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lunedì 11 luglio 2016

PERCHE' LO FAI?

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Le persone assumono droga perché vogliono cambiare qualcosa nella propria vita:
Per inserirsi
Per evadere o rilassarsi
Per ammazzare la noia
Per sembrare più grandi
Per ribellarsi
Per sperimentare
Loro pensano che le droghe siano una soluzione. Ma alla fine le droghe diventano il problema.

Anche se è difficile affrontare i propri problemi, le conseguenze dell’uso di droga sono sempre peggiori del problema che si sta cercando di risolvere. La vera risposta è quella di informarsi e di non far uso di droga in primo luogo.

Il modo più semplice con cui un individuo diventa tossicodipendente è il contatto con un gruppo che fa uso di droghe e nel quale, in maniera più o meno consapevole, sperimenta il desiderio di divertirsi e di provare sensazioni fuori dalla norma. Lo scopo apparentemente ricreativo dell'assunzione di droghe finisce spesso per mescolarsi con le dinamiche di gruppo, con il desiderio di essere accettati all'interno di un certo ambiente, di migliorare persino le proprie “prestazioni” sociali all'interno del gruppo (come avviene per esempio nella tossicodipendenza da cocaina) e magari di soddisfare le aspettative di una figura che viene riconosciuta come il capobranco. Il salto da un uso sporadico a quello abituale di droga – come ben sappiamo – è facile e frequente e, nel momento in cui le sostanze stupefacenti hanno innescato un meccanismo di dipendenza fisica, anche quella psicologica subentra: la persona tossicodipendente finisce per credere che senza la droga non potrà più reggere la gara con se stesso per l'appartenenza al gruppo e teme che il rifiuto possa causare l'estromissione dal gruppo stesso. 
Esistono poi tutta una serie di difficoltà esterne, che possono essere ricondotte ai rapporti familiari o più semplicemente interpersonali, al lavoro e alle aspettative dell'ambiente di lavoro, alle delusioni emotive, economiche e via discorrendo, che possono essere addotte come responsabili di un ricorso all'assunzione di droga. Di fatto si tratta di difficoltà comuni a molte persone e che da sole non possono spiegare l'inizio di una tossicodipendenza. Ecco perché qui si inseriscono fattori interiori, che fanno capo al disagio della persona.

La teoria di origine psicologica che cerca di spiegare la dipendenza dall'alcol e che ha fatto scuola nell'analisi delle altre forme di dipendenza vuole che il consumo di sostanze stupefacenti serva a rinforzare le esperienze piacevoli e ad allontanare quelle negative. Sotto gli effetti della dipendenza, il soggetto perde la consapevolezza che nessuna droga può farlo star meglio se non sta bene con se stesso e che la droga altro non fa che amplificare i propri stati d'animo. Depressione, ansia, impulso alla trasgressione, eccessiva sensibilità, insoddisfazione verso la propria vita, paura di affrontare la vita stessa, con le sue difficoltà e le sue responsabilità sono tutte motivazioni che possono spingere a cercare una soluzione nella droga, una risposta artificiale al proprio disagio. La droga diventa una forma di automedicazione e di rifugio da conflitti interiori, ammessi o non, ed esteriori.

L’adolescenza è un periodo molto particolare per lo sviluppo dell’identità, ci si allontana dalla famiglia, con cui si entra spesso in opposizione, ci si identifica con il gruppo dei pari, il corpo matura con una velocità maggiore rispetto alla psiche, e si muovono i primi passi verso l’autonomia.
I genitori accettano con difficoltà questa fase, perché vengono a perdere un ruolo di primaria importanza nella vita dei figli, si rendono conto che anche per loro il tempo passa, e che tutte le attenzioni spese nella cura dei figli, vanno rimodulate se intendono favorire il processo che li porterà allo svincolo.




Questo processo che dovrebbe essere naturale e sano, può avvenire in modo problematico per differenti motivi: difficoltà da parte dei genitori a favorire lo svincolo; insicurezza da parte dei figli nello svincolarsi; presenza di malattie fisiche o psichiche in uno dei membri; esperienze di un lutto o di separazioni improvvise, etc… Il non riuscire svincolarsi dalla propria famiglia, equivale a restare in una posizione di dipendenza, questa è in genere la caratteristica di chi inizia a far uso di droghe.
Naturalmente solo una minima parte di adolescenti che hanno una problematica di dipendenza potrebbe diventare un tossicodipendente, anche perché non è detto che provare una sostanza, porterà conseguentemente alla dipendenza da essa.

