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mercoledì 7 ottobre 2015

IL lavoro dell'ASSISTENTE SOCIALE

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L'Assistente sociale lavora sulle situazioni di disagio e di emarginazione di singole persone, di nuclei familiari e di particolari categorie.

L'assistente sociale lavora a stretto contatto con persone o nuclei familiari in gravi situazioni di disagio. Le categorie che solitamente beneficiano di questa professionalità sono i minori, gli anziani, i tossicodipendenti, i portatori di handicap e gli immigrati. Risulta già ben chiaro come possano essere tantissimi i compiti di questi professionisti che devono essere in grado di relazionarsi con una moltitudine diversa di interlocutori.

Negli anni ’20, a Milano nasce l’Istituto Italiano di Assistenza Sociale in cui operano enti chiamati "segreterie sociali", con lo scopo di facilitare ai lavoratori l’accesso alle opere sociali. Padina Tarugi viene ricordata come una pioniera del servizio sociale italiano; ad essa viene riconosciuto il merito di aver favorito la fondazione della prima scuola di servizio sociale (Roma, 1928), che risentirà però a livello di impostazione del clima del tempo.

Nel 1944 a Milano il sacerdote don Paolo Liggeri e l’assistente sociale francese Odile Vallil danno avvio alla prima scuola per la preparazione di assistenti sociali e ciò segna l’effettiva nascita del servizio sociale in Italia.

Il Convegno degli studi di Tremezzo (Como) svoltosi dal 16 settembre al 6 ottobre del 1946 segna in maniera definitiva che nel contesto italiano vi fu un fermento generale per il riconoscimento di tale professione; l’ideazione e l’ effettiva creazione del CEPAS di Roma e della Scuola UNSAS di Milano sono da collocarsi proprio a Tremezzo.

Così, tra il 1945 e il 1949 nacquero sette scuole di servizio sociale, con il sostegno di privati e dell’A.A.I., diffondendosi poi in tutto il Paese. Dal 1946, numerose scuole si riunirono nei gruppi E.N.S.I.S.S., U.N.S.A.S. e O.N.A.R.M.O. per due motivi: per sostenersi nell’impostazione didattica e negli scambi culturali; per unirsi in base alla specifica impostazione filosofico - religiosa ( gli unici però a dare alla formazione degli assistenti sociali un’impostazione religiosa saranno i gruppi dell’O.N.A.R.M.O.).

La professione di assistente sociale ha sempre messo al centro del suo intervento la vita delle persone e le situazioni vengono affrontate con particolare dedizione, con un’alchimia di passione mista a conoscenza. I valori alla base del servizio sociale, infatti, possono essere sintetizzati nel valore di umanità dell’uomo, cioè nel riconoscere la dignità e la libertà di ciascuna persona.

L’assistente sociale ha sviluppato nel tempo la sua identità, basandosi sempre su valori e principi costanti, riuscendo a raggiungere un primo traguardo con il riconoscimento ufficiale della professione mediante l’istituzione dell’Ordine professionale degli Assistenti Sociali (L. 23 marzo 1994, n. 84). Questo ha rappresentato un momento di svolta, perché ha identificato il gruppo di appartenenza e ha dato la possibilità di rilanciare la professione stessa.

La successiva importante conquista dopo questa, è stata l’emanazione del Codice Deontologico professionale dell’Assistente Sociale nel 1998, che ha ufficializzato i principi guida e ha assunto la funzione di sostenere la categoria professionale. L’esistenza di tale codice non crea di per sé l’agire professionale, ma è un segno significativo dell’elevato livello di stabilità e di organizzazione raggiunto dalla professione. «Esso giustifica per molte ragioni, in quanto rende pubbliche e manifeste le norme interne di una professione, forma e stimola una coscienza deontologica, dirige l’azione in casi concreti, favorisce l’unità professionale e ne incrementa l’autonomia, protegge gli utenti e infine protegge la professionalità, in quanto offre le basi non solo per le sanzioni, ma anche per l’autodifesa».

In primo luogo è necessario nuovamente sottolineare che l’azione dell’assistente sociale viene fatta nel rispetto di tutti i diritti universalmente riconosciuti e sulle qualità originarie di ogni singolo soggetto. "Il servizio sociale si basa sulla concezione che l’uomo è un valore in quanto dotato di infinite potenzialità, capace di libertà e di autonomia, in grado di compiere scelte consapevoli e creative, di assumersi responsabilità e di prendersi cura degli altri, in grado di dominare le leggi della natura attraverso studi e attività che esprimono il suo infinito potere di ricerca".

Il rispetto verso la persona umana in quanto tale è legato al principio di accettazione di ogni persona per quello che è. Nel momento in cui si stabilisce un primo contatto con l’utente-cliente, infatti, è necessario che l’assistente sociale non esprima giudizi di valore in merito alla situazione che l’individuo si ritrova ad affrontare, per non fargli vivere quel momento come fallimento, facendo diminuire di conseguenza la sua autostima. Al contrario è essenziale che l’assistente sociale riesca a creare durante i colloqui un’atmosfera non intrinseca solo dell’odore istituzionale, ma soprattutto di disponibilità all’ascolto e alla comprensione. Ciò sarebbe la base per creare un possibile rapporto di fiducia, in cui l’utente-cliente riesca ad acquisire una maggiore fiducia in se stesso, compiendo i primi passi verso un nuovo percorso di vita e diventando sempre più consapevole delle sue effettive potenzialità. Il non giudicare dell’assistente sociale nella relazione di aiuto indica una visione del bisogno non come fatto morale ma come fatto scientifico, quindi da studiare e comprendere.

