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sabato 10 ottobre 2015

Abusare Dei Più Deboli



Abusare dello stato di debolezza psichica di una persona è illecito penale: la circonvenzione di incapace, infatti, scatta tutte le volte in cui si tende a influire sulla volontà di una persona con una patologia clinica accertata che ne riduce la capacità di intende e volere.

Una recente sentenza della Cassazione, tuttavia, ha notevolmente ampliato i confini di questo illecito. La Corte ha infatti chiarito che non è necessario che l’incapacità della vittima sia clinicamente e legalmente accertata. È sufficiente, per incorrere nel rischio di un procedimento penale, approfittarsi di uno stato di depressione altrui, tale da far mancare capacità critica. Non serve quindi una vera e propria infermità psichica, ma basta anche una più lieve deficienza psichica o una alterazione dello stato psicologico, come può essere quello di un disagio esistenziale dettato dalle sofferenze della vita (così, per esempio, la solitudine, lo stress o la depressione).

Il rapporto con persone che si trovano in uno stato di inferiorità è penalmente rilevante solo se connotato da induzione da parte del soggetto “forte” e abuso di tale stato in cui si trova il soggetto “debole” (cfr. C. pen., Sez. III, sentenza 9 maggio 2007, n. 33761): in tal caso, la vittima presta un consenso che è viziato, in considerazione del differenziale di maturità sessuale rispetto al partner.

In ordine alle modalità con cui questa forma di delitto si manifesta, la pronuncia in commento precisa che se da una parte l’induzione si realizza quando – con un’opera di persuasione sottile e subdola – il soggetto attivo spinge, istiga o convince una persona debole ad atti sessuali che diversamente non avrebbe compiuto o subito, dall’altra parte, l’abuso consiste in un doloso sfruttamento della menomazione della vittima e si verifica quando le condizioni di inferiorità sono strumentalizzate per accedere alla sua sfera intima, così riducendola a un mezzo per l’altrui soddisfacimento sessuale [in dottrina, cfr. Cadoppi, sub. art. 3, in Cadoppi (a cura di) Commentario delle norme contro la violenza sessuale e contro la pedofilia, 4° ed., Padova, 2006, p. 83 ss].

Tale comportamento, pertanto, risulta tipico proprio in quanto si lega con l’abuso, giacché, attraverso la strumentalizzazione, l’autore della condotta delittuosa trasforma la relazione sessuale – che di norma intercorre tra due persone in grado di autodeterminarsi nell’esplicazione della propria libertà sessuale – in mera fruizione del corpo della persona che si trovi in condizione di vulnerabilità soggettiva dovuta a infermità psichica, ridotta così al rango di “oggetto” sessuale. E considerate tali premesse, è compito del Giudice di merito verificare, con un’indagine adeguata e dandone conto nella motivazione, la situazione di inferiorità della vittima, le modalità con le quali l’agente ha posto in essere condotte di induzione all’atto sessuale, abusando delle predette condizioni, e la consapevolezza di abusare della stessa vittima per fini sessuali.

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venerdì 9 ottobre 2015

L'INCESTO


Con il termine incesto (dal latino incestum, "non casto", "impuro") si intende un rapporto sessuale fra due persone tra le quali esiste un vincolo di parentela. L'incesto è il tabù più comune presso tutti i popoli e respinto da tutte le grandi religioni.

L'incesto è un trauma, una violenza psicologica che condiziona il comportamento diventando patologico in chi lo subisce. Le vittime dell'incesto sono in numero quasi uguali tra maschi e femmine; gli aggressori sono in maggioranza uomini, però il numero delle donne che abusano dei figli è in costante aumento e vi sono casi di madre coinvolte nell'abuso quanto il padre.

Nel passato era cosa comune incolpare le vittime dell'incesto, di solito bambine, e non i incestoloro seduttori (violentatori), infatti si riteneva che le conseguenze dell'incesto fossero dovute al comportamento seduttivo della vittima. Questo è fuorviante perché una bambina non può comprendere la sessualità adulta e quindi non può essere seduttiva. Certi gesti, atteggiamenti, espressioni che assume sono interpretati come richiami sessuali solo da un adulto "malato". Il bambino vuole amore, affetto, calore e contatto. Gesti e atteggiamenti che assume vengono interpretati dall'adulto malato come seduttivi, invece sono comportamenti che assume per ottenere affetto e attenzione, poiché è l'unico modo che ha conosciuto per riceverle. Non si rende conto che invece riceve qualcosa di diverso, violenza sessuale.

Crescendo comincia a capire in che modo è stato usato, prova profondo rimorso e sensi di colpa ritenendosi almeno in parte o addirittura completamente responsabile di ciò che è accaduto. Questi rimorsi saranno particolarmente gravosi se ha provato piacere da alcune di quelle attività sessuali, come accade a qualche vittima che non prende in considerazione che l'istinto sessuale incomincia già in tenera età e non era in grado di valutare la situazione come avrebbe fatto d'adulto.

L'incesto è un trauma che condiziona la vita delle vittime e spesso viene rimosso. Quando si prende consapevolezza di ciò che è accaduto la sofferenza è grande e si può vivere una depressione o la tendenza a ritirarsi dalla realtà in una scissione nell'unità della personalità. Si sviluppa un disturbo della personalità, il mondo emozionale e affettivo sarà disturbato per sempre con la probabilità di diventare anch'essi dei violentatori sessuali.