Sono molteplici i motivi per cui ci si avvicina all’uso di una droga e in genere avviene con molta superficialità, poiché le viene attribuita la funzione di fornire delle risposte immediate ai seguenti bisogni e desideri personali:
 alterare gli stati di coscienza e espandere i livelli di consapevolezza personale;
sperimentare nuove sensazioni per ricercare una dimensione diversa da quella della quotidianità;
facilitare l’integrazione col gruppo dei pari;
rendere più soddisfacente l’immagine di sé favorendo sentimenti di maggior efficacia e controllo personale;
rafforzare l’autostima, riducendo autovalutazioni negative o favorendo la definizione dell’identità;
essere aiutati ad affrontare differenti esperienze personali di disagio.
Nonostante sia abbastanza frequente la possibilità di entrare in contatto con le droghe, non tutti diventeranno dei consumatori abituali. La tossicodipendenza è una malattia che si fonda sull’intenso desiderio psichico della droga, la cui funzione è simile a quella di un farmaco.
Gli studi sulle famiglie dei tossicodipendenti, fatti secondo un’ottica relazionale, hanno permesso di evidenziare che il disagio psichico di uno dei membri costituisce il segnale di un malessere più esteso che riguarda il gruppo familiare rispetto ai compiti evolutivi del ciclo vitale. In questa prospettiva il fenomeno della tossicodipendenza è visto come un modo per perpetuare la storia familiare in maniera ripetitiva, dove le posizioni dei singoli membri si trovano in una configurazione relazionale immobile.

Il drogarsi assume una duplice funzione relazionale: da una parte permette al tossicomane di essere distante e indipendente, dall'altra lo rende dipendente in termini di danaro, di mantenimento e fedele alla famiglia.

Malgrado la voglia di indipendenza, la maggioranza dei tossicomani tende a mantenere stabili legami con l'ambiente familiare restandovi a vivere a lungo nel tempo. Nella fase in cui si dovrebbe attuare lo svincolo adolescenziale, l’esterno viene avvertito come minaccioso e si ha la percezione della casa come microcosmo sociale in cui rinchiudersi.
Per il tossicodipendente l’uso della sostanza, con le sue qualità anestetizzanti, può impedire di pensare e di sentire il disagio presente dentro di lui. La presenza di un figlio con problematiche di tossicodipendenza può avere un beneficio secondario per una coppia genitoriale in crisi, poiché può servire a mantenere insieme i genitori o a raggiungere l’obiettivo di far interrompere un litigio tra loro. Si può parlare di una frequente triangolazione del paziente in un rapporto preferenziale col genitore che sente più in difficoltà in una coppia in crisi.
Egli ha il ruolo, emotivamente difficile, di mediare la tensione latente tra i genitori e di colmare artificialmente un vuoto affettivo.

In questi giochi di triangolazione il figlio svolgerebbe la funzione di contenimento e di mascheramento di conflitti genitoriali perché focalizzando l’attenzione sul proprio disagio, li permette di rimandare la ricerca di nuove soluzioni per superare i motivi di insoddisfazione reciproca. Il paziente sembra accentrare su di sé le tensioni familiari poiché è demandato a lui di rappresentare un centro focale intorno a cui la famiglia si aggrega. Il tossicomane e la famiglia hanno difficoltà a trattenere i contenuti mentali emozionanti che spesso vengono trasformati in agiti, questo è il motivo per cui spesso le emozioni appaiono sotto forma di aggressività fisica o verbale. Riuscire ad uscire da questo stato di malessere, è difficile ma non impossibile.



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lunedì 12 ottobre 2015

IL RACCONTO DELLA NONNA

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Ai tempi della nonna ciò che accomunava la gente era la povertà e la paura: una miseria fiera perché capace di gesti di solidarietà e di indignazione, di chi lavora duramente nei campi 10 o 12 ore al giorno per assicurare la sopravvivenza di tutti, in un mondo comunque duro e vede minacciare la propria esistenza dalla durezza delle condizioni di vita. All’apertura del secolo nelle città permangono i segni drammatici della contrapposizione di una classe sociale, gli operai contro la borghesia che è la classe dominante aggiunta all’arretratezza femminile, dal diritto di famiglia legato al primato del marito, dalle morti per parto allo sfruttamento salariale.

