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domenica 6 agosto 2017

AUTOLESIONISMO

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« Le mie motivazioni per l'autolesionismo sono svariate tra cui esaminare l'interno delle mie braccia per le linee idrauliche. Questo può sembrare davvero strano. »

L'autolesionismo è conosciuto per esser stato un rituale ripetitivo praticato da culture come quella dell'antica civiltà Maya nella quale i sacerdoti praticavano auto-sacrifici tagliando e perforando i loro corpi in modo tale da prelevare sangue. Nella Bibbia ebraica si trova un riferimento ai sacerdoti di Baal "si tagliavano con lame fino a che il sangue non scorreva". Tuttavia, nel giudaismo, tali pratiche sono proibite dalla legge di Mosè.
L'autolesionismo è anche praticato dai sadhu e dagli asceti indù, nel cattolicesimo come mortificazione della carne, nell'antica Cananea come rituali di lutto e sono descritti nelle tavolette Shamra Ras; e nell'annuale rituale sciita di autoflagellazione, utilizzando catene e spade, che si svolge durante l'Ashura dove la setta sciita piange il martirio di Imam Hussein.

L'autolesionismo è un disturbo della sfera psicologica, che induce chi ne è affetto a procurarsi intenzionalmente danno fisico, come forma di punizione.
In genere, le persone autolesioniste si fanno del male ricorrendo a tagli o bruciature, assumendo grandi quantità di farmaci (overdose), perforandosi con punteruoli o strumenti simili, non mangiando o ingerendo notevoli quantità di sostanze alcoliche.
Secondo gli esperti, l'autolesionismo è espressione di un forte stress emotivo, un grave senso di colpa o un pensiero angoscioso difficilmente superabile.
Al contrario dell'opinione comune, raramente chi soffre di autolesionismo vuole suicidarsi o ha tendenze suicide.
Il trattamento dell'autolesionismo richiede l'intervento di specialisti nel campo della psichiatria e della psicologia.
Tra le terapie più efficaci, meritano una citazione particolare la psicoterapia cognitivo-comportamentale e la psicoterapia familiare.

Il termine "autolesionismo" deriva dal pronome greco a?t??, che ha valore enfatico o riflessivo, e dal verbo latino laedo (danneggiare), letteralmente "danneggiare sé stessi". L'atto più comune con cui si presenta l'autolesionismo è il taglio superficiale alla pelle ma esso comprende anche il bruciarsi, infliggersi graffi, colpire una o più parti del corpo, mordersi, tirarsi i capelli (tricotillomania) e l'ingerire sostanze tossiche o oggetti. Di solito però i comportamenti associati all'abuso di sostanze e disturbi alimentari non sono considerati veri e propri atti di autolesionismo poiché il danno ai tessuti che ne risulta sono collaterali e non volontari. Tuttavia possono esserci dei comportamenti non direttamente collegati con l'autolesionismo, ma che risultano tali poiché hanno l'intenzione di causare danni diretti ai tessuti.

Il suicidio non è il fine dell'autolesionismo, ma il rapporto tra suicidio e autolesionismo è piuttosto complesso poiché, talvolta, un comportamento autolesionista può essere pericoloso per la vita. Vi è comunque un aumento del rischio di suicidio negli individui che praticano l'autolesionismo; infatti se ne trovano segni evidenti nel 40-60% dei suicidi. Bisogna però tenere presente che collegare l'autolesionista con un potenziale suicida è nella maggior parte dei casi inesatto.

Durante l'infanzia l'autolesionismo è piuttosto raro anche se dal 1980 i casi sono aumentati. Esso è anche indicato dal Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-IV-TR) come un sintomo del disturbo di personalità borderline. Inoltre esso si manifesta anche in soggetti che soffrono di depressione, disturbi d'ansia, abuso di sostanze, disturbo post traumatico da stress, schizofrenia e disturbi alimentari. L'autolesionismo è più comune durante l'adolescenza o la tarda adolescenza; di solito appare tra i 12 e 24 anni. Ma esso si può verificare a qualunque età, anche in soggetti anziani; in questo caso però l'autolesionismo è molto più pericoloso.

Tagliarsi, ma anche bruciarsi con le sigarette (burning) o marchiarsi a fuoco la pelle con un laser o un ferro rovente (branding) o grattarsi sino a farsi uscire il sangue, permette, in assenza di strategie più mature e funzionali, di ristabilire un equilibrio, di ricollocarsi nella propria vita, di esprimere la propria indipendenza affettiva dai genitori o una sfida nei confronti delle regole che questi ultimi vogliono imporre.

I segni e le cicatrici lasciati da questi gesti autodistruttivi racchiudono una sofferenza per la quale la persona non ha ancora trovato parole per raccontarla e spiegarla.

Cutting, burning e branding sono comportamenti particolarmente frequenti durante l’adolescenza. E questo non è un caso, se teniamo presente che il corpo che cambia, amato e al tempo stesso rifiutato, il corpo dove nasce il desiderio sessuale e in cui si radica l’identità è il terreno di battaglia di ogni adolescente, di ogni ragazzo e ragazza.

Con il tagliarsi, l’adolescente cerca una disperata via d’uscita dalla fatica per lui insostenibile della crescita, dal senso di fallimento per il non sentirsi in grado di farcela a diventare grande.

L’adolescente tenta così di affermare se stesso, utilizzando l’unica cosa su cui gli sembra di potere esercitare un controllo: il suo corpo.

Generalmente si crede che praticare autolesionismo significhi cercare attenzioni. Ma questo non è completamente esatto poiché in molti casi gli autolesionisti sono consapevoli delle proprie ferite e cicatrici e ciò provoca un senso di vergogna e di colpa che porta loro a fare di tutto per nascondere i segni con l'abbigliamento (bracciali, polsini ad esempio); cercano inoltre di nascondere le loro ferite a chi gli sta attorno montando scuse e bugie per spiegare i segni evidenti. In alcuni casi provocarsi ferite provoca un senso di piacere che allieva il dolore psicologico, infatti non si prova bruciore nel provocarsi questi danni. Com'è già stato suggerito prima il soggetto che pratica l'autolesionismo non lo fa di solito per porre fine alla propria vita; esso spesso è un modo per alleviare un disagio o un dolore emotivo: l'autolesionismo diventa così un modo di comunicare all'esterno il proprio disagio.

Le lesioni al cervello (trauma cranico con eventuale edema cerebrale) possono causare danni permanenti al sistema nervoso centrale, alla memoria, alle funzionalità motorie.

