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mercoledì 17 agosto 2016

TRAPIANTI E RELIGIONI

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I trapianti sono accettati dalla Chiesa cattolica e la donazione è incoraggiata in quanto atto di carità. Papa Giovanni Paolo II nell’Enciclica “Evangelium Vitae” ha invitato la comunità cattolica a interessarsi a realtà nuove che a volte trovano nei credenti una certa resistenza. È il caso, per l’appunto, della donazione degli organi.
Buddismo: la donazione è una questione di coscienza individuale.
Ebraismo: gli ebrei ritengono che se è possibile donare un organo per salvare una vita, è obbligatorio farlo. Poiché ridare la vista è considerato salvare la vita, è incluso anche il trapianto della cornea.
Greco Ortodossa: non pone obiezioni alle procedure che contribuiscono a migliorare lo stato di salute dell’uomo, ma la donazione dell’intero corpo per la sperimentazione o la ricerca non ne segue la tradizione.
Induismo: la donazione degli organi per il trapianto è una decisione di tipo individuale.
Islam: i maomettani approvano la donazione da parte di donatori che abbiano dato in anticipo il proprio consenso per iscritto e gli organi non devono essere conservati, bensì trapiantati immediatamente.
Protestantesimo: incoraggia e sostiene la donazione degli organi.
Mormoni: la donazione degli organi per i trapianti è una questione personale.
Testimoni di Geova: la donazione è questione di coscienza individuale fatto salvo che tutti gli organi e i tessuti devono essere completamente privi di sangue.

Non sono tanto i numeri, che restano comunque positivi, a indicare la qualità del sistema italiano dei trapianti. La vera cartina di tornasole è la crescita organizzativa che lo sostiene. Sono migliorate le terapie sui pazienti in lista di attesa per un organo e quelle successive all’intervento. Questo si traduce in una minore mortalità. Per la gestione del meccanismo donatore/ricevente non esistono più tre livelli di coordinamento ma due, dopo l’eliminazione dei centri interregionali. Ciò equivale a uno snellimento tecnico e di passaggi. Di pari passo sono diminuiti gli ospedali dove si trapianta, scesi sotto i 45. La concentrazione delle operazioni significa maggiore casistica e qualità chirurgica.

Il rendiconto del 2015 è stato presentato dal ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, che ha parlato di eccellenza. Gli accertamenti di morte sono stati 2.332 e la rete ha offerto 1.388 donatori di cui 1.170 sono stati utilizzati. In aumento i donatori di tessuti, in particolar modo la cornea. Notevole l’incremento della donazione da vivente di rene e fegato. Poi la donazione a cuore fermo, la vera novità dell’anno scorso. Sono state 6, alle quali si sono aggiunti altri due casi nel 2016. Il successo di questa via alternativa è dovuto alle tecniche di riperfusione attraverso la macchina Ecmo (circolazione extracorporea), che ossigena i tessuti permettendo di recuperare lo svantaggio dei 20 minuti di attesa dopo che il battito si è fermato, il tempo necessario per l’accertamento di morte. Una specie di “restauro” degli organi. Si è concluso dunque con un segno positivo l’anno 2015 per i trapianti di organo nel nostro Paese, con un totale di 3.317 interventi eseguiti (67 in più rispetto al 2014 e 228 rispetto al 2013). Cresce complessivamente l’intera attività trapiantologica, con alcune peculiarità: cuore e fegato hanno registrato un buon incremento, arrivando rispettivamente a 246 (19 in più rispetto al 2014) e 1.067 interventi (10 in più rispetto al 2014). I trapianti di rene sono stati 1.877, in aumento grazie agli interventi eseguiti da donatori viventi. Il polmone ha subìto una leggera inflessione (112 nel 2015; 126 nel 2014), mentre il pancreas risulta in crescita (50 nel 2015; 43 nel 2014). Altrettanto positiva l’attività trapiantologica per i tessuti e le cellule staminali emopoietiche; per quest’ultime, sono stati 704 i trapianti da donatore non familiare adulto (+11 rispetto al 2014) e in aumento quelli da donatore familiare semi-compatibile (“aploidentico”).


