, seguita il 17 maggio dalla scomparsa della madre), mentre rimangono tuttora inaccessibili i documenti conservati negli archivi vaticani (con l'eccezione di quelli pubblicati relativamente al periodo della seconda guerra mondiale). Se poi in definitiva abbondanti sono altre fonti, di carattere sia pubblico (soprattutto diplomatico) sia privato, che vengono progressivamente rese note, difficile resta però valutare la componente personale dell'azione del sostituto e poi del prosegretario di Stato, figura centrale nell'elaborazione ed esecuzione di una politica e di decisioni comunque complesse e condizionate da elementi e agenti diversi. Sullo sfondo chiara risulta la fiducia riposta da Pacelli, prima come cardinale segretario di Stato e quindi come papa, nel suo stretto collaboratore, e innegabile appare la lealtà di Montini nei confronti dei superiori, in particolare di Pio XII, anche al di là d'eventuali divergenti convinzioni personali, all'interno tuttavia d'un atteggiamento d'apertura e disponibilità nei confronti d'interlocutori e problemi generalmente riconosciutogli. L'orizzonte internazionale andava oscurandosi: nulla sembrava poter contrastare la crescita dei totalitarismi e del razzismo, mentre la Spagna era devastata da una lunga e sanguinosa guerra civile accompagnata, soprattutto da parte repubblicana, da ripetuti, violenti e feroci episodi di vera e propria persecuzione religiosa, finché la guerra travolse l'Europa estendendosi poi all'intero scenario mondiale. La catastrofe bellica fu poi seguita dalle tensioni minacciose della guerra fredda, mentre nei Paesi dell'Europa orientale e centrale caduti sotto l'egemonia sovietica s'apriva un lungo e difficile periodo anche per la Chiesa cattolica, sottoposta a un'oppressione soffocante e spesso spietata. In questo contesto il nuovo sostituto nel giugno 1938 manifestò meraviglia a un interlocutore francese per l'atteggiamento di Maritain, che pure conosceva e stimava, a proposito della guerra di Spagna e per la sua decisione "di non rilevare i crimini che dalla parte di Franco" (Montini, Journet, Maritain, p. 240); nell'aprile 1947 però, mutata la situazione, Montini confidò allo stesso Maritain, allora ambasciatore di Francia presso la Santa Sede, d'aver ispirato su "Il Quotidiano", giornale cattolico romano, un articolo che esprimeva "pesanti riserve sulle pretese del generale Franco di erigere il suo paese in Stato ufficialmente cattolico" (ibid., p. 222). Alla vigilia del conflitto mondiale fu proprio il sostituto a preparare nella notte tra il 22 e il 23 agosto 1939 l'abbozzo dell'estremo ma inutile appello di pace che Pio XII lanciò per radio il 24: "Nulla è perduto con la pace! Tutto può esserlo con la guerra" (Anni e opere, p. 34). Negli anni della guerra e dell'immediato dopoguerra l'opera del sostituto fu in buona parte assorbita dall'opera umanitaria svolta dalla Santa Sede, anche nei confronti di perseguitati d'ogni parte (durante la guerra, antifascisti, comunisti, ebrei e, dopo la guerra, anche fascisti e nazisti), e da quella di ricerca e diffusione d'informazioni e notizie su militari e civili travolti dalle vicende belliche: a questo scopo venne organizzato un apposito Ufficio Informazioni e dal 1940 al 1946 la Radio Vaticana trasmise un milione e duecentomila messaggi. Ripetutamente attaccato dalla stampa fascista più estrema ma sempre difeso dalle gerarchie vaticane, Montini fu tramite nell'autunno 1942 di un'iniziativa della principessa Maria José di Savoia presso gli Statunitensi per verificare la possibilità di una pace separata dell'Italia. Poche settimane dopo, il 12 gennaio 1943, il ministro degli Esteri G. Ciano annotò nel suo diario la sintesi di un incontro con il sostituto, considerato come "il vero e intimo collaboratore" del papa e definito "prudente, misurato, e italiano", sottolineando in particolare la disponibilità di Montini: "Ha aggiunto che qualunque cosa sia possibile fare in favore del nostro Paese, egli è a nostra disposizione. Gli ho parlato sull'importanza che, in ogni evenienza, bisogna attribuire all'ordine interno del Paese, ed egli è stato d'accordo. La Chiesa opererà sempre in tal senso. Nettamente antibolscevico, pur esprimendo ammirazione e meraviglia per quanto Stalin ha saputo realizzare. Ha detto: 'Una cosa è importante: qualunque sia il futuro, questo nostro popolo ha dato prova di qualità singolari di forza, di fede, di disciplina, di coraggio. Sono qualità che permettono tutte le risurrezioni'". Legato da antica amicizia con A. De Gasperi, amico del padre e di famiglia, il sostituto Montini ne appoggiò con discrezione ed efficacia la linea politica e l'azione, dagli anni della guerra a quelli che videro l'avvio della ricostruzione, in un contesto curiale ed ecclesiastico non univoco nemmeno da questo punto di vista (discussa era anche l'opportunità di riunire i cattolici italiani in un unico partito) e anzi in genere piuttosto diffidente nei confronti dell'impronta d'apertura, pur nella lealtà al papa, dimostrata da Montini in diversi ambiti e questioni: costante fu il suo appoggio alla guida di De Gasperi della Democrazia Cristiana, anche quando allo statista venne meno la fiducia di alcuni ambienti vaticani che gli rimproveravano un'eccessiva autonomia, e cauta simpatia espresse il sostituto per l'esperimento francese dei preti operai e nei confronti degli esponenti laici più responsabili e aperti dell'Azione Cattolica, anch'essi osteggiati da settori curiali che ritenevano invece indispensabile una netta subordinazione dell'organizzazione alla gerarchia ecclesiastica. Parallele all'importanza di monsignor Montini, che nell'agosto 1951 compì un viaggio in America settentrionale visitando una mezza dozzina di città negli Stati Uniti e Québec nel Canada, crebbero così in Curia l'ostilità e l'opposizione alla sua linea e alla sua persona, non attenuate dalla promozione a prosegretario di Stato ma comunque tenute a freno dalla fiducia personale di Pio XII. La benevolenza e la stima personale del papa non furono però sufficienti a impedire che il 1° novembre del 1954 s'arrivasse all'inattesa nomina di Montini ad arcivescovo di Milano, pubblicata il 3, vissuta dall'interessato e generalmente interpretata come una rimozione dal suo ufficio di vicinissimo collaboratore del papa. La decisione poneva tuttavia il prelato cinquantasettenne alla testa della più importante diocesi del mondo, anche se non venne accompagnata dal cappello cardinalizio, tradizionalmente assegnato agli arcivescovi di Milano, né in seguito Pio XII tenne più Concistori per creare nuovi cardinali. Il nuovo arcivescovo di Milano fu consacrato il 12 dicembre successivo nella basilica di S. Pietro dal cardinale decano E. Tisserant (durante il rito fu trasmesso per via radiofonica un saluto del papa che, malato, non aveva potuto ordinarlo).

Il 6 gennaio 1955, in una fredda giornata di pioggia, l'arcivescovo Montini, che aveva scelto il motto "In nomine Domini" ("Nel nome del Signore"), fece il suo ingresso nella diocesi di Milano, inginocchiandosi a baciare l'asfalto bagnato presso Melegnano, appena entrato nel territorio ambrosiano. Fino a quel momento Montini aveva esercitato il suo ministero sacerdotale dapprima solo negli ambienti studenteschi della FUCI, riuscendo in seguito a mantenerlo, nonostante il crescere delle responsabilità in Vaticano, nei confronti di una relativamente ristretta cerchia di amici, in prevalenza intellettuali e professionisti. Così, dopo aver percorso, spesso con sofferenza ma senza risparmio d'energie, tutta la carriera curiale fino al suo vertice, il prelato bresciano si trovava di colpo proiettato a guidare la più grande diocesi cattolica per numero di preti, di parrocchie e d'istituzioni e ad affrontare i complessi problemi della città che dal punto di vista economico e sociale più rappresentava la ricostruzione e la crescita tumultuosa del Paese, in un contesto caratterizzato da massicce immigrazioni dalle regioni meridionali, dalla costituzione di enormi periferie intorno alla città e dal punto di vista religioso da una sempre più rapida e radicale secolarizzazione.

