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lunedì 11 luglio 2016

PERCHE' LO FAI?

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Le persone assumono droga perché vogliono cambiare qualcosa nella propria vita:
Per inserirsi
Per evadere o rilassarsi
Per ammazzare la noia
Per sembrare più grandi
Per ribellarsi
Per sperimentare
Loro pensano che le droghe siano una soluzione. Ma alla fine le droghe diventano il problema.

Anche se è difficile affrontare i propri problemi, le conseguenze dell’uso di droga sono sempre peggiori del problema che si sta cercando di risolvere. La vera risposta è quella di informarsi e di non far uso di droga in primo luogo.

Il modo più semplice con cui un individuo diventa tossicodipendente è il contatto con un gruppo che fa uso di droghe e nel quale, in maniera più o meno consapevole, sperimenta il desiderio di divertirsi e di provare sensazioni fuori dalla norma. Lo scopo apparentemente ricreativo dell'assunzione di droghe finisce spesso per mescolarsi con le dinamiche di gruppo, con il desiderio di essere accettati all'interno di un certo ambiente, di migliorare persino le proprie “prestazioni” sociali all'interno del gruppo (come avviene per esempio nella tossicodipendenza da cocaina) e magari di soddisfare le aspettative di una figura che viene riconosciuta come il capobranco. Il salto da un uso sporadico a quello abituale di droga – come ben sappiamo – è facile e frequente e, nel momento in cui le sostanze stupefacenti hanno innescato un meccanismo di dipendenza fisica, anche quella psicologica subentra: la persona tossicodipendente finisce per credere che senza la droga non potrà più reggere la gara con se stesso per l'appartenenza al gruppo e teme che il rifiuto possa causare l'estromissione dal gruppo stesso. 
Esistono poi tutta una serie di difficoltà esterne, che possono essere ricondotte ai rapporti familiari o più semplicemente interpersonali, al lavoro e alle aspettative dell'ambiente di lavoro, alle delusioni emotive, economiche e via discorrendo, che possono essere addotte come responsabili di un ricorso all'assunzione di droga. Di fatto si tratta di difficoltà comuni a molte persone e che da sole non possono spiegare l'inizio di una tossicodipendenza. Ecco perché qui si inseriscono fattori interiori, che fanno capo al disagio della persona.

La teoria di origine psicologica che cerca di spiegare la dipendenza dall'alcol e che ha fatto scuola nell'analisi delle altre forme di dipendenza vuole che il consumo di sostanze stupefacenti serva a rinforzare le esperienze piacevoli e ad allontanare quelle negative. Sotto gli effetti della dipendenza, il soggetto perde la consapevolezza che nessuna droga può farlo star meglio se non sta bene con se stesso e che la droga altro non fa che amplificare i propri stati d'animo. Depressione, ansia, impulso alla trasgressione, eccessiva sensibilità, insoddisfazione verso la propria vita, paura di affrontare la vita stessa, con le sue difficoltà e le sue responsabilità sono tutte motivazioni che possono spingere a cercare una soluzione nella droga, una risposta artificiale al proprio disagio. La droga diventa una forma di automedicazione e di rifugio da conflitti interiori, ammessi o non, ed esteriori.

L’adolescenza è un periodo molto particolare per lo sviluppo dell’identità, ci si allontana dalla famiglia, con cui si entra spesso in opposizione, ci si identifica con il gruppo dei pari, il corpo matura con una velocità maggiore rispetto alla psiche, e si muovono i primi passi verso l’autonomia.
I genitori accettano con difficoltà questa fase, perché vengono a perdere un ruolo di primaria importanza nella vita dei figli, si rendono conto che anche per loro il tempo passa, e che tutte le attenzioni spese nella cura dei figli, vanno rimodulate se intendono favorire il processo che li porterà allo svincolo.




Questo processo che dovrebbe essere naturale e sano, può avvenire in modo problematico per differenti motivi: difficoltà da parte dei genitori a favorire lo svincolo; insicurezza da parte dei figli nello svincolarsi; presenza di malattie fisiche o psichiche in uno dei membri; esperienze di un lutto o di separazioni improvvise, etc… Il non riuscire svincolarsi dalla propria famiglia, equivale a restare in una posizione di dipendenza, questa è in genere la caratteristica di chi inizia a far uso di droghe.
Naturalmente solo una minima parte di adolescenti che hanno una problematica di dipendenza potrebbe diventare un tossicodipendente, anche perché non è detto che provare una sostanza, porterà conseguentemente alla dipendenza da essa.