Alessandro Nanni Costa, direttore del Centro Nazionale Trapianti, alla domanda su quali potranno essere ulteriori strategie per assottigliare il gap tra pazienti in attesa (9.070) e offerta di organi, risponde: «È un concetto superato. Consideriamo piuttosto i pazienti in lista che vengono operati nel giro di due tre anni, sono 8 su 10. La sopravvivenza è aumentata, prima e dopo il trapianto. La mortalità oscilla tra il 2% dei malati di rene e il 10% di quelli del polmone».
Le zone d’ombra si intravedono nelle regioni del Sud Italia, che però stanno lavorando per guadagnare terreno. Mettere i propri organi a disposizione della comunità attraverso una dichiarazione ufficiale è una strada facile? «Sì in alcuni Comuni, come Milano, Bologna, Cagliari, Ancona e Perugia dove si può indicare il consenso al prelievo al momento di richiedere o rinnovare la carta di identità. Roma era partita bene, poi sono sopraggiunti problemi burocratici» spiega Nanni Costa. Sono 553 (all’11 febbraio 2016) le amministrazioni già partite col nuovo sistema di raccolta (454 nel 2015) . Fra quelli che accettano di dichiarare, il diniego è inferiore al 10%.



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martedì 10 novembre 2015

UCCIDERE I PROPRI GENITORI

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Il parricidio è un archetipo piuttosto comune in diverse culture e religioni, soprattutto in quella greca: tra i più famosi vi sono Edipo e Crono, il padre di Zeus. Secondo il mito, le Erinni perseguitavano i parricidi per tutta l'eternità.

Parricidio famoso è quello in cui Bruto uccise il suo padre adottivo, Giulio Cesare (cesaricidio). Ben più recente quello del principe Dipendra del Nepal, che uccise i genitori insieme ad altri suoi parenti.

Nel diritto romano si intende più generalmente l'assassinio di genitori o parenti prossimi, che in epoca monarchica era giudicato dai quaestores parricidii che comminavano o meno la poena cullei. Tale crimine sarà oggetto di giudizio di quaestio perpetua in età repubblicana e di cognitio extra ordinem in età imperiale. Il termine parricidio risale ad una statuizione di Numa Pompilio, dove con la clausola "parricidas esto" reprime il crimine dell'uccisione di un parente, associando allo stesso reato l'omicidio di un uomo libero commesso con la volontà (da cui oggi deriva l'omicidio doloso). Con "parricidas esto" Numa Pompilio ha voluto dare agli agnati del cittadino ucciso la possibilità di fare giustizia del sangue versato ingiustamente nei confronti della propria famiglia.

Per altri la clausola "parricidas esto" riscontra un significato del tutto diverso. Infatti dovrebbe intendersi (il che riscuote un maggior successo fra gli studiosi odierni) che l'omicida "sia soggetto ad essere parimenti ucciso", qualora l'omicidio sia stato commesso "cum dolo". Se quindi fosse sussistito l'elemento della volontà si sarebbe attribuita la poena cullei, qualora l'omicidio fosse stato colposo, la pena comminata comportava la consegna di un ariete alla famiglia del defunto.

La storia di Edipo è quella di un figlio fatalmente destinato ad uccidere il padre. Un figlio che affronta lunghe peripezie per conseguire inconsapevolmente/inconsciamente l’uccisione del padre.

Da qui deriva il paradigma umano: i figli devono uccidere i padri. Che lo vogliano o no. Che ne siano consapevoli o no.

E’ sempre stato così. Qualsiasi essere umano raggiunge l’età adulta nel momento in cui uccide metaforicamente il padre e/o la madre (i greci parlarono anche di Elettra). Ovvero escono da una condizione di dipendenza fisica e psicologica dai genitori, acquistano autonomia di vita e intellettuale. Ma soprattutto quando superano il modello educativo e culturale proposto dai genitori o dalla società dei “più vecchi”. La ribellione adolescenziale è la cosa più bella e naturale che ci sia, e non sempre si deve risolvere in modo drammatico o conflittuale. Si può anche “ribellarsi” mantenendo il rispetto verso i più anziani e verso un certo tipo di educazione, ma è inevitabile rielaborare il modello proposto secondo la propria personalità, la contingenza storica, il proprio nuovo ruolo di adulto.