Negli adolescenti dagli 11 ai 14 anni, soprattutto nelle femmine, si riscontrano forme di autolesionismo praticato con tagli (cutting) o bruciature (burning) per dimostrare la propria indipendenza. Generalmente provocati sulle braccia, questi atti autolesionistici si evidenziano delle profonde cicatrici, che vengono coperte con bracciali o bandane.

Il termine automutilazione (self-mutilation) è comparso per la prima volta con gli studi di L.E Emerson nel 1913 in cui si evidenzia che l'autolesionismo è una simbolica alternativa alla masturbazione. Il termine ricompare anche nell'articolo nel 1935 e nel libro nel 1938 di Karl Menninger dove egli perfeziona le proprie definizioni concettuali di automutilazione. Il suo studio sull'autodistruzione ha fatto una distinzione tra comportamenti suicidi e di automutilazione. Secondo Menninger l'automutilazione era espressione non letale di un desiderio di morte attenuato e quindi coniò il termine suicidio parziale. Egli individuò sei tipi di mutilazione:

Nevrotico (mangiarsi le unghie, sottoporsi a inutili operazioni chirurgiche, depilazione eccessiva)
Pratiche religiose auto-flagellanti e altre
Riti praticati durante la pubertà (rimozione dell'imene, circoncisione, modificazione del clitoride)
Psicotico (amputazioni estreme, rimozione dell'occhio o dell'orecchio, automutilazione dei genitali)
Malattie organiche del cervello (sbattere la testa continuamente, mordersi la mano, rompersi un dito)
Comuni (rasatura della barba, tagliare capelli o unghie).
Nel 1969 Pao fece una differenziazione tra coloro che tagliano in modo "leggero" (bassa letalità) e coloro che tagliano in modo "grossolano" (alta letalità). Quelli che tagliano in modo attento sono giovani; generalmente producono tagli superficiali e soffrono di personalità borderline. Quelli che invece tagliano in modo meno preciso sono gli anziani e spesso soffrono di problemi psichici. Nel 1979 Ross e McKay divisero le automutilazioni in 9 possibili gruppi: tagli, morsi, abrasioni, recisioni, inserimento di corpi estranei, bruciature, ingestione o inalazione, colpi e costrizioni. Dopo il 1970 l'attenzione circa l'autolesionismo fu spostata dagli impulsi psicosessuali del paziente scoperti da Freud. Nel 1988 Walsh e Rosen crearono 4 categorie numerate secondo i numeri romani definendo forme di automutilazione le righe II, III, IV.

Nel 1993 Favazza e Rosenthal analizzarono centinaia di studi e divisero le automutilazioni in due categorie: automutilazioni stabilite culturalmente e automutilazioni patologiche, Favazza ha anche creato due sotto categorie delle automutilazioni stabilite prima: rituali e pratiche. I rituali sono mutilazioni ripetute di generazione in generazione che riflettono le tradizioni, il simbolismo e le credenze di una società. Le pratiche invece sono storicamente passeggere ed estetiche come il piercing su lobi delle orecchie, naso, sopracciglia, così come la circoncisione maschile (per i non ebrei) mentre le automutilazioni patologiche sono l'equivalente dell'autolesionismo.



È difficile trovare delle statistiche sicure e precise riguardo l'autolesionismo poiché la maggior parte delle persone tende a nascondere le proprie ferite e a vergognarsene. I dati si basano sui ricoveri ospedalieri, sugli studi psichiatrici e su alcune indagini sulla popolazione. Circa il 10% dei ricoveri nei reparti di medicina in Inghilterra sono dovuti all'autolesionismo; nella maggior parte dei casi a causa di un eccessivo abuso di sostanze (overdose). Tuttavia gli studi basati solo sui ricoveri ospedalieri potrebbero nascondere il grande numero di adolescenti autolesionisti perché non hanno bisogno e non cercano cure mediche. Infatti molti autolesionisti che si presentano in un ospedale qualsiasi presentano vecchie ferite che non sono state curate.

I migliori studi attuali indicano che i casi di autolesionismo sono molto diffusi tra i giovani dai 12 ai 24 anni; mentre si sono verificati pochissimi incidenti di autolesionismo tra bambini di età compresa tra i 5 e 7 anni. Nel 2008, Affinity Healthcare ha suggerito che i casi di autolesionismo tra giovani potrebbe essere alto come il 33%. Uno studio americano effettuato tra studenti universitari ha evidenziato che il 9,8% di loro, almeno una volta nella loro vita, ha avuto esperienze autolesioniste come tagli superficiali e bruciature. Quando parlando di autolesionismo ci si riferiva anche al battere la testa contro qualcosa o graffiare sé stessi la percentuale è salita al 32%. Questo dimostra che l'autolesionismo non è proprio di individui affetti da disturbi psichiatrici ma anche tra persone comuni, come giovani studenti.In Irlanda, invece, uno studio ha dimostrato che le persone autolesioniste vivono per lo più in città che in campagna. Inoltre, il CASE (Child & Adolescent Self-harm in Europe) ha evidenziato che il rischio di autolesionismo è 1:7 per le donne e 1:25 per gli uomini.

Nel 70% dei casi l'autolesionismo si presenta con il tagliare la pelle con un oggetto appuntito (come lamette). Tuttavia i modi con cui può essere effettuato sono limitati solo dall'inventiva dell'individuo e dalla reale intenzione e volontà di danneggiare il proprio corpo; per questo possiamo trovare anche casi di autolesionismo che si presentano con abuso di alcool, droghe, anoressia, bulimia. Di solito i tagli si presentano su aree del corpo che possono essere facilmente nascoste e/o non visibili dagli altri. L'autolesionismo può essere definito in termini di danneggiamento del proprio corpo ma sarebbe più corretto definirlo in termini di scopo per affrontare un problema, un'angoscia emotiva. Né DSM-IV-TR, né l'ICD-10 forniscono dei precisi criteri per diagnosticare l'autolesionismo: si è visto che l'autolesionismo è spesso un sintomo di un disturbo sottostante. Tuttavia recentemente (nel 2010) è stata formalmente mossa la proposta di includere l'autolesionismo come diagnosi distinta nella quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5). È difficile uscirne e colpisce molto spesso gli adolescenti fin dalla giovane età.