Sono molteplici i motivi per cui ci si avvicina all’uso di una droga e in genere avviene con molta superficialità, poiché le viene attribuita la funzione di fornire delle risposte immediate ai seguenti bisogni e desideri personali:
 alterare gli stati di coscienza e espandere i livelli di consapevolezza personale;
sperimentare nuove sensazioni per ricercare una dimensione diversa da quella della quotidianità;
facilitare l’integrazione col gruppo dei pari;
rendere più soddisfacente l’immagine di sé favorendo sentimenti di maggior efficacia e controllo personale;
rafforzare l’autostima, riducendo autovalutazioni negative o favorendo la definizione dell’identità;
essere aiutati ad affrontare differenti esperienze personali di disagio.
Nonostante sia abbastanza frequente la possibilità di entrare in contatto con le droghe, non tutti diventeranno dei consumatori abituali. La tossicodipendenza è una malattia che si fonda sull’intenso desiderio psichico della droga, la cui funzione è simile a quella di un farmaco.
Gli studi sulle famiglie dei tossicodipendenti, fatti secondo un’ottica relazionale, hanno permesso di evidenziare che il disagio psichico di uno dei membri costituisce il segnale di un malessere più esteso che riguarda il gruppo familiare rispetto ai compiti evolutivi del ciclo vitale. In questa prospettiva il fenomeno della tossicodipendenza è visto come un modo per perpetuare la storia familiare in maniera ripetitiva, dove le posizioni dei singoli membri si trovano in una configurazione relazionale immobile.

Il drogarsi assume una duplice funzione relazionale: da una parte permette al tossicomane di essere distante e indipendente, dall'altra lo rende dipendente in termini di danaro, di mantenimento e fedele alla famiglia.

Malgrado la voglia di indipendenza, la maggioranza dei tossicomani tende a mantenere stabili legami con l'ambiente familiare restandovi a vivere a lungo nel tempo. Nella fase in cui si dovrebbe attuare lo svincolo adolescenziale, l’esterno viene avvertito come minaccioso e si ha la percezione della casa come microcosmo sociale in cui rinchiudersi.
Per il tossicodipendente l’uso della sostanza, con le sue qualità anestetizzanti, può impedire di pensare e di sentire il disagio presente dentro di lui. La presenza di un figlio con problematiche di tossicodipendenza può avere un beneficio secondario per una coppia genitoriale in crisi, poiché può servire a mantenere insieme i genitori o a raggiungere l’obiettivo di far interrompere un litigio tra loro. Si può parlare di una frequente triangolazione del paziente in un rapporto preferenziale col genitore che sente più in difficoltà in una coppia in crisi.
Egli ha il ruolo, emotivamente difficile, di mediare la tensione latente tra i genitori e di colmare artificialmente un vuoto affettivo.

In questi giochi di triangolazione il figlio svolgerebbe la funzione di contenimento e di mascheramento di conflitti genitoriali perché focalizzando l’attenzione sul proprio disagio, li permette di rimandare la ricerca di nuove soluzioni per superare i motivi di insoddisfazione reciproca. Il paziente sembra accentrare su di sé le tensioni familiari poiché è demandato a lui di rappresentare un centro focale intorno a cui la famiglia si aggrega. Il tossicomane e la famiglia hanno difficoltà a trattenere i contenuti mentali emozionanti che spesso vengono trasformati in agiti, questo è il motivo per cui spesso le emozioni appaiono sotto forma di aggressività fisica o verbale. Riuscire ad uscire da questo stato di malessere, è difficile ma non impossibile.



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domenica 24 gennaio 2016

LE BABY SQUILLO

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Un vortice di sesso, droga, soldi e Internet che travolge l'Italia, tra scandalo e morbosa curiosità, illuminando una fascia oscura della società italiana. Adulti che cercano emozioni forti, ragazzine e ragazzini che vivono il sesso in una maniera inedita. Pura merce di scambio, nessun valore, nemmeno quello della trasgressione che fu. Dalla Tv ai giornali, gli esperti si scatenano sul fenomeno emerso in tutta la sua forza. Marida Lombardo Piola, giornalista e scrittrice (Facciamolo a skuola), che da 10 anni racconta il fenomeno della prostituzione minorile in Italia commenta: "Una storia normale, tragicamente normale. Di quelle che si ripetono, con poche variazioni sul tema, in molti licei e nelle scuole medie". E il sociologo Mauro Magatti afferma: "E' il segno del fallimento di due generazioni, un brivido forte per sostituire l'assenza di progetti e prospettive".

Il sesso ha perso qualsiasi valore e significato. "E' come mangiare un hamburger, fare un po' di ginnastica. Anzi, per metterla sul piano del guadagno, è molto meglio che fare la babysitter o un'esperienza di lavoro. Se andiamo in azienda per uno stage - dicevano le ragazze in tribunale con assoluta tranquillità -  guadagniamo 20-30 euro in una giornata; se spacciamo o ci prostituiamo, prendiamo 200 euro in poche ore".

Un cambiamento culturale che "è coinciso anche con  il proliferare di tante trasmissioni tv e di altrettanti scandali legati a politica e festini, a cui parte dell'opinione pubblica si è letteralmente abituata. Non solo le donne hanno interiorizzato il valore del loro corpo come prevalente su quello della persona, ma anche gli uomini sono rimasti sempre più ingabbiati nell'idea che l'unica cosa che possono permettersi nella vita è un corpo da pagare, usare e buttare".

