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domenica 6 agosto 2017

AUTOLESIONISMO

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« Le mie motivazioni per l'autolesionismo sono svariate tra cui esaminare l'interno delle mie braccia per le linee idrauliche. Questo può sembrare davvero strano. »

L'autolesionismo è conosciuto per esser stato un rituale ripetitivo praticato da culture come quella dell'antica civiltà Maya nella quale i sacerdoti praticavano auto-sacrifici tagliando e perforando i loro corpi in modo tale da prelevare sangue. Nella Bibbia ebraica si trova un riferimento ai sacerdoti di Baal "si tagliavano con lame fino a che il sangue non scorreva". Tuttavia, nel giudaismo, tali pratiche sono proibite dalla legge di Mosè.
L'autolesionismo è anche praticato dai sadhu e dagli asceti indù, nel cattolicesimo come mortificazione della carne, nell'antica Cananea come rituali di lutto e sono descritti nelle tavolette Shamra Ras; e nell'annuale rituale sciita di autoflagellazione, utilizzando catene e spade, che si svolge durante l'Ashura dove la setta sciita piange il martirio di Imam Hussein.

L'autolesionismo è un disturbo della sfera psicologica, che induce chi ne è affetto a procurarsi intenzionalmente danno fisico, come forma di punizione.
In genere, le persone autolesioniste si fanno del male ricorrendo a tagli o bruciature, assumendo grandi quantità di farmaci (overdose), perforandosi con punteruoli o strumenti simili, non mangiando o ingerendo notevoli quantità di sostanze alcoliche.
Secondo gli esperti, l'autolesionismo è espressione di un forte stress emotivo, un grave senso di colpa o un pensiero angoscioso difficilmente superabile.
Al contrario dell'opinione comune, raramente chi soffre di autolesionismo vuole suicidarsi o ha tendenze suicide.
Il trattamento dell'autolesionismo richiede l'intervento di specialisti nel campo della psichiatria e della psicologia.
Tra le terapie più efficaci, meritano una citazione particolare la psicoterapia cognitivo-comportamentale e la psicoterapia familiare.

Il termine "autolesionismo" deriva dal pronome greco a?t??, che ha valore enfatico o riflessivo, e dal verbo latino laedo (danneggiare), letteralmente "danneggiare sé stessi". L'atto più comune con cui si presenta l'autolesionismo è il taglio superficiale alla pelle ma esso comprende anche il bruciarsi, infliggersi graffi, colpire una o più parti del corpo, mordersi, tirarsi i capelli (tricotillomania) e l'ingerire sostanze tossiche o oggetti. Di solito però i comportamenti associati all'abuso di sostanze e disturbi alimentari non sono considerati veri e propri atti di autolesionismo poiché il danno ai tessuti che ne risulta sono collaterali e non volontari. Tuttavia possono esserci dei comportamenti non direttamente collegati con l'autolesionismo, ma che risultano tali poiché hanno l'intenzione di causare danni diretti ai tessuti.

Il suicidio non è il fine dell'autolesionismo, ma il rapporto tra suicidio e autolesionismo è piuttosto complesso poiché, talvolta, un comportamento autolesionista può essere pericoloso per la vita. Vi è comunque un aumento del rischio di suicidio negli individui che praticano l'autolesionismo; infatti se ne trovano segni evidenti nel 40-60% dei suicidi. Bisogna però tenere presente che collegare l'autolesionista con un potenziale suicida è nella maggior parte dei casi inesatto.

Durante l'infanzia l'autolesionismo è piuttosto raro anche se dal 1980 i casi sono aumentati. Esso è anche indicato dal Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-IV-TR) come un sintomo del disturbo di personalità borderline. Inoltre esso si manifesta anche in soggetti che soffrono di depressione, disturbi d'ansia, abuso di sostanze, disturbo post traumatico da stress, schizofrenia e disturbi alimentari. L'autolesionismo è più comune durante l'adolescenza o la tarda adolescenza; di solito appare tra i 12 e 24 anni. Ma esso si può verificare a qualunque età, anche in soggetti anziani; in questo caso però l'autolesionismo è molto più pericoloso.

Tagliarsi, ma anche bruciarsi con le sigarette (burning) o marchiarsi a fuoco la pelle con un laser o un ferro rovente (branding) o grattarsi sino a farsi uscire il sangue, permette, in assenza di strategie più mature e funzionali, di ristabilire un equilibrio, di ricollocarsi nella propria vita, di esprimere la propria indipendenza affettiva dai genitori o una sfida nei confronti delle regole che questi ultimi vogliono imporre.

I segni e le cicatrici lasciati da questi gesti autodistruttivi racchiudono una sofferenza per la quale la persona non ha ancora trovato parole per raccontarla e spiegarla.

Cutting, burning e branding sono comportamenti particolarmente frequenti durante l’adolescenza. E questo non è un caso, se teniamo presente che il corpo che cambia, amato e al tempo stesso rifiutato, il corpo dove nasce il desiderio sessuale e in cui si radica l’identità è il terreno di battaglia di ogni adolescente, di ogni ragazzo e ragazza.

Con il tagliarsi, l’adolescente cerca una disperata via d’uscita dalla fatica per lui insostenibile della crescita, dal senso di fallimento per il non sentirsi in grado di farcela a diventare grande.

L’adolescente tenta così di affermare se stesso, utilizzando l’unica cosa su cui gli sembra di potere esercitare un controllo: il suo corpo.

Generalmente si crede che praticare autolesionismo significhi cercare attenzioni. Ma questo non è completamente esatto poiché in molti casi gli autolesionisti sono consapevoli delle proprie ferite e cicatrici e ciò provoca un senso di vergogna e di colpa che porta loro a fare di tutto per nascondere i segni con l'abbigliamento (bracciali, polsini ad esempio); cercano inoltre di nascondere le loro ferite a chi gli sta attorno montando scuse e bugie per spiegare i segni evidenti. In alcuni casi provocarsi ferite provoca un senso di piacere che allieva il dolore psicologico, infatti non si prova bruciore nel provocarsi questi danni. Com'è già stato suggerito prima il soggetto che pratica l'autolesionismo non lo fa di solito per porre fine alla propria vita; esso spesso è un modo per alleviare un disagio o un dolore emotivo: l'autolesionismo diventa così un modo di comunicare all'esterno il proprio disagio.

Le lesioni al cervello (trauma cranico con eventuale edema cerebrale) possono causare danni permanenti al sistema nervoso centrale, alla memoria, alle funzionalità motorie.

Negli adolescenti dagli 11 ai 14 anni, soprattutto nelle femmine, si riscontrano forme di autolesionismo praticato con tagli (cutting) o bruciature (burning) per dimostrare la propria indipendenza. Generalmente provocati sulle braccia, questi atti autolesionistici si evidenziano delle profonde cicatrici, che vengono coperte con bracciali o bandane.