Fin dal discorso per l'ingresso in diocesi l'arcivescovo affermò la necessità di "un cristianesimo vero, adeguato al tempo moderno" in una città che gli apparve subito presentare in modo unico ricchezza di tradizione religiosa e di modernità, auspicando poi la pacificazione "della tradizione cattolica italiana con l'umanesimo buono della vita moderna". Montini affrontò con risolutezza il nuovo compito e già il 15 febbraio 1955 pubblicò la sua prima lettera pastorale per la Quaresima, inaugurando così una consuetudine poi mantenuta durante tutto il suo episcopato; l'8 settembre successivo iniziò poi la visita pastorale della diocesi, che in meno di otto anni coinvolse ottocentoventi parrocchie su un totale di novecentosessantotto, mentre cominciarono a moltiplicarsi gli impegni e gli incontri con gruppi e con singoli, quasi sempre occasione per scritti, omelie e discorsi: tra questi, annuali e importanti furono fin dal 1955 quelli per le feste dei due santi milanesi, s. Carlo Borromeo, il 4 novembre, e soprattutto s. Ambrogio, il 7 dicembre. Tra i problemi posti dalla crescita della città l'arcivescovo dovette misurarsi con quello della costruzione di nuove chiese, che trattò il 25 dicembre 1956 in una lettera aperta a "un sacerdote della periferia", e durante il suo episcopato benedisse e consacrò trentaquattro edifici di culto mentre altri ottantanove lasciò in costruzione o con progettazioni ultimate. Dopo una preparazione di quasi due anni, dal 5 al 24 novembre 1957 si tenne una capillare "missione di Milano", proposta dai parroci della città e definita da Montini uno "sforzo pastorale per richiamare alla vita religiosa, sincera, autentica, una intera città": per l'occasione l'arcivescovo sottoscrisse un "invito ai lontani" e fece pubblicare Il rituale della famiglia, una raccolta di "preghiere che la famiglia può da sé, e per sé recitare". Fin dall'inizio dell'episcopato una speciale attenzione fu riservata al mondo del lavoro dal presule subito definito "l'arcivescovo dei lavoratori"; già negli anni Quaranta infatti Montini aveva avuto parte nella fondazione delle ACLI, le Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani, e proprio nei confronti di questa organizzazione ebbe un interesse continuato e poi preoccupato della sua evoluzione a sinistra.

Accanto all'impegno in diocesi, frequenti furono le manifestazioni o celebrazioni a cui l'arcivescovo di Milano partecipò al di fuori della sua diocesi, in Lombardia e nel resto d'Italia, in Svizzera, Francia e Irlanda: tra i suoi discorsi risonanza ebbe in particolare quello pronunciato a Roma il 9 ottobre 1957 al secondo congresso mondiale per l'apostolato dei laici, mentre progressivamente la sua figura assunse i contorni di papabile nonostante la difficoltà, teoricamente non insormontabile ma di fatto decisiva, costituita dal non essere rivestito della porpora cardinalizia. All'alba del 9 ottobre 1958 morì Pio XII, alla cui salma Montini rese omaggio lo stesso giorno a Castelgandolfo rientrando alla sera in aereo nella sua sede e commemorando il papa scomparso, di cui più volte aveva parlato in pubblico, in una celebrazione tenutasi il 12 in duomo. Il nome dell'arcivescovo di Milano risuonò più volte nei preparativi del conclave, e durante le votazioni Montini ebbe alcuni voti dimostrativi.

In ogni modo il nuovo papa Giovanni XXIII, eletto il 28 ottobre, non esitò a promuovere subito Montini, che conosceva fin dagli anni Venti e con cui aveva intensificato le relazioni dopo essere divenuto cardinale patriarca di Venezia, e già il 4 novembre gli comunicò, in una lettera scritta poco prima dell'incoronazione, la sua intenzione di crearlo cardinale insieme a Tardini, che nominò poi suo segretario di Stato. Papa Roncalli collocò anzi l'arcivescovo di Milano, con il titolo presbiterale dei SS. Silvestro e Martino ai Monti, al primo posto della lista dei cardinali creati nel suo primo Concistoro il 15 dicembre, testimoniandogli poi in molteplici modi quella che lo stesso Montini definì, ormai divenuto papa, "l'affezione, che egli sempre ci dimostrò e che nei rari e discreti contatti, avuti con lui, durante i brevi anni del suo pontificato, parve a noi essere da parte di lui intenzionalmente effusiva e piena di particolare confidenza e forse di profetica predilezione" (Insegnamenti, XI, pp. 565-66). Di questo rapporto certamente privilegiato il cardinale Montini non abusò, dimostrando una discrezione e una riservatezza (in parte connaturali, in parte imposte dalle circostanze e dalla prudenza in un conoscitore del complesso ambiente curiale) che potevano anzi apparire ritrosia. Il 25 gennaio 1959 a sorpresa Giovanni XXIII annunciò l'intenzione di convocare un concilio ecumenico, anticipata qualche giorno prima al segretario di Stato Tardini, e subito il giorno seguente il cardinale arcivescovo di Milano, probabilmente anche lui preavvertito dal papa (cfr. Giovanni Battista Montini arcivescovo di Milano, p. 204 n. 5, e P. Hebblethwaite, pp. 283-84), reagì con un messaggio alla diocesi in cui sottolineò l'importanza dell'evento; l'8 maggio 1960 Montini espresse poi in una lettera al segretario di Stato Tardini i suoi pareri e auspici sul concilio, insistendo tra l'altro sulla necessità di promuovere il dialogo ecumenico per ricomporre l'unità tra i cristiani, primo di una fitta serie di iniziative e interventi sul concilio che si moltiplicarono soprattutto in seno alla Commissione centrale preparatoria, della quale il cardinale di Milano fu nominato membro il 6 novembre 1961. Due lunghi viaggi portarono ancora Montini fuori d'Europa: dal 3 al 16 giugno 1960 di nuovo negli Stati Uniti e poi in Brasile, e dal 19 luglio al 20 agosto 1962 in sei Paesi africani.

L'11 ottobre 1962 Giovanni XXIII inaugurò il concilio ecumenico Vaticano II, alla cui prima confusa e difficile fase il cardinale Montini partecipò assiduamente, sostenendo con cautela ma anche con decisione la linea della maggioranza riformatrice che andava formandosi: in questo senso il 18 indirizzò al cardinale segretario di Stato A.G. Cicognani (succeduto da poco più d'un anno allo scomparso Tardini) una lettera per sottolineare la mancanza "d'un disegno organico, ideale e logico, del Concilio" insieme alla necessità di riorganizzare i dibattiti conciliari "intorno ad un solo tema: la santa Chiesa" (Giovanni Battista Montini arcivescovo di Milano, p. 420), quindi intervenne in aula il 22 ottobre a sostegno della necessità di una riforma liturgica e soprattutto il 5 dicembre, tre giorni prima della chiusura del primo periodo del concilio, ribadendo quanto aveva anticipato nella lettera al segretario di Stato e appoggiando l'intervento pronunciato il giorno prima dal cardinale arcivescovo di Malines-Bruxelles L.J. Suenens, uno degli esponenti più autorevoli della maggioranza conciliare; con questa Montini apparve quindi apertamente schierato, approfittando nei primi mesi del 1963 d'ogni occasione per confermare la sua adesione al concilio e all'indirizzo che vi si era delineato come prevalente. In primavera andò progressivamente aggravandosi la malattia del papa, al quale nell'autunno precedente era stato diagnosticato un tumore maligno e che morì, dopo un'agonia di tre giorni, la sera del 3 giugno. L'agonia e la morte di Giovanni XXIII segnarono la sua apoteosi e rivelarono i consensi senza precedenti che la sua figura aveva suscitato in tutto il mondo ben al di là dei fedeli cattolici. Celebrando il 7 in duomo per la morte del papa, il cardinale arcivescovo di Milano affermò chiaramente la necessità di proseguire la linea del suo pontificato identificata con alcuni punti qualificanti, e cioè lo sviluppo dell'"internazionalizzazione della Chiesa", la convocazione del concilio, la partecipazione dei vescovi "non certo all'esercizio (che resterà personale ed unitario), ma alla responsabilità del governo della Chiesa", l'ecumenismo e la predicazione della pace: "Potremo noi mai lasciare strade così magistralmente tracciate, anche per l'avvenire, da Papa Giovanni? È da credere che no! E sarà questa fedeltà ai grandi canoni del suo Pontificato ciò che ne perpetuerà la memoria e la gloria, e ciò che ce lo farà sentire ancora a noi paterno e vicino". Il conclave, che cominciò la sera del 19 e in cui entrarono ottanta cardinali (un numero senza precedenti), durante la sua preparazione fu naturalmente dominato dalla questione del concilio e alla fine Montini apparve il candidato in grado di assicurare la continuità con Roncalli e di sostenere la maggioranza conciliare non soltanto agli elettori a questa vicini. Nonostante questi consensi più larghi della sua base elettorale, il cardinale arcivescovo di Milano dovette comunque superare con ogni probabilità antiche e tenaci opposizioni, riuscendo alla fine eletto papa al quinto scrutinio nell'assolata mattina del 21 giugno 1963. L'annuncio dell'elezione fu immediatamente seguito, secondo la consuetudine, da quello del nome scelto dal nuovo papa, che aveva deciso di chiamarsi Paolo VI ispirandosi all'apostolo che era stato il più grande annunciatore di Cristo, e poco dopo dalla sua prima benedizione dalla loggia centrale della basilica di S. Pietro.