A differenza delle baby squillo, le geishe e le cortigiane del passato avevano un valore come donne: "Erano belle, colte, conoscevano l'arte della femminilità e della seduzione, dimostravano empatia, erano ammirate e tenute in considerazione. Pensiamo alla Signora delle Camelie. Avevano qualità e la chiedevano in cambio. Oggi queste bambine e ragazze sono letteralmente depauperate".

L'idea di sesso e sessualità ovviamente subisce un'evoluzione di tempi e luoghi. "Pensiamo al Nepal: si fa sesso nel tempio perché il sesso è sacro". Rispetto al passato, nella cultura occidentale è invece caduto il tabù: "Ma il sesso precoce di pochi decenni fa aveva il senso della scoperta, della trasgressione, della voglia di bruciare le tappe e di diventare grandi. Aveva un significato importante". Oggi viene vissuto invece senza coinvolgimento, senza emozioni: "Siamo alla più totale anaffettività. La gravità di quel che sta succedendo è l'allontanamento forse definitivo delle nuove generazioni dalla possibilità di amare ed essere amati".

Nessun giudizio morale, ma uno sguardo di "tenerezza" verso queste ragazzine:  "Ci mostrano a specchio i limiti della nostra capacità di educatori e ci lanciano un'ultima richiesta di aiuto. Va recuperata l'idea del progettarsi come persone e del conquistare le cose che si desiderano. Altrimenti si butta alle ortiche il bisogno di essere animali sociali, come diceva Aristotele, ovvero individui felici nella relazione. Così è in atto il tradimento del valore umano".



"Meglio andare con i grandi che con i ragazzini". Lo scandalo delle baby escort. Una teenager racconta i motivi della sua scelta, del perché frequentare gente adulta invece dei ragazzi della sua età.

"Se ci stai con i tuoi coetanei - spiega - rischi che, quando tutto è finito, quelli vadano in giro a sputtanarti con i loro amici. E sai che bella vita fai dopo. Con i grandi no, questo rischio non c’è. E poi, alla fine, che c’era di male in ciò che facevo?". La giovane entra nel dettaglio della sua attività, che le permetteva di guadagnare più della sua famiglia, di vivere in una casa da sola e in modo indipendente.

"Ma la mia casa non era l'alcova del mio lavoro, andavo da un mio amico che mi prestava la sua. In cambio io pagavo le spese. Altre volte andavo direttamente dai clienti". Una attività tenuta segreta a tutti. "Per carità, nessuno dei miei amici sapeva nulla. E nessuno deve sapere nulla. Tantomeno i miei genitori. Ho commesso un errore e se in città sapessero... Il mio fidanzato? Quando è uscito lo scandalo forse ha intuito, ma è rimasto al mio fianco, senza fare domande". Non scarica responsabilità su nessuno, ancor meno sulla sua amica più grande. "Non mi ha adescata lei, siamo entrate insieme in questo giro. Insieme abbiamo fatto tutto, era il nostro segreto".

Sul rapporto con i clienti, la baby escort li difende. "Non sapevano che fossi minorenne, il loro unico errore è stato quello di non chiedermi la carta d'identità. Ma erano tutte brave persone, con famiglia e mi trattavano bene. Ho sempre scelto le persone con cui stare. Quelli che non mi piacevano li allontanavo. Avevo 16 anni è vero, ma l'abbigliamento spesso inganna". E le foto osé su facebook? "Un errore anche quello, devo cancellarle".

"C’è soltanto una persona di cui ho paura davvero. Che potrebbe rovinarmi la vita. Ma non è un cliente". Lo stesso che le procurava la cocaina. "Ora ho smesso, non la uso più", dice.

Un esercito silenzioso, sotterraneo. Ragazzine, perché di questo stiamo parlando, convinte di saper gestire un gioco tanto più grande di loro, ma vittime. Piccole donne che all’improvviso passano dalla tracolla da bancarella alla borsa griffata. Dal vecchio telefonino allo smartphone ultimo modello. Dalla tessera dell’autobus al taxi. Una vita dorata e senza sforzo, ma solo in apparenza. Perché il prezzo per tutto questo è vendersi. Vendere corpo e dignità a uomini adulti pronti a tutto per andare con una minorenne. Già, perché delle 120 mila prostitute censite in Italia, 20 mila non hanno compiuto 18 anni. Secondo il Gruppo Abele, l’associazione fondata a Torino da don Luigi Ciotti, le più piccole hanno l’età da terza media.

Stime, abbiamo detto. Perché quello delle piccole squillo italiane è un mondo quasi del tutto sommerso. Ci si prostituisce in appartamento, al chiuso.

«Dicevo di avere 20 anni e mi hanno creduta. Meglio loro del coetaneo che poi mette le tue foto su Internet».
«Il Web abbassa la percezione del reato, anche quando si tratta di prostituzione minorile», spiega Yasmin Abo Loha, segretario generale della onlus Ecpat Italia, che si batte per la difesa dei minori da prostituzione, turismo sessuale e pedopornografia. «Le ragazze non si vendono per fame, l’idea è che non siano vittime, ma seduttrici consapevoli». Non è così naturalmente. Qualunque atto sessuale di un adulto con un minore in cambio di un beneficio, che sia denaro, una ricarica del telefono, un regalo o un voto migliore a scuola, è prostituzione minorile», continua Abo Loha.