Il termine automutilazione (self-mutilation) è comparso per la prima volta con gli studi di L.E Emerson nel 1913 in cui si evidenzia che l'autolesionismo è una simbolica alternativa alla masturbazione. Il termine ricompare anche nell'articolo nel 1935 e nel libro nel 1938 di Karl Menninger dove egli perfeziona le proprie definizioni concettuali di automutilazione. Il suo studio sull'autodistruzione ha fatto una distinzione tra comportamenti suicidi e di automutilazione. Secondo Menninger l'automutilazione era espressione non letale di un desiderio di morte attenuato e quindi coniò il termine suicidio parziale. Egli individuò sei tipi di mutilazione:

Nevrotico (mangiarsi le unghie, sottoporsi a inutili operazioni chirurgiche, depilazione eccessiva)
Pratiche religiose auto-flagellanti e altre
Riti praticati durante la pubertà (rimozione dell'imene, circoncisione, modificazione del clitoride)
Psicotico (amputazioni estreme, rimozione dell'occhio o dell'orecchio, automutilazione dei genitali)
Malattie organiche del cervello (sbattere la testa continuamente, mordersi la mano, rompersi un dito)
Comuni (rasatura della barba, tagliare capelli o unghie).
Nel 1969 Pao fece una differenziazione tra coloro che tagliano in modo "leggero" (bassa letalità) e coloro che tagliano in modo "grossolano" (alta letalità). Quelli che tagliano in modo attento sono giovani; generalmente producono tagli superficiali e soffrono di personalità borderline. Quelli che invece tagliano in modo meno preciso sono gli anziani e spesso soffrono di problemi psichici. Nel 1979 Ross e McKay divisero le automutilazioni in 9 possibili gruppi: tagli, morsi, abrasioni, recisioni, inserimento di corpi estranei, bruciature, ingestione o inalazione, colpi e costrizioni. Dopo il 1970 l'attenzione circa l'autolesionismo fu spostata dagli impulsi psicosessuali del paziente scoperti da Freud. Nel 1988 Walsh e Rosen crearono 4 categorie numerate secondo i numeri romani definendo forme di automutilazione le righe II, III, IV.

Nel 1993 Favazza e Rosenthal analizzarono centinaia di studi e divisero le automutilazioni in due categorie: automutilazioni stabilite culturalmente e automutilazioni patologiche, Favazza ha anche creato due sotto categorie delle automutilazioni stabilite prima: rituali e pratiche. I rituali sono mutilazioni ripetute di generazione in generazione che riflettono le tradizioni, il simbolismo e le credenze di una società. Le pratiche invece sono storicamente passeggere ed estetiche come il piercing su lobi delle orecchie, naso, sopracciglia, così come la circoncisione maschile (per i non ebrei) mentre le automutilazioni patologiche sono l'equivalente dell'autolesionismo.



È difficile trovare delle statistiche sicure e precise riguardo l'autolesionismo poiché la maggior parte delle persone tende a nascondere le proprie ferite e a vergognarsene. I dati si basano sui ricoveri ospedalieri, sugli studi psichiatrici e su alcune indagini sulla popolazione. Circa il 10% dei ricoveri nei reparti di medicina in Inghilterra sono dovuti all'autolesionismo; nella maggior parte dei casi a causa di un eccessivo abuso di sostanze (overdose). Tuttavia gli studi basati solo sui ricoveri ospedalieri potrebbero nascondere il grande numero di adolescenti autolesionisti perché non hanno bisogno e non cercano cure mediche. Infatti molti autolesionisti che si presentano in un ospedale qualsiasi presentano vecchie ferite che non sono state curate.

I migliori studi attuali indicano che i casi di autolesionismo sono molto diffusi tra i giovani dai 12 ai 24 anni; mentre si sono verificati pochissimi incidenti di autolesionismo tra bambini di età compresa tra i 5 e 7 anni. Nel 2008, Affinity Healthcare ha suggerito che i casi di autolesionismo tra giovani potrebbe essere alto come il 33%. Uno studio americano effettuato tra studenti universitari ha evidenziato che il 9,8% di loro, almeno una volta nella loro vita, ha avuto esperienze autolesioniste come tagli superficiali e bruciature. Quando parlando di autolesionismo ci si riferiva anche al battere la testa contro qualcosa o graffiare sé stessi la percentuale è salita al 32%. Questo dimostra che l'autolesionismo non è proprio di individui affetti da disturbi psichiatrici ma anche tra persone comuni, come giovani studenti.In Irlanda, invece, uno studio ha dimostrato che le persone autolesioniste vivono per lo più in città che in campagna. Inoltre, il CASE (Child & Adolescent Self-harm in Europe) ha evidenziato che il rischio di autolesionismo è 1:7 per le donne e 1:25 per gli uomini.

Nel 70% dei casi l'autolesionismo si presenta con il tagliare la pelle con un oggetto appuntito (come lamette). Tuttavia i modi con cui può essere effettuato sono limitati solo dall'inventiva dell'individuo e dalla reale intenzione e volontà di danneggiare il proprio corpo; per questo possiamo trovare anche casi di autolesionismo che si presentano con abuso di alcool, droghe, anoressia, bulimia. Di solito i tagli si presentano su aree del corpo che possono essere facilmente nascoste e/o non visibili dagli altri. L'autolesionismo può essere definito in termini di danneggiamento del proprio corpo ma sarebbe più corretto definirlo in termini di scopo per affrontare un problema, un'angoscia emotiva. Né DSM-IV-TR, né l'ICD-10 forniscono dei precisi criteri per diagnosticare l'autolesionismo: si è visto che l'autolesionismo è spesso un sintomo di un disturbo sottostante. Tuttavia recentemente (nel 2010) è stata formalmente mossa la proposta di includere l'autolesionismo come diagnosi distinta nella quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5). È difficile uscirne e colpisce molto spesso gli adolescenti fin dalla giovane età.

Anche se di solito chi pratica l'autolesionismo non soffre di disturbi mentali, è stato dimostrato che gli individui che hanno sperimentato problemi di salute mentale sono più portati a praticarlo. Le malattie che più comportano ciò sono disturbo della personalità borderline, disturbo bipolare, depressione, fobie, disturbi comportamentali e anche la schizofrenia. Per quanto riguarda gli schizofrenici (soprattutto nei soggetti giovani) essi hanno un alto rischio di suicidio. Accanto a questi disturbi si trova anche l'abuso di sostanze e spesso anche la tendenza a non saper risolvere i propri problemi e l'impulsività. L'autolesionismo si può manifestare negli individui che soffrono della sindrome di Münchhausen; essi si sottopongono a continui esami e perfino ad indagini invasive. Nella psicoanalisi classica freudiana l'autolesionismo psichico è ricondotto alla cosiddetta pulsione di morte.