In tutte le persone che sono state vittime dell'incesto possono manifestarsi alcuni o diversi disturbi: disturbi del comportamento, nevrosi, dissociazione, comportamenti e atteggiamenti socialmente indesiderabili, delinquenza giovanile, atteggiamento sessuale invadente con una agilità corporea da civettuola, difficoltà all'addormentarsi,disturbi cardiaci, difficoltà di respiro (senso di soffocazione), risveglio spaventato e improvviso durante la notte, frequenti menzogne,marinare la scuola,fughe ripetute da casa, stato di abbandono sessuale (atteggiamento provocante), facilità ai rapporti sessuali, disturbi sessuali, furti di denaro o altro, paura di rimanere soffocata, sogni ansiosi con allucinazioni al risveglio, paura di andare a dormire, claustrofobia, tentativi di suicidio, pensieri di carattere suicida, cattivo rendimento scolastico, isolamento rispetto ai rapporti sociali, sensi di colpa, sonnambulismo.

Molte persone rompendo il muro del silenzio e facendo emergere l’esperienza incestuosa ne hanno tratto giovamento, anche se è avvenuta a molti anni di distanza, parlandone con colui che ha commesso l’atto. Oppure se non è possibile il confronto, come ad esempio, perché è morto, è importante confidarsi con uno psicologo o consulente spirituale, che potrà servirvi ad alleviare il peso del vostro segreto. Questo è valido quando non si vivono problemi psicologici importanti.



Prescindendo dal significato simbolico dell'incesto messo in luce dalla psicoanalisi, sembrerebbe, da indagini storiche, che il tabù dell'incesto abbia anche assolto la funzione sociale di rafforzare la coesione sociale e di prevenire o impedire i conflitti con le tribù vicine: questo risultato veniva perseguito incrementando i vincoli di parentela con queste ultime attraverso lo scambio delle donne come legame di amicizia e la pratica dei matrimoni combinati tra i due gruppi.

II codice penale italiano stabilisce ex art. 564 la pena della reclusione da uno a cinque anni per chiunque commetta incesto con un discendente o un ascendente, o con un affine in linea retta, ovvero con un fratello o con una sorella, in modo che ne derivi scandalo pubblico. La nozione di pubblico scandalo è condizione obiettiva di punibilità e non elemento costitutivo della fattispecie delittuosa: ciò comporta che il reato si configura per il semplice fatto della consumazione della condotta incriminata. La relazione incestuosa (rapporto continuato) aggrava il delitto; la pena prevista, in questo caso, è da due a otto anni. Inoltre, se l'incesto è commesso da persona maggiore di età con persona minore degli anni diciotto, la pena è aumentata per la persona maggiorenne.

La condanna per il delitto di incesto pronunciata contro il genitore importa la perdita della potestà o della tutela legale. La condanna a qualsiasi pena detentiva per il delitto di incesto, subita da un coniuge, costituisce in Italia, per l'altro coniuge, una causa di divorzio. Altra causa di divorzio è il procedimento penale per il medesimo delitto, conclusosi con sentenza di proscioglimento o di assoluzione che dichiari non punibile il fatto per mancanza di pubblico scandalo ancorché con sentenza di condanna passata in giudicato. Il diritto italiano vieta il matrimonio tra consanguinei: i figli incestuosi sono riconoscibili solo da parte del genitore di buona fede al momento del concepimento previa autorizzazione da parte del tribunale se ciò è conforme all'interesse del figlio. I genitori con mala fede bilaterale (cioè con reciproca consapevolezza della relazione incestuosa) non possono mai procedere al riconoscimento (art. 251 c.c.). Il figlio non riconosciuto può agire ex art. 269 c.c. previa autorizzazione del tribunale (art. 274 c.c.), al riconoscimento giudiziale della maternità o paternità. L'azione è imprescrittibile riguardo al figlio.

La dichiarazione giudiziale produce gli stessi effetti del riconoscimento nei confronti del soggetto verso la quale è pronunciata. Qualora il tribunale neghi tale autorizzazione, al figlio irriconoscibile spetta l'azione di mantenimento cui all'art. 279 c.c. per ottenere dai genitori incestuosi un trattamento economico per il suo mantenimento e l'istruzione in adempimento dei doveri ex artt. 147 e 148 c.c. Ma la Corte costituzionale, con sentenza n. 50 del 2006, ha dichiarato incostituzionale l'art. 274 c.c., che ora non è più applicabile: l'autorizzazione del Tribunale non è più richiesta. Di conseguenza, mentre resta il divieto per i genitori incestuosi di riconoscere il figlio naturale, il figlio può ora chiedere il riconoscimento giudiziale della paternità e della maternità senza particolari restrizioni e la residua ipotesi prevista dall'art. 279 c.c. pare ormai priva di oggetto.

L'incestum nel diritto romano indicava l'unione sessuale tra persone legate da vincoli di parentela o affinità, oppure la violazione del trentennale voto di castità delle sacerdotesse Vestali. Il divieto si estendeva fino al sesto grado, anche se nel corso della storia romana, fu più volte temporaneamente abrogato. Il delitto di incestum fu previsto con l'istituzione della relativa quaestio dalla Lex Iulia de adulteriis coercendis.
L'incesto è, assieme al cannibalismo, il tabù più comune presso tutti i gruppi umani e come tale è respinto da tutte le grandi religioni storiche per motivi molto discussi da vari studiosi, ma prevalentemente dettati dalla preoccupazione per la difesa della specie umana, in senso culturale piuttosto che biologico. Non pare infatti che l'interdizione dell'incesto abbia origini eugenetiche poiché la stessa biologia insegna che solo in caso di tare ereditarie il matrimonio tra consanguinei può essere dannoso per la prole. In sostanza se il matrimonio è uno scambio, è logico che questo avvenga tra gruppi diversi (esogamia), in cui ci sia spazio per un'azione reciproca sia in senso socio-economico, sia in senso culturale, piuttosto che all'interno di uno solo (endogamia).