Per conoscere meglio la vita in quel periodo è opportuno sapere che nel 1900 il pane costava 0,45 £/kg, la pasta 0,56 £/kg, la farina di granturco 0,25 £/kg, la farina di grano 0,43 £/kg, la carne 1,30 £/kg, il latte 0,26 £/l, lo zucchero 1,54 £/kg, 10 sigarette 0,18 £, un giornale 0,05 £ (un soldo), un operaio guadagnava 1,5÷2 £ al giorno ed una donna 0,80÷1 £ al giorno per giornate lavorative di 11÷12 ore e settimana di 6 giorni. Il salario di un contadino era sulle 0,60 £/giorno.

Le case d’abitazione erano, in generale, povere casupole di pietra intonacata parzialmente soltanto all’interno con copertura in lose, composte generalmente da una cucina col camino e la stalla al piano terreno, una o più stanze (dove si dormiva in molti) col fienile al piano superiore e in qualche caso la cantina interrata, le finestre erano molto piccole.

Non c’era l’elettricità e la luce era data da lampade a olio di noci, petrolio o dalle candele di cera (molto costose in quel tempo), che si stava ben attenti a non consumare.

I mobili erano pochi: letti, cassapanche e qualche armadio nelle stanze. In cucina si trovavano tavoli, sgabelli o panche, una madia per il pane e altri cibi , una trave alla parete con la stoviglieria attaccata ai chiodi, il camino e la stufa. D’altra parte tutta la vita della famiglia si svolgeva fuori, nel lavoro dei campi e quando si era in casa, si stava in cucina o, al più, nella stalla. Le stanze da letto erano riservate al dormire.

I vestiti generalmente erano di canapa e cotone o fustagno, rari gli abiti di lana, si calzavano zoccoli di legno oppure rozze scarpe con molte toppe: in ogni casa c’era sempre qualcuno che si improvvisava ciabattino , ingegnandosi ad aggiustare suole e tacchi. Gli uomini nelle feste portavano sempre sul capo un cappello di panno o feltro con la falda ed un nastro intorno alla fascia, il gilè abbottonato in alto, il fazzoletto annodato intorno al piccolo colletto della camicia e la giacca. Per ripararsi dal freddo erano frequenti pesanti mantelle nere in cui gli uomini si avvolgevano. Le donne vestivano con abiti semplici: una ampia sottana, un corpetto, una cuffia o fazzoletto in testa a coprire i capelli lunghi raccolti a crocchia sulla nuca e uno scialle per coprirsi le spalle. Per le solennità o andando alla messa coprivano il capo con qualche bel fazzoletto di lana a tinte vivaci.

In cucina c’era uno o più secchi che si andava a riempire d’acqua alla fontana. Un fiasco, invece, veniva riempito un po’ prima del pranzo direttamente alla sorgente, perché l’acqua da bere era così più fresca. 

Per lavarsi, si riempiva il catino d’acqua. Durante i mesi invernali nella stufa o sul camino, acceso dalla mattina alla sera, vi era sempre un paiolo d’acqua a scaldare di circa 5 litri, per cui almeno nei mesi freddi c’era sempre acqua calda disponibile. Solo il sabato si svolgeva la cerimonia del bagno completo, dentro una grande tinozza, che veniva piazzata nella stanza più calda (la cucina) o in alternativa nella stalla, e ci si lavava lì, a turno. Però, dopo due bagni l’acqua veniva cambiata. In estate ci si lavava con l’acqua scaldata dal sole.



I pochi che in camera da letto avevano un catino e una brocca, al mattino d’inverno trovavano l’acqua trasformata in ghiaccio, perché le stanze non erano riscaldate. Come unico sistema per avere meno freddo nel letto c’erano le pietre riscaldate nella brace del camino ed avvolte in un panno, usate soprattutto per gli anziani. Non ci si fermava mai, se non appunto all’ora della cena consumata in religioso silenzio sopraffatti più dalla stanchezza che dai profumi delle minestre, che bollivano e ribollivano nel paiolo di rame appeso nel camino sotto lo scoppiettante rumore e lo scintillio della legna secca, conferendo ai cibi quel particolare sapore che solo la cottura a “legna” sa dare.

Di anno in anno provvedeva a prepararsi la legna per quello successivo, attento alle fasi lunari e alle diverse proprietà delle essenze a disposizione. Ciascuno sapeva di avere un ruolo utile nell’interesse di tutti. Da una parte c’erano l’asprezza della vita, la povertà, la mortalità infantile, gli incidenti e l’emigrazione… dall’altra la tranquillità, la pazienza, l’aiuto reciproco, lo spirito comunitario,… le speranze, le illusioni, e l’orgoglio.