A livello emotivo gli ambienti in cui i genitori puniscono i figli o li feriscono possono generare nella persona una mancanza di fiducia e difficoltà a provare emozioni con il rispettivo aumento dell'autolesionismo. Altri fattori che possono indurre all'autolesionismo sono abusi durante l'infanzia, la guerra e la povertà. Inoltre il 30% circa degli individui che soffrono di autismo ad un certo punto sfociano nell'autolesionismo ad esempio mordendosi la mano, battendo la testa, tagliando la pelle. Autori moderni hanno aperto alcuni dibattiti per discutere del fatto che l'autolesionismo può nascondere degli scopi psicologici: è stato dimostrato che alcuni individui usano l'autolesionismo per vivere abusi o traumi passati che non erano sotto il loro controllo. L'autolesionismo, quindi, può essere un modo per riavere il controllo sulla propria vita e riprendere la propria autonomia.

L'abuso di sostanze, la dipendenza e l'astinenza sono associati con l'autolesionismo. Dipendenza da benzodiazepine o riduzione delle benzodiazepine si presenta soprattutto nei giovani. Un altro fattore di rischio da non sottovalutare è l'abuso di alcool. Al pronto soccorso dell'Irlanda del nord si è visto come l'alcool è uno dei tanti modi con cui si presenta l'autolesionismo nel 63,8% dei casi. In Inghilterra e Norvegia sono stati fatti alcuni studi per capire l'effettivo legame tra l'assunzione di cannabis e l'autolesionismo; essi hanno evidenziato che nei giovani adolescenti non è un alto fattore di rischio.

Praticare l'autolesionismo può significare farsi del male e nello stesso tempo provare piacere, derivare da esso sollievo. Per alcuni tagliarsi può essere abbastanza problematico ma alla fine decidono di farlo lo stesso proprio perché pensano a quello che possono ottenere dopo. Questo sollievo per alcuni è psicologico; in altri esso è generato da endorfine beta rilasciate nel cervello. Le endorfine sono gli oppioidi endogeni che vengono rilasciate dopo una lesione fisica, agiscono come un antidolorifico naturale, inducono piacere e riducono lo stress emotivo e la tensione. Alcuni autolesionisti dicono di non provare nessun dolore mentre si feriscono; altri, invece, lo usano per provare piacere.

Al contrario per altri farsi del male significa provare qualcosa, anche se la sensazione è dolorosa e per niente piacevole. Queste persone manifestano sensazioni di vuoto e intorpidimento (anedonia) e perciò il dolore fisico può essere un modo per provare sollievo.

Si è molto incerti su quali trattamenti psicosociali e fisici siano utili per i soggetti che praticano l'autolesionismo; perciò sono necessari ulteriori studi clinici. In queste persone sono comuni disturbi psichiatrici e della personalità; di conseguenza si può supporre che l'autolesionismo sia indotto da depressione e/o altri problemi psicologici. Se l'autolesionismo è indotto da una grave o moderata depressione clinica gli antidepressivi possono essere un'ottima soluzione. La psicoterapia cognitivo-comportamentale può essere utilizzata per i soggetti con problemi di depressione, disturbo bipolare, schizofrenia. Invece la terapia comportamentale-dialettica può essere efficace con individui che soffrono di malattie mentali o che hanno un disturbo della personalità.

Un interessate studio medico statunitense ha preso in considerazione 4.000 persone autolesioniste, ricoverate in ospedale, e ne ha analizzato il motivo del ricovero. L'analisi ha riportato che circa l'80% dei soggetti aveva assunto una dose esagerata di farmaci e circa il 15% si era procurata dei tagli.
Tale osservazione non contrasta con quanto detto poc'anzi, in merito al modo più comune con cui gli autolesionisti si procurano danno: i tagli della pelle costituiscono la modalità più comune in generale, mentre le assunzioni esagerate di farmaci rappresentano la modalità che più frequentemente porta al ricovero.

In genere, gli autolesionisti recano danno a sé stessi successivamente a un momento di crisi, momento durante il quale i pensieri scatenanti il disturbo "si fanno sentire" in maniera più insistente.
Al termine della crisi, la situazione torna alla normalità e l'intenzione di farsi del male scompare gradualmente.
Quindi, le persone autolesioniste alternano momenti di serenità più o meno lunghi a momenti critici, in cui sentono il desiderio di procurarsi delle lesioni.

Chi soffre di autolesionismo può recarsi dei danni fisici letali.
Infatti, alcune intossicazioni da farmaci o prodotti nocivi, tagli assai profondi o alcuni colpi alla testa possono portare anche alla morte, specie se i soccorsi non sono immediati.
Inoltre, è importante ricordare il pericolo legato alle possibili complicanze di condizioni, quali l'anoressia nervosa, la bulimia o l'abuso di alcol.

Una persona che soffre di autolesionismo potrebbe necessitare di soccorsi immediati, se per esempio è in overdose da farmaci; ha abusato in maniera esagerata di sostanze alcoliche; ha perso coscienza; lamenta fortissimo dolore a seguito di un determinato colpo o lesione; manifesta gravi problemi respiratori; ha perso cospicue quantità di sangue a seguito di uno o più tagli; è in stato di shock in conseguenza a un taglio o a una bruciatura; ecc.
Diagnosi

In genere, le indagini mediche finalizzate alla diagnosi di autolesionismo prevedono un accurato esame obiettivo e un'analisi del profilo comportamentale e psicologico.
È importante delineare con precisione le caratteristiche di una condizione di autolesionismo, in quanto una diagnosi accurata permette ai medici curanti la pianificazione della terapia di supporto più adeguata.

Gran parte delle possibilità dei medici di diagnosticare con accuratezza l'autolesionismo dipende dalla sincerità dell'individuo sotto esame.
Le persone autolesioniste tendono a mentire in merito ai propri disturbi e, spesso, i percorsi di diagnosi risentono di questo anomalo comportamento.
La consapevolezza, da parte dei soggetti autolesionisti, di aver bisogno di assistenza medica è il punto di partenza per la descrizione precisa del disturbo in atto e per il raggiungimento della guarigione.

L'esame obiettivo consiste nella valutazione dello stato di salute generale del paziente, nella misurazione di alcuni suoi parametri corporei (peso, pressione sanguigna ecc.) e nell'osservazione, sul suo corpo, dei segni sospetti di autolesionismo.

Ferite, tagli e bruciature sono segni abbastanza evidenti.
Tuttavia, a un occhio esperto, lo possono essere anche i comportamenti e l'aspetto di chi ha abusato di sostanze alcoliche o farmaci.