Anche se di solito chi pratica l'autolesionismo non soffre di disturbi mentali, è stato dimostrato che gli individui che hanno sperimentato problemi di salute mentale sono più portati a praticarlo. Le malattie che più comportano ciò sono disturbo della personalità borderline, disturbo bipolare, depressione, fobie, disturbi comportamentali e anche la schizofrenia. Per quanto riguarda gli schizofrenici (soprattutto nei soggetti giovani) essi hanno un alto rischio di suicidio. Accanto a questi disturbi si trova anche l'abuso di sostanze e spesso anche la tendenza a non saper risolvere i propri problemi e l'impulsività. L'autolesionismo si può manifestare negli individui che soffrono della sindrome di Münchhausen; essi si sottopongono a continui esami e perfino ad indagini invasive. Nella psicoanalisi classica freudiana l'autolesionismo psichico è ricondotto alla cosiddetta pulsione di morte.

A livello emotivo gli ambienti in cui i genitori puniscono i figli o li feriscono possono generare nella persona una mancanza di fiducia e difficoltà a provare emozioni con il rispettivo aumento dell'autolesionismo. Altri fattori che possono indurre all'autolesionismo sono abusi durante l'infanzia, la guerra e la povertà. Inoltre il 30% circa degli individui che soffrono di autismo ad un certo punto sfociano nell'autolesionismo ad esempio mordendosi la mano, battendo la testa, tagliando la pelle. Autori moderni hanno aperto alcuni dibattiti per discutere del fatto che l'autolesionismo può nascondere degli scopi psicologici: è stato dimostrato che alcuni individui usano l'autolesionismo per vivere abusi o traumi passati che non erano sotto il loro controllo. L'autolesionismo, quindi, può essere un modo per riavere il controllo sulla propria vita e riprendere la propria autonomia.

L'abuso di sostanze, la dipendenza e l'astinenza sono associati con l'autolesionismo. Dipendenza da benzodiazepine o riduzione delle benzodiazepine si presenta soprattutto nei giovani. Un altro fattore di rischio da non sottovalutare è l'abuso di alcool. Al pronto soccorso dell'Irlanda del nord si è visto come l'alcool è uno dei tanti modi con cui si presenta l'autolesionismo nel 63,8% dei casi. In Inghilterra e Norvegia sono stati fatti alcuni studi per capire l'effettivo legame tra l'assunzione di cannabis e l'autolesionismo; essi hanno evidenziato che nei giovani adolescenti non è un alto fattore di rischio.

Praticare l'autolesionismo può significare farsi del male e nello stesso tempo provare piacere, derivare da esso sollievo. Per alcuni tagliarsi può essere abbastanza problematico ma alla fine decidono di farlo lo stesso proprio perché pensano a quello che possono ottenere dopo. Questo sollievo per alcuni è psicologico; in altri esso è generato da endorfine beta rilasciate nel cervello. Le endorfine sono gli oppioidi endogeni che vengono rilasciate dopo una lesione fisica, agiscono come un antidolorifico naturale, inducono piacere e riducono lo stress emotivo e la tensione. Alcuni autolesionisti dicono di non provare nessun dolore mentre si feriscono; altri, invece, lo usano per provare piacere.

Al contrario per altri farsi del male significa provare qualcosa, anche se la sensazione è dolorosa e per niente piacevole. Queste persone manifestano sensazioni di vuoto e intorpidimento (anedonia) e perciò il dolore fisico può essere un modo per provare sollievo.

Si è molto incerti su quali trattamenti psicosociali e fisici siano utili per i soggetti che praticano l'autolesionismo; perciò sono necessari ulteriori studi clinici. In queste persone sono comuni disturbi psichiatrici e della personalità; di conseguenza si può supporre che l'autolesionismo sia indotto da depressione e/o altri problemi psicologici. Se l'autolesionismo è indotto da una grave o moderata depressione clinica gli antidepressivi possono essere un'ottima soluzione. La psicoterapia cognitivo-comportamentale può essere utilizzata per i soggetti con problemi di depressione, disturbo bipolare, schizofrenia. Invece la terapia comportamentale-dialettica può essere efficace con individui che soffrono di malattie mentali o che hanno un disturbo della personalità.

Un interessate studio medico statunitense ha preso in considerazione 4.000 persone autolesioniste, ricoverate in ospedale, e ne ha analizzato il motivo del ricovero. L'analisi ha riportato che circa l'80% dei soggetti aveva assunto una dose esagerata di farmaci e circa il 15% si era procurata dei tagli.
Tale osservazione non contrasta con quanto detto poc'anzi, in merito al modo più comune con cui gli autolesionisti si procurano danno: i tagli della pelle costituiscono la modalità più comune in generale, mentre le assunzioni esagerate di farmaci rappresentano la modalità che più frequentemente porta al ricovero.

In genere, gli autolesionisti recano danno a sé stessi successivamente a un momento di crisi, momento durante il quale i pensieri scatenanti il disturbo "si fanno sentire" in maniera più insistente.
Al termine della crisi, la situazione torna alla normalità e l'intenzione di farsi del male scompare gradualmente.
Quindi, le persone autolesioniste alternano momenti di serenità più o meno lunghi a momenti critici, in cui sentono il desiderio di procurarsi delle lesioni.

Chi soffre di autolesionismo può recarsi dei danni fisici letali.
Infatti, alcune intossicazioni da farmaci o prodotti nocivi, tagli assai profondi o alcuni colpi alla testa possono portare anche alla morte, specie se i soccorsi non sono immediati.
Inoltre, è importante ricordare il pericolo legato alle possibili complicanze di condizioni, quali l'anoressia nervosa, la bulimia o l'abuso di alcol.

Una persona che soffre di autolesionismo potrebbe necessitare di soccorsi immediati, se per esempio è in overdose da farmaci; ha abusato in maniera esagerata di sostanze alcoliche; ha perso coscienza; lamenta fortissimo dolore a seguito di un determinato colpo o lesione; manifesta gravi problemi respiratori; ha perso cospicue quantità di sangue a seguito di uno o più tagli; è in stato di shock in conseguenza a un taglio o a una bruciatura; ecc.
Diagnosi

In genere, le indagini mediche finalizzate alla diagnosi di autolesionismo prevedono un accurato esame obiettivo e un'analisi del profilo comportamentale e psicologico.
È importante delineare con precisione le caratteristiche di una condizione di autolesionismo, in quanto una diagnosi accurata permette ai medici curanti la pianificazione della terapia di supporto più adeguata.

Gran parte delle possibilità dei medici di diagnosticare con accuratezza l'autolesionismo dipende dalla sincerità dell'individuo sotto esame.
Le persone autolesioniste tendono a mentire in merito ai propri disturbi e, spesso, i percorsi di diagnosi risentono di questo anomalo comportamento.
La consapevolezza, da parte dei soggetti autolesionisti, di aver bisogno di assistenza medica è il punto di partenza per la descrizione precisa del disturbo in atto e per il raggiungimento della guarigione.