L’unicità e la soggettività di ciascun utente-cliente deve essere riconosciuta dall’assistente sociale per poter effettuare un intervento adatto al soggetto. Le azioni dell’assistente sociale devono cioè essere rivolte ad un soggetto che ha un pensiero, una sensibilità, delle emozioni e delle potenzialità proprie dalle quali non si può assolutamente prescindere nel momento dell’intervento, che anzi sarà costruito proprio tenendo conto della specificità delle persone cui ci si riferisce.

Una formulazione di Kant sottolinea come "nella propria persona e in quella di qualsiasi altro non si veda unicamente uno strumento ma sempre anche un fine". Con ciò egli intende che noi dovremmo trattare gli altri come esseri che hanno mete (ossia scelte e desideri), e non soltanto come oggetti o strumenti per i nostri fini. Si viene ad affermare così il valore assoluto dell’uomo come unico e irripetibile, considerato quindi un sé, per un fine e mai un mezzo.

L’assistente sociale deve, perciò disporre di una conoscenza approfondita degli elementi teorici appartenenti a più aree scientifiche, necessari per l’interpretazione del comportamento umano. Ciò è essenziale per riuscire a mettere in atto una personalizzazione dell’intervento per promuovere autonomia e responsabilità.

L’assistente sociale deve considerare e accogliere la persona come "unica e distinta da altre analoghe situazioni" e deve saperla collocare "entro il suo contesto di vita, di relazione e di ambiente". È essenziale tener presente, appunto, che la persona vive all’interno di una fitta rete di relazioni tra diversi sistemi e che è, quindi, in stretto contatto con concetti di interdipendenza e continuità. È proprio nei rapporti con l’esterno, però, che le persone possono incontrare delle difficoltà che le portano ad una condizione di "crisi", infatti spesso il problema è proprio la rottura, la mancata integrazione fra le parti di cui sono composte, che minaccia la loro autonomia e distorce le relazioni sociali.

Pertanto il compito dell’assistente sociale è quello di cercare di ricostruire tali legami per ricomporre prima di tutto l’unitarietà della persona. Il professionista deve tendere a riconoscere e valorizzare l’utente-cliente e presuppone una nuova visione dell’intervento che non si incentra sulla cura della patologia, ma sul potenziamento di funzioni - individuali e sociali - di apprendimento sociale, sostenendolo nell’uso delle risorse proprie e della società. In tal caso l’assistente sociale si ritrova a dover svolgere una funzione di raccordo e connessione di risorse.

Riportando la definizione, data da un dizionario di lingua italiana, l’autodeterminazione è "l’atto secondo cui l’uomo si determina secondo la propria legge: espressione della libertà positiva dell’uomo, e quindi della responsabilità e imputabilità di ogni suo volere e azione".

Tale principio può essere considerato quello che maggiormente identifica l’operato dell’assistente sociale e che lo contraddistingue principalmente dagli altri operatori. Poiché il servizio sociale valorizza la libertà come risorsa fondamentale, che deriva dal rispetto che va garantito ed assicurato alla persona, tale principio dovrà essere presente in ogni momento del processo di aiuto e in ogni relazione instaurata dall’assistente sociale.

L’utente-cliente, infatti, non è attore passivo nella relazione e nel processo di aiuto, ma ne deve essere il principale attore che si impegna attivamente, una volta consapevole delle proprie risorse, nel portare avanti, fase per fase, il proprio progetto personale per liberarsi dal suo bisogno. In questo progetto l’assistente sociale deve aiutare l’utente-cliente a procedere verso il raggiungimento degli obiettivi, ma non si deve sostituire a lui, per permettergli di prendere le sue decisioni in libertà e con responsabilità.

Tale progetto, infatti, non può essere chiaro e definito fin dall’inizio, ma è compito dell’assistente sociale, prima di tutto, portare l’utente ad avere consapevolezza della situazione in cui si trova, per poi poter realizzare man mano ciascuna fase progettuale. Saranno necessarie delle fasi intermedie di rivisitazione degli obiettivi, che possono variare in base sia ai passi compiuti dall’utente, che anche da cause esterne, e quindi dai rapporti che magari vengono a instaurarsi nuovamente con l’esterno.

Una maggiore presa di coscienza dell’utente, lo porta a crescere, a raggiungere la propria autonomia e anche a riconoscere le proprie responsabilità, in quanto cercherebbe di prendersi carico delle proprie problematiche e di affrontarle una per una con calma e consapevolezza dei propri limiti.

L’assistente sociale, nella relazione di aiuto, deve promuovere le condizioni favorevoli per una riabilitazione con l’utente-cliente. Il processo di cambiamento non dipende solo dalla volontà della persona di intraprenderlo e quindi dalla maggior consapevolezza, ma è ottenuto da quel percorso da cui si è partiti, dal suo sistema di valori, per individuare ed attivare tutte le risorse possibili nel processo di cambiamento. Questo è un processo lento che richiede enorme pazienza, in cui l’assistente sociale si deve adattare possibilmente ai tempi degli utenti senza forzarli o affrettarli, riconoscendo i ritmi di ciascuno.