Nei primi atti del suo pontificato Paolo VI volle sottolineare la continuità con il suo predecessore: nello stesso giorno della sua elezione confermò come segretario di Stato il cardinale Cicognani (che rinunziò alla carica il 30 aprile 1969 ormai ottantaseienne) e quindi nelle loro rispettive cariche gli altri cardinali di Curia, ma soprattutto il 27 giugno stabilì per il 29 settembre successivo la ripresa del concilio, alla morte del papa sospeso a norma del canone 229 del Codex iuris canonici; quindi il 30 giugno ebbe luogo sul sagrato in piazza S. Pietro la solenne cerimonia dell'incoronazione. Poche settimane dopo, il 5 agosto, iniziando un ritiro spirituale appena giunto per il suo primo soggiorno estivo nella residenza papale di Castelgandolfo, Montini scrisse alcune riflessioni sul suo nuovo ruolo: "Bisogna che mi renda conto della posizione e della funzione, che ormai mi sono proprie, mi caratterizzano, mi rendono inesorabilmente responsabile davanti a Dio, alla Chiesa, all'umanità. La posizione è unica. Vale a dire che mi costituisce in un'estrema solitudine. Era già grande prima, ora è totale e tremenda. Niente e nessuno mi è vicino. Devo stare da me, fare da me, conversare con me stesso, deliberare e pensare nel foro intimo della mia coscienza. Anzi io devo accentuare questa solitudine: non devo avere paura, non devo cercare appoggio esteriore, che mi esoneri dal mio dovere, ch'è quello di volere, di decidere, di assumere ogni responsabilità, di guidare gli altri, anche se ciò sembra illogico e forse assurdo. E soffrire solo.  La lucerna sopra il candelabro arde e si consuma da sola. Ma ha una funzione, quella di illuminare gli altri; tutti, se può. Posizione unica e solitaria; funzione pubblica e comunitaria. Nessun ufficio è pari al mio impegnato nella comunione con gli altri" (Meditazioni inedite, pp. 28-9). L'acuta coscienza della responsabilità e dell'unicità del ruolo papale s'accompagnò in Paolo VI a quella dell'importanza della continuità con Giovanni XXIII, nella situazione delicatissima costituita dalla celebrazione del concilio che con tutta evidenza esigeva da parte del papa un atteggiamento più attivo, come già aveva avvertito Roncalli alla fine del primo periodo dei lavori conciliari. La questione si complicò a causa della successiva crescente contrapposizione che in alcuni ambienti progressisti radicali si volle stabilire tra Roncalli e Montini e che indusse quest'ultimo, probabilmente dopo il 1964, a un'esplicita riflessione sul predecessore consegnata in alcuni appunti autografi forse preparatori di un discorso ed esordienti sull'irripetibilità di Giovanni XXIII: "Ma si deve osservare: 1) Che la diversità delle persone in un dato ufficio, estremamente caratterizzato, come questo, può comportare identità di funzioni, di sentimenti, di programmi (cf. la continuité...). L'affezione ch'Egli ebbe per colui a cui è toccato di succedergli e la venerazione di questi per Lui sono già prova e non ultima della fedeltà sostanziale alla linea ecc. Prova confermata nella continuazione del programma e nella conservazione delle persone ai loro rispettivi uffici. Se mai, sarebbe più fondata l'osservazione di mancata iniziativa propria ecc. 2) Che è far torto, e torto grave alla memoria di Papa Giovanni XXIII attribuendogli idee e atteggiamenti ch'Egli non ebbe. Che Egli fosse buono sì, che fosse indifferente no. Quanto Egli tenesse alla dottrina, quanto temesse i pericoli, ecc.. Quanto alla comprensione e all'accostamento col 'mondo moderno', ci pare d'essere sulle orme di Papa Giovanni, come è possibile alla nostra pochezza. Forse la nostra vita non ha altra più chiara nota che la definizione dell'amore al nostro tempo, al nostro mondo, a quante anime abbiamo potuto avvicinare e avvicineremo: ma nella lealtà e nella convinzione che Cristo è necessario e vero" (Paolo VI e i problemi ecclesiologici al Concilio, pp. 32-3). In questo contesto maturò in alcuni ambienti conciliari l'inconsueta proposta di canonizzare Giovanni XXIII al di fuori delle procedure ordinarie: a questa iniziativa, i cui prodromi si delinearono fin dall'autunno del 1963 e che venne da più parti interpretata come un'implicita contrapposizione alla figura e al pontificato di Pio XII, proprio mentre quest'ultimo era divenuto obiettivo di crescenti critiche per la sua azione durante la guerra, Paolo VI reagì annunciando il 18 novembre 1965 in concilio l'avvio secondo le norme delle cause di entrambi i suoi predecessori: "Sarà così assecondato il desiderio, che per l'uno e per l'altro è stato in tal senso espresso da innumerevoli voci; sarà così assicurato alla storia il patrimonio della loro eredità spirituale; sarà evitato che alcun altro motivo, che non sia il culto della vera santità e cioè la gloria di Dio e l'edificazione della sua Chiesa, ricomponga le loro autentiche e care figure per la nostra venerazione e per quella dei secoli futuri" (Insegnamenti, III, p. 638). Da parte sua Montini, fin da quando era arcivescovo di Milano, in tutti i suoi ripetuti e articolati interventi sui due papi difese sempre la memoria di Pio XII (disponendo tra l'altro dal 1965 la pubblicazione degli Actes et documents du Saint-Siège relatifs à la seconde guerre mondiale) e rievocando Giovanni XXIII contrastò sistematicamente la contrapposizione simbolica tra i due predecessori, non trascurando mai di evidenziare complessità e limiti di due figure alle quali si sentì legato anche se non del tutto affine, come mostrò, al momento d'accettare l'elezione papale, la scelta di non assumere né il nome di Pio né quello di Giovanni. In una contingenza storica preparata da decenni di movimenti culturali, religiosi e sociali che all'inizio del Novecento avevano attraversato la crisi modernista, il concilio rappresentò la prima e più urgente preoccupazione del papa che subito dopo essere stato eletto l'aveva riconvocato. Paolo VI fece così suo il Vaticano II, anche se con ogni probabilità non avrebbe mai preso l'iniziativa di convocare un concilio (che il suo predecessore per qualche momento aveva pensato persino di poter concludere rapidamente), essendo soprattutto ben consapevole dei problemi che ne sarebbero sorti e per le opposizioni che da varie parti avrebbe prevedibilmente suscitato. Per questo papa Montini avvertì tutta la responsabilità di condurre la maggiore assemblea episcopale mai riunita nella storia verso un rinnovamento profondo del cattolicesimo e ne guidò i lavori con pazienti mediazioni e talvolta con decisioni personali alla ricerca comunque del maggior consenso possibile, attentissimo e sensibile agli orientamenti conciliari di cui fu scrupolosamente rispettoso, ma anche fermo nell'avocare alla competenza e all'autorità papali alcune questioni cruciali. Così il 21 settembre 1963, poco prima della ripresa dei lavori dell'assemblea, P. affrontò il nodo fondamentale della Curia romana in un discorso ai suoi membri in cui si dichiarò sicuro del loro consenso e annunciò l'intenzione di riformarla, giocando così d'anticipo su eventuali iniziative del concilio in proposito ma anche offrendo un inequivocabile segnale di disponibilità nei confronti delle critiche che da più parti erano state rivolte agli organismi curiali durante la preparazione e l'avvio del Vaticano II. Aprendo poi il 29 settembre i lavori del secondo periodo, il papa espose in un discorso, che presentò come un'anticipazione della sua enciclica programmatica, gli obiettivi del concilio: l'approfondimento della nozione di Chiesa, il rinnovamento del cattolicesimo, l'unità tra i cristiani e il dialogo con gli uomini contemporanei. Da sempre sensibile al dialogo ecumenico, a proposito della divisione tra i cristiani Montini ebbe accenti del tutto nuovi: "Se alcuna colpa fosse a noi imputabile per tale separazione, noi ne chiediamo a Dio umilmente perdono e domandiamo perdono anche ai fratelli che si sentissero da noi offesi". Il 10 novembre Paolo VI (che il 13 ottobre aveva proceduto alla prima beatificazione del suo pontificato, durante il quale in una sessantina di cerimonie proclamò sessantuno beati e ottantaquattro santi) fece l'ingresso nella sua cattedrale di S. Giovanni in Laterano, completando così gli atti iniziali del pontificato, e il 4 dicembre chiuse il secondo periodo conciliare: durante la sessione conclusiva di questa fase dei lavori venne tra l'altro approvata quasi all'unanimità e promulgata la costituzione Sacrosanctum concilium, che avviò la riforma liturgica, e il papa annunciò a sorpresa un suo imminente viaggio in Palestina, dove nessun successore di Pietro era mai tornato, mentre da un secolo e mezzo nessun papa aveva più lasciato l'Italia. Il viaggio, che come il suo annuncio ebbe un'ampia risonanza internazionale, fu brevissimo, dal 4 al 6 gennaio 1964: Paolo VI arrivò ad Amman, in Giordania, e in Israele toccò i principali luoghi santi (Gerusalemme, Nazaret e la Galilea, Betlemme), ripartendo ancora da Amman. A Gerusalemme il papa s'incontrò con diversi esponenti cristiani e per due volte con la massima autorità ortodossa, il patriarca di Costantinopoli Atenagora, accentuando così l'intenzione di dialogo ecumenico a cui più volte, già negli anni della Segreteria di Stato e quindi durante l'episcopato milanese, s'era dimostrato molto sensibile. Durante l'incontro di congedo con il presidente israeliano, papa Montini riservò alcune parole alla difesa della memoria di Pio XII, di nuovo attaccato per la sua azione durante la guerra.