L'antropologo Claude Lévi-Strauss ritiene a questo proposito che la proibizione dell'incesto sia la costante universale che segna il passaggio dal puro stato di natura a una società umana seppure minimamente organizzata. In talune società antiche l'incesto era spesso consuetudine nelle famiglie che detenevano il potere, con l'evidente finalità dell'autoconservazione dello stesso: esempi giunti fino a noi sono quelli dei faraoni egizi, soprattutto in età tolemaica, e degli Inca; nel mondo greco il mito di Edipo è il tentativo di razionalizzazione di un costume storicamente superato ma di cui si conserva il ricordo.

Ultimamente è stata avanzata l'ipotesi che alla base di questo tabù vi sia una sostanziale repulsione odorifera. Nella fase primordiale (animalesca) l'attrazione sessuale era manifestata da richiami odorosi che indicavano la disponibilità della femmina feconda. Un'ipotesi si fonda sul fatto che riconoscere nell'odore della femmina somiglianze col proprio determini una fisiologica ripulsa. Un'altra ipotesi (la più probabile) consiste nella non rilevabile percezione, da parte del maschio, di un richiamo odoroso troppo simile al proprio. La “femmina in estro” non viene riconosciuta come tale in conseguenza della sostanziale identità qualitativa dei feromoni.

La consanguineità diventa un ostacolo fattuale all'attrazione e al rapporto, che nel tempo si sedimenterà in comportamento e si giustificherà (ovviamente a posteriori) in tabù. Accanto a questa ipotesi va affermandosi quella secondo cui gli individui tenderebbero "naturalmente" a preferire soggetti con sistema immune differente (rafforzando l'ipotesi di odori distintivi), che mostrerebbero diverse risposte immuni verso l'ambiente, verso diversi batteri e virus, con la tendenza a creare individui con un vantaggio evolutivo ampio e soddisfacente a contrastare malattie infettive che, nel corso del tempo, hanno dato luogo a pandemìe che sterminarono intere popolazioni.

Di contro, i fenotipi somatici e non strettamente genetici, quindi non in contrapposizione ad un Dna differente, ossia espressione della forma del viso del corpo, colore dei capelli e pelle sembrerebbero essere un'importante modalità decisionale dal punto di vista della scelta del congiunto, e gli individui con fenotipi simili tenderebbero a scegliersi. Trattandosi di armonizzazione di fenotipi, tale situazione può contraddistinguere l'impiego di una vastissima varietà di geni, posti anche su cromosomi diversi, tanto da eliminare al momento una teoria dell'incesto vantaggioso per l'essere umano.

Con l'aumentare della consanguineità tra i genitori aumenta la probabilità della comparsa di malattie ereditarie rare recessive.Tuttavia, il rischio principale di tare genetiche non è dovuto tanto a una consanguineità stretta dei genitori, quanto a un alto coefficiente di incrocio in una popolazione o sottopopolazione che, per ragioni geografiche, sociali o religiose, ha scarsi rapporti riproduttivi con l'esterno ed è di consistenza relativamente limitata.

La tendenza incestuosa è fondante la teoria psicoanalitica in tutte le sue varianti principali che hanno segnato la storia della psicoanalisi: sia freudiana sia junghiana. L'interpretazione del fenomeno tuttavia è diversa. In ogni caso è comunque proprio questa problematica incestuosa che dà l'avvio alla vicenda edipica che è il perno fondante la teoria e la pratica clinica psiconalitica.

Recentemente in Germania è emerso un caso controverso di incesto: due fratelli di Lipsia - Patrick Stübing e Susan Karolewski - dopo essere stati separati alla nascita si sono conosciuti quando lei aveva 16 anni ed hanno cominciato una relazione: da questa unione sono inoltre nati 4 figli (Eric, Sarah, Nancy e Sofia), dei quali solo l'ultimo non ha problemi di salute. Una volta appurata la loro consanguineità, il tribunale ha disposto l'arresto per lui e un periodo di assistenza sociale per lei in quanto affetta da disturbo dipendente di personalità; nel frattempo, il ragazzo si era sottoposto volontariamente a vasectomia. Dopo aver scontato due anni in carcere, è notizia del 15 marzo 2008 il suo rientro nel penitenziario per scontare gli ultimi 30 mesi di condanna. Il 12 aprile 2012 la Corte europea dei diritti dell'uomo ha stabilito che "la condanna al carcere per una relazione incestuosa" di Stübing non ha violato l'articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (relativa al diritto al rispetto della vita privata e familiare), in quanto "le autorità tedesche avevano un ampio margine di valutazione nell'affrontare la questione". Stübing ha richiesto il rinvio del caso alla Grande Camera, ma il 24 settembre 2012 è stata respinta e la sentenza è diventata definitiva. Nel 2014 il Consiglio etico tedesco chiede al governo la depenalizzazione del reato.

In tempi storici era considerato incestuoso anche il rapporto sessuale con persone legate da affinità spirituale consacrata alla divinità (ad esempio le vestali), specie se legate al culto della fertilità (Demetra e Persefone); ciò prende il nome di incesto spirituale. Stessa cosa si verificava nell'Induismo: al discepolo non era consentito sposare i figli del guru, in quanto il rapporto tra quest'ultimo e il discepolo era così intimo e profondo che una simile unione sarebbe stata considerata incestuosa.



Nell'Antico Testamento e nella legge Mosaica l'incesto è proibito da Jahvé, anche se proprio gli stralci storiografici della Bibbia registrano numerosi casi di incesto. Gli esempi più evidenti sono il fatto che Abramo e la moglie Sara erano fratellastri e le relazioni tra Lot e le sue figlie, senza poi contare che Giacobbe e Rachele erano primi cugini e Isacco cugino del padre di Rebecca; nonostante i dettami morali delle tre principali Religioni, che hanno come fondamento i testi sacri ebraici, che vietano espressamente l'incesto.