Oggi tutto comincia a scuola. «Si inizia a mercificare il proprio corpo con i compagni di classe ancora alle medie», avverte Marida Lombardo Pijola  «Allora la discoteca frequentata al pomeriggio era l’inizio di questa china pericolosa. Oggi non serve più, bastano i bagni della scuola. E la verginità è un marchio d’infamia del quale liberarsi entro il primo anno delle superiori». Giocano a fare le grandi, queste ragazzine, senza sapere di essere comunque manovrate. «Anche dai clienti», continua la Lombardo Pijola, «dai quali cercano attenzione, carezze, un riconoscimento per risollevare la propria autostima, perché sono disperatamente sole. Il loro mondo di riferimento è il gruppo dei pari. E lì sei accettata e popolare solo se dimostri un potere d’acquisto adeguato». Ed ecco che i vestiti firmati, i drink offerti nei locali, i make up di marca diventano un lasciapassare. «E invece dovrebbero essere un segnale, anzi, una sirena d’allarme per i loro genitori», avverte Luca Bernardo, direttore del Dipartimento materno-infantile dell’Ospedale Fatebenefratelli di Milano e responsabile dell’Ambulatorio per il disagio dell’adolescente. «La verità è che gli adulti sono distratti e non vogliono vedere cosa sta succedendo ai figli, non solo alle figlie. Perché magari in numero inferiore, ma è chiaro che si prostituiscono anche i maschi. Così tra le famiglie che non si accorgono e i clienti che ovviamente non hanno interesse a parlare, il fenomeno resta avvolto nell’omertà». Il meccanismo è sempre quello: «Questi adolescenti pensano di scegliere in autonomia, visto che nessuno sfruttatore ufficialmente li picchia o li maltratta come accade alle squillo di strada. E invece in quel disvalore per il proprio corpo comincia la tortura peggiore: quella psicologica». Danni di cui nessuno al momento è consapevole. «Il corpo è un accessorio del tutto separato dalle emozioni», riflette la Lombardo Pijola. «Sul sesso sanno tutto, è l’educazione sentimentale che manca: allora se un rapporto intimo non mi regala nessun sentimento, perché non monetizzarlo con gli adulti?».



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domenica 8 novembre 2015

LA DROGA SEQUESTRATA

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La droga sequestrata da forze dell’ordine e magistratura viene inizialmente tenuta in deposito, sorvegliato dalla polizia giudiziaria, per il tempo necessario alle perizie e al prelievo di piccoli campioni per uso processuale (in genere circa dieci giorni). Quindi il giudice ne ordina la distruzione, che avviene in inceneritori specialmente predisposti, dopo aver controllato che non ci sia pericolo per l’ambiente e per i cittadini. L’incenerimento avviene alla presenza del giudice, degli avvocati, della polizia giudiziaria e, in caso ne facciano richiesta, anche degli imputati, dei loro familiari e dei giornalisti. Tutte le confezioni di droga che vanno nell’inceneritore sono controllate per verificare che il contenuto non sia stato sostituito. Se uno degli addetti all’operazione sottraesse una parte della droga sequestrata e venisse scoperto, verrebbe processato per furto, con l’aggravante di avere abusato del suo incarico.

Dai dati statistici della Direzione centrale dei servizi antidroga, del Ministero dell'Interno, circa il 60% della droga sequestrata in Italia da tutte le forze di polizia, viene scoperto dalla Guardia di Finanza. Circa il 77% del totale dei sequestri di eroina, il 69% di cocaina e il 54% di hashish e marijuana nel 2005.

Uguali risultati sono stati ottenuti nel 2006, con l'81% delle quantità sequestrate in Italia di eroina, il 67% di cocaina e il 61% di hashish e marijuana. I medesimi dati statistici evidenziano come in generale la maggior parte della droga venga sequestrata sul territorio e non negli spazi doganali, risultato evidente delle numerose indagini portate avanti dai militari del Corpo. Alcune di queste prendono avvio dai fermi effettuati negli ingressi dello Stato (porti, aeroporti, valichi) dove la Guardia di Finanza esegue specifici controlli finalizzati alla repressione del traffico di stupefacenti. Quotidianamente decine di chilogrammi di droga vengono scoperti nei principali aeroporti, porti, frontiere stradali e ferroviarie. Per contrastare i metodi di occultamento della droga: (doppifondi di valigia, ovuli ingeriti, statue ripiene, ...) il corpo si avvale anche del fiuto dei cani antidroga in servizio nella Guardia di Finanza. Fino a qualche anno fa l'attività di addestramento era svolta presso il C.A.C. (centro addestramento cinofili) della Guardia di Finanza di Intimiano (CO), reparto ormai soppresso, e di allevamento in Castiglione del Lago (PG), ove, a seguito della chiusura di Intimiano, è stata concentrata tutta l'attività cinofila della G.d.F.. Il servizio cinofili si avvale prevalentemente dei pastori tedeschi (nero focato o grigioni), non disdegnando il pastore belga malinois, il labrador o i meticci selezionati nei vari canili comunali o privati di associazioni non lucrative (questi ultimi vengono prelevati dai canili se ritenuti validi per l'eventuale immissione in servizio).