Il pane che si consumava a tavola era nero di segale. Era seminata un anno si ed uno no alternando la coltivazione delle patate. Il pane era fatto con l’impasto classico di farina, acqua, sale, lievito (lievito naturale riprodotto da un precedente pezzo d’impasto che si era lasciato riposare e prendere una naturale acidità sotto un piatto rovesciato in un angolo della dispensa) e patate bollite e schiacciate (come se si dovessero preparare degli gnocchi). Già, la patata, perché quest’ultima conferiva al pane una certa freschezza e permetteva una conservazione più lunga nel tempo (non lo si faceva tutti i giorni ma poche volte l’anno e nelle ricorrenze). Abitualmente, giornalmente o a giorni alterni, secondo il numero dei componenti della famiglia, si preparava una grossa pagnotta con un impasto di farina di segala anche mista ad altri farinacei disponibili che a tarda sera veniva cotta nel focolare seppellendola sotto le braci ancora accese e la cenere, residui della legna bruciata durante il giorno; dopo qualche ora ne veniva fuori una pagnotta piatta di colore piuttosto scuro, dura e non sempre cotta, impregnata di cenere; si lasciava appena raffreddare, si puliva con uno strofinaccio e quindi veniva messa nella madia.

Per condire si usava il burro o in qualche caso l’olio di noce (l’olio di oliva a quei tempi era una rarità). I cibi di ogni giorno erano: polenta, minestra (dove abbondavano patate, castagne, cipolle e legumi), in inverno qualche foglia di cavolo, in estate qualche bietola e i prodotti dell’orto.


La fame era tanta e sempre arretrata. Le uova non si toccavano perché venivano vendute al mercato per potere comperare il sale, la carne compariva in tavola due o tre volte l’anno ed era di pecora o pollo.

La conservazione degli alimenti era un problema molto serio, quelli deperibili venivano consumati in giornata o, al massimo nei due giorni successivi. Altri alimenti potevano essere messi sotto sale, sotto il grasso della sugna oppure essiccati o affumicati. Erano sistemi di conservazione degli alimenti che duravano da millenni e che continuano a durare e che hanno permesso all’uomo la sua crescita . Dobbiamo però anche ricordare che a causa della cattiva conservazione degli alimenti erano frequenti i casi di tenia o vermi intestinali.

Da novembre, quando la luce spariva sotto una fitta coltre di nuvole basse e la notte si faceva buia come la pece, davanti al camino, illuminati da una fioca luce proveniente da una lucerna, c’era ben poco da fare. Ci si riuniva nella stalla più grande della borgata. Ognuno portava la propria sedia e la propria lucerna. Gli uomini giocavano a carte, le donne chiacchieravano filando la lana, i giovani, sotto l’occhio vigile dei genitori, approfittavano di questa promiscuità per parlare d’amore. Ma chi si divertiva di più erano i bambini che, liberi come fringuelli saltavano a perdifiato sul fieno, oppure giocavano con le ombre prodotte dai lumi e, quando erano presi dalla stanchezza, ascoltavano le favole che venivano narrate da qualcuno che conosceva l’arte del racconto e li faceva rimanere a bocca aperta parlando di orchi, lupi, maschere, streghe e castelli fatati. 



L’istruzione era obbligatoria nel grado inferiore di due anni. L’obbligatorietà veniva però vanificata perché non c’erano sanzioni contro gli inadempienti. Molti bambini risultavano iscritti alla scuola ma poi, di fatto, la frequentavano solo quando non avevano incombenze lavorative o altre mansioni famigliari. L’economia famigliare, infatti, dipendeva molto dal lavoro minorile, allora legale a partire dai 12 anni di età: in pratica il bambino iniziava a lavorare appena poteva tenere in mano un attrezzo.

Solo la legge Coppino del 1877 sancirà l’obbligatorietà del corso inferiore della scuola elementare che da due anni passerà a tre, portando la durata totale in cinque anni (3+2) comminando sanzioni pecuniarie ai genitori che non provvedevano all’adempimento dell’obbligo scolastico dei figli. Le scuole furono distinte in urbane e rurali e furono aboliti i direttori spirituali. Il corso elementare inferiore che durava fino ai nove anni, comprendeva le prime nozioni dei doveri dell’uomo e del cittadino, la lettura, la calligrafia, i rudimenti della lingua italiana, dell’aritmetica e del sistema metrico decimale.