C'è un tipo d'incesto che è altrettanto dannoso come quello reale: è l'incesto affettivo. Laddove vi è una seduzione, più o meno esplicita, da parte di uno dei genitori nei confronti di uno dei figli, seduzione che poi culmina nella sostituzione del partner di coppia col figlio/a sedotto, parliamo di incesto affettivo.

In questi casi il genitore incestuoso, a causa della sua fragilità, non è in grado di svolgere appieno il proprio ruolo genitoriale di riferimento ed investe il figlio di un affetto inadeguato, come se fosse l'amante.

Non si arriverà mai a consumare fisicamente l'incesto, ma incosciamente il figlio coinvolto vivrà il legame in maniera estremamente intima. Allo stesso tempo il genitore/partner è irragiugibile come amante. Ciò comporterà che in età adulta, in una sorta di coazione a ripetere come la chiamano gli psicanalisti, ripeterà il copione affettivo incestuoso cercando partner irragiungibili.

Questa ripetersi è legato a due aspetti dell'incesto affettivo diversi fra loro:

ricerca del partner irragiungibile al fine di conquistare e possedere ciò che non si è conquistato e posseduto del tutto nell'infanza;
ricerca del partner irragiungibile al fine di non riuscire ad entrare in una relazione di coppia sana e rimanere, in questo modo, amanti inconsci del proprio genitore.


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giovedì 1 ottobre 2015

INNAMORARSI IN CHAT



"Ho chattato per due anni in diverse chat su Internet e mi son beccato cotte a ripetizione, cose forti che mi hanno impedito di vivere la mia vita serenamente come dovrebbe essere, ho una famiglia tutto sommato che si può dire felice. L'ultima "sbandata" mi ha portato sull'orlo della separazione ed ora ho deciso di non chattare più, anche a seguito dell'ultimatum di mia moglie alla quale ho detto tutto. Sono tre mesi che non entro in una chat, ed io sto capendo molto bene chi cerca di smettere di fumare; penso sia simile, ho crisi alternate di pianto e di sollievo. Sollievo perché stavo male anche quando chattavo, non potendo incontrare chi in quel momento amavo, ed anche se l'avessi incontrata non potevo promettere nulla, non potevo distruggere chi avevo vicino, ma il bisogno di amare e di avere un amore disinteressato da chi mi conosce solo virtualmente è forte. Lo so che son cose che accadono, vorrei solo sapere per quanto tempo ancora durerà questo supplizio".

Il motivo che noi riusciamo a comprendere può essere questo: il rapporto interpersonale che si instaura in una chat, a causa del fatto che non risente delle limitazioni dovute alla conoscenza diretta (aspetto fisico, mimica, tono di voce, ecc.), permette una grande liberazione della fantasia, una diretta gratificazione dei propri desideri. Si provano emozioni molto forti perché si gioca a sperimentare (anzi, in un certo senso si vive veramente) un rapporto che è quello che avremmo sempre voluto avere, quello che ciascuno di noi ha dentro di sé come modello ideale di rapporto. Ci si sente capiti, si possono condividere tante cose, si ritorna a quello stato, provato quando si avevano le "cotte" adolescenziali. La "cotta", tipicamente, era basata molto sulla fantasia, e non a caso una ragazzina valeva l'altra, bastando una immagine, una stimolazione minima, per far scattare dentro di noi quella complessa reazione psicoaffettiva. Alcuni amano soprattutto chattare mentre hanno resistenza a incontrarsi, o anche solo a telefonarsi. Apparentemente questo è paradossale: se ci si piace tanto, perché allora non avvicinarsi maggiormente? Ma questa resistenza non è contraddittoria, vi può essere un motivo ben preciso che spiega la paura a conoscersi meglio: più ci si conosce, più gli aspetti di realtà necessariamente tolgono spazio alla fantasia e limitano la possibilità di provare quei forti sentimenti che erano sbocciati dentro di noi. Infatti, quel complesso di stati affettivi che in genere chiamiamo amore si basa sempre su un grado di idealizzazione, di deformazione della persona amata affinché essa rientri meglio nel modello che ci portiamo dentro. Questo è un meccanismo normale, utile al nostro adattamento e funzionamento sociale, ogni volta che ci innamoriamo avviene una sorta di abbinamento tra una immagine interna e una esterna, quest'ultima capace di evocare quella interna che produce il piacevole stato psicoaffetivo e motivazionale che possiamo chiamare innamoramento.

Persone che in chat stavano benissimo e provavano un grande piacere ad aprirsi, una volta la telefono con quella stessa persona poteva accadere che non sapevano più cosa dire, si bloccavano, provavano imbarazzo, gelo, inibizione dei sentimenti. Il motivo, con tutta probabilità, è che il tono della voce aumenta molto la conoscenza e quindi l'intimità, e subito cresce la paura che quello che proviamo sia inappropriato. Al telefono quando si sente anche il tono della voce, e soprattutto quando ci si incontra "dal vivo", si è maggiormente in contatto con una persona reale, non con quella immagine precedentemente prodotta dalla propria fantasia, e necessariamente quella immagine non può più essere evocata con la stessa facilità. Occorre fare un certo lavoro per adattare la nostra immagine interna alla nuova, e questo comporta dei rischi, non ultimo quello di non riuscire più a provare le cose che provavamo prima. Questo del resto è il normale percorso dello sviluppo dei sentimenti: in certi casi, quando all'inizio non eravamo tanto innamorati, una conoscenza approfondita fa aumentare l'amore, mentre, se siamo già molto innamorati di una persona che conosciamo poco, può accadere che con la conoscenza il sentimento diminuisca o comunque si modifichi molto.



Comunicare attraverso la chat permette una protezione dell'anonimato. Proprio questo anonimato, o il celarsi dietro diversi nicknames (gli pseudonimi utilizzati per farsi riconoscere in chat), rappresenta uno degli aspetti più interessanti del fenomeno. La chat consente di giocare con la propria identità, di scegliere di mostrare solo gli aspetti della personalità ritenuti più interessanti.