Il 1º marzo 2014, due pescherecci con a bordo 18,5 tonnellate di hashish sono stati fermati dalle unità aeronavali della Guardia di Finanza a 22 miglia da Pantelleria. È stato in assoluto il più grosso sequestro di droga, mai avvenuto in Europa.



Dentro al forno ci sono finite 24 piante alte due metri: 32 chili di marijuana, bruciati poco dopo l' ultima salma. Ma dentro all' impianto di cremazione ci sono finite pure dosi di cocaina, eroina e pasticche. Gli operai della Gesip addetti alla cremazione, però, non ci stanno e sollevano il caso con il Comune: «Il forno crematorio non è un inceneritore e non può essere utilizzato per distruggere sostanze stupefacenti», dice il responsabile Gesip per le cremazioni. La paura è che le emissioni prodotte dalla distruzione delle droghe possano essere pericolose. Il presidente dell' Ordine dei Chimici di Palermo lancia l' allarme diossina: «L' Arpa faccia una verifica». Il Comune - che deve gestire la grana Gesip - cerca una mediazione. Il dirigente degli Impianti cimiteriali spiega che il suo ufficio si è limitato a eseguire le disposizioni della magistratura: «La normativa non è chiarissima ma pare indicare lo smaltimento degli stupefacenti attraverso gli inceneritori per rifiuti che a Palermo, però, non ci sono. L' autorità giudiziaria ha indicato il forno crematorio come luogo di smaltimento alternativo e noi abbiamo eseguito le loro disposizioni». I lavoratori, però, si ribellano: «Siamo sicuri che la droga possa essere smaltita nell' impianto dei Rotoli senza rischi per la salute? Noi non ne siamo così certi», dice il sindacalista della sigla Asia che riunisce diversi lavoratori dell' azienda comunale. «Oltre ai rischi per la salute poi c' è anche un aspetto etico che ferisce la sensibilità dei lavoratori: come si può bruciare droga nello stesso posto in cui si cremano le salme?». Sul rischio inquinamento l' Arpa si è già attivata: con una nota ha sollecitato al Comune «il report delle misurazioni delle emissioni del tempio crematorio». Il presidente dei chimici Cottone solleva alcuni dubbi: «La temperatura del forno dovrebbe raggiungere almeno gli 850 gradi. Se è troppo bassa, c' è il rischio della ricomposizione chimica delle sostanze con la conseguente dispersione di diossina. I proprietari del forno, prima ancora dell' Arpa, devono verificare quello che sta accadendo». Ma qual è il percorso della droga sequestrata? Quando viene bruciata? Gli stupefacenti sequestrati non vengono distrutti subito, ma custoditi nell' ufficio "corpi di reato" del tribunale. Spesso, però, subito dopo le operazioni antidroga, le dosi vengono conservate temporaneamente in un armadio blindato negli uffici di polizia. Ci sono casi in cui il giudice decide per la distruzione immediata della droga. A questo punto rientra in gioco la polizia giudiziaria. L' ufficio "corpi di reato" del tribunale redige un verbale di consegna. Le dosi di droga, sotto scorta di due ufficiali di polizia, vengono trasferite nei luoghi deputati alla distruzione. «Fino a quattro anni fa - spiega il dirigente della Narcotici della squadra mobile - la droga veniva distrutta a Bellolampo, dove c' era un piccolo inceneritore ormai fuori uso. Adesso si va a Reggio Calabria dove c' è un inceneritore per farmaci scaduti». Ma le trasferte fino in Calabria sono lunghe. E costose. «Cerchiamo - spiega - di far partire carichi più grossi possibile. Nel corso dei mesi, le varie forze di polizia raccolgono le quantità di droga sequestrate durante i blitz e poi,a turno, carabinieri, finanza e polizia organizzano le missioni a Reggio Calabria». Non sa nulla delle operazioni di smaltimento che si effettuano ai Rotoli. «Non escludo - dice però - che qualcuno abbia preferito non fare i viaggi fino a Reggio e abbia optato per Palermo. Ma i forni crematori non sono deputati a questa funzione. Può essere anche pericoloso».




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martedì 27 ottobre 2015

IL REATO STRADALE



Sono notizie di ogni giorno quelle relative ad incidenti stradali che presentano caratteristiche ingiustificabili. Molte sono le vittime innocenti che pagano per il dolo e per la colpa di guidatori che, in stato di ebbrezza o per essersi drogati,  si mettono alla guida di un’autovettura; così come, molti sono gli incoscienti che trasformano la strada in una pista da corsa, convinti di poter correre senza conseguenze e che invece, sono autori di terribili incidenti mortali. Troppo spesso leggiamo che autori di tali atti godono di una ingiustificata clemenza che concede loro non solo tutte le attenuanti del caso ma che, addirittura, gli consente di continuare a guidare nonostante il reato commesso.
E’ ora di cambiare registro e di punire tutti coloro che sono autori di incidenti che, con la casualità, non hanno nulla a che fare.