Si accedeva al corso superiore di due anni per mezzo di un esame. In tale corso si studiava grammatica, storia, geografia e geometria. L’obbligo fu stabilito soltanto per il solo corso elementare inferiore, fino ai nove anni d’età, riconoscendo di fatto il lavoro infantile, diffuso tra i fanciulli d’età superiore, una necessità vitale delle masse popolari. La legge Orlando del 1904, estese l’obbligo scolastico fino al dodicesimo anno d’età, riducendo di nuovo a quattro anni la scuola elementare, ma istituendo il V e VI anno nei comuni con più di 4000 abitanti. Dove previsti, il V e il VI anno costituivano il corso popolare. In tale situazione, dopo il quarto anno delle elementari, con un esame, si poteva accedere alle scuole secondarie, mentre gli alunni che non intendevano continuare gli studi potevano seguire il corso popolare. Nel 1900 i bambini/e generalmente terminavano gli studi alla terza classe, pochi maschi proseguivano sino alla quarta o quinta, poi non si era più considerati bambini, ma già due braccia che dovevano e potevano fare di tutto.

In ogni casa si acquistava un unico sussidiario che raccoglieva elementi di grammatica, aritmetica, geografia e storia e veniva poi passato ai numerosi fratelli più piccoli. Gli strumenti dello scolaro oltre il sussidiario erano la scatolina di legno che serviva da astuccio e che conteneva anche la matita, la gomma , la cannetta ed il pennino da intingere nell’inchiostro sul banco e il quaderno con copertina nera.

La cartella era fatta con la iuta che serviva a realizzare i sacchi per trasportare cereali o patate. La maestra, impartiva le lezioni a tre classi contemporaneamente in un’unica stanza. L’inchiostro lo dava la maestra, ogni mattina, in una boccetta di vetro.
Ci si recava a scuola a piedi perché allora non erano diffuse le automobili e le strade, per la maggior parte, erano fangose e non asfaltate. Le classi erano formate da molti alunni, arrivavano fino a un numero di 45 o 50. Maschi e femmine erano separati: infatti, c’erano classi femminili e classi maschili. I banchi erano alti, di legno, a due posti e avevano un buco per il calamaio, dove si trovava l’inchiostro per bagnare il pennino con cui si scriveva.

Gli insegnanti erano severissimi e si potevano permettere qualsiasi punizione corporale. In un angolo dell’aula, una sottile canna da sostenere i fagioli serviva alla maestra non solo per spiegare la lezione, ma anche per accarezzare le dita di qualcuno che chiacchierava o s’addormentava, con la testa sul quaderno. Ma non mancavano calci e schiaffi agli scolari disattenti o monelli e, la punizione più umiliante per un bambino, il cappello d’asino in testa. Non mancava anche quella dietro la lavagna in ginocchio su sassolini. Lo scolaro malmenato, non s’azzardava mai a lagnarsi con i genitori perché, altrimenti, a casa, avrebbe ricevuto il doppio delle botte. Come in tutte le scuole il corpo degli alunni era formato da intelligenti , meno intelligenti , diligenti , svogliati e da veri somari.

L’abbigliamento era assai misero: un berretto, una giacca, un paio di calzoni di fustagno a mezza gamba magari con rattoppi sulle ginocchia e sul di dietro, zoccoli di legno; le calze erano di lana filata in casa.

Le ragazze indossavano un gonnella lunga fino alle caviglie e d’inverno portavano sulle spalle uno scialle di lana. In generale il vitto giornaliero era: al mattino prima della scuola una scodella di latte crudo con pane o castagne secche ben cotte; a mezzogiorno polenta o minestra; condimenti, burro, latte, formaggio casalingo.



I bambini non avevano in genere molto tempo da concedere al divertimento, le bimbe aiutavano la mamma nelle faccende domestiche ed accudivano i più piccoli, i bimbi venivano avviati ai lavori nei campi. I bambini si costruivano da soli i loro giochi con i materiali che c’erano a disposizione e la fantasia diventava la materia primaria.