Tutto ciò contribuisce al superamento illusorio delle barriere, soprattutto psicologiche, che frustrano la vita di relazione nella realtà. La timidezza, l'introversione, vengono superate grazie alla protezione offerta dal mezzo, la capacità di "socializzare" se ne avvantaggia notevolmente. La maggior parte dei "chattatori" dichiara di confidare sinceramente aspetti della propria vita privata e usa la chat come un mezzo che avvicina agli altri, una sorta di antidoto alla "alienazione". L'anonimato facilita l'apertura e il dialogo.

Di solito ci si svela lentamente, solo quando si sente che si può essere compresi; l'investimento affettivo, emozionale è possibile perché c'è distanza e quindi è un tentativo che si può fare a piccoli passi per vedere se funziona.

Vi sono precise differenze nell'approccio dei due sessi.
Le donne chattano per fare nuove amicizie, perché sono reduci da un'esperienza negativa, considerano la chat un luogo di "ascolto" dove le loro sofferenze, i loro bisogni vengono accolti in un modo veloce e "privato".

Gli uomini, per lo più, quando dall'altra parte del monitor c'è una donna, richiede foto, numero di telefono (frequenti sono stati i tentativi di deviare la conversazione su argomenti esplicitamente sessuali).

Assistiamo oggi all'esplosione del fenomeno degli "amori virtuali".
La relazione on line è percepita come più controllabile rispetto alla relazione reale. Le donne cercano qualcosa di più, rapporti più intensi e intimi e non è difficile ipotizzare, all'origine di questa ricerca, una profonda insoddisfazione.

Le "chattatrici", a differenza degli uomini, non manifestano un grande bisogno di incontrare personalmente il compagno virtuale.
Il partner in rete piace, all'inizio, per quello che dice e per come lo dice.

L'innamorato virtuale crede di sapere cosa l'altro pensa, ha la sensazione di aver saputo leggere tra le righe, di conoscere tutto della sua vita, del suo passato e del suo presente, ha la certezza di coglierne i desideri e le aspettative, pensa di saperne di più di chi gli vive accanto. Spesso una fotografia ricevuta via e-mail è sufficiente a convincersi di conoscere bene anche l'aspetto fisico dell'interlocutore.

Ci si innamora di un'idea, di un sogno, riempiendo le inevitabili caselle vuote dell'identità dell'altro con parti di sé proiettate. Si ha la sensazione di essere pronti a tutto, ma non a rinunciare all'idea che ci si è costruita dell'altro.

Spesso, con l'incontro nella realtà, arriva puntuale anche la grande delusione. L'illusione di essere coinvolti in un'interazione con l'altro, alimentata solo da pochi stimoli, facilmente fraintesi o oggetto di proiezione, può rivelarsi solo il preludio di un inevitabile fallimento.
La disillusione che si realizza nell'incontro reale con chi non corrisponde alle aspettative, riporta inesorabilmente alla propria irrisolta solitudine. Sul web avvengono indubbiamente "incontri", molto più raramente "relazioni". Un legame può consolidarsi nella realtà solo quando, e i casi sono rari, gli scambi virtuali trovano riscontro nel contatto reale tra due persone.

Non c'è stato un cambiamento nelle persone con l'avvento delle chat: queste hanno solo reso possibile esternare istanze psicologiche precedentemente soffocate. Con questo potente mezzo, certe proposte diventano legittime e viene superata la comune tendenza alla repressione degli istinti.


L'incontro con persone diverse dà vita a confronti e scambi culturali nel corso dei quali si possono approfondire interessi e tematiche di ogni tipo. Le comunità virtuali presenti in Internet possono supplire all'assenza di comunità reali, rendendo possibile, forse illusoriamente, il superamento della solitudine, la costruzione di appartenenze e di relazioni significative, la condivisione di interessi, valori, storie, il raggiungimento di un senso di vicinanza emotiva e di partecipazione ad una collettività.

La chat quindi può avere risvolti positivi, se utilizzata in modo consapevole.

Come ogni altra innovazione tecnologica, il web consente sotto molti aspetti, un miglioramento nella vita delle persone, ma allo stesso tempo rappresenta anche un elemento potenzialmente destabilizzante per chi non ne sappia usufruire in maniera adeguata.

Quando alla solitudine si aggiunge il peso della colpa per avere trascurato il partner o i familiari, dedicando il proprio tempo e le proprie energie al mondo virtuale, può innescarsi un circolo vizioso del tutto simile a quello dell'alcolista: bere per dimenticare i problemi, sentendosi poi peggio e provando ancora più intensamente il desiderio di bere. Le connessioni ad Internet possono farsi più frequenti e più lunghe, alla ricerca di un rimedio in grado di placare le sensazioni dolorose e di quell'eccitazione provata nel corso dell'ultima visita ad una chat room.
Tale dipendenza viene denominata IAD (Internet Addiction Disorder).

Naturalmente non tutte le persone che usano Internet ne diventano dipendenti. Il profilo del soggetto "a rischio" rivela una personalità caratterizzata da spiccata sensibilità, tendenza ad isolarsi e ad evitare di esporsi al contatto sociale. L'osservazione di casi di IAD avvalora l'ipotesi secondo la quale il rischio psicopatologico dell'uso della rete, deriva dalle caratteristiche stesse della comunicazione telematica che consentirebbero al soggetto predisposto di vivere una condizione di illusoria onnipotenza ("posso essere tutto ciò che desidero"). Improvvisamente è consentito vivere gli istinti più nascosti con la sensazione di rimanere al sicuro, si liberano parti di sé che potrebbero sfuggire al controllo.