Il Principio del Rispetto e della Promozione dell’Uguaglianza deriva dal valore che ogni uomo è uguale ad un altro in quanto a dignità e a godimento dei diritti fondamentali, che porta l’assistente sociale a svolgere la sua azione professionale senza alcuna discriminazione di alcun genere ("di età, di sesso, di stato civile, di razza, di nazionalità, di religione, di condizione sociale, di ideologia politica, di minorazione mentale o fisica, o di qualsiasi differenza o caratteristica personale").

Questo principio, che si rifà sia agli articoli 1 e 7 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che all’art. 3 della Costituzione della repubblica Italiana, "non solo non nega le differenze, ma anzi da un’appropriata constatazione delle differenze, impone attività differenziate in modo che tutti possano disporre di pari opportunità e godere effettivamente di uguali diritti, in un’ottica di giustizia ed equità sociale".

Il Capo III del Titolo III del Codice Deontologico è interamente dedicato alla riservatezza e al segreto professionale. Temi molto importanti nella relazione che si instaura tra assistente sociale ed utente o cliente. Si sottolinea, infatti, che per la particolare natura del rapporto professionale, e cioè di fiducia che si viene a creare, l’assistente sociale deve trattare con riservatezza "le informazioni e i dati riguardanti" gli utenti e clienti, e "deve ricevere l’esplicito consenso degli interessati, o dei loro legali rappresentanti, ad eccezione dei casi previsti dalla legge" per l’uso o per la trasmissione di questi.

Come prima prerogativa si sottolinea che la riservatezza e il segreto professionale sono diritto dell’utente e del cliente e dovere dell’assistente sociale. Inoltre, si può ricordare che il "carattere fiduciario che viene instaurato con gli utenti", rappresenta da sempre, per gli assistenti sociali, un valore professionale prima che un obbligo, un dovere etico prima che giuridico. È importante, quindi, nell’ambito del rapporto fiduciario, la capacità di coinvolgere al massimo gli utenti nella scelta dei contenuti per le comunicazioni ad altri delle informazioni che li riguardano.

Il Servizio Sociale ha come obiettivo quello di aiutare la persona o la collettività a risolvere i problemi attraverso il cambiamento delle situazioni usando le capacità delle persone coinvolte e le risorse disponibili.
Gli obiettivi vengono scelti in base ai mezzi, alle risorse, in base alle conoscenze teoriche sull’uomo e sulla società, in base ad alcuni valori guida.
Gli obiettivi possono essere generali o specifici, tesi ad un cambiamento a livello individuale, collettivo, istituzionale e delle politiche sociali.

Creare raccordi tra bisogni e risorse:
attivando un sistema di aiuto intorno ai problemi del singolo e della collettività
favorendo e migliorando i rapporti e le relazioni tra gli individui e fra gli individui e i sistemi di risorse
rendendo l’ambiente di vita delle persone promozionale ed educativo per persone e gruppi
Aiutare le persone a sviluppare conoscenze e capacità per affrontare e risolvere i propri problemi assistenziali con senso di responsabilità e autonomia attraverso l’attivazione delle proprie risorse personali, familiari e con quelle predisposte dalla società
Aiutare la collettività a:
individuare i propri bisogni
attivare le reti di solidarietà naturali, i processi di partecipazione, il volontariato organizzato al fine di creare nuove risorse per la soluzione di problemi individuali e collettivi
Progettare, organizzare, gestire i servizi e le risorse in mdo personalizzato e non emarginante, perchè siano veramente corrispondenti i bisogni individuali e collettivi
Evidenziare, studiare e analizzare i problemi collettivi al fine di contribuire alla progettazione e alla realizzazione di un adeguato sistema di servizi nell’ambito delle linee guida delle politiche sociali nazionali e locali
Lavorare per l’uguaglianza delle opportunità per ogni utente

La funzione curativo-riparitiva viene attivata con persone o gruppi che chiedono aiuto a causa di bisogni complessi, sotto il profilo fisico, psichico e sociale.
E’ prevista l’attivazione le risorse personali, istituzionali e comunitarie al fine di avviare il processo di cambiamento e il raggiungimento dell’autonomia.

ORGANIZZATIVA-GESTIONALE è  una funzione propria delle organizzazioni che devono adeguare i servizi e le prestazioni attraverso la lettura dei bisogni e della domanda sociale, nell’ottica del potenziamento delle risorse.

PREVENTIVO PROMOZIONALE è proiettata verso l’esterno dell’organizzazione, e vuole favorire i processi di integrazione tra servizi, la cooperazione, lo scambio sistematico delle informazioni, il cambiamento delle politiche sociali in base all’evoluzione dei bisogni, la crescita della solidarietà comunitaria, l’analisi costante e il monitoraggio dei fenomeni sociali. E’ una funzione importante perchè consente di raccogliere le informazioni indispensabili per operare scelte programmatiche dei servizi e del sistema istituzionale.

Poi ci sono delle funzioni condivise con altre professioni:

programmazione, organizzazione e gestione di servizi sociali;
attività di indagine, studio, ricerca, monitoraggio e documentazione.