L'analisi del profilo comportamentale e psicologico spetta, in genere, a un esperto in salute mentale e malattie psicologiche.
Brevemente, consiste in una serie di domande finalizzate a stabilire le modalità di autolesionismo e i motivi per i quali il paziente produce danno a sé stesso (quindi se è per una forma di depressione, se è per un trauma fisico subìto, se è per un trauma emotivo, se è per una grave malattia psicologica ecc).
Al termine di tale valutazione e con i dati raccolti durante l'esame obiettivo, il team di medici e specialisti che ha svolto le varie indagini è in grado di stilare una valutazione del caso sotto osservazione.
Punti che la diagnosi deve chiarire, al termine delle varie osservazioni:
Le relazioni interpersonali ed eventuali problemi di interazione sociale.
I modi con cui il paziente si procura danno.
Quanto spesso il paziente si reca danno.
Sentimenti o circostanze particolari che precedono l'intenzione di farsi del male.
Che cosa (se mai se ne è a conoscenza) riduce la tentazione di recarsi danno
Se l'intenzione di procurarsi danno è occasionale oppure persistente.
Quali sono i pensieri nel momento in cui i pazienti si producono delle lesioni.
Se l'autolesionismo è legato a qualche tendenza suicida.

Nella maggior parte dei casi, il trattamento dell'autolesionismo richiede la collaborazione di diversi specialisti – tra cui medici, psichiatri e psicologi – ed è di tipo psicologico (psicoterapia).
Tra i trattamenti di tipo psicologico, quelli più comunemente utilizzati (e forse più efficaci) sono: la psicoterapia cognitivo-comportamentale e la psicoterapia familiare.
Secondo alcuni esperti in materia di autolesionismo, sarebbe importante, ai fini terapeutici, anche la terapia di gruppo.
Il percorso di guarigione potrebbe richiedere diversi mesi di sedute terapeutiche, in quanto l'autolesionismo è un problema alquanto delicato e difficile da trattare.

La psicoterapia cognitivo-comportamentale consiste nel preparare il paziente a riconoscere e a dominare i sentimenti e i pensieri "distorti" che spingono a recare danno al proprio corpo.
Essa prevede una parte "in studio", con lo psicoterapeuta, e una parte "a casa", riservata all'esercizio e al miglioramento delle tecniche di dominio.

La psicoterapia familiare è un tipo di trattamento psicologico che interessa tutta la famiglia del paziente autolesionista
Brevemente, si basa sul concetto che i genitori, i fratelli e gli altri parenti più stretti giochino un ruolo determinante nel supportare il proprio caro, durante il percorso terapeutico previsto per lui.
Per ottenere buoni risultati dalla psicoterapia familiare, è bene che la famiglia impari le caratteristiche del disturbo in atto e come aiutare al meglio chi ne è sofferente.

La psicoterapia familiare risulta poco appropriata qualora l'autolesionismo sia legato a difficoltà familiari, come abusi sessuali o violenze praticate da uno dei due genitori.

La terapia di gruppo consiste in gruppi di persone con problematiche di uguale natura, che condividono i propri disturbi e si supportano a vicenda.
Rapportarsi con soggetti in situazioni analoghe rende più facile la condivisione dei propri problemi, fa sentire meno soli e può risultare estremamente utile ai fini terapeutici (per esempio, un paziente potrebbe consigliare a un altro una nuova strategia di dominio dei pensieri "distorti" e così via).

Una persona autolesionista su 3, che si è recata danni gravi una volta, ripete gli stessi gesti almeno un'altra volta durante lo stesso anno.
Si ricorda che una lesione grave potrebbe portare anche alla morte.
3 persone autolesioniste di lunga data (almeno 15 anni) ogni 100 arrivano a suicidarsi, poiché non riescono più a sostenere la causa che le spinge a farsi del male.
I tagli e le bruciature possono lasciare cicatrici permanenti. Inoltre, le lesioni a carico di nervi e tendini potrebbero compromettere definitivamente la capacità sensitiva di una determinata area del corpo o la sua adeguata funzionalità.

Secondo gli esperti del comportamento umano, le persone autolesioniste potrebbero trovare sollievo e superare i momenti di crisi in vari modi:
Parlando con qualcuno: se il soggetto autolesionista è solo, può utilizzare il telefono e chiamare un amico fidato o un parente.
Uscendo di casa è particolarmente indicato per tutti quei casi di autolesionismo in cui la causa scatenante è legata, in qualche modo, a un familiare.
Ascoltando della musica e cominciando un'attività nuova, al fine di trovare una distrazione.
Recandosi in un posto rilassante/confortante.
Trovando modi alternativi per esprimere i pensieri angosciosi, lo stress ecc.
Procurandosi dei dolori "innocui", come per esempio mangiare un cibo estremamente piccante o fare una doccia fredda.
Focalizzando la propria mente su qualcosa di positivo.
Concedendosi dei momenti di svago.
Raccogliendo in un diario personale o in una serie di lettere personali tutte le sensazioni indotte dall'autolesionismo.

Ci sono molti movimenti tra le varie comunità che si occupano di questo problema per sensibilizzare i professionisti e il pubblico in generale. Per esempio ogni 1 di marzo si svolge la giornata globale "Self-injury Awareness Day" (SIAD) per rendere più consapevoli le persone riguardo l'autolesionismo. Molte persone indossano per l'occasione un fiocco arancione simbolo di questa consapevolezza e per incoraggiare gli altri ad essere più aperti riguardo al proprio problema con le persone che li circondano e per aumentare la conoscenza generale.



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lunedì 11 luglio 2016

PERCHE' LO FAI?

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Le persone assumono droga perché vogliono cambiare qualcosa nella propria vita:
Per inserirsi
Per evadere o rilassarsi
Per ammazzare la noia
Per sembrare più grandi
Per ribellarsi
Per sperimentare
Loro pensano che le droghe siano una soluzione. Ma alla fine le droghe diventano il problema.

Anche se è difficile affrontare i propri problemi, le conseguenze dell’uso di droga sono sempre peggiori del problema che si sta cercando di risolvere. La vera risposta è quella di informarsi e di non far uso di droga in primo luogo.

Il modo più semplice con cui un individuo diventa tossicodipendente è il contatto con un gruppo che fa uso di droghe e nel quale, in maniera più o meno consapevole, sperimenta il desiderio di divertirsi e di provare sensazioni fuori dalla norma. Lo scopo apparentemente ricreativo dell'assunzione di droghe finisce spesso per mescolarsi con le dinamiche di gruppo, con il desiderio di essere accettati all'interno di un certo ambiente, di migliorare persino le proprie “prestazioni” sociali all'interno del gruppo (come avviene per esempio nella tossicodipendenza da cocaina) e magari di soddisfare le aspettative di una figura che viene riconosciuta come il capobranco. Il salto da un uso sporadico a quello abituale di droga – come ben sappiamo – è facile e frequente e, nel momento in cui le sostanze stupefacenti hanno innescato un meccanismo di dipendenza fisica, anche quella psicologica subentra: la persona tossicodipendente finisce per credere che senza la droga non potrà più reggere la gara con se stesso per l'appartenenza al gruppo e teme che il rifiuto possa causare l'estromissione dal gruppo stesso. 
Esistono poi tutta una serie di difficoltà esterne, che possono essere ricondotte ai rapporti familiari o più semplicemente interpersonali, al lavoro e alle aspettative dell'ambiente di lavoro, alle delusioni emotive, economiche e via discorrendo, che possono essere addotte come responsabili di un ricorso all'assunzione di droga. Di fatto si tratta di difficoltà comuni a molte persone e che da sole non possono spiegare l'inizio di una tossicodipendenza. Ecco perché qui si inseriscono fattori interiori, che fanno capo al disagio della persona.