L'esame obiettivo consiste nella valutazione dello stato di salute generale del paziente, nella misurazione di alcuni suoi parametri corporei (peso, pressione sanguigna ecc.) e nell'osservazione, sul suo corpo, dei segni sospetti di autolesionismo.

Ferite, tagli e bruciature sono segni abbastanza evidenti.
Tuttavia, a un occhio esperto, lo possono essere anche i comportamenti e l'aspetto di chi ha abusato di sostanze alcoliche o farmaci.

L'analisi del profilo comportamentale e psicologico spetta, in genere, a un esperto in salute mentale e malattie psicologiche.
Brevemente, consiste in una serie di domande finalizzate a stabilire le modalità di autolesionismo e i motivi per i quali il paziente produce danno a sé stesso (quindi se è per una forma di depressione, se è per un trauma fisico subìto, se è per un trauma emotivo, se è per una grave malattia psicologica ecc).
Al termine di tale valutazione e con i dati raccolti durante l'esame obiettivo, il team di medici e specialisti che ha svolto le varie indagini è in grado di stilare una valutazione del caso sotto osservazione.
Punti che la diagnosi deve chiarire, al termine delle varie osservazioni:
Le relazioni interpersonali ed eventuali problemi di interazione sociale.
I modi con cui il paziente si procura danno.
Quanto spesso il paziente si reca danno.
Sentimenti o circostanze particolari che precedono l'intenzione di farsi del male.
Che cosa (se mai se ne è a conoscenza) riduce la tentazione di recarsi danno
Se l'intenzione di procurarsi danno è occasionale oppure persistente.
Quali sono i pensieri nel momento in cui i pazienti si producono delle lesioni.
Se l'autolesionismo è legato a qualche tendenza suicida.

Nella maggior parte dei casi, il trattamento dell'autolesionismo richiede la collaborazione di diversi specialisti – tra cui medici, psichiatri e psicologi – ed è di tipo psicologico (psicoterapia).
Tra i trattamenti di tipo psicologico, quelli più comunemente utilizzati (e forse più efficaci) sono: la psicoterapia cognitivo-comportamentale e la psicoterapia familiare.
Secondo alcuni esperti in materia di autolesionismo, sarebbe importante, ai fini terapeutici, anche la terapia di gruppo.
Il percorso di guarigione potrebbe richiedere diversi mesi di sedute terapeutiche, in quanto l'autolesionismo è un problema alquanto delicato e difficile da trattare.

La psicoterapia cognitivo-comportamentale consiste nel preparare il paziente a riconoscere e a dominare i sentimenti e i pensieri "distorti" che spingono a recare danno al proprio corpo.
Essa prevede una parte "in studio", con lo psicoterapeuta, e una parte "a casa", riservata all'esercizio e al miglioramento delle tecniche di dominio.

La psicoterapia familiare è un tipo di trattamento psicologico che interessa tutta la famiglia del paziente autolesionista
Brevemente, si basa sul concetto che i genitori, i fratelli e gli altri parenti più stretti giochino un ruolo determinante nel supportare il proprio caro, durante il percorso terapeutico previsto per lui.
Per ottenere buoni risultati dalla psicoterapia familiare, è bene che la famiglia impari le caratteristiche del disturbo in atto e come aiutare al meglio chi ne è sofferente.

La psicoterapia familiare risulta poco appropriata qualora l'autolesionismo sia legato a difficoltà familiari, come abusi sessuali o violenze praticate da uno dei due genitori.

La terapia di gruppo consiste in gruppi di persone con problematiche di uguale natura, che condividono i propri disturbi e si supportano a vicenda.
Rapportarsi con soggetti in situazioni analoghe rende più facile la condivisione dei propri problemi, fa sentire meno soli e può risultare estremamente utile ai fini terapeutici (per esempio, un paziente potrebbe consigliare a un altro una nuova strategia di dominio dei pensieri "distorti" e così via).

Una persona autolesionista su 3, che si è recata danni gravi una volta, ripete gli stessi gesti almeno un'altra volta durante lo stesso anno.
Si ricorda che una lesione grave potrebbe portare anche alla morte.
3 persone autolesioniste di lunga data (almeno 15 anni) ogni 100 arrivano a suicidarsi, poiché non riescono più a sostenere la causa che le spinge a farsi del male.
I tagli e le bruciature possono lasciare cicatrici permanenti. Inoltre, le lesioni a carico di nervi e tendini potrebbero compromettere definitivamente la capacità sensitiva di una determinata area del corpo o la sua adeguata funzionalità.

Secondo gli esperti del comportamento umano, le persone autolesioniste potrebbero trovare sollievo e superare i momenti di crisi in vari modi:
Parlando con qualcuno: se il soggetto autolesionista è solo, può utilizzare il telefono e chiamare un amico fidato o un parente.
Uscendo di casa è particolarmente indicato per tutti quei casi di autolesionismo in cui la causa scatenante è legata, in qualche modo, a un familiare.
Ascoltando della musica e cominciando un'attività nuova, al fine di trovare una distrazione.
Recandosi in un posto rilassante/confortante.
Trovando modi alternativi per esprimere i pensieri angosciosi, lo stress ecc.
Procurandosi dei dolori "innocui", come per esempio mangiare un cibo estremamente piccante o fare una doccia fredda.
Focalizzando la propria mente su qualcosa di positivo.
Concedendosi dei momenti di svago.
Raccogliendo in un diario personale o in una serie di lettere personali tutte le sensazioni indotte dall'autolesionismo.

Ci sono molti movimenti tra le varie comunità che si occupano di questo problema per sensibilizzare i professionisti e il pubblico in generale. Per esempio ogni 1 di marzo si svolge la giornata globale "Self-injury Awareness Day" (SIAD) per rendere più consapevoli le persone riguardo l'autolesionismo. Molte persone indossano per l'occasione un fiocco arancione simbolo di questa consapevolezza e per incoraggiare gli altri ad essere più aperti riguardo al proprio problema con le persone che li circondano e per aumentare la conoscenza generale.



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lunedì 11 luglio 2016

PERCHE' LO FAI?

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Le persone assumono droga perché vogliono cambiare qualcosa nella propria vita:
Per inserirsi
Per evadere o rilassarsi
Per ammazzare la noia
Per sembrare più grandi
Per ribellarsi
Per sperimentare
Loro pensano che le droghe siano una soluzione. Ma alla fine le droghe diventano il problema.

Anche se è difficile affrontare i propri problemi, le conseguenze dell’uso di droga sono sempre peggiori del problema che si sta cercando di risolvere. La vera risposta è quella di informarsi e di non far uso di droga in primo luogo.