Il sistema di sicurezza sociale italiano è stato interessato, a partire dagli ultimi 30-40 anni, da un processo di rinnovamento che ha interessato sia il livello delle competenze amministrative che quello delle modalità di intervento degli attori chiamati in causa nella gestione ed erogazione dei servizi. Tale processo ha avuto inizio negli anni ’70 con l’istituzione delle Regioni. Successivamente con il D.P.R. 616 del 1977 si realizzò il decentramento cioè il trasferimento, alle Regioni, delle funzioni amministrative e in particolare con l’attribuzione, ai Comuni, delle funzioni di organizzazione dei servizi sociali. Ulteriori innovazioni vennero introdotte negli anni 90 e in particolare con la prima legge Bassanini (L. n°59 del 1997) che introdusse il principio di sussidiarietà in base al quale le decisioni vengono prese dall’organo di governo più vicino ai cittadini (il Comune) e cioè da quello che è maggiormente in grado di interpretare i bisogni e le risorse della comunità territoriale di riferimento. Tale principio ha portato allo sviluppo di modelli organizzativo- istituzionali che attribuiscono ai Comuni la titolarità delle funzioni amministrative riguardanti i servizi sociali e che valorizzano la collaborazione tra pubblico e privato. Questo quadro di ridefinizione del rapporto Stato-Regioni- Enti locali è stato completato attraverso l’introduzione della Legge Quadro di Riforma dell’assistenza, la L. 328 del 2000 e dalla Riforma del Titolo V della Costituzione (L. 3 del 2001).

La legge n° 328 del 2000 –“Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali” ha ridefinito il profilo delle politiche sociali apportando tutta una serie di elementi di novità. Questa legge si colloca in un vuoto legislativo di oltre 110 anni in cui è mancata una regolamentazione organica dei servizi socio-assistenziali. Prima della 328, infatti, solo la Legge Crispi del 1890 aveva costituito la norma organica di riferimento per l’assistenza sociale. Tra le due norme numerosi sono stati i cambiamenti e le riforme ma solo con la legge del 2000 si è giunti alla creazione di un quadro normativo unitario valido per l’intero territorio nazionale.

Essa ha innanzitutto segnato il passaggio dalla concezione di utente quale portatore di un bisogno specialistico a quella di persona nella sua totalità costituita anche dalle sue risorse e dal suo contesto familiare e territoriale; quindi il passaggio da una accezione tradizionale di assistenza, come luogo di realizzazione di interventi meramente riparativi del disagio, ad una di protezione sociale attiva, luogo di rimozione delle cause di disagio ma soprattutto luogo di prevenzione e promozione dell’inserimento della persona nella società attraverso la valorizzazione delle sue capacità.

L’attenzione con tale legge si è spostata poi:

dalla prestazione disarticolata al progetto di intervento e al percorso accompagnato;
dalle prestazioni monetarie volte a risolvere problemi di natura esclusivamente economica a interventi complessi che intendono rispondere ad una molteplicità di bisogni;
dall’azione esclusiva dell’ente pubblico a una azione svolta da una pluralità di attori quali quelli del terzo settore.



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venerdì 21 agosto 2015

MAFIA E CHIESA

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Tra mafie e religione esiste un rapporto estremamente complesso che non tutti riescono a comprendere fino in fondo.

In Italia il collegamento mafia-religione risale ad una tradizione storica profondamente radicata. C’è un cordone ombelicale che lega saldamente Cosa nostra e alcuni componenti della Chiesa.

Come è possibile, però, che un mafioso o un killer uccida, provochi così tanta sofferenza e allo stesso tempo si dichiari cattolico?

La risposta è che la religione fa parte della tradizione popolare e la mafia ha bisogno del consenso creato da essa. I boss organizzano molte processioni, alcuni parenti portano addirittura il Santo sulle spalle, si occupano delle manifestazioni aiutando con finanziamenti la Chiesa. In questo modo si avvicinano al popolo di devoti. Alcuni mafiosi hanno il bisogno interiore di credere in qualcosa, come hanno raccontato diversi pentiti, ad altri serve la Chiesa per ragioni di appartenenza e identità,  coesione interna e consenso sociale.

Dal canto suo la Chiesa spesso ha taciuto, ha collaborato, ha accettato con omertà una situazione che sarebbe contraria alla propria etica. Ma ci sono stati anche due distanziamenti importanti: uno annunciato da Papa Giovanni Paolo II e l’altro da Papa Francesco. Il primo, nella Valle dei Templi di Agrigento il 9 maggio ’93, ha chiamato alla conversione il malavitoso prospettandogli l’inferno: «Il denaro insanguinato, il potere insanguinato: non potrai portarlo all’altra vita». Il secondo, il 21 marzo, durante un’omelia ha detto: “Coloro che nella loro vita hanno questa strada di male, i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati”.



Ha fatto rumore l'intervista di Nicola Gratteri al Fatto Quotidiano. Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria ha espresso preoccupazione sui 'rischi' che correrebbe Papa Francesco per l'opera di pulizia intrapresa all'interno della Chiesa, in particolar modo sulla trasparenza delle finanze vaticane.

Gratteri, oltre ad essere un magistrato in prima linea da 20 anni, è anche co-autore di svariati libri sul mondo della 'ndrangheta. .