Al complesso procedere conciliare, anche durante l'intervallo dei lavori veri e propri, s'intrecciarono nuove iniziative papali. Seguendo il modello dell'organismo conciliare voluto nel 1960 da Giovanni XXIII per favorire l'unione dei cristiani, il 19 maggio 1964 Paolo VI costituì un Segretariato per i non cristiani (già preannunciato in una lettera del 12 settembre 1963 al cardinale Tisserant) al fine di favorire relazioni amichevoli con i seguaci delle altre religioni. La scelta del dialogo venne poi confermata autorevolmente dalla prima enciclica del papa: scritto per intero in italiano e terminato nell'originale autografo l'11 luglio, il testo, intitolato Ecclesiam suam, fu datato e firmato da P. il 6 agosto 1964, festa liturgica della Trasfigurazione del Signore. Con l'intenzione d'incoraggiare l'opera del concilio sul dovere e sulla necessità per la Chiesa di "approfondire la coscienza di se stessa", di riflettere sul suo necessario rinnovamento e di dialogare con il mondo moderno, il papa delineò nel manifesto programmatico del suo pontificato l'apertura della Chiesa cattolica nei confronti di tre cerchi concentrici intorno a essa, il primo costituito da "tutto ciò ch'è umano", compresi quanti si professano atei, il secondo dai credenti delle religioni non cristiane, e il terzo dagli altri cristiani, nella convinzione profonda del suo ruolo: "La Chiesa avverte la sbalorditiva novità del tempo moderno; ma con candida fiducia si affaccia sulle vie della storia, e dice agli uomini: io ho ciò che voi cercate, ciò di cui voi mancate. Non promette così la felicità terrena, ma offre qualche cosa - la sua luce, la sua grazia - per poterla, come meglio possibile, conseguire; e poi parla agli uomini del loro trascendente destino. E intanto ragiona ad essi di verità, di giustizia, di libertà, di progresso, di concordia, di pace, di civiltà. Sono parole queste, di cui la Chiesa conosce il segreto; Cristo glielo ha confidato". Aperto il 14 settembre 1964 il terzo periodo dei lavori conciliari a cui vennero ammesse per la prima volta un gruppo di uditrici sia religiose sia laiche (esponenti del laicato cattolico erano stati invitati già nel settembre 1963, mentre nell'ottobre 1964 furono invitati anche alcuni parroci), durante una liturgia in rito bizantino celebrata a S. Pietro il 13 novembre Paolo VI con un gesto simbolico depose sull'altare la sua tiara, simbolo dei poteri papali, offrendola per i poveri. La tiara, regalo dei milanesi al loro antico arcivescovo, fu poi donata ai cattolici statunitensi in segno di riconoscimento del loro aiuto ai Paesi poveri e collocata nel santuario dell'Immacolata Concezione di Washington, mentre da allora il papa non fece più uso di nessun'altra tiara. Il concilio conobbe proprio dopo la metà di novembre, a ridosso della conclusione del terzo periodo, uno dei suoi momenti più critici, percorso da tensioni fortissime a proposito dei nodi cruciali ormai sul tappeto, la libertà religiosa, le relazioni con gli ebrei, l'ecumenismo e la collegialità episcopale: questa doveva in certo modo bilanciare la definizione dogmatica dell'infallibilità papale sancita nel 1870 dal concilio Vaticano I e proprio a suo proposito P. fece aggiungere un testo interpretativo ("nota explicativa praevia") al terzo capitolo del documento sulla Chiesa nell'imminenza della sua approvazione. Senza intervenire sul testo conciliare che non fu toccato, l'iniziativa del papa, criticata dai più progressisti, volle rassicurare la minoranza ostile alla collegialità con un'interpretazione in parte limitativa di quest'ultima e spianò la strada all'approvazione quasi unanime di uno dei documenti più importanti del Vaticano II, la costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, promulgata insieme al decreto sull'ecumenismo Unitatis redintegratio il 21 novembre, ultimo giorno del terzo periodo. Nel discorso di chiusura il papa volle poi proclamare Maria "madre della Chiesa", suscitando con questa ulteriore iniziativa personale molti consensi ma anche nuove critiche. Dal 2 al 5 dicembre Paolo VI compì il secondo viaggio internazionale del suo pontificato, recandosi a Bombay, con scalo a Beirut, per partecipare al trentottesimo congresso eucaristico internazionale, e dall'India, dove l'accoglienza fu molto calorosa, il papa lanciò un "grido angosciato" alle nazioni del mondo perché destinassero parte della spesa per gli armamenti a un fondo mondiale costituito per soccorrere alle necessità dei popoli più poveri.

Il 4 gennaio 1965 Paolo VI stabilì, insieme alla data d'inizio del quarto periodo dei lavori conciliari, che questo avrebbe dovuto anche concluderli; il 24 poi annunciò il suo primo Concistoro per la creazione di ventisette nuovi cardinali, tenutosi il 22 febbraio: tra loro, ricevettero la porpora tre patriarchi cattolici orientali, tre esponenti della Chiesa perseguitata nei Paesi comunisti dell'Europa orientale e centrale (l'arcivescovo ucraino J. Slipyj, incarcerato per quasi trent'anni dal regime sovietico e liberato due anni prima, l'arcivescovo di Praga J. Beran, confinato e per molti anni impedito d'esercitare le sue funzioni, e l'arcivescovo di Zagabria F. ŠSeper), l'arcivescovo di Lione J. Villot (dal 30 aprile 1969 suo segretario di Stato) e tre figure alle quali papa Montini si sentiva legato (i teologi J. Cardijn e Ch. Journet e l'oratoriano Bevilacqua, che non volle lasciare la parrocchia di S. Antonio a Brescia e morì poche settimane dopo come "cardinale parroco"). Tra il dicembre 1964 e i primi mesi del 1965 si moltiplicarono altri segni simbolici prediletti da Paolo VI: fu disposta e avviata la restituzione ad alcune Chiese ortodosse di venerande reliquie (di s. Andrea a Patrasso, di s. Saba a Gerusalemme, di s. Tito a Creta, di s. Marco ad Alessandria) trasportate in passato in Occidente e il 5 marzo venne riconsegnato alla Turchia uno dei vessilli conquistati il 7 ottobre 1571 dalla flotta cristiana nella battaglia di Lepanto e conservato a S. Maria Maggiore. Il 7 aprile il papa completò, con l'istituzione del Segretariato per i non credenti, il trittico degli organismi curiali deputati al dialogo, secondo la prospettiva disegnata nell'enciclica programmatica Ecclesiam suam. Il 29 aprile venne pubblicata la seconda enciclica del pontificato, Mense maio, al fine di sollecitare preghiere per la conclusione del concilio e la pace nel mondo, seguita il 3 settembre dalla terza, Mysterium fidei, sull'eucarestia. Il 14 settembre s'aprì il quarto e ultimo periodo del Vaticano II e il giorno seguente il papa promulgò, in apertura dei lavori conciliari, il "motu proprio" Apostolica sollicitudo con cui venne istituito il sinodo dei vescovi, un'assemblea rappresentativa dell'episcopato mondiale: ideato con funzione consultiva in applicazione del principio di collegialità stabilito dal concilio, il nuovo organismo tenne durante il pontificato di P., tra il 1967 e il 1977, quattro assemblee ordinarie e una straordinaria. Mentre l'accelerazione dei lavori conciliari s'accentuava, il papa ebbe il 24 settembre un inconsueto colloquio con il giornalista A. Cavallari che fu pubblicato sul "Corriere della Sera", il maggiore quotidiano italiano, il 3 ottobre. Lo stesso giorno il papa partì per New York, dove visitò l'assemblea generale dell'ONU, l'Organizzazione delle Nazioni Unite, accompagnato da otto cardinali rappresentanti i cinque continenti, rivolgendo a nome del concilio un discorso dai toni semplici e solenni: "È da molto tempo che siamo in cammino, e portiamo con noi una lunga storia; noi celebriamo qui l'epilogo d'un faticoso pellegrinaggio in cerca d'un colloquio con il mondo intero, da quando ci è stato comandato: 'Andate e portate la buona novella a tutte le genti'. Ora siete voi, che rappresentate tutte le genti. Voi attendete da noi questa parola, che non può svestirsi di gravità e di solennità: non gli uni contro gli altri, non più, non mai. Se volete essere fratelli, lasciate cadere le armi dalle vostre mani. Non si può amare con armi offensive in pugno. Le armi, quelle terribili, specialmente, che la scienza moderna vi ha date, ancor prima che produrre vittime e rovine, generano cattivi sogni, alimentano sentimenti cattivi, creano incubi, diffidenze e propositi tristi, esigono enormi spese, arrestano progetti di solidarietà e di utile lavoro, falsano la psicologia dei popoli" (Insegnamenti, III, pp. 517-20). Rientrato a Roma il 5, Paolo VI si recò subito nell'aula conciliare, accolto dall'applauso dell'assemblea e dalla richiesta che il suo discorso all'ONU venisse inserito negli atti del concilio.