La teoria di origine psicologica che cerca di spiegare la dipendenza dall'alcol e che ha fatto scuola nell'analisi delle altre forme di dipendenza vuole che il consumo di sostanze stupefacenti serva a rinforzare le esperienze piacevoli e ad allontanare quelle negative. Sotto gli effetti della dipendenza, il soggetto perde la consapevolezza che nessuna droga può farlo star meglio se non sta bene con se stesso e che la droga altro non fa che amplificare i propri stati d'animo. Depressione, ansia, impulso alla trasgressione, eccessiva sensibilità, insoddisfazione verso la propria vita, paura di affrontare la vita stessa, con le sue difficoltà e le sue responsabilità sono tutte motivazioni che possono spingere a cercare una soluzione nella droga, una risposta artificiale al proprio disagio. La droga diventa una forma di automedicazione e di rifugio da conflitti interiori, ammessi o non, ed esteriori.

L’adolescenza è un periodo molto particolare per lo sviluppo dell’identità, ci si allontana dalla famiglia, con cui si entra spesso in opposizione, ci si identifica con il gruppo dei pari, il corpo matura con una velocità maggiore rispetto alla psiche, e si muovono i primi passi verso l’autonomia.
I genitori accettano con difficoltà questa fase, perché vengono a perdere un ruolo di primaria importanza nella vita dei figli, si rendono conto che anche per loro il tempo passa, e che tutte le attenzioni spese nella cura dei figli, vanno rimodulate se intendono favorire il processo che li porterà allo svincolo.




Questo processo che dovrebbe essere naturale e sano, può avvenire in modo problematico per differenti motivi: difficoltà da parte dei genitori a favorire lo svincolo; insicurezza da parte dei figli nello svincolarsi; presenza di malattie fisiche o psichiche in uno dei membri; esperienze di un lutto o di separazioni improvvise, etc… Il non riuscire svincolarsi dalla propria famiglia, equivale a restare in una posizione di dipendenza, questa è in genere la caratteristica di chi inizia a far uso di droghe.
Naturalmente solo una minima parte di adolescenti che hanno una problematica di dipendenza potrebbe diventare un tossicodipendente, anche perché non è detto che provare una sostanza, porterà conseguentemente alla dipendenza da essa.

Sono molteplici i motivi per cui ci si avvicina all’uso di una droga e in genere avviene con molta superficialità, poiché le viene attribuita la funzione di fornire delle risposte immediate ai seguenti bisogni e desideri personali:
 alterare gli stati di coscienza e espandere i livelli di consapevolezza personale;
sperimentare nuove sensazioni per ricercare una dimensione diversa da quella della quotidianità;
facilitare l’integrazione col gruppo dei pari;
rendere più soddisfacente l’immagine di sé favorendo sentimenti di maggior efficacia e controllo personale;
rafforzare l’autostima, riducendo autovalutazioni negative o favorendo la definizione dell’identità;
essere aiutati ad affrontare differenti esperienze personali di disagio.
Nonostante sia abbastanza frequente la possibilità di entrare in contatto con le droghe, non tutti diventeranno dei consumatori abituali. La tossicodipendenza è una malattia che si fonda sull’intenso desiderio psichico della droga, la cui funzione è simile a quella di un farmaco.
Gli studi sulle famiglie dei tossicodipendenti, fatti secondo un’ottica relazionale, hanno permesso di evidenziare che il disagio psichico di uno dei membri costituisce il segnale di un malessere più esteso che riguarda il gruppo familiare rispetto ai compiti evolutivi del ciclo vitale. In questa prospettiva il fenomeno della tossicodipendenza è visto come un modo per perpetuare la storia familiare in maniera ripetitiva, dove le posizioni dei singoli membri si trovano in una configurazione relazionale immobile.

Il drogarsi assume una duplice funzione relazionale: da una parte permette al tossicomane di essere distante e indipendente, dall'altra lo rende dipendente in termini di danaro, di mantenimento e fedele alla famiglia.

Malgrado la voglia di indipendenza, la maggioranza dei tossicomani tende a mantenere stabili legami con l'ambiente familiare restandovi a vivere a lungo nel tempo. Nella fase in cui si dovrebbe attuare lo svincolo adolescenziale, l’esterno viene avvertito come minaccioso e si ha la percezione della casa come microcosmo sociale in cui rinchiudersi.
Per il tossicodipendente l’uso della sostanza, con le sue qualità anestetizzanti, può impedire di pensare e di sentire il disagio presente dentro di lui. La presenza di un figlio con problematiche di tossicodipendenza può avere un beneficio secondario per una coppia genitoriale in crisi, poiché può servire a mantenere insieme i genitori o a raggiungere l’obiettivo di far interrompere un litigio tra loro. Si può parlare di una frequente triangolazione del paziente in un rapporto preferenziale col genitore che sente più in difficoltà in una coppia in crisi.
Egli ha il ruolo, emotivamente difficile, di mediare la tensione latente tra i genitori e di colmare artificialmente un vuoto affettivo.

In questi giochi di triangolazione il figlio svolgerebbe la funzione di contenimento e di mascheramento di conflitti genitoriali perché focalizzando l’attenzione sul proprio disagio, li permette di rimandare la ricerca di nuove soluzioni per superare i motivi di insoddisfazione reciproca. Il paziente sembra accentrare su di sé le tensioni familiari poiché è demandato a lui di rappresentare un centro focale intorno a cui la famiglia si aggrega. Il tossicomane e la famiglia hanno difficoltà a trattenere i contenuti mentali emozionanti che spesso vengono trasformati in agiti, questo è il motivo per cui spesso le emozioni appaiono sotto forma di aggressività fisica o verbale. Riuscire ad uscire da questo stato di malessere, è difficile ma non impossibile.



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domenica 18 ottobre 2015

LA BISESSUALITA'



La considerazione sociale del comportamento bisessuale nel corso della storia e presso le varie civiltà è stata molto varia. Relativamente alla cultura occidentale si è andati dall'apprezzamento del mondo greco, quando esercitato secondo precisi canoni, alla assoluta condanna della tradizione giudaico cristiana, che riteneva comunque inaccettabile l'attività sessuale fra individui dello stesso sesso.