L'utilizzo di più nicknames, le molteplici relazioni vissute contemporaneamente in chat, l'anonimato, possono procurare una frammentazione della percezione del sé. Si è invitati ad intraprendere una varietà di ruoli e a concedere solo frammenti di sé, il rischio è allontanarsi dal "vero sé" , quello che si è imparato a conoscere nella vita reale. Si crea una confusione nella distinzione tra reale e virtuale, e non si comprende più cosa fa parte realmente di sé e cosa è possibile sperimentare solo virtualmente. Inoltre, mancando una reale presenza fisica durante la comunicazione, è impossibile "vivere" messaggi non verbali e tutte quelle informazioni dell'altro che sono fondamentali nell'interazione tra due individui. L'uomo può essere compreso solamente in quanto "essere in relazione", diventa "Io" a contatto con un "Tu" e prende coscienza di se stesso solo in rapporto con l'altro. L'uso delle chat line può anche provocare un altro fenomeno: la percezione alterata del tempo. La comunicazione in chat è più lenta di quella verbale, ed è facile non accorgersi di rimanere collegati molto tempo.



Internet, in sostanza, non è da considerarsi strumento "pericoloso" in assoluto, ma può rivelare o amplificare problematiche psicologiche preesistenti. E' un fenomeno recente e come tale, necessita di studi approfonditi e continue ricerche. Gli eccessi, come sempre, si rivelano controproducenti. E' necessario avvicinarsi a questo potente mezzo di comunicazione con cautela, limitando il tempo trascorso on line, integrando esperienze di comunicazione reale al fine di sviluppare abilità emotive e sociali, ricercando dei filtri che possano allentare il senso di onnipotenza e di attrazione che Internet è in grado di generare, in modo da vivere appieno tutti gli indiscutibili vantaggi del virtuale e di conseguenza migliorare anche le relazioni reali.

In una rete le connessioni avvengono su richiesta e possono essere interrotte a proprio piacimento. Una relazione "indesiderata ma indissolubile" è esattamente ciò che rende il termine "relazione" così infido. Una "connessione indesiderata", per contro è un ossimoro: le connessioni possono essere e sono interrotte ben prima che iniziano a diventare invise. ... A differenza delle "relazioni vere", le "relazioni virtuali" sono facili da instaurare e altrettanto facili da troncare...

Potremmo definire l'amore che nasce nelle chat come un amore che nasce fra anime. In una società reale che in tutti i suoi aspetti è basata sull'apparire, su internet si può essere, inteso come essere nell'immagine interiore che vogliamo comunicare agli altri.

Gli stessi uomini recuperano la propria anima emotiva e affettiva, di cui hanno ritrosia a mostrare nella vita reale, rendendola palese nella chat.

Sia nel versante femminile che in quello maschile, l'anima ha il sopravvento nella vita virtuale a differenza di quella reale.

Paradossalmente nelle chat ci si mostra con una maggiore autenticità rispetto alla vita reale, si ha meno pudore, meno inibizioni, si è più se stessi, ma si è anche quello che si vorrebbe essere. Ritorna quindi un'analogia con la vita reale, dove si oscilla sempre fra l'essere e l'apparire, con il forte predominio dell'apparire.

Nel web e nelle chat si ricercano affinità elettive, ci si confronta con quelli che si ritiene essere i propri simili dal punto di vista degli interessi, emozioni, passioni.

Quante di queste affinità che crediamo di riscontrare nell'altro o negli altri non sono, come nella vita reale, proiezioni della nostra anima ?

Se le due anime si sono rivelate nella loro sincerità sul web, sopravvivono alla fisicità dell'incontro. Se anche l'immagine fisica delude, l'intesa fra anime consolidata sul web riesce a reggere la delusione e getta le basi per una progettualità relazione nella vita reale che non necessariamente sfocia in amore.

Se le due anime non sono state sincere sul web, è subentrato il gioco reciproco delle proiezioni, dell'apparire dell'anima rispetto al suo essere, non si sopravvive all'incontro reale e il castello incantato dell'attesa dell'incontro si frantuma come un castello di sabbia. Non si regge alla delusione che l'altro non è come avremmo voluto che fosse. Non si dimostra neanche quella tolleranza verso l'alterità che si ha normalmente nella vita reale.

Il terzo scenario è l' incontro con l'anima nera. Infatti, la stessa anima che seduce può procurare dolore. Infatti, quest'anima può anche essere nera con tutto il suo corollario di perversione, malvagità, sofferenza. E quest'anima nera è la più difficile da cogliere nelle chat, è il lupo che si traveste da agnello, è l'anima che ci fa innamorare per poi terribilmente deluderci. E' l'anima che con un colpo di mouse ci cancella dai suoi contatti. Nei casi estremi è l'anima del pervertito, del pedofilo, dello stupratore.

Ci si ritrova sulla chat, la volta successiva, a non raccontare più un amore, ma un fallimento, un tradimento, un'amara delusione.

Prestando particolare attenzione ai contatti in chat che s'instaurano durante periodi di particolare fragilità psicologica personale, quale in seguito a separazione, fine di una relazione, lutto e quant'altro.

Diffidando di un'immagine troppo perfetta che l'altro vuol fornire, consapevolmente o no.

Diffidando di un eccessivo entusiasmo che l'altro mostra nei vostri confronti, consapevolmente o meno.

Soprattutto non lasciando trascorrere eccessivo tempo fra l'incontro in chat e quello nella vita reale e nel momento in cui si decide d'incontrarsi chiedere preventivamente, anche se può sembrare poco elegante, i dati anagrafici dell'altro se non sono già stati oggetto di scambio.


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venerdì 21 agosto 2015

MAFIA E CHIESA

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Tra mafie e religione esiste un rapporto estremamente complesso che non tutti riescono a comprendere fino in fondo.