I giochi si facevano prevalentemente per strada o nei tanti spazi che la natura concedeva, c’era il piacere di fare parte del gruppo di mettersi alla prova riuscendo a superare le difficoltà. Molti giochi hanno un fondo comune di tradizione, in quanto l’uno l’ha imparato dall’altro e spostandosi lo ha modificato e adattata al nuovo ambiente e alle nuove abitudini. I giochi più frequenti erano il rincorrersi, il gioco del nascondino, il girotondo, il salto della cavallina e qualche bambola di pezza riempita di segatura per le bambine.
Allora non c’era ancora la televisione, c’era solo la radio e qualche volta il cinema, soprattutto all’aperto. Ogni tanto arrivava nella piazza del paese il “cantastorie” che raccontava alcune storie clamorose accompagnandosi soprattutto col suono di una chitarra e di un tamburo. 
In seguito si diffuse la televisione. I primi programmi televisivi, in bianco e nero, iniziarono in Italia solo nel 1954 e tra i primi a possedere la televisione furono i bar, dove la sera si riunivano parecchie persone per seguire alcuni programmi. Uno dei programmi più seguiti si chiamava “Lascia o Raddoppia?”. La televisione di allora non era come quella di oggi che trasmette i programmi ininterrottamente per l’intera giornata. Inizialmente i programmi duravano quasi quattro ore. La pubblicità non esisteva. Nei giorni feriali le trasmissioni iniziavano alle 17,30 con la TV dei ragazzi, poi s’interrompevano per riprendere con il TG delle 20,45. La pubblicità fu introdotta nel 1957 con “Carosello”. Nel 1961 nacque il secondo canale e la giornata TV durava quasi undici ore. Col passare degli anni la televisione entrò in quasi tutte le case contribuendo al cambiamento delle abitudini e ad arricchire il livello culturale e sociale delle persone. Alcuni personaggi televisivi molto amati, soprattutto da bambini e ragazzi, erano: Giovanna la nonna del Corsaro Nero, Topo Gigio, Calimero, Rin Tin Tin, Lassy, ecc., che sapevano offrire valori positivi. Il 1° febbraio 1977 iniziarono in Italia le trasmissioni a colori.

Per fare il bucato ci voleva tanto tempo e anche tanta fatica. Infatti, non essendoci ancora l’acqua corrente in casa, si preparavano i panni sporchi da lavare mettendoli nella conca che era sistemata vicino al caminetto, dove c’era il paiolo in cui si riscaldava l’acqua. Sui panni si metteva un lenzuolo con uno strato di cenere e dopo si cominciava a versare l’acqua calda. Quest’ultima filtrava lentamente attraverso i panni e scolava dal tubo che era attaccato al foro della conca. I panni erano lasciati nella conca fino all’indomani, quando, di buon mattino, si caricavano in una tinozza sopra un carretto e si andava al fiume. Arrivati al fiume, i panni venivano sistemati sulle sponde e nel frattempo si sceglievano delle pietre adatte per battere e sciacquare il bucato. Dopo averli lavati e sciacquati, i panni venivano stesi al sole poggiandoli su dei cespugli o attaccandoli a dei fili sistemati al momento.  Questo naturalmente quando c’erano delle belle giornate. Se invece il tempo era nuvoloso, il bucato veniva riportato a casa e asciugato con il fuoco dei bracieri o davanti al caminetto acceso. Per stirare i panni puliti si usava il ferro a carbone, all’interno del quale veniva messo del carbone infuocato. Oggi a noi sembra veramente incredibile pensare che per avere la biancheria pulita a quei tempi era necessario tutto questo lavoro e impiegare tutto questo tempo. A questo punto c’è da ringraziare coloro che hanno favorito lo sviluppo tecnologico dandoci tutti gli elettrodomestici che ci permettono di vivere meglio e in modo più sereno.






martedì 18 agosto 2015

I Sempre Odiati Compiti delle Vacanze

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«Ballate senza vergogna e sognate la vostra vita. Non dite parolacce e siate sempre gentili. Almeno una volta, andate a vedere l’alba». Sono i compiti che non t’aspetti. I non-compiti per le vacanze, consegne per la vita. Esortazioni che un giovane insegnante - Cesare Catà di Porto San Giorgio (Fermo) - ha postato su Facebook e dilagate nel web. «Leggete e sognate il vostro futuro. Se vi sentite tristi o spaventati, non vi preoccupate: l’estate, come tutte le cose meravigliose, mette in subbuglio l’anima. Provate a scrivere un diario (a settembre, se vi va, lo leggeremo insieme)».