Il modo più semplice con cui un individuo diventa tossicodipendente è il contatto con un gruppo che fa uso di droghe e nel quale, in maniera più o meno consapevole, sperimenta il desiderio di divertirsi e di provare sensazioni fuori dalla norma. Lo scopo apparentemente ricreativo dell'assunzione di droghe finisce spesso per mescolarsi con le dinamiche di gruppo, con il desiderio di essere accettati all'interno di un certo ambiente, di migliorare persino le proprie “prestazioni” sociali all'interno del gruppo (come avviene per esempio nella tossicodipendenza da cocaina) e magari di soddisfare le aspettative di una figura che viene riconosciuta come il capobranco. Il salto da un uso sporadico a quello abituale di droga – come ben sappiamo – è facile e frequente e, nel momento in cui le sostanze stupefacenti hanno innescato un meccanismo di dipendenza fisica, anche quella psicologica subentra: la persona tossicodipendente finisce per credere che senza la droga non potrà più reggere la gara con se stesso per l'appartenenza al gruppo e teme che il rifiuto possa causare l'estromissione dal gruppo stesso. 
Esistono poi tutta una serie di difficoltà esterne, che possono essere ricondotte ai rapporti familiari o più semplicemente interpersonali, al lavoro e alle aspettative dell'ambiente di lavoro, alle delusioni emotive, economiche e via discorrendo, che possono essere addotte come responsabili di un ricorso all'assunzione di droga. Di fatto si tratta di difficoltà comuni a molte persone e che da sole non possono spiegare l'inizio di una tossicodipendenza. Ecco perché qui si inseriscono fattori interiori, che fanno capo al disagio della persona.

La teoria di origine psicologica che cerca di spiegare la dipendenza dall'alcol e che ha fatto scuola nell'analisi delle altre forme di dipendenza vuole che il consumo di sostanze stupefacenti serva a rinforzare le esperienze piacevoli e ad allontanare quelle negative. Sotto gli effetti della dipendenza, il soggetto perde la consapevolezza che nessuna droga può farlo star meglio se non sta bene con se stesso e che la droga altro non fa che amplificare i propri stati d'animo. Depressione, ansia, impulso alla trasgressione, eccessiva sensibilità, insoddisfazione verso la propria vita, paura di affrontare la vita stessa, con le sue difficoltà e le sue responsabilità sono tutte motivazioni che possono spingere a cercare una soluzione nella droga, una risposta artificiale al proprio disagio. La droga diventa una forma di automedicazione e di rifugio da conflitti interiori, ammessi o non, ed esteriori.

L’adolescenza è un periodo molto particolare per lo sviluppo dell’identità, ci si allontana dalla famiglia, con cui si entra spesso in opposizione, ci si identifica con il gruppo dei pari, il corpo matura con una velocità maggiore rispetto alla psiche, e si muovono i primi passi verso l’autonomia.
I genitori accettano con difficoltà questa fase, perché vengono a perdere un ruolo di primaria importanza nella vita dei figli, si rendono conto che anche per loro il tempo passa, e che tutte le attenzioni spese nella cura dei figli, vanno rimodulate se intendono favorire il processo che li porterà allo svincolo.




Questo processo che dovrebbe essere naturale e sano, può avvenire in modo problematico per differenti motivi: difficoltà da parte dei genitori a favorire lo svincolo; insicurezza da parte dei figli nello svincolarsi; presenza di malattie fisiche o psichiche in uno dei membri; esperienze di un lutto o di separazioni improvvise, etc… Il non riuscire svincolarsi dalla propria famiglia, equivale a restare in una posizione di dipendenza, questa è in genere la caratteristica di chi inizia a far uso di droghe.
Naturalmente solo una minima parte di adolescenti che hanno una problematica di dipendenza potrebbe diventare un tossicodipendente, anche perché non è detto che provare una sostanza, porterà conseguentemente alla dipendenza da essa.

Sono molteplici i motivi per cui ci si avvicina all’uso di una droga e in genere avviene con molta superficialità, poiché le viene attribuita la funzione di fornire delle risposte immediate ai seguenti bisogni e desideri personali:
 alterare gli stati di coscienza e espandere i livelli di consapevolezza personale;
sperimentare nuove sensazioni per ricercare una dimensione diversa da quella della quotidianità;
facilitare l’integrazione col gruppo dei pari;
rendere più soddisfacente l’immagine di sé favorendo sentimenti di maggior efficacia e controllo personale;
rafforzare l’autostima, riducendo autovalutazioni negative o favorendo la definizione dell’identità;
essere aiutati ad affrontare differenti esperienze personali di disagio.
Nonostante sia abbastanza frequente la possibilità di entrare in contatto con le droghe, non tutti diventeranno dei consumatori abituali. La tossicodipendenza è una malattia che si fonda sull’intenso desiderio psichico della droga, la cui funzione è simile a quella di un farmaco.
Gli studi sulle famiglie dei tossicodipendenti, fatti secondo un’ottica relazionale, hanno permesso di evidenziare che il disagio psichico di uno dei membri costituisce il segnale di un malessere più esteso che riguarda il gruppo familiare rispetto ai compiti evolutivi del ciclo vitale. In questa prospettiva il fenomeno della tossicodipendenza è visto come un modo per perpetuare la storia familiare in maniera ripetitiva, dove le posizioni dei singoli membri si trovano in una configurazione relazionale immobile.

Il drogarsi assume una duplice funzione relazionale: da una parte permette al tossicomane di essere distante e indipendente, dall'altra lo rende dipendente in termini di danaro, di mantenimento e fedele alla famiglia.

Malgrado la voglia di indipendenza, la maggioranza dei tossicomani tende a mantenere stabili legami con l'ambiente familiare restandovi a vivere a lungo nel tempo. Nella fase in cui si dovrebbe attuare lo svincolo adolescenziale, l’esterno viene avvertito come minaccioso e si ha la percezione della casa come microcosmo sociale in cui rinchiudersi.
Per il tossicodipendente l’uso della sostanza, con le sue qualità anestetizzanti, può impedire di pensare e di sentire il disagio presente dentro di lui. La presenza di un figlio con problematiche di tossicodipendenza può avere un beneficio secondario per una coppia genitoriale in crisi, poiché può servire a mantenere insieme i genitori o a raggiungere l’obiettivo di far interrompere un litigio tra loro. Si può parlare di una frequente triangolazione del paziente in un rapporto preferenziale col genitore che sente più in difficoltà in una coppia in crisi.
Egli ha il ruolo, emotivamente difficile, di mediare la tensione latente tra i genitori e di colmare artificialmente un vuoto affettivo.