Quando nasce il rapporto Chiesa-'ndrangheta?

Il rapporto con la Chiesa, ma soprattutto con i preti, è importante per capire l'affermazione delle 'ndrine. Si possono individuare diverse fasi: la prima è quella che si apre con la proclamazione del Regno d'Italia, quando la 'ndrangheta è già oggetto di inchieste, grazie all'introduzione nel codice sardo-italiano del reato di "associazione di malfattori". Ad esempio nel 1869 il Comune di Reggio Calabria viene già sciolto per infiltrazioni mafiose, mentre la Chiesa non riconosce il Regno d'Italia e nel 1870 perde il potere temporale dopo Porta Pia.

A quel punto 'ndrangheta e Chiesa sono entrambe su un fronte ostile rispetto allo Stato italiano. E' un periodo di tolleranza, di silenzio. I preti per vocazione erano pochi, molti lo erano 'per mestiere', legati alla classe dirigente più che al popolo.

La fase successiva è quella del "ritorno degli indesiderati", in cui gli 'americani' vennero fatti rientrare per legge, coinciso con una serie di comportamenti eticamente e moralmente discutibili. I gangster iniziano a organizzare feste patronali, ristrutturare chiese, si fanno vedere accanto ai preti, lanciano un nuovo modo di creare consenso sul territorio. Viene 'istituito' anche il raduno al santuario della Madonna Polsi (nel 1894): uomini di chiesa e boss iniziano ad accettarsi a vicenda. I preti erano un biglietto di visita per i mafiosi, c'era un aiuto reciproco.

Nessuna voce fuori dal coro?

Ci sono stati sacerdoti importanti, come don Italo Calabrò, che ebbe il coraggio di sfidare i mafiosi fra gli anni Ottanta e Novanta: dopo il sequestro di un bambino lanciò un'invettiva davanti al sagrato della sua chiesa, definendoli "uomini senza onore".  E' stato un modello positivo, che ha lasciato un segno. Sosteneva che la gente trova coraggio dal coraggio dei 'Pastori della Chiesa'. Ma certi atteggiamenti sono proseguiti e le processioni sono servite, ad esempio, per presentare alla cittadinanza i nuovi affiliati alle cosche. Don Antonio Esposito era legato ad interessi mafiosi e venne ucciso probabilmente perché schierato con una famiglia protagonista di una lunga faida. Fu assassinato anche don Peppino Giovinazzo, vice-economo del santuario di Polsi.

Ora ci sono preti che sfidano la 'ndrangheta, ma sono 'mosche bianche', anche perché mancano degli orientamenti pastorali, dei precetti su cosa bisogna e non bisogna fare, come ragionare sul concetto di conversione e di perdono che caratterizza il rapporto fra la 'ndrangheta e certi preti: non si può continuare a sostenere 'io mi pento davanti a Dio e non davanti agli uomini', non ci può essere perdono che non dia frutti nella società.

Nella loro logica perversa i boss sono convinti di essere devoti nonostante ordinino o commettano omicidi.

Ma i boss sono devoti, la devozione è diversa dalla fede. La prima si manifesta all'esterno ed è legata all'immagine, la seconda riguarda la propria dimensione intima. La devozione degli 'ndranghetisti è funzionale ad una logica di potere, è folclore più che religione: organizzare i fuochi d'artificio per la festa patronale, una processione con la presenza di cantanti che comporta una forte partecipazione della gente.

Si può dire che le mafie 'hanno bisogno della religione', prima ancora delle possibili complicità di sacerdoti o delle alte sfere del Vaticano?


Quando nasce la 'ndrangheta il linguaggio è quello dei preti, la logica è quella dei proverbi. Se devi costruire un immaginario collettivo, un corredo simbolico, lo fai utilizzando quello che hai attorno. E attorno ci sono le chiese, i preti, i 'signorotti' del paese. Polsi non è stata 'inventata' dalla 'ndrangheta, ha una tradizione di devozione e importanza secolare, uno dei pellegrinaggi più importanti in Calabria. Se poi si tiene conto della posizione geografica, si scopre che è al centro dei tre mandamenti della provincia di Reggio Calabria. Gli 'ndranghetisti traggono vantaggio da qualcosa che c'è già e che non deve essere confuso con la 'ndrangheta.

40 anni era la 'mafia stracciona', è passata dalla 'Santa', è diventata il punto di riferimento dei cartelli sudamericani per il traffico di cocaina in Europa. Oggi cos'è la 'ndrangheta?

E' una organizzazione globalizzata, fatta di famiglie che vivono ai quattro angoli della terra, che gestiscono cocaina e riciclano denaro sporco. Ritenuta 'credibile', riesce a relazionarsi con altre organizzazioni e occupa un posto di rilievo nel panorama criminale internazionale.

Accuse forti senza eufemismi di Isaia Sales in “I preti e i mafiosi” (Baldini Castoldi Dalai, 2010). La Chiesa cattolica ha fornito un grosso, insostituibile appoggio dottrinale alle mafie nel Sud Italia degli ultimi due secoli.

Al di là di ogni collaborazione diretta (che pur, in qualche caso, non è mancata).