In Italia il collegamento mafia-religione risale ad una tradizione storica profondamente radicata. C’è un cordone ombelicale che lega saldamente Cosa nostra e alcuni componenti della Chiesa.

Come è possibile, però, che un mafioso o un killer uccida, provochi così tanta sofferenza e allo stesso tempo si dichiari cattolico?

La risposta è che la religione fa parte della tradizione popolare e la mafia ha bisogno del consenso creato da essa. I boss organizzano molte processioni, alcuni parenti portano addirittura il Santo sulle spalle, si occupano delle manifestazioni aiutando con finanziamenti la Chiesa. In questo modo si avvicinano al popolo di devoti. Alcuni mafiosi hanno il bisogno interiore di credere in qualcosa, come hanno raccontato diversi pentiti, ad altri serve la Chiesa per ragioni di appartenenza e identità,  coesione interna e consenso sociale.

Dal canto suo la Chiesa spesso ha taciuto, ha collaborato, ha accettato con omertà una situazione che sarebbe contraria alla propria etica. Ma ci sono stati anche due distanziamenti importanti: uno annunciato da Papa Giovanni Paolo II e l’altro da Papa Francesco. Il primo, nella Valle dei Templi di Agrigento il 9 maggio ’93, ha chiamato alla conversione il malavitoso prospettandogli l’inferno: «Il denaro insanguinato, il potere insanguinato: non potrai portarlo all’altra vita». Il secondo, il 21 marzo, durante un’omelia ha detto: “Coloro che nella loro vita hanno questa strada di male, i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati”.



Ha fatto rumore l'intervista di Nicola Gratteri al Fatto Quotidiano. Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria ha espresso preoccupazione sui 'rischi' che correrebbe Papa Francesco per l'opera di pulizia intrapresa all'interno della Chiesa, in particolar modo sulla trasparenza delle finanze vaticane.

Gratteri, oltre ad essere un magistrato in prima linea da 20 anni, è anche co-autore di svariati libri sul mondo della 'ndrangheta. .

Quando nasce il rapporto Chiesa-'ndrangheta?

Il rapporto con la Chiesa, ma soprattutto con i preti, è importante per capire l'affermazione delle 'ndrine. Si possono individuare diverse fasi: la prima è quella che si apre con la proclamazione del Regno d'Italia, quando la 'ndrangheta è già oggetto di inchieste, grazie all'introduzione nel codice sardo-italiano del reato di "associazione di malfattori". Ad esempio nel 1869 il Comune di Reggio Calabria viene già sciolto per infiltrazioni mafiose, mentre la Chiesa non riconosce il Regno d'Italia e nel 1870 perde il potere temporale dopo Porta Pia.

A quel punto 'ndrangheta e Chiesa sono entrambe su un fronte ostile rispetto allo Stato italiano. E' un periodo di tolleranza, di silenzio. I preti per vocazione erano pochi, molti lo erano 'per mestiere', legati alla classe dirigente più che al popolo.

La fase successiva è quella del "ritorno degli indesiderati", in cui gli 'americani' vennero fatti rientrare per legge, coinciso con una serie di comportamenti eticamente e moralmente discutibili. I gangster iniziano a organizzare feste patronali, ristrutturare chiese, si fanno vedere accanto ai preti, lanciano un nuovo modo di creare consenso sul territorio. Viene 'istituito' anche il raduno al santuario della Madonna Polsi (nel 1894): uomini di chiesa e boss iniziano ad accettarsi a vicenda. I preti erano un biglietto di visita per i mafiosi, c'era un aiuto reciproco.

Nessuna voce fuori dal coro?

Ci sono stati sacerdoti importanti, come don Italo Calabrò, che ebbe il coraggio di sfidare i mafiosi fra gli anni Ottanta e Novanta: dopo il sequestro di un bambino lanciò un'invettiva davanti al sagrato della sua chiesa, definendoli "uomini senza onore".  E' stato un modello positivo, che ha lasciato un segno. Sosteneva che la gente trova coraggio dal coraggio dei 'Pastori della Chiesa'. Ma certi atteggiamenti sono proseguiti e le processioni sono servite, ad esempio, per presentare alla cittadinanza i nuovi affiliati alle cosche. Don Antonio Esposito era legato ad interessi mafiosi e venne ucciso probabilmente perché schierato con una famiglia protagonista di una lunga faida. Fu assassinato anche don Peppino Giovinazzo, vice-economo del santuario di Polsi.

Ora ci sono preti che sfidano la 'ndrangheta, ma sono 'mosche bianche', anche perché mancano degli orientamenti pastorali, dei precetti su cosa bisogna e non bisogna fare, come ragionare sul concetto di conversione e di perdono che caratterizza il rapporto fra la 'ndrangheta e certi preti: non si può continuare a sostenere 'io mi pento davanti a Dio e non davanti agli uomini', non ci può essere perdono che non dia frutti nella società.

Nella loro logica perversa i boss sono convinti di essere devoti nonostante ordinino o commettano omicidi.

Ma i boss sono devoti, la devozione è diversa dalla fede. La prima si manifesta all'esterno ed è legata all'immagine, la seconda riguarda la propria dimensione intima. La devozione degli 'ndranghetisti è funzionale ad una logica di potere, è folclore più che religione: organizzare i fuochi d'artificio per la festa patronale, una processione con la presenza di cantanti che comporta una forte partecipazione della gente.

Si può dire che le mafie 'hanno bisogno della religione', prima ancora delle possibili complicità di sacerdoti o delle alte sfere del Vaticano?