Nell’ultima generazione, qualcosa si è bloccato: figli di una generazione che ha demolito i propri padri e poi non ha costruito nulla. Annichiliti dalle proprie creazioni liberali e liberticide, hanno creato un “nuovo modello” sociale e antropologico che non ha nulla di etico e di autoritario. E per aggravare la situazione, figli di una generazione parecchio più ricca. Una generazione che non ha mai raggiunto l’età adulta perché, uccisi i padri, ha creato un sistema di valori del tutto distorto e malsano, che deve venire per forza rifiutato dalla nuova generazione, o almeno dalla parte di essa più “savia” . Una condizione di dipendenza economica e psicologica che non ha via di uscita.  Genitori  amici, figli e nonni. Incapaci di invecchiare, incapaci di accettare che il loro ruolo fisiologico è finito. Incapaci di essere una vera autorità, di proporre una vera educazione. E non possiamo e non riusciamo a ucciderli. Di fronte ad un’interruzione nella catena generazionale, i giovani sono obbligati o a rimanere per sempre infanti, o a balzare miracolosamente all’età adulta. Creando un modello di valori ex-novo.



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domenica 1 novembre 2015

LA SPERANZA

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« La speranza è un sogno ad occhi aperti.»
Aristotele


Aristotele  osserva come la speranza sia un atteggiamento che muta col mutare dell'età dell'uomo: la virtù della speranza è ben presente nella sua ben definita identità nella maturità, mentre nella giovinezza si manifesta con eccesso e nella vecchiaia difettosamente: «...I giovani sono mutevoli e presto sazi nei loro desideri...e vivono la maggior parte del tempo nella speranza; infatti la speranza è relativa all'avvenire, così come il ricordo è relativo al passato e per i giovani l'avvenire è lungo e il passato breve...» perciò sono magnanimi perché inesperti e non ancora delusi dalla vita e, quindi, facili a sperare; i vecchi invece, amareggiati dalle asperità della vita passata e dai loro errori, sono meschini: si tengono al di sotto dei loro desideri e sperano solo ciò che attiene alla vita comune perché hanno paura del futuro.

Il significato del termine "speranza" nella storia della filosofia trova adeguata definizione soprattutto in Aristotele che la concepisce come un atto della volontà che nasce da una abitudine virtuosa che in potenza tende al raggiungimento di un bene futuro difficile ma non impossibile da realizzare. In questo comportamento occorre che sia ben definito il bene che si vuole ottenere e il mezzo che rende congruamente possibile conseguirlo: per cui la speranza si riferisce non solo all'oggettivo bene verso cui tende la volontà, ma anche a ciò con cui si ha fiducia di ottenerlo.

Il tema della speranza è presente nello stoicismo con la sua visione di un Cosmo retto dalla Ragione universale dove vive l'uomo partecipe del lógos e portatore di una "scintilla" di fuoco eterno. L'essere umano è infatti l'unica creatura, fra tutti i viventi, nel quale il Lògos si rispecchia perfettamente: egli è pertanto un microcosmo, una totalità nel quale tutto l'universo è riprodotto.

L'uomo deve dunque adeguarsi all'ordine razionale con l'annullamento delle sue passioni  se vuole raggiungere la saggezza, garanzia di una vita serena. E tra le passioni da mettere da parte vi è in primo luogo la speranza poiché «il saggio è colui che sa vivere senza speranza e senza paura».

Avendo fiducia di come tutto sia regolato necessariamente dal Λόγος, il saggio è tale in quanto abbandona il punto di vista relativo dell’io individuale per assumere un punto di vista assoluto, una visione della realtà sub specie aeternitatis. Al punto culminante del suo complesso itinerario spirituale, reso possibile dalla filosofia, egli approda così ad un'unione mistica e ascetica con il tutto.

Ma il tutto rimane in un ambito terreno e privo di trascendenza: il divino rimane immanente all'universo e all'uomo in una concezione panteistica che ritroveremo secoli dopo in Baruch Spinoza dove «la speranza è un difetto di conoscenza e un'impotenza della mente» per cui «quanto più ci sforziamo di vivere sotto la guida della ragione, tanto più dobbiamo sforzarci di dipendere il meno possibile dalla speranza».