“Le organizzazioni criminali di tipo mafioso avrebbero potuto ricoprire un ruolo plurisecolare nella storia meridionale e dell’intera nazione se, oltre alla connivenza di settori dello Stato e di parte consistente delle classi dirigenti locali, non avessero beneficiato del silenzio, della indifferenza, della svalutazione e anche del sostegno dottrinale di una teologia che trasforma degli assassini in pecorelle smarrite da recuperare piuttosto che da emarginare dalla Chiesa e dalla società?” si domanda il professore. Per concludere, subito dopo: “la risposta è no”.

Paradosso di una organizzazione religiosa che è per suo stesso “statuto” radicalmente antiviolenta, ma che si presta ad una legittimazione teorica – diretta o indiretta – della violenza, in specie organizzata. Paradosso che – al cuore di una società, quella italiana, che la Chiesa “ce l’ha in casa” – non riguarda solo gli storici e i moralisti. Riguarda tutti.

Il dato di fatto innegabile e punto di partenza dell’indagine è che per più di un secolo e mezzo i mafiosi sono stati accettati come uomini credenti e devoti: ciò non può essere esclusivo merito loro. E del resto le prime condanne ufficiali della mafia da parte della Chiesa sono recentissime (tra le quali spicca quella di mons. Mariano Crociata, segretario generale della CEI).

Ma c’è di più: la Chiesa sarebbe responsabile non solo ideologica, ma anche materiale dello sviluppo delle mafie (ancora una volta indirettamente), in quanto parte delle classi dirigenti meridionali coinvolte nella proprietà e nel controllo della terra (questione centrale per la mafia siciliana),oltre che come portatrice di una “teologia morale (severissimi con il peccato, indulgenti con il peccatore), che ha permesso a degli assassini di sentirsi quasi dei privilegiati, essendo pecorelle da recuperare”. C’è qualcosa di strano nella teologia morale del cattolicesimo se ancora oggi – come racconta l’autore – un uomo come don Ciotti (presidente dell’associazione antimafia “Libera”) si trova quotidianamente a trattare con confratelli che ritengono i pentiti di legge “degli infami”.

La Chiesa, sottolinea Sales, è “una delle principali agenzie educative di massa”. Sarà pur vero che la “gente del Sud” è tradizionalmente omertosa; ma è anche vero che essa non è insensibile agli stimoli dell’educazione, soprattutto se fatta con gesti eloquenti (come quello, proposto dal docente, di negare la comunione ai mafiosi, come già si fa per i ben più miti e innocui divorziati).

Isaia Sales è docente di Storia della criminalità organizzata nel mezzogiorno d’Italia presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. È stato deputato della Repubblica e sottosegretario all’Economia nel primo governo Prodi (1996-1998). È autore di: La camorra, le camorre (1988); Leghisti e sudisti (1993); Il Sud al tempo dell’euro (1998); Riformisti senz’anima (2003). Ha vinto il Premio Napoli nel 2007 con il saggio Le strade della violenza. Malviventi e bande di camorra a Napoli (2006). Ha curato la voce «camorra» per l’Enciclopedia Treccani.

Quindi possiamo capire questo episodio: sei cavalli con pennacchio che trainano una antica carrozza funebre, una banda che intonano prima le note del film "Il Padrino", poi la colonna sonora di "2001 odissea nello spazio" e la canzone "Paradise", altra colonna sonora, ma del film "Laguna Blu", che accompagnano l'uscita della bara e per finire petali di rose lanciati da un elicottero.  E' la cerimonia che si è svolta nel popolare quartiere Tuscolano della Capitale, davanti alla Chiesa di San Giovanni Bosco, dove è stato celebrato il funerale del boss Vittorio Casamonica, il 65enne, appartenente all'omonimo clan criminale, composto da nomadi, che negli anni '70 si stabilirono a Roma, grazie anche alla collaborazione con la Banda della Magliana, ed 'occuparono' le zone sud-est della Capitale, per poi estendersi a Castelli Romani e sul litorale laziale traffico di droga, estorsioni, usura e racket. Sulla facciata della parrocchia di San Giovanni Bosco ad attendere il defunto un grande striscione: "Hai conquistato Roma ora conquisterai il paradiso" ed accanto due manifesti con la scritta: "Vittorio Casamonica re di Roma", il suo ritratto a mezzo busto ed una corona in testa, il Colosseo e il cupolone di San Pietro sullo sfondo. Dopo la funzione, la bara è stata trasportata in una Rolls-Royce sempre con sottofondo musicale, tra le lacrime di molte delle donne presenti.


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mercoledì 4 marzo 2015

MILANO & CRIMINI : ASSASSINIO DI WALTER TOBAGI

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Walter Tobagi (San Brizio di Spoleto, 18 marzo 1947 – Milano, 28 maggio 1980) è stato un giornalista e scrittore italiano, che venne assassinato in un attentato terroristico perpetrato dalla Brigata XXVIII marzo, gruppo terroristico di estrema sinistra.

Walter Tobagi nacque il 18 marzo 1947 a San Brizio, una frazione del comune di Spoleto, in Umbria. All'età di otto anni la famiglia si trasferì a Bresso, vicino a Milano, poiché il padre Ulderico era un ferroviere. La sua carriera di giornalista cominciò al ginnasio, come redattore del giornale del Liceo Parini di Milano La zanzara, reso famoso per un processo provocato da un articolo sull'educazione sessuale.