Seguì l'ultima intensissima fase del Vaticano II durante la quale vennero tra gli altri approvati e promulgati, a larghissima maggioranza, i seguenti testi: il 28 ottobre la dichiarazione Nostra aetate sui rapporti con le religioni non cristiane (incluso l'ebraismo, a proposito del quale il concilio deplorò "gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni di antisemitismo dirette contro gli ebrei in ogni tempo e da chiunque"), il 18 novembre la costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei verbum e il 7 dicembre, vigilia della chiusura, la dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae e la costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, dall'inizio inequivocabile: "La gioia e la speranza, la tristezza e l'angoscia degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono anche la gioia e la speranza, la tristezza e l'angoscia dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore". Tre giorni prima, il 4, v'era stato nella basilica di S. Paolo il congedo dai numerosi osservatori non cattolici ai quali nell'omelia P. aveva rivolto un saluto toccante: "La vostra partenza produce attorno a noi una solitudine che prima del Concilio noi non conoscevamo e che ora ci rattrista; noi vorremmo vedervi sempre con noi!" (ibid., p. 696). Proprio dal punto di vista ecumenico la sessione del 7 dicembre segnò l'apice del concilio con l'eliminazione dalla memoria della Chiesa di Roma e di quella di Costantinopoli delle scomuniche intercorse nel 1054: l'avvenimento, senza precedenti, fu sancito nello stesso tempo dal breve pontificio Ambulate in dilectione e da un "thomos" patriarcale letti, insieme a una dichiarazione comune, a Roma e a Costantinopoli, e diede inizio a un'epoca nuova in cui le due Chiese tornarono a riconoscersi "sorelle".

Nell'omelia del 7 dicembre la visione montiniana dell'incontro tra la Chiesa e il mondo si dispiegò in tutta la sua ampiezza: "La Chiesa del Concilio, sì, si è assai occupata, oltre che di se stessa e del rapporto che a Dio la unisce, dell'uomo, dell'uomo quale oggi in realtà si presenta. Tutto l'uomo fenomenico, cioè rivestito degli abiti delle sue innumerevoli apparenze, si è quasi drizzato davanti al consesso dei Padri conciliari, essi pure uomini, tutti Pastori e fratelli, attenti perciò e amorosi.  L'umanesimo laico profano alla fine è apparso nella terribile statura ed ha, in un certo senso, sfidato il Concilio. La religione del Dio che si è fatto Uomo s'è incontrata con la religione (perché tale è) dell'uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? uno scontro, una lotta, un anatema? poteva essere; ma non è avvenuto. L'antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani ha assorbito l'attenzione del nostro Sinodo. Dategli merito di questo almeno, voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscerete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell'uomo" (ibid., p. 729).

Lo stesso 7 dicembre fu anche pubblicato il "motu proprio" Integrae servandae con il quale Paolo VI riformò il Sant'Uffizio che diveniva Congregazione per la Dottrina della Fede nella convinzione, secondo il testo del documento, che "alla difesa della fede ora si provvede meglio col promuovere la dottrina". Il gesto papale intese così venire incontro, proprio alla vigilia della chiusura del Vaticano II, ai sentimenti della maggioranza conciliare dalla quale erano più volte venute critiche alla Curia e in particolare ai metodi, considerati non più sostenibili, del Sant'Uffizio, e la decisione, senza dubbio non solo simbolica, rappresentò anche un'anticipazione della riforma della Curia che Paolo VI fin dal 1963 aveva riservato alla competenza del papa. L'8 dicembre 1965, a quasi sette anni dal suo annuncio e a poco più di tre dal suo inizio, si concludeva il concilio ecumenico Vaticano II con una liturgia solenne celebrata in piazza S. Pietro e presieduta da Paolo VI che nell'omelia ripeté ancora la sua visione del dialogo, saldandosi con i sette messaggi che lo stesso giorno il concilio volle inviare ai governanti, agli intellettuali, agli artisti, alle donne, ai lavoratori, ai poveri e malati, ai giovani e che il papa stesso consegnò ad altrettanti rappresentanti di queste categorie: "Per la Chiesa cattolica nessuno è estraneo, nessuno è escluso, nessuno è lontano. Lo dica il cuore di chi ama: ogni amato è presente! E noi, specialmente in questo momento, in virtù del nostro universale mandato pastorale ed apostolico, tutti, tutti noi amiamo!" (ibid., p. 744).