Se nell'ellenismo pagano si connotava la differenza tra falsa e vera speranza nella sopravvivenza nell'al di là, già nel messaggio biblico la "speranza d'immortalità" trova certezza in Dio («Lo spirito di coloro che temono il Signore vivrà,perché la loro speranza è posta in colui che li salva»): se quindi «La speranza dell'empio è come pula portata dal vento» per coloro che hanno vissuto secondo il comando divino «la loro speranza è piena d'immortalità» ed anzi essi possono sperare nella resurrezione dei corpi: «la speranza di riavere di nuovo da Dio queste membra» e «la speranza di essere da lui di nuovo resuscitati».

Nella mitologia greca Elpìs era la personificazione dello spirito della speranza. Nell'opera del poeta greco antico Esiodo, Le opere e i giorni, essa è tra i doni che erano custoditi nel vaso regalato a Pandora, donna creata da Efesto.

Il mito narra infatti che Pandora avesse con sé un vaso che non doveva aprire, ma che aprì, spinta dalla curiosità, infliggendo all'umanità tutti i mali, ai quali rimase come rimedio ultimo quello della speranza, chiamata "Timor del futuro".

Ma quella femmina il grande coperchio del doglio dischiuse,
con luttuoso cuore, fra gli uomini, e i mali vi sparse.
Solo il Timor del futuro restò sotto l’orlo del doglio,
nell’infrangibile casa, né fuori volò dalla porta,
perché prima Pandora del vaso il coperchio rinchiuse,
come l’egíoco Giove, che i nuvoli aduna, le impose.
Ma vanno gli altri mali fra gli uomini innumeri errando,
perché piena è la terra di triboli, il pelago è pieno.
E vagolano morbi di giorno sugli uomini, ed altri
giungon di notte, improvvisi, recando cordoglio ai mortali,
muti, ché ad essi tolse la voce l’accorto Croníde:
sicché, modo non c’è di sfuggire ai voleri di Giove.

Nei versi 90-105 delle Opere e giorni Esiodo descrive la conclusione della vicenda umana attraverso il mito del "vaso di Pandora". Questa giara che dovrebbe contenere il grano, contiene invece i "mali" che affliggono l'uomo e che sono fino a quel momento separati da lui, ma Pandora apre il vaso e li disperde ovunque facendo sì che l'esistenza umana venga da quel momento da questi afflitta. Solo Elpis, la Speranza, «l'attesa o il pensiero del presente-futuro che resta nel "pithos"; riparo al male schiacciante o dominante, in primis quello delle Chere di morte» rimane nel vaso per volere di Zeus.

Da quel momento i "mali" si presentano come "beni" e quando l'uomo li riconosce come "mali", questi ormai lo hanno raggiunto. Per poter raccogliere il bios, il nutrimento, e riempire la giara di "beni" l'uomo deve affrontare la fatica e la sofferenze ormai diffuse ovunque. Solo il lavoro, la costanza e la diligenza possono riempire di beni la giara della vita e nutrirla di buone speranze, regalando così all'esistenza umana momenti di serenità in mezzo ai mali diffusi da Pandora in ottemperanza alla punizione di Zeus.

Quando Pandora, fanciulla divina, per curiosità aprì il vaso che Zeus le aveva ordinato di non aprire , ne uscirono tutti i mali del mondo, eccetto la Speranza. Gli uomini, che prima erano felici e immortali come gli dei, conobbero allora il dolore e la morte, finché Pandora liberò anche la Speranza, che alleviò la loro insopportabile esistenza. Per i Greci la speranza era originariamente un male  perchè nella loro cultura era troppo vicina all’illusione, a cui seguiva inevitabilmente la delusione, che rende ancora più tragica la realtà; dunque, meglio non sperare.