Queste relazioni erano generalmente strutturate in base a classi di età (come nella pratica della pederastia nel bacino mediterraneo dell'antichità classica o la pratica dello "Shudo" nel Giappone premoderno), o strutturato in base al genere (come nella tradizione dei "Due Spiriti" proveniente dai nativi americani, o nelle pratiche dette "Bacha Bazi" dell'Asia centrale).

Molto più recentemente, nel quadro della laicizzazione o secolarizzazione del mondo occidentale, ha cominciato a svilupparsi un consistente movimento di opinione che considera la condotta bisessuale accettabile e naturale quanto la condotta eterosessuale o omosessuale.

All'opposizione verso la bisessualità delle morali tradizionali si è aggiunta, almeno in alcuni casi, una forte opposizione di molti gruppi omosessuali, che vedono tale pratica come sinonimo di promiscuità, oppure come contraddizione alla teoria della natura innata degli orientamenti sessuali, e perciò negano il concetto stesso. Ciò ha portato alcuni sostenitori del movimento bisessuale a parlare di bifobia, intesa come avversione alla bisessualità, come equivalente, specialmente in determinati settori gay, dell'omofobia.

La bisessualità è oggi molto lontana dal ricoprire l'importanza sociale che ha avuto nel mondo antico.

Si definisce bisessualità l’orientamento sessuale di una persona che trae piacere nell’avere rapporti sessuali e/o affettivi con persone sia dello stesso che dell’altro sesso, persone per le quali prova anche attrazione fisica. Si deve fare attenzione a non confondere la bisessualità con l’ermafroditismo, una condizione per la quale, nello stesso individuo, si ha la contemporanea presenza delle caratteristiche anatomiche sessuali sia dell’uomo che della donna.

La bisessualità è nota fin dai tempi più antichi e, storicamente, la valutazione della società nei riguardi di questo fenomeno ha attraversato fasi alterne: apprezzata presso la civiltà greca (che non accettava però di buon grado i soli rapporti omosessuali), tollerata (a seconda del contesto) dalla civiltà romana, ma condannata a livello assoluto dalla tradizione giudaico-cristiana.

Non è facile quantificare l’ampiezza del fenomeno della bisessualità; secondo alcune indagini, la percentuale di persone bisessuali oscilla tra il 2 e il 6% della popolazione globale, ma sussistono dei dubbi relativi all’ampiezza e all’attendibilità dei campioni presi in esame. Si è iniziato a studiare scientificamente la bisessualità verso la prima metà del 1900. La prima inchiesta statistica su larga scala relativa ai comportamenti sessuali dell’uomo si deve ad Alfred Charles Kinsey (1894-1956), un sessuologo statunitense che usò i dati raccolti per la stesura delle sue due opere più note (Sexual Behaviour in the Human Male (Il comportamento sessuale dell’uomo; 1948) e Sexual Behaviour in the Human Female (Il comportamento sessuale della donna; 1953), scritte in collaborazione con Wardell Pomeroy e altri. Kinsey, sulla base dei risultati ottenuti, arrivò a ipotizzare che la maggioranza delle persone avesse una certa componente bisessuale. In un passo della sua opera Kinsey afferma:

Il mondo non è diviso in pecore e capre. Non tutte le cose sono bianche o nere. È alla base della tassonomia che la natura raramente ha a che fare con categorie discrete. Soltanto la mente umana inventa categorie e cerca di forzare i fatti in gabbie distinte. Il mondo vivente è un continuum in ogni suo aspetto. Prima apprenderemo questo a proposito del comportamento sessuale umano, prima arriveremo a una profonda comprensione delle realtà del sesso.



Le idee sulle cause della bisessualità non sembrano chiarissime dal momento che le opinioni che circondano l’argomento sono le più variegate: alcuni ritengono la bisessualità un fenomeno normale, altri una deviazione, altri ancora sostengono addirittura che la bisessualità in realtà non esista e che non sia altro che un’omosessualità mascherata. Per esempio non si può negare (e lo affermano anche alcune organizzazioni bisex) che la bisessualità possa essere un periodo di transizione legato a periodi particolari della vita (adolescenza, detenzione ecc.).

Le associazioni di psicologi sono molto divise sull’argomento. L’APA (American Psychological Association) ha espresso giudizi che per molti bisessuali sono offensivi; per esempio il concetto che il vero bisessuale è di natura poligamico perché di fatto è incapace di relazioni di tipo monogamico. Altre fonti vedono il fenomeno come una naturale evoluzione dell’umanità (Simonelli: “una maggiore libertà, dagli stereotipi e dai pregiudizi. Il fenomeno è appena agli inizi: perché prenda consistenza dovremo aspettare almeno due o tre generazioni”) fino ad arrivare alla dichiarazione dell’oncologo Umberto Veronesi secondo il quale “in futuro l’umanità sarà bisessuale”. Fra l’altro, la tesi di Veronesi si basa sul fatto che gli organi preposti alla procreazione si atrofizzeranno e minore sarà la produzione di estrogeni, legando di fatto la bisessualità alla discutibile ipotesi di una scarsa carica sessuale.

In realtà sembra che ognuno dia del fenomeno l’interpretazione che più gli piace senza avere particolari prove a sostegno.
La classificazione di Kinsey, la spaziatura categoriale può essere meglio gestita giudicando solo adulti con una sessualità permanente e valutandoli in base ai soli rapporti.

L’attrazione fisica di un monosessuale deriva dalla caratteristiche anatomiche del sesso target (sesso che è uguale al proprio per l’omosessuale ed è opposto per l’eterosessuale). Nel caso dei bisessuali il sesso passa in secondo piano e le caratteristiche anatomiche (non solo gli organi genitali) non sono alla base della scelta della persona con cui avere una relazione; secondo Veronesi, il sesso resterà come gesto d’affetto. In sostanza, la negazione del meccanismo di attrazione-repulsione è la causa della vera bisessualità.

Il Well-being non dà nessuna valutazione morale al fenomeno, ma lo ritiene una condizione esistenzialmente penalizzante; di fatto la negazione del meccanismo di attrazione-repulsione mette il bisessuale un po’ al di fuori del mondo che, in gran parte, accetta questo meccanismo, meccanismo sul quale la maggioranza della popolazione fonda parte della propria personalità.

La qualità della vita è penalizzata perché il bisessuale vive con più difficoltà i rapporti di amicizia. Non a caso, i bisessuali si ritengono discriminati sia dagli omosessuali sia dagli eterosessuali. Lasciando perdere discriminazioni sul piano morale che si devono fermamente condannare, sul piano esistenziale la negazione del meccanismo di attrazione-repulsione, che è alla base della sessualità dei monosessuali, rende complicata l’amicizia totale con un monosessuale (che potenzialmente potrebbe diventare oggetto d’innamoramento del bisessuale); per capirci, un uomo eterosessuale difficilmente diventerà amico totale di un uomo bisessuale perché di fatto quest’ultimo potrebbe “innamorarsi” e voler passare dall’amicizia a una relazione. In sostanza il confine fra amicizia e relazione non è mai ben definito a priori (cioè prima che il rapporto diventi più stretto).