Al Corriere della Sera Tobagi seguì sistematicamente tutte le vicende relative agli «anni di piombo»: dai tempi degli autoriduttori che disturbavano le Feste dell'Unità agli episodi di sangue più efferati con protagoniste le Br, Prima Linea e le altre bande armate. Analizzando le vicende luttuose del terrorismo risaliva alle origini di Potere operaio, con la galassia delle storie politiche e individuali sfociate in mille gruppi, di cui molti approdati alle bande armate.

In Vivere e morire da giudice a Milano Walter raccontò la storia di Emilio Alessandrini, sostituto procuratore della Repubblica, assassinato a 36 anni da Prima Linea in un agguato: un magistrato che si era particolarmente distinto nelle indagini sui gruppi estremisti di destra e, successivamente, su quelli terroristi di sinistra. Anche Alessandrini era un «personaggio simbolo». Scrisse Tobagi: «Alessandrini rappresentava quella fascia di giudici progressisti ma intransigenti, né falchi chiacchieroni né colombe arrendevoli». Osservò inoltre che i terroristi prendevano di mira soprattutto i riformisti, condividendo il giudizio che lo stesso Alessandrini aveva espresso in un'intervista all'Avanti!: «Non è un caso che le azioni dei brigatisti siano rivolte non tanto a uomini di destra, ma ai progressisti. Il loro obiettivo è intuibilissimo: arrivare allo scontro nel più breve tempo possibile, togliendo di mezzo quel cuscinetto riformista che, in qualche misura, garantisce la sopravvivenza di questo tipo di società». Un giudizio che doveva trovare una tragica conferma proprio con la uccisione di Tobagi.

Negli ultimi articoli intensificò le analisi su certe realtà urbane a Milano, a Genova, a Torino («Come e perché un 'laboratorio del terrorismo' si è trapiantato nel vecchio borgo del Ticinese», «Vogliono i morti per sembrare vivi», «Bilancio di 10 miliardi all'anno per mille esecutori clandestini», ecc.). Non trascurò il fenomeno del pentitismo, con tutti gli aspetti anche negativi, e studiò il terrorista nella clandestinità, («C'è una regola dei due anni, termine ultimo oltre il quale non resiste il Br clandestino»). E siamo dunque a uno dei suoi ultimi articoli sul terrorismo, un testo che è stato ripubblicato molte volte perché considerato uno dei più significativi sin dal titolo: «Non sono samurai invincibili».

Tobagi sfatò tanti luoghi comuni sulle Br e gli altri gruppi armati, denunciando, ancora una volta, i pericoli di un radicamento del fenomeno terroristico nelle fabbriche e negli altri luoghi di lavoro, come molti segnali gli avevano indicato. Scrisse, ad esempio:

« La sconfitta politica del terrorismo passa attraverso scelte coraggiose: è la famosa risaia da prosciugare, tenendo conto che i confini della risaia sono meglio definiti oggi che non tre mesi fa. E tenendo conto di un altro fattore decisivo: l'immagine delle Brigate rosse si è rovesciata, sono emerse falle e debolezze e forse non è azzardato pensare che tante confessioni nascono non dalla paura, quanto da dissensi interni, sull'organizzazione e sulla linea del partito armato »
Le sue opinioni risultano confermate anche in un'altra significativa intervista al figlio di Carlo Casalegno, Andrea. In quell'intervista, concessa un mese prima dell'uccisione di Tobagi, Casalegno disse: «Non sento la benché minima traccia di odio, né provo alcun perdono cristiano. Sento l'offesa come nel momento in cui è avvenuta». L'intervistatore chiese se riteneva giusto denunciare i «compagni di lotta». E Andrea Casalegno rispose senza reticenze: «La denuncia è importante e va fatta se serve a evitare atti futuri gravi. È un dovere, perché è assolutamente necessario impedire che vittime innocenti cadano ancora».

La sera prima di essere assassinato, Walter Tobagi presiedeva un incontro al Circolo della stampa di Milano. Si discuteva del «caso Isman» e dunque della libertà di stampa, della responsabilità del giornalista di fronte all'offensiva delle bande terroristiche. Il dibattito fu piuttosto agitato e l'inviato del Corriere fu fatto oggetto di ripetute aggressioni verbali, cosa non nuova, del resto, come ha raccontato il suo collega ed amico Gianluigi Da Rold:

« Negli anni del suo impegno professionale e come responsabile sindacale dei giornalisti lombardi, Walter Tobagi viene violentemente attaccato, più di una volta, sia dalla parte comunista della redazione del Corriere, sia dai giornalisti di altre testate milanesi di cosiddetta "area comunista." »
A un certo punto, durante quel dibattito, Tobagi, riferendosi alla lunga serie di attentati terroristici, disse: «Chissà a chi toccherà la prossima volta». Dieci ore più tardi era caduto sull'asfalto sotto i colpi dei suoi assassini. Lasciava la moglie, Maristella, e due figli, Luca e Benedetta.