Eppure, a prescindere da filosofie e religioni, mai gli uomini hanno rinunciato a sperare. Sperare è una forma di ragionevolezza o di sentimentalismo? Non è un dubbio astratto, ma una questione sostanziale, in un momento in cui le correnti di disfattismo e addirittura il catastrofismo - con le sue visioni di imminente autodistruzione dell’umanità - fanno serpeggiare molte paure e atteggiamenti regressivi.
Il nostro pensiero è fatto di speranza, perché valutiamo il futuro ogni minuto, anche soltanto per il minuto successivo, e desideriamo che sia un futuro positivo. Dunque la speranza ha una base logica che ci proietta nel futuro. Il termine speranza, in latino “spes”, deriva infatti dalla parola greca “elpìs” che significa originariamente “desiderio”. Ora, poiché nessuno desidera il male per sé, la speranza sin dai tempi antichi significa tendere verso il bene. Quindi possiamo dire che sperare è quasi una necessità biologica per l’individuo, vicina all’imperativo della sopravvivenza, e credo che la società abbia il dovere di tutelarla.

È tradizionalmente definita come "ultima dea" (in lingua latina: Spes Ultima Dea),

La Spes veniva onorata come una dea sin dai tempi più antichi ma soprattutto nel periodo dell'Impero il culto della dea assunse un valore politico rappresentando simbolicamente la fiduciosa attesa di una felice successione imperiale. Da Claudio che la fece raffigurare sulle monete in occasione della nascita del figlio Britannico, la Spes venne quindi definita nelle epigrafi con l'epiteto di «Augusta, Augusti, Augustorum e anche 'publica o p(opuli)R(omani), a cui si aggiunsero sotto i Severi gli attributi di perpetua e firma.

Con Antonino Pio la Spes assunse un valore religioso nella riproduzione della defunta moglie Faustina in una serie di monete che la raffiguravano come la diva Spes: una giovane donna che incede, sollevando l'orlo della veste con un bocciolo di fiore nella mano destra.

L'imperatore voleva così significare che l'azione benefica di Faustina continuava anche dall'al di là per coloro che speravano in lei. Con gli imperatori cristiani la Spes, non venne più rappresentata secondo l'iconografia pagana, perse i suoi epiteti mondani e acquisì, divenendo una delle virtù teologali, un valore religioso ultraterreno.




venerdì 9 ottobre 2015

L'INCESTO


Con il termine incesto (dal latino incestum, "non casto", "impuro") si intende un rapporto sessuale fra due persone tra le quali esiste un vincolo di parentela. L'incesto è il tabù più comune presso tutti i popoli e respinto da tutte le grandi religioni.

L'incesto è un trauma, una violenza psicologica che condiziona il comportamento diventando patologico in chi lo subisce. Le vittime dell'incesto sono in numero quasi uguali tra maschi e femmine; gli aggressori sono in maggioranza uomini, però il numero delle donne che abusano dei figli è in costante aumento e vi sono casi di madre coinvolte nell'abuso quanto il padre.

Nel passato era cosa comune incolpare le vittime dell'incesto, di solito bambine, e non i incestoloro seduttori (violentatori), infatti si riteneva che le conseguenze dell'incesto fossero dovute al comportamento seduttivo della vittima. Questo è fuorviante perché una bambina non può comprendere la sessualità adulta e quindi non può essere seduttiva. Certi gesti, atteggiamenti, espressioni che assume sono interpretati come richiami sessuali solo da un adulto "malato". Il bambino vuole amore, affetto, calore e contatto. Gesti e atteggiamenti che assume vengono interpretati dall'adulto malato come seduttivi, invece sono comportamenti che assume per ottenere affetto e attenzione, poiché è l'unico modo che ha conosciuto per riceverle. Non si rende conto che invece riceve qualcosa di diverso, violenza sessuale.

Crescendo comincia a capire in che modo è stato usato, prova profondo rimorso e sensi di colpa ritenendosi almeno in parte o addirittura completamente responsabile di ciò che è accaduto. Questi rimorsi saranno particolarmente gravosi se ha provato piacere da alcune di quelle attività sessuali, come accade a qualche vittima che non prende in considerazione che l'istinto sessuale incomincia già in tenera età e non era in grado di valutare la situazione come avrebbe fatto d'adulto.

L'incesto è un trauma che condiziona la vita delle vittime e spesso viene rimosso. Quando si prende consapevolezza di ciò che è accaduto la sofferenza è grande e si può vivere una depressione o la tendenza a ritirarsi dalla realtà in una scissione nell'unità della personalità. Si sviluppa un disturbo della personalità, il mondo emozionale e affettivo sarà disturbato per sempre con la probabilità di diventare anch'essi dei violentatori sessuali.