Ovviamente non è ancora equilibrato il “bisessuale transitorio” che vive nella confusione di non avere ancora deciso. Il fatto di non aver ancora trovato il modo ottimale di gestire il proprio corpo evidenzia il disequilibrio.

Non è equilibrato il bisessuale della classe 1, eterosessuale che determinate circostanze (come la detenzione) portano alla omosessualità per soddisfare un bisogno fisico.

Non è nemmeno equilibrato il bisessuale appartenente alla classe 2 che per mancanza di forza e di coraggio non esplicita la sua condizione di omosessuale. Non a caso molti ritengono che la classe più numerosa (fra 1-2-3) sia proprio la 2 e che molti bisessuali siano omosessuali nascosti (a sé stessi o a gli altri).

Il vero bisessuale può essere una persona equilibrata, ma spesso non arriva all’equilibrio perché vive la sua condizione in modo non totalmente sereno, non riuscendo ad accettare che chi ha intorno ragioni in modo non conforme al suo.
In molti ambienti bisessuali si pensa che la bisessualità sia fortemente discriminata. A mio avviso ciò non  accade per motivi ideologici: chi discrimina i bisessuali in genere lo fa anche con gli omosessuali. Fortunatamente questa discriminazione sta contraendosi e interessa le zone più retrograde della società.



La bisessualità subisce probabilmente una forte discriminazione pratica che non è che l’esercizio del monosessuale di  scegliere liberamente i propri contatti e le proprie relazioni. Se per una donna è molto facile avere un amico maschio gay (o viceversa), nell’ottica di ridurre al minimo i problemi nella vita (che è uno degli obiettivi del Well-being, ma è anche una scelta di puro buon senso) che senso ha che un uomo (donna) scelga una donna (uomo) bisex? A parità di altre condizioni, l’unico risultato che ottiene è di avere il doppio dei problemi, statisticamente di avere una relazione meno stabile e di essere impotente nel capire e nel gestire certe situazioni: che fare se entro in competizione con una donna (uomo)? Stesso discorso con l’amicizia totale: un uomo etero (donna) cosa si può aspettare da un uomo (donna) bisex? Sesso oppure no? Nessuno può negare che la confusione possa penalizzare la qualità della vita.

Nonostante vi siano molte manifestazioni contemporanee di bisessualità, questa continua a rimanere uno dei grandi tabù moderni. Ciò è in parte dovuto al fatto che molte persone, pur essendo in realtà bisessuali, tengono occultato il fatto e non lo esprimono, impedendo così l'emergere di una vera visibilità della bisessualità. Esistono anche alcuni termini alternativi per descrivere le varie forme di bisessualità, ma molti di essi sono considerati neologismi non universalmente accettati.

La Bi-curiosità è un aggettivo che si applica a qualcuno che, pur definendosi eterosessuale o omosessuale, mostra più o meno occasionalmente un certo interesse o fantastica d'aver relazioni con una persona del sesso da cui solitamente non viene attratto, pur continuando a non assumere o rifiutando l'etichetta di bisex. Secondo un recente studio statunitense la "Bi-curiosità" è una tendenza molto comune tra le donne che si considerano eterosessuali: il 60% di loro ha sperimentato una sorta di eccitazione sessuale verso un'altra donna, mentre al 45% è capitato di baciarsi con una donna. L'accademica britannica Yvonne Jewkes afferma che, a causa dei molti tabù ancora esistenti su ogni tipo di relazione sentimentale al di fuori di quella etero, molte persone bi-curiose utilizzano Internet come modo per socializzare affettivamente con persone dello stesso sesso, mentre pubblicamente continuano a mantenere una facciata di perfetta eterosessualità. Si osserva inoltre che il concetto di bi-curiosità, anche se l'interesse che suscita nei media dato il suo apparente aumento non influisce sulla egemonia etero, consente ad alcune donne di sperimentare in modo alternativo la propria sessualità. Spesse volte questo interesse e curiosità può essere importante anche per gli uomini, essi però non paiono impegnarsi con la stessa facilità delle donne in un comportamento o stile di vita bisex in quanto la reazione sociale nei loro confronti è meno favorevole. La sessuologa clinica Nathalie Mayor constata che internet ha cambiato radicalmente la situazione preesistente, si parla molto più spesso di prima di sesso a tre ad esempio, o di scambismo. Le donne hanno sempre più voglia di provare, la curiosità è di molto accresciuta; per gli uomini invece è ancora un argomento difficile da affrontare, pur essendo ben presente (almeno tanto quanto vi è nelle donne) il desiderio di provare. Alcuni soggetti sono spesso ritenuti omosessuali oppure bisessuali (anche se in modo non appropriato), che però non accettano la loro omosessualità (in questo caso si parla di omosessualità latente). La parola bi-curioso può inoltre essere usata per classificare chi è "Bi-passivo", "Bi-permissivo" oppure aperto a rapporti bisessuali. "Bi-passivo" descrive una persona eterosessuale o "bi-curiosa" che è "aperta" a contatti sia "casuali" che intenzionali, contatti che spesso si realizzano durante il sesso di gruppo con persone dello stesso sesso, solitamente in modo passivo, ovvero dal lato che riceve la stimolazione (o la penetrazione) da parte del soggetto attivo. "Bi-attivo" descrive una persona "bi-curiosa" o bisessuale che inizia a stabilire un contatto diretto con persone dello stesso sesso, e svolge un ruolo attivo nel rapporto, praticando la stimolazione o la penetrazione del partner.
"Bisessuale-chic": questo termine descrive persone che s'impegnano in rapporti di seduzione nei confronti sia di uomini e donne con l'intento di far parlare di sé in una prospettiva glamour. Un esempio è la cantante statunitense Madonna (cantante) la quale ha inventato lei per prima il concetto, con il videoclip della sua canzone del 1990 Justify My Love in cui la si vede baciare alternativamente un uomo e una donna. Ella ha poi anche fortemente sorpreso il pubblico nel 2003 baciando apertamente sulla bocca Britney Spears durante un concerto. Da allora in poi con sempre maggior frequenza lo stesso termine ha cominciato ad esser applicato a molte altre donne famose.