Concluso il Vaticano II, il pontificato di Paolo VI, nel suo esordio assorbito anche se non appiattito dal concilio, si trovò di fronte al compito d'applicare un insieme di documenti ampio e ricco quanto nessun'altra assemblea conciliare, se non forse quella di Trento quattro secoli prima, aveva prodotto e alla necessità d'avviare e governare le conseguenti riforme, destinate a incidere complessivamente sulla Chiesa cattolica (e di riflesso, soprattutto per i risvolti ecumenici, in certa misura anche sulle altre Chiese cristiane) e a mutarne in profondità il volto per adeguarlo, come già aveva indicato Giovanni XXIII, al mondo moderno: la parola chiave di questa transizione dalla fisionomia del cattolicesimo delineata dai concili Tridentino e Vaticano I fu così, sin dagli anni della preparazione del Vaticano II, l'"aggiornamento", e la responsabilità di governarlo in prima persona da parte del papa fu avvertita da Montini come il dovere principale del suo pontificato. Già durante il concilio Paolo VI con la sua volontà di allargare il consenso alla linea riformatrice della maggioranza era apparso ai suoi esponenti più radicali troppo remissivo nei confronti delle richieste di una minoranza spesso accesamente aggressiva proprio perché cosciente della sua posizione, difficile e destinata alla sconfitta, mentre quest'ultima restava molto critica nei confronti d'un papa che avvertiva comunque lontanissimo dalle proprie aspirazioni. Negli anni successivi alla chiusura del Vaticano II, e alle decisioni che Montini progressivamente prese assumendone in pieno iniziativa e responsabilità, questa duplice opposta insoddisfazione s'acuì e il papa si trovò tra due fuochi, esposto tra l'altro al confronto inesorabilmente ricorrente con le figure, sempre più presentate come contrapposte, dei suoi due immediati predecessori e a una fatale conseguente impopolarità nell'immagine pubblica, dovuta in parte ai suoi tratti fini e riservati, e comunque di non facile comprensione, ma anche e soprattutto creata da interessate semplificazioni degli organi d'informazione. Concluso il concilio, il cattolicesimo posto nei diversi Paesi di fronte alla sua applicazione, necessariamente lunga e laboriosa, si divise così tra conservatori e progressisti estremi, posizioni opposte ed entrambe di fatto estranee alla prevalente linea riformatrice del Vaticano II, mentre si manifestò il fenomeno di larghe defezioni tra le file del clero e la massa dei fedeli venne a trovarsi quasi senza riferimenti culturali di fronte a una secolarizzazione sempre più massiccia e al fenomeno generale della contestazione, con la conseguente crisi d'autorità, che presto s'estese alle strutture ecclesiali coinvolgendo la stessa figura di Paolo VI. La critica al papa divenne anzi aspra e gli fu rivolta da destra e da sinistra, con accentuazioni fortemente polemiche e addirittura ignobilmente denigratorie: di volta in volta papa Montini fu così accusato d'essere massone, filocomunista, omosessuale, oppure debole, restauratore, conservatore. L'accelerazione impressa al dialogo ecumenico tra le Chiese cristiane dal concilio e dalle iniziative del papa trovò conferma già nel marzo 1966, quando il papa ricevette l'arcivescovo di Canterbury M. Ramsey, sottoscrivendo con il primate anglicano una dichiarazione comune: questa inaugurò un dialogo teologico bilaterale che durante il pontificato di Paolo VI portò alla pubblicazione di documenti sulla dottrina eucaristica (1971), sul sacerdozio (1974) e sull'autorità nella Chiesa (1976), anche se l'ammissione delle donne all'ordinazione sacerdotale, decisa dalla Comunione anglicana e non considerata possibile dalla Chiesa cattolica, creò un nuovo ostacolo al dialogo, come apparve tra il luglio 1975 e il marzo 1976 dallo scambio di lettere tra il nuovo primate anglicano D. Coggan e il papa, e nell'ottobre 1976 dalla dichiarazione Inter insigniores della Congregazione per la Dottrina della Fede. Nonostante queste difficoltà, nell'aprile 1977 una nuova dichiarazione comune venne firmata a Roma da P. e da Coggan. Le iniziative rinnovatrici si moltiplicarono e dopo la riforma del Sant'Uffizio il 14 giugno 1966 una notificazione della Congregazione per la Dottrina della Fede dichiarò che l'Indice dei libri proibiti non aveva più valore di legge ecclesiastica e nel 1967 i provvedimenti papali coinvolsero progressivamente gli organismi curiali: il 6 gennaio vennero istituiti il Consiglio dei laici, con il quale per la prima volta due laici (uno dei quali era donna), nominati sottosegretari, entrarono nella Curia romana con mansioni direttive, e la Pontificia Commissione "Iustitia et Pax"; quindi il 6 agosto con il "motu proprio" Pro comperto sane fu decisa l'immissione nelle Congregazioni romane dei vescovi diocesani come membri di pieno diritto, e infine il 15 agosto, meno di quattro anni dopo l'annuncio nel discorso del 21 settembre 1963, la costituzione apostolica Regimini ecclesiae universae riformò l'intera Curia, introducendo i criteri dell'internazionalizzazione, dell'avvicendamento nelle cariche, del collegamento con i vescovi e con le conferenze episcopali dei diversi Paesi, integrandovi gli organismi più recenti (in particolare, i tre Segretariati nati nel periodo di preparazione e svolgimento del concilio) e istituendone altri nuovi (come la Prefettura degli affari economici della Santa Sede), in un riordinamento complessivo che soprattutto riservò un ruolo centrale alla Segreteria di Stato. La riforma della Curia, che negli anni successivi del pontificato venne integrata con altri provvedimenti e fu portata avanti soprattutto dall'arcivescovo G. Benelli (dal 1967 sostituto della Segreteria di Stato e dal 1977 cardinale di Firenze), fu seguita il 28 marzo 1968 dall'abolizione della Corte pontificia e il 14 settembre 1970 (alla vigilia del centenario del 20 settembre 1870, che segnò la fine del potere temporale della Chiesa) dallo scioglimento dei corpi armati pontifici, con eccezione della Guardia svizzera. Infine, il 21 novembre 1970 Paolo VI, con il "motu proprio" Ingravescentem aetatem, anticipò la misura più rivoluzionaria della riforma dell'elezione papale, poi completata dalla costituzione apostolica Romano pontifici eligendo del 1° ottobre 1975 (che sancì tra l'altro l'innalzamento del numero degli elettori fino a un massimo di centoventi, già deciso due anni prima: cfr. "Acta Apostolicae Sedis", 65, 1973, p. 163), escludendo dall'elettorato attivo in conclave (e da ogni carica curiale) i cardinali ultraottantenni. La decisione, legata (sulla base di raccomandazioni del concilio) all'introduzione del limite di settantacinque anni per il governo di diocesi e parrocchie con il "motu proprio" Ecclesiae sanctae (6 agosto 1966) e poi di limiti analoghi per gli uffici curiali e motivata dall'intento d'evitare tra gli elettori inconvenienti connessi con il crescere dell'età, ebbe comunque il chiaro effetto di ridurre considerevolmente il peso elettorale dei cardinali italiani di Curia, in genere non consenzienti con la linea di Paolo VI, e causò l'aperto dissenso del più noto di questi, il prefetto emerito della Congregazione per la Dottrina della Fede A. Ottaviani, che rilasciò una polemica intervista pubblicata su "Il Messaggero" del 26 novembre 1970. La decisione senza precedenti del papa fu elemento importante di una politica che rimodellò il Collegio cardinalizio con la creazione di un totale di centoquarantaquattro nuovi cardinali, in grande maggioranza non italiani, in sei Concistori (compreso quello del 22 febbraio 1965) tenuti il 26 giugno 1967 (fu creato cardinale tra gli altri l'arcivescovo di Cracovia K. Wojtyl´a, poi Giovanni Paolo II), il 28 aprile 1969, il 5 marzo 1973 (aprì la lista dei nuovi cardinali il patriarca di Venezia A. Luciani, divenuto Giovanni Paolo I), il 24 maggio 1976 e il 27 giugno 1977. Altri progetti di riforma dell'elezione papale, tra l'altro con l'introduzione tra gli elettori di rappresentanti dell'episcopato mondiale e dei patriarchi cattolici orientali, non ebbero seguito, così come cadde il disegno di realizzare una legge generale ("lex ecclesiae fundamentalis") per integrare in una normativa giuridica complessiva le novità ecclesiologiche conciliari.