In tutte le persone che sono state vittime dell'incesto possono manifestarsi alcuni o diversi disturbi: disturbi del comportamento, nevrosi, dissociazione, comportamenti e atteggiamenti socialmente indesiderabili, delinquenza giovanile, atteggiamento sessuale invadente con una agilità corporea da civettuola, difficoltà all'addormentarsi,disturbi cardiaci, difficoltà di respiro (senso di soffocazione), risveglio spaventato e improvviso durante la notte, frequenti menzogne,marinare la scuola,fughe ripetute da casa, stato di abbandono sessuale (atteggiamento provocante), facilità ai rapporti sessuali, disturbi sessuali, furti di denaro o altro, paura di rimanere soffocata, sogni ansiosi con allucinazioni al risveglio, paura di andare a dormire, claustrofobia, tentativi di suicidio, pensieri di carattere suicida, cattivo rendimento scolastico, isolamento rispetto ai rapporti sociali, sensi di colpa, sonnambulismo.

Molte persone rompendo il muro del silenzio e facendo emergere l’esperienza incestuosa ne hanno tratto giovamento, anche se è avvenuta a molti anni di distanza, parlandone con colui che ha commesso l’atto. Oppure se non è possibile il confronto, come ad esempio, perché è morto, è importante confidarsi con uno psicologo o consulente spirituale, che potrà servirvi ad alleviare il peso del vostro segreto. Questo è valido quando non si vivono problemi psicologici importanti.



Prescindendo dal significato simbolico dell'incesto messo in luce dalla psicoanalisi, sembrerebbe, da indagini storiche, che il tabù dell'incesto abbia anche assolto la funzione sociale di rafforzare la coesione sociale e di prevenire o impedire i conflitti con le tribù vicine: questo risultato veniva perseguito incrementando i vincoli di parentela con queste ultime attraverso lo scambio delle donne come legame di amicizia e la pratica dei matrimoni combinati tra i due gruppi.

II codice penale italiano stabilisce ex art. 564 la pena della reclusione da uno a cinque anni per chiunque commetta incesto con un discendente o un ascendente, o con un affine in linea retta, ovvero con un fratello o con una sorella, in modo che ne derivi scandalo pubblico. La nozione di pubblico scandalo è condizione obiettiva di punibilità e non elemento costitutivo della fattispecie delittuosa: ciò comporta che il reato si configura per il semplice fatto della consumazione della condotta incriminata. La relazione incestuosa (rapporto continuato) aggrava il delitto; la pena prevista, in questo caso, è da due a otto anni. Inoltre, se l'incesto è commesso da persona maggiore di età con persona minore degli anni diciotto, la pena è aumentata per la persona maggiorenne.

La condanna per il delitto di incesto pronunciata contro il genitore importa la perdita della potestà o della tutela legale. La condanna a qualsiasi pena detentiva per il delitto di incesto, subita da un coniuge, costituisce in Italia, per l'altro coniuge, una causa di divorzio. Altra causa di divorzio è il procedimento penale per il medesimo delitto, conclusosi con sentenza di proscioglimento o di assoluzione che dichiari non punibile il fatto per mancanza di pubblico scandalo ancorché con sentenza di condanna passata in giudicato. Il diritto italiano vieta il matrimonio tra consanguinei: i figli incestuosi sono riconoscibili solo da parte del genitore di buona fede al momento del concepimento previa autorizzazione da parte del tribunale se ciò è conforme all'interesse del figlio. I genitori con mala fede bilaterale (cioè con reciproca consapevolezza della relazione incestuosa) non possono mai procedere al riconoscimento (art. 251 c.c.). Il figlio non riconosciuto può agire ex art. 269 c.c. previa autorizzazione del tribunale (art. 274 c.c.), al riconoscimento giudiziale della maternità o paternità. L'azione è imprescrittibile riguardo al figlio.