Tobagi venne ucciso alle 11 di mattina del 28 maggio 1980 con cinque colpi di pistola da un "commando" di terroristi (Marco Barbone, Paolo Morandini, Mario Marano, Francesco Giordano, Daniele Laus e Manfredi De Stefano), buona parte dei quali figli di famiglie della borghesia milanese. Due membri del commando in particolare appartengono all'ambiente giornalistico: sono Marco Barbone, figlio di Donato Barbone, dirigente editoriale della casa editrice Sansoni (di proprietà del gruppo RCS), e Paolo Morandini, figlio del critico cinematografico del quotidiano Il Giorno Morando Morandini.

A sparare furono Mario Marano e Marco Barbone. È quest'ultimo a dargli quello che nelle sue intenzioni sarebbe dovuto essere il colpo di grazia: quando Tobagi era ormai accasciato a terra, il terrorista gli si avvicinò e gli esplose un colpo dietro l'orecchio sinistro. In realtà, da come risulta dall'autopsia, il colpo mortale fu il secondo esploso dai due assassini, che colpendo il cuore causò la morte del giornalista.

Nel giro di pochi mesi dall'omicidio, le indagini di Carabinieri e magistratura portarono all'identificazione degli assassini, ed in particolare a quella del leader della neonata Brigata XXVIII marzo, lo stesso Marco Barbone. Subito dopo il suo arresto, il 25 settembre del 1980, Barbone decise di collaborare con gli inquirenti; grazie alle sue rivelazioni l'intera Brigata XXVIII marzo fu smantellata e furono incarcerati più di un centinaio di sospetti terroristi di sinistra, con cui Barbone venne in contatto nel corso della sua breve ma intensa "carriera" terroristica.

Le 102 udienze di quello che fu un maxi-processo all'area sovversiva di sinistra iniziarono il 1º marzo 1983 e terminarono 28 novembre dello stesso anno. La sentenza suscitò molte polemiche poiché il giudice Cusumano, interpretando la legge sui pentiti in modo difforme rispetto al Tribunale di Roma (dove furono comminate comunque pene a oltre vent'anni di carcere ai terroristi pentiti delle Unità comuniste combattenti), concesse a Marco Barbone, Mario Ferrandi, Umberto Mazzola, Paolo Morandini, Pio Pugliese e Rocco Ricciardi «il beneficio della libertà provvisoria ordinandone l'immediata scarcerazione se non detenuti per altra causa», mentre agli altri membri della XXVIII marzo, De Stefano, Giordano e Laus, furono inflitti trent'anni di carcere.

Le indagini non hanno chiarito il ruolo svolto dalla fidanzata di Marco Barbone, Caterina Rosenzweig, appartenente ad una ricca famiglia milanese. Nel 1978, cioè ben due anni prima dell'omicidio, Caterina Rosenzweig aveva lungamente pedinato Tobagi, che era anche suo docente di storia moderna all'Università Statale di Milano. Anche se nel settembre 1980 viene arrestata insieme con gli altri, Caterina verrà assolta per insufficienza di prove, nonostante nel corso del processo venga accertato che il gruppo di terroristi si riuniva a casa sua in via Solferino, a poca distanza dagli uffici dove lavorava Tobagi. Dopo il processo si trasferirà in Brasile, dove si perdono le sue tracce.

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giovedì 26 febbraio 2015

LA FAMIGLIA DURINI

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I Durini sono una delle famiglie storiche della nobiltà milanese. Appartenenti alla nobiltà comasca col titolo di Decurioni di Como già intorno al 1000, si affermano con la mercatura, dapprima a Como e successivamente a Milano dove agiscono agli inizi del XVII secolo esercitando anche l'attività di banchieri.

Crescono rapidamente d'importanza arrivando a finanziare la corona spagnola. Nel 1644 danno inizio alla costruzione del loro palazzo di famiglia in Milano, incaricando del progetto l'architetto Richini.

Nel 1648 acquistano il titolo e la contea di Monza dai De Leyva ed entrano così a far parte del patriziato milanese.
In Monza vari membri della famiglia fanno edificare varie ville: Villa Mirabello, Villa Mirabellino, Villa Durini, mentre a Arcore posseggono Villa La Cazzola dal 1630 circa al 1892 e un'altra a Merate dove soggiornò il cardinale Angelo Maria Durini quando ricevette la commenda della locale abbazia di San Dionigi.

Nella storia milanese troviamo esponenti della famiglia Durini non solo nella finanza, ma anche in diplomazia, governo della città di Milano e nella carriera ecclesiastica, come il cardinale Angelo Maria Durini (1725-1796).

La famiglia è ancora oggi fiorente.

Il Palazzo Durini si trova a Milano, nella via omonima che congiunge piazza San Babila a largo Augusto ed occupa l'antica Cantarana di Porta Tosa, contrada tra il Verziere e San Babila. Viene comperato nel 1921 o 1922 dal senatore Borletti, a patto di lasciare nel palazzo Paolina Durini vita natural durante; viene restaurato sommariamente dall’architetto Piero Portaluppi tra il 1920 e il 1923 e, alla morte di Paolina nel 1925, viene venduto ai Caproni di Taliedo.

Dopo la morte di Gianni Caproni nel 1957 il palazzo venne affittato; nel 1963 ospitava il centro culturale Durini, voluto da Aldo Borletti, dotato di un teatro e di una biblioteca; dal 1997 al 2009 una parte di Palazzo Durini ha ospitato la sede e gli uffici dell'Inter FC.


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