In questi giochi di triangolazione il figlio svolgerebbe la funzione di contenimento e di mascheramento di conflitti genitoriali perché focalizzando l’attenzione sul proprio disagio, li permette di rimandare la ricerca di nuove soluzioni per superare i motivi di insoddisfazione reciproca. Il paziente sembra accentrare su di sé le tensioni familiari poiché è demandato a lui di rappresentare un centro focale intorno a cui la famiglia si aggrega. Il tossicomane e la famiglia hanno difficoltà a trattenere i contenuti mentali emozionanti che spesso vengono trasformati in agiti, questo è il motivo per cui spesso le emozioni appaiono sotto forma di aggressività fisica o verbale. Riuscire ad uscire da questo stato di malessere, è difficile ma non impossibile.



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mercoledì 7 ottobre 2015

IL lavoro dell'ASSISTENTE SOCIALE

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L'Assistente sociale lavora sulle situazioni di disagio e di emarginazione di singole persone, di nuclei familiari e di particolari categorie.

L'assistente sociale lavora a stretto contatto con persone o nuclei familiari in gravi situazioni di disagio. Le categorie che solitamente beneficiano di questa professionalità sono i minori, gli anziani, i tossicodipendenti, i portatori di handicap e gli immigrati. Risulta già ben chiaro come possano essere tantissimi i compiti di questi professionisti che devono essere in grado di relazionarsi con una moltitudine diversa di interlocutori.

Negli anni ’20, a Milano nasce l’Istituto Italiano di Assistenza Sociale in cui operano enti chiamati "segreterie sociali", con lo scopo di facilitare ai lavoratori l’accesso alle opere sociali. Padina Tarugi viene ricordata come una pioniera del servizio sociale italiano; ad essa viene riconosciuto il merito di aver favorito la fondazione della prima scuola di servizio sociale (Roma, 1928), che risentirà però a livello di impostazione del clima del tempo.

Nel 1944 a Milano il sacerdote don Paolo Liggeri e l’assistente sociale francese Odile Vallil danno avvio alla prima scuola per la preparazione di assistenti sociali e ciò segna l’effettiva nascita del servizio sociale in Italia.

Il Convegno degli studi di Tremezzo (Como) svoltosi dal 16 settembre al 6 ottobre del 1946 segna in maniera definitiva che nel contesto italiano vi fu un fermento generale per il riconoscimento di tale professione; l’ideazione e l’ effettiva creazione del CEPAS di Roma e della Scuola UNSAS di Milano sono da collocarsi proprio a Tremezzo.

Così, tra il 1945 e il 1949 nacquero sette scuole di servizio sociale, con il sostegno di privati e dell’A.A.I., diffondendosi poi in tutto il Paese. Dal 1946, numerose scuole si riunirono nei gruppi E.N.S.I.S.S., U.N.S.A.S. e O.N.A.R.M.O. per due motivi: per sostenersi nell’impostazione didattica e negli scambi culturali; per unirsi in base alla specifica impostazione filosofico - religiosa ( gli unici però a dare alla formazione degli assistenti sociali un’impostazione religiosa saranno i gruppi dell’O.N.A.R.M.O.).

La professione di assistente sociale ha sempre messo al centro del suo intervento la vita delle persone e le situazioni vengono affrontate con particolare dedizione, con un’alchimia di passione mista a conoscenza. I valori alla base del servizio sociale, infatti, possono essere sintetizzati nel valore di umanità dell’uomo, cioè nel riconoscere la dignità e la libertà di ciascuna persona.

L’assistente sociale ha sviluppato nel tempo la sua identità, basandosi sempre su valori e principi costanti, riuscendo a raggiungere un primo traguardo con il riconoscimento ufficiale della professione mediante l’istituzione dell’Ordine professionale degli Assistenti Sociali (L. 23 marzo 1994, n. 84). Questo ha rappresentato un momento di svolta, perché ha identificato il gruppo di appartenenza e ha dato la possibilità di rilanciare la professione stessa.

La successiva importante conquista dopo questa, è stata l’emanazione del Codice Deontologico professionale dell’Assistente Sociale nel 1998, che ha ufficializzato i principi guida e ha assunto la funzione di sostenere la categoria professionale. L’esistenza di tale codice non crea di per sé l’agire professionale, ma è un segno significativo dell’elevato livello di stabilità e di organizzazione raggiunto dalla professione. «Esso giustifica per molte ragioni, in quanto rende pubbliche e manifeste le norme interne di una professione, forma e stimola una coscienza deontologica, dirige l’azione in casi concreti, favorisce l’unità professionale e ne incrementa l’autonomia, protegge gli utenti e infine protegge la professionalità, in quanto offre le basi non solo per le sanzioni, ma anche per l’autodifesa».

In primo luogo è necessario nuovamente sottolineare che l’azione dell’assistente sociale viene fatta nel rispetto di tutti i diritti universalmente riconosciuti e sulle qualità originarie di ogni singolo soggetto. "Il servizio sociale si basa sulla concezione che l’uomo è un valore in quanto dotato di infinite potenzialità, capace di libertà e di autonomia, in grado di compiere scelte consapevoli e creative, di assumersi responsabilità e di prendersi cura degli altri, in grado di dominare le leggi della natura attraverso studi e attività che esprimono il suo infinito potere di ricerca".

Il rispetto verso la persona umana in quanto tale è legato al principio di accettazione di ogni persona per quello che è. Nel momento in cui si stabilisce un primo contatto con l’utente-cliente, infatti, è necessario che l’assistente sociale non esprima giudizi di valore in merito alla situazione che l’individuo si ritrova ad affrontare, per non fargli vivere quel momento come fallimento, facendo diminuire di conseguenza la sua autostima. Al contrario è essenziale che l’assistente sociale riesca a creare durante i colloqui un’atmosfera non intrinseca solo dell’odore istituzionale, ma soprattutto di disponibilità all’ascolto e alla comprensione. Ciò sarebbe la base per creare un possibile rapporto di fiducia, in cui l’utente-cliente riesca ad acquisire una maggiore fiducia in se stesso, compiendo i primi passi verso un nuovo percorso di vita e diventando sempre più consapevole delle sue effettive potenzialità. Il non giudicare dell’assistente sociale nella relazione di aiuto indica una visione del bisogno non come fatto morale ma come fatto scientifico, quindi da studiare e comprendere.