Quando nasce la 'ndrangheta il linguaggio è quello dei preti, la logica è quella dei proverbi. Se devi costruire un immaginario collettivo, un corredo simbolico, lo fai utilizzando quello che hai attorno. E attorno ci sono le chiese, i preti, i 'signorotti' del paese. Polsi non è stata 'inventata' dalla 'ndrangheta, ha una tradizione di devozione e importanza secolare, uno dei pellegrinaggi più importanti in Calabria. Se poi si tiene conto della posizione geografica, si scopre che è al centro dei tre mandamenti della provincia di Reggio Calabria. Gli 'ndranghetisti traggono vantaggio da qualcosa che c'è già e che non deve essere confuso con la 'ndrangheta.

40 anni era la 'mafia stracciona', è passata dalla 'Santa', è diventata il punto di riferimento dei cartelli sudamericani per il traffico di cocaina in Europa. Oggi cos'è la 'ndrangheta?

E' una organizzazione globalizzata, fatta di famiglie che vivono ai quattro angoli della terra, che gestiscono cocaina e riciclano denaro sporco. Ritenuta 'credibile', riesce a relazionarsi con altre organizzazioni e occupa un posto di rilievo nel panorama criminale internazionale.

Accuse forti senza eufemismi di Isaia Sales in “I preti e i mafiosi” (Baldini Castoldi Dalai, 2010). La Chiesa cattolica ha fornito un grosso, insostituibile appoggio dottrinale alle mafie nel Sud Italia degli ultimi due secoli.

Al di là di ogni collaborazione diretta (che pur, in qualche caso, non è mancata).

“Le organizzazioni criminali di tipo mafioso avrebbero potuto ricoprire un ruolo plurisecolare nella storia meridionale e dell’intera nazione se, oltre alla connivenza di settori dello Stato e di parte consistente delle classi dirigenti locali, non avessero beneficiato del silenzio, della indifferenza, della svalutazione e anche del sostegno dottrinale di una teologia che trasforma degli assassini in pecorelle smarrite da recuperare piuttosto che da emarginare dalla Chiesa e dalla società?” si domanda il professore. Per concludere, subito dopo: “la risposta è no”.

Paradosso di una organizzazione religiosa che è per suo stesso “statuto” radicalmente antiviolenta, ma che si presta ad una legittimazione teorica – diretta o indiretta – della violenza, in specie organizzata. Paradosso che – al cuore di una società, quella italiana, che la Chiesa “ce l’ha in casa” – non riguarda solo gli storici e i moralisti. Riguarda tutti.

Il dato di fatto innegabile e punto di partenza dell’indagine è che per più di un secolo e mezzo i mafiosi sono stati accettati come uomini credenti e devoti: ciò non può essere esclusivo merito loro. E del resto le prime condanne ufficiali della mafia da parte della Chiesa sono recentissime (tra le quali spicca quella di mons. Mariano Crociata, segretario generale della CEI).

Ma c’è di più: la Chiesa sarebbe responsabile non solo ideologica, ma anche materiale dello sviluppo delle mafie (ancora una volta indirettamente), in quanto parte delle classi dirigenti meridionali coinvolte nella proprietà e nel controllo della terra (questione centrale per la mafia siciliana),oltre che come portatrice di una “teologia morale (severissimi con il peccato, indulgenti con il peccatore), che ha permesso a degli assassini di sentirsi quasi dei privilegiati, essendo pecorelle da recuperare”. C’è qualcosa di strano nella teologia morale del cattolicesimo se ancora oggi – come racconta l’autore – un uomo come don Ciotti (presidente dell’associazione antimafia “Libera”) si trova quotidianamente a trattare con confratelli che ritengono i pentiti di legge “degli infami”.

La Chiesa, sottolinea Sales, è “una delle principali agenzie educative di massa”. Sarà pur vero che la “gente del Sud” è tradizionalmente omertosa; ma è anche vero che essa non è insensibile agli stimoli dell’educazione, soprattutto se fatta con gesti eloquenti (come quello, proposto dal docente, di negare la comunione ai mafiosi, come già si fa per i ben più miti e innocui divorziati).

Isaia Sales è docente di Storia della criminalità organizzata nel mezzogiorno d’Italia presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. È stato deputato della Repubblica e sottosegretario all’Economia nel primo governo Prodi (1996-1998). È autore di: La camorra, le camorre (1988); Leghisti e sudisti (1993); Il Sud al tempo dell’euro (1998); Riformisti senz’anima (2003). Ha vinto il Premio Napoli nel 2007 con il saggio Le strade della violenza. Malviventi e bande di camorra a Napoli (2006). Ha curato la voce «camorra» per l’Enciclopedia Treccani.

Quindi possiamo capire questo episodio: sei cavalli con pennacchio che trainano una antica carrozza funebre, una banda che intonano prima le note del film "Il Padrino", poi la colonna sonora di "2001 odissea nello spazio" e la canzone "Paradise", altra colonna sonora, ma del film "Laguna Blu", che accompagnano l'uscita della bara e per finire petali di rose lanciati da un elicottero.  E' la cerimonia che si è svolta nel popolare quartiere Tuscolano della Capitale, davanti alla Chiesa di San Giovanni Bosco, dove è stato celebrato il funerale del boss Vittorio Casamonica, il 65enne, appartenente all'omonimo clan criminale, composto da nomadi, che negli anni '70 si stabilirono a Roma, grazie anche alla collaborazione con la Banda della Magliana, ed 'occuparono' le zone sud-est della Capitale, per poi estendersi a Castelli Romani e sul litorale laziale traffico di droga, estorsioni, usura e racket. Sulla facciata della parrocchia di San Giovanni Bosco ad attendere il defunto un grande striscione: "Hai conquistato Roma ora conquisterai il paradiso" ed accanto due manifesti con la scritta: "Vittorio Casamonica re di Roma", il suo ritratto a mezzo busto ed una corona in testa, il Colosseo e il cupolone di San Pietro sullo sfondo. Dopo la funzione, la bara è stata trasportata in una Rolls-Royce sempre con sottofondo musicale, tra le lacrime di molte delle donne presenti.


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