Nella polemica stagionale compiti sì-compiti no, si insinua dunque un nuovo modo di intendere la pausa tra un anno scolastico e l’altro. Un’interruzione, quella estiva, troppo lunga secondo il ministro del lavoro Giuliano Poletti, che in marzo aveva suggerito di riempirla di esperienze di lavoro o formative. Ma, attenzione, avverte l’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna: «le vacanze scolastiche estive sono per gli adolescenti «un tempo fertile, necessario allo sviluppo della persona». Un tempo «transitorio, anche di riposo, talvolta anche vuoto, durante il quale, in assenza di impegni stabiliti e programmati dal sistema scolastico, i giovani possono avere l’occasione di pensare, interrogarsi, fantasticare sul proprio futuro, capire se stessi e i propri desideri».

«Ma staccare la spina per tanto tempo significa spesso dimenticare molto di quello che si è appreso durante l’anno», avverte Giuseppe Di Mauro, presidente della Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale. Che ha preparato un decalogo di consigli per i genitori: «Finita la scuola, stacco completo per almeno 20 giorni. Poi suddividete il carico, un’ora al giorno, alternando le materie e lasciando più tempo possibile per attività all’aria aperta. Rendete i compiti di matematica e di grammatica come dei giochi a quiz, delle parole crociate, mostrando voi stessi interesse a trovare il giusto risultato». Spazio, poi, anche ai giochi al computer e a quelli insieme agli amici. E rendere più divertente il momento dei compiti, organizzando «gruppi di studio», magari con il vicino di casa o di ombrellone.





"Genitori allarmati, preoccupati e super-stressati perché non sanno come comportarsi con il loro bambino che vedono stanco, provato dalle fatiche scolastiche e che meriterebbe il giusto riposo  -  spiega Leo Venturelli, pediatra di famiglia della Asl di Bergamo, responsabile per l'educazione alla salute e per la comunicazione della Sipps, la Società italiana di pediatria preventiva sociale, - ma al tempo stesso costretto a mettersi a studiare anche durante la pausa estiva per non perdere le nozioni acquisite. Oggi i genitori nella loro ansia di non voler sbagliare, tendono a medicalizzare anche il problema dei compiti, e noi pediatri oltre a preoccuparci della salute globale del bambino, dobbiamo trasformarci in psicologi per aiutare la coppia a gestire il tempo libero dei figli".
I pediatri ribadiscono che le vacanze estive sono un periodo estremamente importante per la salute dei più piccoli, necessarie al bambino per ricaricare il corpo e la mente. Ma come vanno gestite, bisogna dare un ricostituente al piccolo, farlo mangiare di più, e quando ricominciare a studiare?

La Sipps proprio per aiutare i genitori a mettere in atto i migliori comportamenti, ha stilato una manciata di raccomandazioni. Eccole:

Prime settimane solo per riposare. Le prime settimane di vacanza vanno dedicate interamente al riposo, il bambino ha bisogno di uno "stacco" completo dalla vita di tutti i giorni. Il modello cui attenersi è quello tipicamente vacanziero: niente impegni a orari fissi, fare una colazione abbondante e in tutta tranquillità, incontrare gli amichetti, ... insomma il dolce far niente;

Dormire. Il sonno è estremamente importante. Lasciarlo in piedi un po' più tardi la sera non deve essere un problema, però al mattino deve dormire più a lungo, niente sveglia, niente corse e magari, se ci si riesce, una pennichella dopo il pranzo.

Giocare. Il gioco è fondamentale ma senza stress, mandarlo in piscina, al campo estivo o a lezione di pianoforte per sottoporlo a un ulteriore lavoro fisico e psicologico non è raccomandabile, le attività ludiche devono essere il più semplici possibile, amate dal bambino e anche diversificate nel corso dei giorni.

A metà agosto si pensa ai compiti. A metà agosto si può ricominciare a pensare allo studio ma senza farne un problema e soprattutto senza ossessionare il piccolo ad ogni momento della giornata. Il consiglio è iniziare con una lettura. Leggere deve essere un piacere e se il bambino è abituato in una famiglia dove si maneggiano libri tutto sarà più facile.

I libri. Prima tappa, scegliere uno dei libri suggeriti dall’insegnante oppure andare in libreria con il bambino per pescare un racconto che a lui piaccia particolarmente. Si comincia insieme, sfogliando il libro, e gradualmente si inizia con il leggere qualche riga ciascuno, poi proseguirà da solo. E’ consigliabile farsi raccontare quello che ha letto e commentarlo.