L’unicità e la soggettività di ciascun utente-cliente deve essere riconosciuta dall’assistente sociale per poter effettuare un intervento adatto al soggetto. Le azioni dell’assistente sociale devono cioè essere rivolte ad un soggetto che ha un pensiero, una sensibilità, delle emozioni e delle potenzialità proprie dalle quali non si può assolutamente prescindere nel momento dell’intervento, che anzi sarà costruito proprio tenendo conto della specificità delle persone cui ci si riferisce.

Una formulazione di Kant sottolinea come "nella propria persona e in quella di qualsiasi altro non si veda unicamente uno strumento ma sempre anche un fine". Con ciò egli intende che noi dovremmo trattare gli altri come esseri che hanno mete (ossia scelte e desideri), e non soltanto come oggetti o strumenti per i nostri fini. Si viene ad affermare così il valore assoluto dell’uomo come unico e irripetibile, considerato quindi un sé, per un fine e mai un mezzo.

L’assistente sociale deve, perciò disporre di una conoscenza approfondita degli elementi teorici appartenenti a più aree scientifiche, necessari per l’interpretazione del comportamento umano. Ciò è essenziale per riuscire a mettere in atto una personalizzazione dell’intervento per promuovere autonomia e responsabilità.

L’assistente sociale deve considerare e accogliere la persona come "unica e distinta da altre analoghe situazioni" e deve saperla collocare "entro il suo contesto di vita, di relazione e di ambiente". È essenziale tener presente, appunto, che la persona vive all’interno di una fitta rete di relazioni tra diversi sistemi e che è, quindi, in stretto contatto con concetti di interdipendenza e continuità. È proprio nei rapporti con l’esterno, però, che le persone possono incontrare delle difficoltà che le portano ad una condizione di "crisi", infatti spesso il problema è proprio la rottura, la mancata integrazione fra le parti di cui sono composte, che minaccia la loro autonomia e distorce le relazioni sociali.

Pertanto il compito dell’assistente sociale è quello di cercare di ricostruire tali legami per ricomporre prima di tutto l’unitarietà della persona. Il professionista deve tendere a riconoscere e valorizzare l’utente-cliente e presuppone una nuova visione dell’intervento che non si incentra sulla cura della patologia, ma sul potenziamento di funzioni - individuali e sociali - di apprendimento sociale, sostenendolo nell’uso delle risorse proprie e della società. In tal caso l’assistente sociale si ritrova a dover svolgere una funzione di raccordo e connessione di risorse.

Riportando la definizione, data da un dizionario di lingua italiana, l’autodeterminazione è "l’atto secondo cui l’uomo si determina secondo la propria legge: espressione della libertà positiva dell’uomo, e quindi della responsabilità e imputabilità di ogni suo volere e azione".

Tale principio può essere considerato quello che maggiormente identifica l’operato dell’assistente sociale e che lo contraddistingue principalmente dagli altri operatori. Poiché il servizio sociale valorizza la libertà come risorsa fondamentale, che deriva dal rispetto che va garantito ed assicurato alla persona, tale principio dovrà essere presente in ogni momento del processo di aiuto e in ogni relazione instaurata dall’assistente sociale.

L’utente-cliente, infatti, non è attore passivo nella relazione e nel processo di aiuto, ma ne deve essere il principale attore che si impegna attivamente, una volta consapevole delle proprie risorse, nel portare avanti, fase per fase, il proprio progetto personale per liberarsi dal suo bisogno. In questo progetto l’assistente sociale deve aiutare l’utente-cliente a procedere verso il raggiungimento degli obiettivi, ma non si deve sostituire a lui, per permettergli di prendere le sue decisioni in libertà e con responsabilità.

Tale progetto, infatti, non può essere chiaro e definito fin dall’inizio, ma è compito dell’assistente sociale, prima di tutto, portare l’utente ad avere consapevolezza della situazione in cui si trova, per poi poter realizzare man mano ciascuna fase progettuale. Saranno necessarie delle fasi intermedie di rivisitazione degli obiettivi, che possono variare in base sia ai passi compiuti dall’utente, che anche da cause esterne, e quindi dai rapporti che magari vengono a instaurarsi nuovamente con l’esterno.

Una maggiore presa di coscienza dell’utente, lo porta a crescere, a raggiungere la propria autonomia e anche a riconoscere le proprie responsabilità, in quanto cercherebbe di prendersi carico delle proprie problematiche e di affrontarle una per una con calma e consapevolezza dei propri limiti.

L’assistente sociale, nella relazione di aiuto, deve promuovere le condizioni favorevoli per una riabilitazione con l’utente-cliente. Il processo di cambiamento non dipende solo dalla volontà della persona di intraprenderlo e quindi dalla maggior consapevolezza, ma è ottenuto da quel percorso da cui si è partiti, dal suo sistema di valori, per individuare ed attivare tutte le risorse possibili nel processo di cambiamento. Questo è un processo lento che richiede enorme pazienza, in cui l’assistente sociale si deve adattare possibilmente ai tempi degli utenti senza forzarli o affrettarli, riconoscendo i ritmi di ciascuno.

Il Principio del Rispetto e della Promozione dell’Uguaglianza deriva dal valore che ogni uomo è uguale ad un altro in quanto a dignità e a godimento dei diritti fondamentali, che porta l’assistente sociale a svolgere la sua azione professionale senza alcuna discriminazione di alcun genere ("di età, di sesso, di stato civile, di razza, di nazionalità, di religione, di condizione sociale, di ideologia politica, di minorazione mentale o fisica, o di qualsiasi differenza o caratteristica personale").

Questo principio, che si rifà sia agli articoli 1 e 7 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che all’art. 3 della Costituzione della repubblica Italiana, "non solo non nega le differenze, ma anzi da un’appropriata constatazione delle differenze, impone attività differenziate in modo che tutti possano disporre di pari opportunità e godere effettivamente di uguali diritti, in un’ottica di giustizia ed equità sociale".

Il Capo III del Titolo III del Codice Deontologico è interamente dedicato alla riservatezza e al segreto professionale. Temi molto importanti nella relazione che si instaura tra assistente sociale ed utente o cliente. Si sottolinea, infatti, che per la particolare natura del rapporto professionale, e cioè di fiducia che si viene a creare, l’assistente sociale deve trattare con riservatezza "le informazioni e i dati riguardanti" gli utenti e clienti, e "deve ricevere l’esplicito consenso degli interessati, o dei loro legali rappresentanti, ad eccezione dei casi previsti dalla legge" per l’uso o per la trasmissione di questi.