Entro la fine dell'anno sarà approvata dal parlamento l'introduzione del reato di omicidio stradale. Chi causerà un incidente mortale e non presterà un primo soccorso alle vittime, sarà considerato alla stregua di un assassino. Tanto che l'aggravante potrà farlo sbattere in galera per 18 anni, proprio come per un "omicidio volontario".
La riforma del codice della strada mira a punire pesantemente chi causa un incidente mortale perché si è messo alla guida "sotto l'effetto dell'alcool o in condizione di alterazione per l'uso di sostanze stupefacenti". La nuova legge introduce anche il reato di lesioni stradali. Che prevede: "pena da otto a dodici anni per l'omicidio stradale con ubriachezza e tasso alcolemico superiore a 1,5 mg e per stupefacenti" e pena "da quattro a dieci anni per ubriachezza tra 0,8 e 1,5 mg". Tanto per capirci: 0,8 mg equivalgono a circa 3 bicchieri e mezzo di vino oppure un paio di boccali di birra. "Il pezzo potrebbe uscire dall'Aula con alcune modifiche la più probabile è l'innalzamento del minimo della pena da quattro a cinque anni per la seconda fascia di omicidio stradale".



Chi uccide qualcuno guidando un’automobile o una imbarcazione sotto l’effetto di alcol, droghe rischia il carcere fino a 12 anni - che diventano 18 anni nel caso di omicidio plurimo - e la revoca della patente fino a 30 anni.
 
La commissione ha approvato il testo quasi all’unanimità, con il solo voto contrario di Forza Italia che ha messo sotto accusa soprattutto la sanzione, ritenuta eccessiva, della revoca della patente fino a 30 anni. Perplessità anche da Area popolare che auspica che in aula si affronti la questione con le dovute differenziazioni («sacrosanto punire chi uccide, ma bisogna valutare anche il comportamento passato, i singoli casi», spiega il senatore Carlo Giovanardi) e del gruppo Misto che parla di «luci ed ombre».

Intanto questi sono i punti forti del testo che arriverà in aula. Si introduce, innanzitutto il delitto di omicidio stradale e nautico.  Pene severe anche per chi provoca la morte di una persona in seguito a una manovra pericolosa, anche se non si è sotto l’effetto di alcol o droga: dai 7 ai 10 anni se l’incidente mortale avviene perché si attraversa un incrocio passando con il semaforo rosso o si fa una manovra di inversione del senso di marcia o un sorpasso in prossimità delle strisce pedonali, per fare qualche esempio. La stessa pena sarà applicata anche in caso di incidente mortale in acqua se chi guida l’imbarcazione procede ad una velocità superiore al doppio di quella consentita o se circola in uno specchio d’acqua nel quale non è consentita la navigazione.

C’è poi la revoca della patente, con differenziazioni: se si uccide qualcuno mentre si guida ubriachi la revoca arriva fino a 15 anni; fino a 20 anni, invece, se in passato si è stati già sottoposti all’alcol test. Se, infine, si guida in stato di ebbrezza e si supera il limite di velocità scatta la revoca massima dei 30 anni.

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martedì 15 settembre 2015

TOSSICODIPENDENZA E COSTI SOCIALI



La tossicodipendenza viene intesa come sistema comportamentale che si instaura in seguito all'uso cronico e compulsivo di sostanze (droghe illegali o legali come l'alcol, o farmaci a prescrizione medica). In particolare, secondo Koob e le Moal, la dipendenza da sostanze viene definita come disturbo cronico recidivante caratterizzato da:
compulsione alla ricerca e all'assunzione della sostanza.
perdita di controllo nel limitare l'assunzione della sostanza stessa.
comparsa di uno stato emozionale negativo (caratterizzato da disforia, irritabilità, ansia...) quando l'accesso alla sostanza è precluso.
La dipendenza da sostanze è un problema sociale e sanitario molto diffuso con conseguenze dirette e indirette sull'ordine pubblico e sulla spesa pubblica e in quanto tale è oggetto di interventi generici e specifici dello Stato. Gli effetti negativi sulla salute possono essere diretti e derivare quindi dagli effetti farmacologici della droga e dalla via di somministrazione (per esempio fumata o iniettata utilizzando aghi non sterili) e/o indiretti cioè conseguenti all'utilizzo delle sostanze da abuso come cancro, cirrosi epatica, epatite B e C, AIDS e depressione. Le fasce di popolazione più vulnerabili al fenomeno sono i giovani adolescenti, probabilmente a causa della maggior vulnerabilità dei circuiti neurali ancora in fase di sviluppo accompagnata da una maggior facilità nell'aver accesso (a differenza dei soggetti meno giovani) all'acquisto delle sostanze d'abuso.