La seconda tappa è suddividere i compiti da fare nell'arco delle settimane e bilanciare l’impegno dedicando non più di cinque giorni a settimana e non più di un’ora e mezza al giorno, quest’ultima volendo potrà essere suddivisa tra il mattino e il pomeriggio.

Studiare giocando. Naturalmente l’organizzazione dello studio dipende molto dal tipo di vacanza scelta dalla famiglia. Studiare giocando è sempre un buon sistema per affrontare serenamente e con leggerezza i compiti. A questo proposito, mamme e papà, e qualche volta i nonni, dovranno imparare ad attrezzarsi, escogitando giochi simpatici per risolvere i problemi di matematica, ripassare le tabelline o svolgere i temi di italiano, per questi ultimi, un’idea può essere quella di raccontare in un testo una giornata tipo in vacanza, una visita al museo o in una bella città italiana, o semplicemente una passeggiata allo zoo locale, accompagnati dai genitori, oppure la passione per una particolare attività sportiva magari nata proprio quell’estate.

Seguire i bambini senza ansia. Non sostituirsi mai ai bambini nel fare i compiti ma seguirli senza ansia. Creare gruppetti di studio, in casa o in vacanza con i vecchi compagni o con i nuovi amichetti conosciuti magari sotto l’ombrellone e che hanno gli stessi problemi. E’ bello riunirli, con una buona merenda, ciascuno impegnato nel compito da svolgere. E’ un modo per condividere un impegno comune e magari darsi una mano.



Quello dei compiti per le vacanze è un tema che ogni anno attira su di se' una grande attenzione e basta girare nel web per accorgersi come esso interessi, tra le altre cose, i grandi gruppi dei docenti sui social network. L’assegno dei compiti estivi e' tipico della scuola primaria e in qualche caso interessa anche  la scuola secondaria di primo grado. Nelle scuole superiori, invece, appare inutile proporre compiti per le vacanze che nessuno farà!

Ma è giusto o no assegnare compiti per la vacanze? Qual è la loro importanza? Perchè non lasciare il bambino libero di rilassarsi? A queste domande sono state date da sempre le risposte più disparate.
Qualcuno sostiene che l’esercizio continuo anche in estate consenta al bambino di arrivare preparato all’inizio dell’anno scolastico successivo e soprattutto di rafforzare le competenze già acquisite.
 
Il rischio potrebbe essere, però, quello di non attuare quello stacco necessario tra l’attività scolastica e il momento del riposo. Succede spesso che ci siano insegnanti, soprattutto alla primaria, che assegnano enormi quantità di compiti, come se i due mesi estivi dovessero essere trascorsi in attività di esercizio giornaliero.

C’è da chiedersi, allora, quale sia la via di mezzo tra qualcosa che tenga gli alunni in esercizio e qualcosa che non li sottoponga a stress e a pressioni derivanti dal “dovere del compito”.

Circa il 75% dei pediatri sostiene che “i compiti per le vacanze sono una contraddizione, un assurdo logico, ancor prima che pedagogico, giacchè le vacanze sono tali perchè liberano dagli affanni feriali”. Andare a scuola, alzarsi presto la mattina, prestare attenzione durante le ore di lezione, fare i compiti, sottoporsi allo stress delle interrogazioni, determinano una forte tensione emotiva in bambini e ragazzi. Tensione che deve essere necessariamente interrotta in modo netto durante i mesi estivi, in quanto una situazione di stress che si perpetua potrebbe diventare particolarmente dannosa per organismi in fase di sviluppo e crescita.

Ma i compiti estivi costituiscono un tema controverso anche in altri Paesi. In Francia, ad esempio, se ne chiede l’abolizione, mentre negli Stati Uniti se ne ritiene la loro utilità. Una ricerca della Johns Hopkins University ha evidenziato che il 66% dei docenti impiega a settembre tra le 3 e le 4 settimane di ripasso per riportare la classe ai livelli di prima. Per questo motivo le scuole statunitensi organizzano corsi estivi di allenamento per gli studenti, con i quali fanno fronte al “summer brain drain”, la fuga estiva dei cervelli.

In Italia? Ogni docente fa ciò che ritiene opportuno. Ci sono docenti che assegnano compiti in modo massivo e ce ne sono altri che ritengono che la vacanza sia tale e, per questo, libera da impegni e doveri.




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