Come prima prerogativa si sottolinea che la riservatezza e il segreto professionale sono diritto dell’utente e del cliente e dovere dell’assistente sociale. Inoltre, si può ricordare che il "carattere fiduciario che viene instaurato con gli utenti", rappresenta da sempre, per gli assistenti sociali, un valore professionale prima che un obbligo, un dovere etico prima che giuridico. È importante, quindi, nell’ambito del rapporto fiduciario, la capacità di coinvolgere al massimo gli utenti nella scelta dei contenuti per le comunicazioni ad altri delle informazioni che li riguardano.

Il Servizio Sociale ha come obiettivo quello di aiutare la persona o la collettività a risolvere i problemi attraverso il cambiamento delle situazioni usando le capacità delle persone coinvolte e le risorse disponibili.
Gli obiettivi vengono scelti in base ai mezzi, alle risorse, in base alle conoscenze teoriche sull’uomo e sulla società, in base ad alcuni valori guida.
Gli obiettivi possono essere generali o specifici, tesi ad un cambiamento a livello individuale, collettivo, istituzionale e delle politiche sociali.

Creare raccordi tra bisogni e risorse:
attivando un sistema di aiuto intorno ai problemi del singolo e della collettività
favorendo e migliorando i rapporti e le relazioni tra gli individui e fra gli individui e i sistemi di risorse
rendendo l’ambiente di vita delle persone promozionale ed educativo per persone e gruppi
Aiutare le persone a sviluppare conoscenze e capacità per affrontare e risolvere i propri problemi assistenziali con senso di responsabilità e autonomia attraverso l’attivazione delle proprie risorse personali, familiari e con quelle predisposte dalla società
Aiutare la collettività a:
individuare i propri bisogni
attivare le reti di solidarietà naturali, i processi di partecipazione, il volontariato organizzato al fine di creare nuove risorse per la soluzione di problemi individuali e collettivi
Progettare, organizzare, gestire i servizi e le risorse in mdo personalizzato e non emarginante, perchè siano veramente corrispondenti i bisogni individuali e collettivi
Evidenziare, studiare e analizzare i problemi collettivi al fine di contribuire alla progettazione e alla realizzazione di un adeguato sistema di servizi nell’ambito delle linee guida delle politiche sociali nazionali e locali
Lavorare per l’uguaglianza delle opportunità per ogni utente

La funzione curativo-riparitiva viene attivata con persone o gruppi che chiedono aiuto a causa di bisogni complessi, sotto il profilo fisico, psichico e sociale.
E’ prevista l’attivazione le risorse personali, istituzionali e comunitarie al fine di avviare il processo di cambiamento e il raggiungimento dell’autonomia.

ORGANIZZATIVA-GESTIONALE è  una funzione propria delle organizzazioni che devono adeguare i servizi e le prestazioni attraverso la lettura dei bisogni e della domanda sociale, nell’ottica del potenziamento delle risorse.

PREVENTIVO PROMOZIONALE è proiettata verso l’esterno dell’organizzazione, e vuole favorire i processi di integrazione tra servizi, la cooperazione, lo scambio sistematico delle informazioni, il cambiamento delle politiche sociali in base all’evoluzione dei bisogni, la crescita della solidarietà comunitaria, l’analisi costante e il monitoraggio dei fenomeni sociali. E’ una funzione importante perchè consente di raccogliere le informazioni indispensabili per operare scelte programmatiche dei servizi e del sistema istituzionale.

Poi ci sono delle funzioni condivise con altre professioni:

programmazione, organizzazione e gestione di servizi sociali;
attività di indagine, studio, ricerca, monitoraggio e documentazione.

Il sistema di sicurezza sociale italiano è stato interessato, a partire dagli ultimi 30-40 anni, da un processo di rinnovamento che ha interessato sia il livello delle competenze amministrative che quello delle modalità di intervento degli attori chiamati in causa nella gestione ed erogazione dei servizi. Tale processo ha avuto inizio negli anni ’70 con l’istituzione delle Regioni. Successivamente con il D.P.R. 616 del 1977 si realizzò il decentramento cioè il trasferimento, alle Regioni, delle funzioni amministrative e in particolare con l’attribuzione, ai Comuni, delle funzioni di organizzazione dei servizi sociali. Ulteriori innovazioni vennero introdotte negli anni 90 e in particolare con la prima legge Bassanini (L. n°59 del 1997) che introdusse il principio di sussidiarietà in base al quale le decisioni vengono prese dall’organo di governo più vicino ai cittadini (il Comune) e cioè da quello che è maggiormente in grado di interpretare i bisogni e le risorse della comunità territoriale di riferimento. Tale principio ha portato allo sviluppo di modelli organizzativo- istituzionali che attribuiscono ai Comuni la titolarità delle funzioni amministrative riguardanti i servizi sociali e che valorizzano la collaborazione tra pubblico e privato. Questo quadro di ridefinizione del rapporto Stato-Regioni- Enti locali è stato completato attraverso l’introduzione della Legge Quadro di Riforma dell’assistenza, la L. 328 del 2000 e dalla Riforma del Titolo V della Costituzione (L. 3 del 2001).

La legge n° 328 del 2000 –“Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali” ha ridefinito il profilo delle politiche sociali apportando tutta una serie di elementi di novità. Questa legge si colloca in un vuoto legislativo di oltre 110 anni in cui è mancata una regolamentazione organica dei servizi socio-assistenziali. Prima della 328, infatti, solo la Legge Crispi del 1890 aveva costituito la norma organica di riferimento per l’assistenza sociale. Tra le due norme numerosi sono stati i cambiamenti e le riforme ma solo con la legge del 2000 si è giunti alla creazione di un quadro normativo unitario valido per l’intero territorio nazionale.

Essa ha innanzitutto segnato il passaggio dalla concezione di utente quale portatore di un bisogno specialistico a quella di persona nella sua totalità costituita anche dalle sue risorse e dal suo contesto familiare e territoriale; quindi il passaggio da una accezione tradizionale di assistenza, come luogo di realizzazione di interventi meramente riparativi del disagio, ad una di protezione sociale attiva, luogo di rimozione delle cause di disagio ma soprattutto luogo di prevenzione e promozione dell’inserimento della persona nella società attraverso la valorizzazione delle sue capacità.

L’attenzione con tale legge si è spostata poi:

dalla prestazione disarticolata al progetto di intervento e al percorso accompagnato;
dalle prestazioni monetarie volte a risolvere problemi di natura esclusivamente economica a interventi complessi che intendono rispondere ad una molteplicità di bisogni;
dall’azione esclusiva dell’ente pubblico a una azione svolta da una pluralità di attori quali quelli del terzo settore.



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