La dichiarazione giudiziale produce gli stessi effetti del riconoscimento nei confronti del soggetto verso la quale è pronunciata. Qualora il tribunale neghi tale autorizzazione, al figlio irriconoscibile spetta l'azione di mantenimento cui all'art. 279 c.c. per ottenere dai genitori incestuosi un trattamento economico per il suo mantenimento e l'istruzione in adempimento dei doveri ex artt. 147 e 148 c.c. Ma la Corte costituzionale, con sentenza n. 50 del 2006, ha dichiarato incostituzionale l'art. 274 c.c., che ora non è più applicabile: l'autorizzazione del Tribunale non è più richiesta. Di conseguenza, mentre resta il divieto per i genitori incestuosi di riconoscere il figlio naturale, il figlio può ora chiedere il riconoscimento giudiziale della paternità e della maternità senza particolari restrizioni e la residua ipotesi prevista dall'art. 279 c.c. pare ormai priva di oggetto.

L'incestum nel diritto romano indicava l'unione sessuale tra persone legate da vincoli di parentela o affinità, oppure la violazione del trentennale voto di castità delle sacerdotesse Vestali. Il divieto si estendeva fino al sesto grado, anche se nel corso della storia romana, fu più volte temporaneamente abrogato. Il delitto di incestum fu previsto con l'istituzione della relativa quaestio dalla Lex Iulia de adulteriis coercendis.
L'incesto è, assieme al cannibalismo, il tabù più comune presso tutti i gruppi umani e come tale è respinto da tutte le grandi religioni storiche per motivi molto discussi da vari studiosi, ma prevalentemente dettati dalla preoccupazione per la difesa della specie umana, in senso culturale piuttosto che biologico. Non pare infatti che l'interdizione dell'incesto abbia origini eugenetiche poiché la stessa biologia insegna che solo in caso di tare ereditarie il matrimonio tra consanguinei può essere dannoso per la prole. In sostanza se il matrimonio è uno scambio, è logico che questo avvenga tra gruppi diversi (esogamia), in cui ci sia spazio per un'azione reciproca sia in senso socio-economico, sia in senso culturale, piuttosto che all'interno di uno solo (endogamia).



L'antropologo Claude Lévi-Strauss ritiene a questo proposito che la proibizione dell'incesto sia la costante universale che segna il passaggio dal puro stato di natura a una società umana seppure minimamente organizzata. In talune società antiche l'incesto era spesso consuetudine nelle famiglie che detenevano il potere, con l'evidente finalità dell'autoconservazione dello stesso: esempi giunti fino a noi sono quelli dei faraoni egizi, soprattutto in età tolemaica, e degli Inca; nel mondo greco il mito di Edipo è il tentativo di razionalizzazione di un costume storicamente superato ma di cui si conserva il ricordo.

Ultimamente è stata avanzata l'ipotesi che alla base di questo tabù vi sia una sostanziale repulsione odorifera. Nella fase primordiale (animalesca) l'attrazione sessuale era manifestata da richiami odorosi che indicavano la disponibilità della femmina feconda. Un'ipotesi si fonda sul fatto che riconoscere nell'odore della femmina somiglianze col proprio determini una fisiologica ripulsa. Un'altra ipotesi (la più probabile) consiste nella non rilevabile percezione, da parte del maschio, di un richiamo odoroso troppo simile al proprio. La “femmina in estro” non viene riconosciuta come tale in conseguenza della sostanziale identità qualitativa dei feromoni.

La consanguineità diventa un ostacolo fattuale all'attrazione e al rapporto, che nel tempo si sedimenterà in comportamento e si giustificherà (ovviamente a posteriori) in tabù. Accanto a questa ipotesi va affermandosi quella secondo cui gli individui tenderebbero "naturalmente" a preferire soggetti con sistema immune differente (rafforzando l'ipotesi di odori distintivi), che mostrerebbero diverse risposte immuni verso l'ambiente, verso diversi batteri e virus, con la tendenza a creare individui con un vantaggio evolutivo ampio e soddisfacente a contrastare malattie infettive che, nel corso del tempo, hanno dato luogo a pandemìe che sterminarono intere popolazioni.

Di contro, i fenotipi somatici e non strettamente genetici, quindi non in contrapposizione ad un Dna differente, ossia espressione della forma del viso del corpo, colore dei capelli e pelle sembrerebbero essere un'importante modalità decisionale dal punto di vista della scelta del congiunto, e gli individui con fenotipi simili tenderebbero a scegliersi. Trattandosi di armonizzazione di fenotipi, tale situazione può contraddistinguere l'impiego di una vastissima varietà di geni, posti anche su cromosomi diversi, tanto da eliminare al momento una teoria dell'incesto vantaggioso per l'essere umano.