Negli anni appena successivi alla conclusione del Vaticano II si concentrarono le ultime encicliche di Paolo VI: Christi matri, "epistola enciclica" per la pace nel mondo (15 settembre 1966), Populorum progressio sullo sviluppo dei popoli (26 marzo 1967), che ebbe un'enorme risonanza per l'aperto sostegno alla necessità di un forte riequilibrio delle ricchezze e delle risorse mondiali a beneficio dei Paesi più poveri, Sacerdotalis caelibatus in favore del mantenimento del celibato ecclesiastico nella Chiesa latina (24 giugno 1967), preceduta di pochi giorni dal "motu proprio" Sacrum diaconatus ordinem del 18 giugno con cui fu ripristinato, nella Chiesa latina, il diaconato permanente, aperto anche a uomini sposati, e infine Humanae vitae per il controllo naturale delle nascite (25 luglio 1968). Il problema della pianificazione demografica aveva indotto già Giovanni XXIII a istituire nel marzo 1963 un'apposita commissione, allargata poi da Paolo VI; nel 1966 l'organismo pontificio concluse a maggioranza in favore della liceità della contraccezione anche non naturale nel quadro di una "paternità responsabile", ma il papa non accettò queste conclusioni e tra il 1967 e il 1968 fu elaborato il testo dell'enciclica: in linea con l'abituale magistero pontificio, ma coerente con le novità conciliari sul concetto di matrimonio, il documento papale si dichiarò contrario alla pratica della contraccezione se non con metodi naturali, in opposizione all'edonismo e alle politiche di pianificazione familiare, spesso imposte ai Paesi poveri da quelli più ricchi. L'Humanae vitae sollevò tuttavia una tale bufera di critiche e di attacchi personali al papa anche in moltissimi ambienti cattolici che Paolo VI non utilizzò più il genere dell'enciclica nei suoi documenti successivi, forse per non esporre a ulteriori critiche una forma così impegnativa e solenne del magistero pontificio e per evitare così di logorare inutilmente l'autorità del papa. L'enciclica era infatti stata pubblicata mentre in tutto l'Occidente s'accentuavano il fenomeno della contestazione e la crisi generale dell'autorità, e le reazioni fortemente negative all'Humanae vitae, per la prima volta in misura rilevante anche tra il clero e persino nell'episcopato, si sommarono alle critiche che nei confronti di Paolo VI si moltiplicavano ormai da sinistra come da destra. L'accoglienza dell'enciclica fu comunque diversa nei Paesi più poveri, dove il suo appello a una maggiore giustizia nella distribuzione delle ricchezze fu letto come logica continuazione della Populorum progressio, tanto che nella conferenza mondiale della popolazione tenutasi nel 1974 a Bucarest la Santa Sede si schierò sulle posizioni dei Paesi comunisti e di quelli non allineati. Poche settimane prima della pubblicazione dell'Humanae vitae il papa recitò il 30 giugno 1968, a conclusione dell'"anno della fede" indetto per il diciannovesimo centenario del martirio dei ss. Pietro e Paolo, il "Credo del popolo di Dio", professione di fede composta sulla base di testi tratti da concili anteriori ma interpretata negli ambienti più progressisti come un arretramento rispetto alle aperture del Vaticano II. Il 30 novembre successivo fu pubblicata una dichiarazione della commissione cardinalizia incaricata nel 1967 d'esaminare il "nuovo catechismo" olandese per gli adulti (De nieuwe katechismus), pubblicato nel 1966 e sostanzialmente approvato, ma al quale furono imposte alcune chiarificazioni e aggiunte. In seguito a questa vicenda i rapporti tra Roma e la Chiesa olandese, già tesi per le posizioni radicalmente innovatrici di quest'ultima, s'inasprirono e poco più tardi s'aggravarono ancora per le divergenze sul celibato ecclesiastico, in favore del quale Paolo VI intervenne con una lettera al cardinale primate d'Olanda B. Alfrink, arcivescovo di Utrecht, il 24 dicembre 1969. Il caso olandese fu comunque solo l'aspetto più clamoroso di un fenomeno diffusosi largamente nei diversi Paesi cattolici nella seconda metà degli anni Sessanta e che in più occasioni pose Roma di fronte a episodi di dissenso e contestazione. Negli ambienti progressisti furono così interpretate come sconfessione di uno degli esponenti più importanti della maggioranza conciliare le dimissioni del settantaseienne arcivescovo di Bologna, cardinale G. Lercaro, rese note il 12 febbraio 1968 ma presentate da oltre un anno e fino ad allora non accolte, episodio probabilmente molto più complesso di un semplice contrasto di tendenze. Questa successione d'eventi indusse a parlare di una svolta di Paolo VI nell'abbandonare la linea sostenuta dagli anni del concilio; se l'interpretazione ebbe il merito di sottolineare il ruolo del papa nell'affrontare gli eventi, essa però non tenne sufficiente conto della profonda crisi venuta alla luce nel cattolicesimo dopo il concilio e della polarizzazione delle tendenze affrontatesi già durante il Vaticano II nei confronti delle quali Paolo VI espresse sempre una coscienza lucida e preoccupata. Inoltre questa tesi, troppo legata alla contingenza, influì sulla valutazione successiva del pontificato che si volle così bipartito tra una prima fase di apertura fiduciosa e una seconda di pessimistico quando non angosciato ripiegamento, minimizzando o trascurando il significato, coerente con i primi anni, di discorsi, gesti, iniziative e documenti posteriori al 1968 e la continuità sostanziale nell'applicazione delle riforme conciliari, su una linea di costante apertura tra le opposte tendenze di fughe in avanti e di resistenze risorgenti e tenaci. Proprio tra il 1967 e il 1970 infatti iniziarono a trovare attuazione i cambiamenti annunciati e disegnati negli anni precedenti. Si ebbero così le prime due assemblee, ordinaria e straordinaria, del sinodo dei vescovi, il rinnovamento della Curia e la soppressione dell'antica Corte pontificia, con un ricambio esteso di uomini avviato nel 1968 (e accelerato poi dall'entrata in vigore all'inizio del 1971 dell'Ingravescentem aetatem), e infine la lunga e difficile applicazione della riforma liturgica, probabilmente quella di maggiore impatto sui fedeli e certo quella che più opposizioni suscitò: furono così pubblicati tra il 1968 e il 1973 tutti i nuovi libri liturgici, tra cui nel 1970 il messale che sostituì quello di Pio V, pubblicato nel 1570 e più volte rivisto. Con una decisione senza precedenti poi il papa, che per la prima volta aveva introdotto delle donne come uditrici al concilio e in posti di responsabilità della Curia romana, proclamò nel 1970 due donne dottori della Chiesa, il 27 settembre s. Teresa d'Ávila e il 4 ottobre s. Caterina da Siena.

Tra il 1967 e il 1970 il papa completò anche il disegno simbolico dei nove viaggi internazionali che lo portarono, per la prima volta nella storia del papato, nei cinque continenti. Dopo essersi recato durante il concilio in Terra Santa, a Bombay e a New York, il 13 maggio 1967 Paolo VI visitò in forma privata il santuario portoghese di Fátima nel cinquantenario della prima delle apparizioni mariane, a cui riservò solo un breve cenno nell'omelia quasi interamente dedicata alla pace. L'intento ecumenico fu prevalente nel viaggio in Turchia, dove il 25 luglio successivo il papa incontrò a Istanbul, nella residenza del Fanar, il patriarca Atenagora (che aveva già incontrato a Gerusalemme e il quale a sua volta dal 26 al 28 ottobre 1967 ricambiò, ospite in Vaticano, la visita a Paolo VI), recandosi il giorno seguente a Smirne ed Efeso. Poco dopo il breve soggiorno di Atenagora a Roma, il papa subì in Vaticano, il 4 novembre, un intervento chirurgico, risolto positivamente e che non ebbe comunque conseguenze sulla sua attività successiva. Meta del sesto viaggio fu la Colombia, in occasione del trentanovesimo congresso eucaristico internazionale e della seconda conferenza generale dell'episcopato latinoamericano, riunito a Medellín, e dal 22 al 25 agosto 1968 il papa si recò a Bogotá (toccando al rientro, per uno scalo, Hamilton nelle Bermude), dove tra l'altro ripeté la dura condanna delle ingiustizie sociali già espressa nella Populorum progressio, ma affermando al tempo stesso la necessità d'evitare la violenza. Il 10 giugno 1969 Paolo VI si recò a Ginevra per visitare, nel cinquantesimo di fondazione, l'Organizzazione internazionale del lavoro, e quindi il Consiglio ecumenico delle Chiese; presentandosi all'organismo rappresentante la maggioranza delle confessioni cristiane esclusa quella cattolica, il papa esordì con un'affermazione che andava direttamente al cuore del problema: "Il nostro nome è Pietro" (Insegnamenti, VIII, p. 399). Poche settimane dopo, dal 31 luglio al 2 agosto, fu la volta dell'Uganda, a Entebbe, a Kampala e a Namugongo, dove Paolo VI pregò davanti ai luoghi consacrati alla memoria dei martiri, cattolici (da lui stesso proclamati santi nella sua prima canonizzazione, il 18 ottobre 1964) e anglicani. L'ultimo viaggio infine, dal 26 novembre al 5 dicembre 1970, fece toccare al papa ben otto Paesi: Iran (per uno scalo a Teheran), Pakistan orientale (all'areoporto di Dacca, con una sosta voluta in segno di solidarietà per le alluvioni che avevano devastato il Paese), Filippine (a Manila, dove appena arrivato subì un attentato da parte di un fanatico boliviano, che lo ferì con un'arma da taglio, e dove poi volle visitare Tondo, uno dei quartieri più diseredati), Samoa orientali (a Pago Pago e Apia), Australia (a Sydney, dove consacrò il primo vescovo indigeno), Indonesia (a Giacarta), Hong Kong (da dove Paolo VI rivolse un accenno alla Cina, che già nella sua visita all'ONU aveva auspicato venisse ammessa nell'organizzazione) e Sri Lanka (a Colombo). Ai nove viaggi compiuti s'aggiunsero due mete che al papa fu impossibile raggiungere per l'insormontabile opposizione dei rispettivi governi: nel 1966 la Polonia, come denunciò lo stesso Paolo VI che avrebbe voluto recarvisi per il millenario del cristianesimo, e nel 1968 in Spagna, dove il papa non poté recarsi per il rifiuto di F. Franco a rinunciare al diritto di presentazione dei vescovi che permetteva il controllo governativo sulle nomine episcopali (la Spagna vi rinunciò solo nel 1976, dopo la morte di Franco). Dieci furono poi i viaggi del papa in Italia e frequenti le visite a parrocchie della sua diocesi; tra i primi, significativi appaiono quelli compiuti per celebrare la messa nella notte di Natale: nel 1966 nella cattedrale di Firenze devastata dall'alluvione del 4 novembre, nel 1968 tra i lavoratori del centro siderurgico di Taranto e nel 1972 tra i minatori di un cantiere al monte Soratte nei pressi di Roma; il 24 ottobre 1964 Paolo VI fu a Montecassino per consacrare la chiesa ricostruita dell'abbazia e nell'occasione proclamò s. Benedetto patrono principale d'Europa; infine il 17 settembre 1977, alla vigilia dell'ottantesimo compleanno, Paolo VI compì il suo ultimo viaggio recandosi a Pescara per partecipare al diciannovesimo congresso eucaristico nazionale italiano. Durante il pontificato di un papa che per trent'anni aveva prestato servizio nella Segreteria di Stato l'attività diplomatica e la politica internazionale della Santa Sede ebbero uno sviluppo considerevole: il numero di Stati con cui furono stabilite relazioni diplomatiche quasi raddoppiò, passando da quarantanove a ottantanove, mentre si moltiplicarono i rapporti con le grandi organizzazioni internazionali governative, a partire dalla missione con rango di osservatore permanente istituita presso l'ONU fin dal 1964. Accanto poi a nuove forme di rapporti diplomatici messe in atto soprattutto con i Paesi comunisti dell'Europa centrale e orientale, venne continuata la tradizionale politica concordataria mediante la firma di trenta diversi accordi, mentre molto sviluppate risultarono la partecipazione a riunioni e conferenze internazionali e l'attività diplomatica personale del papa attraverso centinaia d'incontri e iniziative. Tra le costanti di una politica multiforme e complessa vi furono la promozione della pace e la difesa dei diritti umani, in primo luogo della libertà religiosa. Dal 1968 P. fece celebrare il primo giorno dell'anno in tutta la Chiesa cattolica una "giornata della pace" per la quale pubblicò ogni volta uno speciale messaggio e ripetuti furono i suoi interventi in favore di soluzioni negoziali dei conflitti, come avvenne soprattutto per la guerra in Vietnam, anche in contrasto con il governo statunitense. Altrettanto difficili furono i rapporti con diversi regimi dittatoriali o autoritari, spesso sedicenti cattolici, per gli appelli papali in favore di una maggiore giustizia sociale e del rispetto dei diritti umani soprattutto in America Latina ma anche in Europa, come mostrò il caso della Spagna franchista: questa non perdonò mai al papa un suo intervento umanitario quando ancora era cardinale e i rapporti tra i governi spagnoli (nei quali figurarono anche ministri membri dell'Opus Dei) e la Santa Sede furono sempre molto difficili, culminando nel settembre 1975 con il rifiuto di Franco di concedere la grazia, richiesta da Paolo VI, a cinque condannati a morte. Il papa decise anche di proseguire, nonostante i dubbi personali, la politica di apertura e di dialogo con i governi comunisti dei Paesi dell'Europa centrale e orientale, che ebbe il fine principale d'ottenere condizioni minime di sopravvivenza per le comunità cattoliche oppresse e soffocate dai regimi totalitari dei singoli Paesi. Avviata da Giovanni XXIII negli ultimi mesi del suo pontificato, quella che venne chiamata l'Ostpolitik ("politica orientale") vaticana fu assunta, fatta propria e difesa da P., con decisioni drammatiche come nel 1974 la rimozione dalla sede di Esztergom del cardinale primate ungherese J. Mindszenty e anche di fronte a critiche che arrivarono ad accusare di filocomunismo e di tradimento nei confronti delle "Chiese del silenzio" il papa, e portata avanti con pazienti e interminabili trattative soprattutto da A. Casaroli, nel 1967 nominato segretario della Congregazione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari (dal 1968 denominata Consiglio per gli affari pubblici della Chiesa) e consacrato arcivescovo dallo stesso Paolo VI. S'arrivò così a una serie d'accordi, a iniziare dalla prima parziale intesa (15 settembre 1964) con l'Ungheria, e a numerosi incontri del papa con diversi esponenti dei regimi comunisti, compreso quello sovietico.