Un danno talmente elevato, 31 miliardi di euro nel 2010 (784 euro annui per ciascun abitante tra i 15 e 64 anni, circa il 2% del Pil italiano), nel quale i costi sociali vengono suddivisi in tre macro categorie: costi del singolo individuo, costi della collettività e costi esterni.

Più nel dettaglio, abbiamo: costi derivanti dall’acquisto, quindi dal consumo, di sostanze stupefacenti, che nel 2010 ammontano a ben 22 miliardi di euro; costi per l’applicazione della legge, ovvero relativi agli interventi delle forze dell’ordine, ai Nuclei operativi tossicodipendenze delle prefetture, più spese processuali o costi per la detenzione, per un importo complessivo di 2 miliardi di euro; costi socio sanitari, di competenza delle Regioni e delle Province autonome, dipendenti dai finanziamenti erogati dagli enti per aiutare le strutture socio-sanitarie a fronteggiare il problema della tossicodipendenza, 1,7 miliardi di euro; e, infine, ciò che è più negli interessi di uno Stato capitalista, i costi derivanti dalle spese non rimborsate, ovvero il mancato pagamento delle imposte, a causa dell’improduttività lavorativa del soggetto, 4,7 miliardi di euro. Dove la perdita di produttività è calcolata sui dati forniti dai servizi di assistenza, i quali valutano la potenzialità dell’individuo di inserirsi nuovamente nel mondo del lavoro, tenendo presente l’attuale tasso di occupazione e una retribuzione media nei settori industriali e agricoli.

Il danno, per lo Stato, equivale quindi a una perdita in termini di soggetti consumatori, e a una perdita di soggetti produttori di tasse, utili a coprire le altre voci di spesa, da quelle legali a quelle socio-sanitarie..

Ma, sull’altro lato del bilancio, quali sarebbero i benefici, o meglio, i ricavi di questa chiave di lettura capitalistica del problema tossicodipendenza?
Innanzitutto la ricchezza derivante dalle attività correlate quali: reddito del personale che opera nel settore sanitario e nelle forze dell’ordine; poi i risparmi dovuti al mancato acquisto delle sostanze stupefacenti da parte dei soggetti in trattamento socio-riabilitativo; infine il reddito dei soggetti riabilitati, circa il 70% degli individui sottoposti a cura, reinseriti nel mercato del lavoro (quindi nel mondo del precariato e della disoccupazione...).
Dal 2010, inoltre, il Dpa ha attivato 109 progetti di cura, prevenzione, riabilitazione e reinserimento dei tossicodipendenti per un totale di 42 milioni di euro, affidati a enti e organizzazioni qualificate. Si tratta di Comuni, università, Asl, Rete ferroviaria italiana, Regioni, Province, Croce Rossa, istituti di ricerca privati, fondazioni ecc., con cui il Dpa ha stipulato accordi e convenzioni.

Tramite un accordo Stato-Regioni stipulato il 18 maggio 2011, si è operato quindi con l’obiettivo di favorire l’uscita dal carcere dei tossicodipendenti con l’affidamento in prova, oltre a voler quantificare il fenomeno della tossicodipendenza negli istituti penitenziari e monitorare l’applicazione dell’affidamento in prova. Un nuovo impulso alla prevenzione, che coinvolge sia le istituzioni pubbliche sia quelle private (come aziende sanitarie, direzioni scolastiche, prefetture ecc.).
Ne è un esempio il progetto dedicato a carcere e droga, per il rafforzamento di percorsi alternativi al carcere, sia per tossicodipendenti sia per alcol dipendenti, che nel 2011 il Dpa ha affidato alla Formez PA, associazione di diritto privato “in house alla Presidenza del Consiglio dei ministri, che esercita il controllo e la vigilanza attraverso il Dipartimento della funzione pubblica” , a cui possono aderire enti pubblici, Regioni, Province e Comuni.

Non c’è da stupirsi se ci sono progetti e finanziamenti, nazionali ed europei, ma i costi del ‘capitale umano’ rimangono nell’ordine dei 31 miliardi di euro, e se questi costi pensati per un’economia di Stato finiscono col gravare solo su quei soggetti divenuti ‘improduttivi’.

Il recupero del tossicodipendente inizia con una lunga permanenza nelle comunità terapeutiche.
Vista l’importanza che i centri di recupero hanno per tutto il sistema di reinserimento, nel 2009, a seguito della Conferenza nazionale per le politiche antidroga, il Dpa ha istituito un progetto denominato Comunitalia, con l’obiettivo di monitorare i dati relativi alle comunità terapeutiche, riguardanti: informazioni anagrafiche e strutturali, volume e tipo di attività, informazioni economiche sul fatturato e i relativi crediti.

Il fatturato delle comunità ha la tendenza a diminuire in modo graduale e inesorabile, passando dai 207 milioni di euro del 2009 ai 120 milioni del 2010, con una proiezione presunta sui dati del primo semestre 2011 di soli 41 milioni. Diminuzione affiancata dall’aumento proporzionale dei crediti vantanti nei confronti di Regioni, Province autonome e aziende sanitarie.