La bisessualità-chic al maschile è invece attualmente più rara, anche se in gran parte presente già negli anni '80 riferita ad artisti del calibro di David Bowie, Mick Jagger, Marlon Brando e Lou Reed. Più in generale sembra che proprio il vedere due belle donne che si baciano tra loro sia una delle maggiori fantasie moderne maschili.
"Bi-permissivo" (in inglese Bi-permissive) indica qualcuno che non cerca attivamente relazioni sessuali con persone di un sesso specifico, ma che è "aperto", ossia disponibile a fare nuove esperienze. In questa categoria può essere fatta rientrare l'omosessualità (o se è per questo eterosessualità) cosiddetta opportunistica, che descrive l'eccezionale disponibilità a rapporti omosessuali (o eterosessuali) legata alla mancanza contingente di partner disponibili del sesso preferito - il caso più classico restando quello degli ambienti sessualmente segregati. Le persone che rispondono a questa descrizione potrebbero identificarsi come eterosessuali o omosessuali, e potrebbero essere incluse nella Scala Kinsey ai posti 1 o 5, pur avendo normalmente rapporti sessuali con persone di sesso opposto.
"Ambisessuale" indica un'indiscriminata attrazione che si rivolge verso persone di ambo i sessi. Chi si identifica come ambisessuale può provare attrazione verso qualcuno da un punto di vista fisico, emotivo, intellettuale o spirituale, a prescindere dal sesso o dal genere, mentre conferma i suoi criteri selettivi in altri ambiti. D'altra parte, alcuni potrebbero sperimentare nei confronti di un soggetto, un'intensa attrazione forse causata da particolari qualità riguardanti proprio il sesso o il genere. Una persona con questo orientamento può essere inclusa nel settore 3 della scala Kinsey, anche se alcuni potrebbero identificarsi a pieno titolo nei posti 2 o 4 (nonostante alcuni possano pensare di essere, invece, "bi-permissivi").

"Tri-sessuale" è sia una variante di "bisessuale" che un gioco di parole sempre collegato alla parola "bisessuale". Comunque, nel suo significato più tecnico, indica persone attratte da uomini, donne e transgender (cioè transessuali o crossdresser). In termini più generici, può indicare persone interessate a "tutte" le possibili e variegate esperienze sessuali.
"Down low": all'inizio del XX secolo con tale termine s'intendeva lo stile di vita proprio di certi afroamericani che intessevano rapporti omosessuali di nascosto, pur continuando a mantenere una vita pubblica di relazione con le rispettive mogli o fidanzate.
Fluidità sessuale: i termini fluidità sessuale o sessualità fluida si riferiscono a cambiamenti di comportamento sessuale nel corso del tempo, da eterosessuale a omosessuale e viceversa. Nell'inglese americano questa parola viene a volte utilizzata per sostituire "bisessuale". La natura fluida della sessualità può anche significare che l'orientamento sessuale non è esclusivo o monolitico, ma può muoversi in alternanza o passare da una monosessualità all'altra. Il termine è spesso associato con la vita emotiva delle donne, che appaiono all'interno delle società moderne come maggiormente in grado rispetto agli uomini di riconoscere per sé l'attrazione o il desiderio di relazioni omosessuali.
Gay for pay-gay a pagamento: il termine viene applicato a persone che si definiscono eterosessuali, ma che s'impegnano in rapporti sessuali con persone dello stesso sesso in cambio di denaro[. È cosa questa alquanto comune all'interno del settore della pornografia o della prostituzione e fra i gigolò; alcuni esempi sono i porno-attori Jeff Stryker, Ryan Idol e Ken Ryker.
Eteroflessibilità: questo termine di origine statunitense, spesso usato in tono derisorio o per negare la propria bisessualità, si riferisce a un individuo prevalentemente etero, ma che si può impegnare in un rapporto omosessuale occasionalmente perché si trova temporaneamente in un contesto favorevole ad esso.
Lesbiche fino alla laurea: questo termine descrive giovani donne anglofone le quali durante gli anni di studio all'università s'impegnano in relazioni con altre donne, per adottare poi, una volta laureate un atteggiamento rigorosamente eterosessuale e finendo con lo sposarsi con un uomo.

Uno studio del 2011 affermò che la bisessualità nell'uomo esiste, avendo così confutato la tesi di una ricerca del 2005..
A partire da Freud,col suo lavoro sulla psicologia della sessualità umana, la questione se la bisessualità sia la tendenza generale dell'uomo si ritrova sia nella cultura popolare che nella ricerca accademica.

Secondo il Journal of the American Medical Association «Gli esseri umani sono per natura psicologicamente bisessuali, vale a dire che hanno la capacità di amar persone di entrambi i sessi»

Una delle difficoltà nel quantificare con precisione l'entità della bisessualità all'interno della popolazione è che molti bisessuali, per vari motivi, si autodefiniscono o come eterosessuali o come omosessuali; infatti, quando viene chiesto direttamente tramite indagini statistiche, sono pochissime le persone che si considerano e si presentano come bisessuali; se invece vogliamo sapere chi ha provato un'attrazione romantico-sessuale o si è impegnato in relazioni con persone di entrambi i sessi, ecco che si viene ad ottenere una minoranza significativa (dal 43% al 46% degli intervistati, studi Hite e Kinsey) con certi casi in cui si raggiunge la maggioranza. Vi sono pertanto molte più persone che provano attrazione per entrambi i sessi rispetto a chi si identifica come bisessuale.

Il tema della bisessualità è un argomento di difficile trattazione per diversi motivi: esistono degli stereotipi, come nel caso dell'omosessualità, dettati da condizionamenti culturali oppositivi, che potremmo definire in termini di "bifobia", in analogia con il termine "omofobia". Per inciso, la fobia è una "paura razionalmente non motivata".

La bisessualità, rispetto all'omosessualità, è un concetto meno presente nell'opinione comune, poiché solitamente il bisessuale non viene identificato (nella realtà o solo nello stereotipo del senso comune) con i comportamenti considerati tipici o cliché omosessuali, come l'effeminatezza nei maschi. Di conseguenza la persona bisessuale non è percepita come soggetto che si discosti significativamente dallo stereotipo maschile o femminile corrente, cosa che ovviamente potrebbe risultare completamente difforme alla prova dei fatti. In altre parole, per il senso comune, il bisessuale semplicemente "non esiste" o non appare. Ciò ha avuto come effetto, sul piano sociale, che solo negli ultimi decenni, in particolare negli Stati Uniti, la bisessualità sia risultata visibile a livello pubblico. Anche come conseguenza di tale scarsa visibilità a livello di opinione pubblica, il comportamento bisessuale tende, presso alcuni, a essere assimilato con la tendenza eterosessuale tout court, l'uomo che ha rapporti sessuali come partner attivo, con uomini e con donne, rientra comunque nella categoria del "maschio". Presso altri è viceversa considerata una finzione, un camuffamento adottato per sfuggire alla disapprovazione sociale che in vasti strati dell'opinione pubblica circonda l'omosessualità. Un detto della cultura gay recita: Bi now, gay later (Bisessuale oggi, gay domani).



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