Notevole importanza da un punto di vista politico più generale assunse la lettera apostolica Octogesima adveniens (14 maggio 1971), indirizzata per l'ottantesimo della Rerum novarum al cardinale M. Roy con la quale vennero aperte le porte al pluralismo politico e sociale dei cattolici. Estremamente sensibile alla politica per una formazione e una storia personali vicine alla tradizione politica dei cattolici più aperti, Montini fu il papa che più contribuì a distanziare la Chiesa cattolica, e in particolare la Santa Sede, dalla politica diretta: questa tendenza si riscontrò soprattutto in Italia, nel rispetto dell'ambito di responsabilità propria dei laici cattolici impegnati e con la fine della contiguità tra l'Azione Cattolica e la Democrazia Cristiana, anche se P. intervenne e sollecitò l'intervento dei vescovi (e della Conferenza Episcopale Italiana, di cui promosse la crescita e una certa autonomia) ogni volta che gli apparve necessario, come nel caso dell'introduzione del divorzio nella legislazione civile e del successivo referendum abrogativo che suscitò divisioni anche nel mondo cattolico. Le riforme auspicate dal Vaticano II ricevettero ulteriore impulso nel corso degli anni Settanta da altri documenti papali, in particolare da tre esortazioni apostoliche per il rinnovamento in diversi ambiti: l'Evangelica testificatio (29 giugno 1971) sulla vita di religiose e religiosi (anche se P. s'oppose fermissimamente nel dicembre 1974 a qualsiasi modifica dello speciale voto d'obbedienza al papa dei Gesuiti); la Marialis cultus (2 febbraio 1974) sul culto mariano; l'Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975), ampia e innovatrice trattazione sui molteplici problemi dell'evangelizzazione nel mondo contemporaneo pubblicata in seguito alla terza assemblea generale del sinodo dei vescovi che nel 1974 aveva affrontato lo stesso tema. Il 9 maggio 1973 il papa (che già aveva indetto subito dopo il Vaticano II un giubileo straordinario tenutosi tra il 1° gennaio e il 29 maggio 1966) annunciò l'Anno santo del 1975, al di là d'interrogativi sulla sua opportunità pubblicamente dichiarati: "Ci siamo domandati se una simile tradizione meriti d'essere mantenuta nel tempo nostro, tanto diverso dai tempi passati, e tanto condizionato, da un lato, dallo stile religioso impresso dal recente Concilio alla vita ecclesiale, e, dall'altro, dal disinteresse pratico di tanta parte del mondo moderno verso espressioni rituali d'altri secoli" (Insegnamenti, XI, p. 450). Paolo VI indisse così l'Anno santo nella linea conciliare, mettendo al suo centro la riconciliazione (tema dell'esortazione apostolica Paterna cum benevolentia dell'8 dicembre 1974) e facendo precedere, per la prima volta nella storia dei giubilei, le celebrazioni romane del 1975 da quelle tenute nel 1974 in tutto il mondo. Nel corso poi dell'Anno santo il papa pubblicò il 9 maggio l'esortazione apostolica Gaudete in Domino, unico documento pontificio sulla gioia cristiana, e il 14 dicembre compì nella Cappella Sistina un gesto simbolico senza precedenti ed espressivo del primato romano, baciando i piedi del metropolita ortodosso Melitone, capo della delegazione del patriarcato di Costantinopoli presente alla messa papale per il decimo anniversario della cancellazione delle scomuniche tra le due Chiese. Poco dopo aver annunciato l'Anno santo, quasi a sigillo di un'attenzione e di una sensibilità costantemente rivolte fin dagli anni giovanili alle diverse espressioni artistiche contemporanee, il 23 giugno 1973 P. inaugurò la nuova collezione d'arte religiosa moderna dei Musei Vaticani. Il 26 luglio 1976 il papa, per l'opposizione tenace e irriducibile al Vaticano II, sospese "a divinis" l'arcivescovo francese M. Lefebvre, uno degli esponenti più duri della minoranza conciliare. Drammatica fu poi la partecipazione di Paolo VI all'oscuro sequestro e all'assassinio di Aldo Moro, per il quale il 21 aprile 1978 indirizzò un appello autografo agli "uomini delle Brigate Rosse" in favore della sua liberazione, presiedendo poi il 13 maggio in S. Giovanni in Laterano una messa in suo suffragio dopo la quale pronunciò una preghiera da lui composta: "Chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro  ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale" (ibid., XVI, p. 362). Il 29 giugno il papa celebrò a S. Pietro per il quindicesimo anniversario del pontificato e tracciò nell'omelia, quando "il corso naturale della nostra vita volge al tramonto", un bilancio del suo pontificato che riconobbe rivolto alla "tutela della fede" e "a difesa della vita umana" (ibid., pp. 519-25). Alla sera del 6 agosto 1978, nella residenza di Castelgandolfo, quasi improvvisamente, dopo un giorno di permanenza a letto, Paolo VI morì e l'11 fu reso pubblico il suo testamento (scritto il 30 giugno 1965, con due brevi aggiunte successive): "Fisso lo sguardo verso il mistero della morte, e di ciò che la segue, nel lume di Cristo, che solo la rischiara.  Ora che la giornata tramonta, e tutto finisce e si scioglie di questa stupenda e drammatica scena temporale e terrena, come ancora ringraziare Te, o Signore, dopo quello della vita naturale, del dono, anche superiore, della fede e della grazia, in cui alla fine unicamente si rifugia il mio essere superstite? E sento che la Chiesa mi circonda: o santa Chiesa, una e cattolica ed apostolica, ricevi col mio benedicente saluto il mio supremo atto d'amore  ai Cattolici fedeli e militanti, ai giovani, ai sofferenti, ai poveri, ai cercatori della verità e della giustizia, a tutti la benedizione del Papa, che muore" (ibid., pp. 590-92). Dopo il funerale celebrato in piazza S. Pietro, il 12 agosto, Paolo VI fu sepolto nella basilica vaticana.



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