Si è quindi avuto il bisogno di creare una rete informativa, quella appunto del progetto Comunitalia, che servirà a diffondere criteri standard nazionali e norme univoche per la definizione delle rette, così da “poter ottenere un idoneo riconoscimento delle prestazioni erogate su cui istituire un sistema condiviso e permanente di recupero crediti”.
È chiaro tuttavia che un tale importante calo di fatturato non può certo dipendere solo dal ritardo nei pagamenti da parte degli enti pubblici, per quanto questo credito inevaso continui ad aumentare nel tempo. In precedenza abbiamo già parlato della difficoltà, del detenuto, di ricorrere all’art. 94 del Dpr 309/1990, che disciplina il trasferimento dal carcere ai centri di recupero e ai servizi territoriali. Il dato preoccupante è l’aumento del tempo intercorso tra l’uso delle sostanze stupefacenti e la richiesta di primo trattamento. La latenza passa dai 5,5 anni del 2009 agli 8,9 anni del 2011; dato che si può leggere guardando anche la differenza tra i trattamenti socio-sanitari erogati dai Sert rispetto al numero dei tossicodipendenti con bisogno di cure. Nel 2009 sono stati eseguiti 160 mila trattamenti su 393 mila soggetti con bisogno di cure (ovvero solo il 40,8%), nel 2011 appena 186 mila su 520 mila (il 35,7%).

La motivazione va ricercata nella legge 49/2006- la Fini-Giovanardi – secondo la quale “il provvedimento sanzionatorio non viene sospeso, come previsto in precedenza, ma viene comunque sempre applicato e, solo successivamente la persona segnalata è invitata a intraprendere un percorso terapeutico”.
Trattare la tossicodipendenza come fosse criminalità, dunque, fa sì che le persone segnalate perdano la motivazione per iniziare un percorso di recupero e reinserimento.
Tuttavia, secondo le conclusioni della relazione del Dpa, non si può accettare la legalizzazione delle droghe perché si incrementerebbe la loro disponibilità e accessibilità sul mercato, facendo di conseguenza aumentare i consumatori e le persone vulnerabili che ne farebbero uso. Ma la riflessione del Dpa dovrebbe focalizzarsi non tanto sulla legalizzazione delle droghe e il relativo traffico, quanto sulla depenalizzazione dell’uso personale, che non era considerato reato fino al 2006. Quello che bisognerebbe fare, quindi, e che ancora non è stato fatto, nonostante i 109 progetti del Dpa e i milioni di finanziamenti nazionali ed europei, è migliorare la rete dei servizi per la riabilitazione e il reinserimento sociale/lavorativo. Smettere di criminalizzare la tossicodipendenza e cominciare a trattarla come un problema sociale e sanitario, curabile attraverso una serie di interventi.

La tossicodipendenza è considerata una malattia grave perché, tra l’altro, tende alla cronicità, in molti casi produce situazioni di invalidità e può portare a morte in giovane età, per effetto diretto di una serie di patologie correlate che non è sempre facile prevenire o curare. Ogni Azienda Sanitaria è dotata di un Servizio Tossicodipendenze (Ser.T.) ed esistono anche molte Comunità Terapeutiche che possono accogliere i tossicodipendenti in cura, a carico del Servizio Sanitario Nazionale. Quindi, apparentemente, per chi è tossicodipendente viene fornito tutto quanto è necessario per la cura ed anche … di più, visto che tutte le azioni cliniche connesse alla tossicodipendenza sono esenti da ticket.
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domenica 26 aprile 2015

SAN FERMO

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Quartiere situato nella parte orientale di Varese, a confine con Induno Olona.
E' raggiungibile attraverso il quartiere Valle Olona oppure prendendo la strada in direzione Induno Olona.
Il Santuario, edificio religioso di maggior pregio, è visibile tra le abitazioni, ben curato e sagomato.
Dal ridotto sagrato antistante, che costituisce un notevole balcone su Biumo Inferiore e su Varese.
II portale, del sec. XVII, costituisce forse testimonianza dell'edificio precedente.
All'interno si segnala l'altare maggiore, con discreto paliotto in scagliola (sec. XVIII) raffigurante Santa Chiara.
Da notare la bella trave scolpita, sopra l'altare maggiore, del sec. XVII.
Quattro tele (sec. XVII) appese in presbitero e a l'ingresso della navata.
Nell'era moderna San Fermo ha visto un incremento edilizio; questo un po' a discapito della caratteristica del borgo storico.

Da questo borgo si ha la possibilità di godersi uno splendido panorama sia sulla città che sul Monte Rosa. Ai piedi della collina su cui sorge si trova la zona di Valle Olona dove, anche se ormai in disuso o destinate ad altre scopi, sorgono ancora gli storici edifici delle industrie che lungo il corso del fiume Olona hanno portato allo sviluppo della città: le concerie (la Cornelia di Babini Cattaneo, la Cerutti e la Fraschini) e la cartiera (la Sterzi).


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