Con l'aumentare della consanguineità tra i genitori aumenta la probabilità della comparsa di malattie ereditarie rare recessive.Tuttavia, il rischio principale di tare genetiche non è dovuto tanto a una consanguineità stretta dei genitori, quanto a un alto coefficiente di incrocio in una popolazione o sottopopolazione che, per ragioni geografiche, sociali o religiose, ha scarsi rapporti riproduttivi con l'esterno ed è di consistenza relativamente limitata.

La tendenza incestuosa è fondante la teoria psicoanalitica in tutte le sue varianti principali che hanno segnato la storia della psicoanalisi: sia freudiana sia junghiana. L'interpretazione del fenomeno tuttavia è diversa. In ogni caso è comunque proprio questa problematica incestuosa che dà l'avvio alla vicenda edipica che è il perno fondante la teoria e la pratica clinica psiconalitica.

Recentemente in Germania è emerso un caso controverso di incesto: due fratelli di Lipsia - Patrick Stübing e Susan Karolewski - dopo essere stati separati alla nascita si sono conosciuti quando lei aveva 16 anni ed hanno cominciato una relazione: da questa unione sono inoltre nati 4 figli (Eric, Sarah, Nancy e Sofia), dei quali solo l'ultimo non ha problemi di salute. Una volta appurata la loro consanguineità, il tribunale ha disposto l'arresto per lui e un periodo di assistenza sociale per lei in quanto affetta da disturbo dipendente di personalità; nel frattempo, il ragazzo si era sottoposto volontariamente a vasectomia. Dopo aver scontato due anni in carcere, è notizia del 15 marzo 2008 il suo rientro nel penitenziario per scontare gli ultimi 30 mesi di condanna. Il 12 aprile 2012 la Corte europea dei diritti dell'uomo ha stabilito che "la condanna al carcere per una relazione incestuosa" di Stübing non ha violato l'articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (relativa al diritto al rispetto della vita privata e familiare), in quanto "le autorità tedesche avevano un ampio margine di valutazione nell'affrontare la questione". Stübing ha richiesto il rinvio del caso alla Grande Camera, ma il 24 settembre 2012 è stata respinta e la sentenza è diventata definitiva. Nel 2014 il Consiglio etico tedesco chiede al governo la depenalizzazione del reato.

In tempi storici era considerato incestuoso anche il rapporto sessuale con persone legate da affinità spirituale consacrata alla divinità (ad esempio le vestali), specie se legate al culto della fertilità (Demetra e Persefone); ciò prende il nome di incesto spirituale. Stessa cosa si verificava nell'Induismo: al discepolo non era consentito sposare i figli del guru, in quanto il rapporto tra quest'ultimo e il discepolo era così intimo e profondo che una simile unione sarebbe stata considerata incestuosa.



Nell'Antico Testamento e nella legge Mosaica l'incesto è proibito da Jahvé, anche se proprio gli stralci storiografici della Bibbia registrano numerosi casi di incesto. Gli esempi più evidenti sono il fatto che Abramo e la moglie Sara erano fratellastri e le relazioni tra Lot e le sue figlie, senza poi contare che Giacobbe e Rachele erano primi cugini e Isacco cugino del padre di Rebecca; nonostante i dettami morali delle tre principali Religioni, che hanno come fondamento i testi sacri ebraici, che vietano espressamente l'incesto.

C'è un tipo d'incesto che è altrettanto dannoso come quello reale: è l'incesto affettivo. Laddove vi è una seduzione, più o meno esplicita, da parte di uno dei genitori nei confronti di uno dei figli, seduzione che poi culmina nella sostituzione del partner di coppia col figlio/a sedotto, parliamo di incesto affettivo.

In questi casi il genitore incestuoso, a causa della sua fragilità, non è in grado di svolgere appieno il proprio ruolo genitoriale di riferimento ed investe il figlio di un affetto inadeguato, come se fosse l'amante.

Non si arriverà mai a consumare fisicamente l'incesto, ma incosciamente il figlio coinvolto vivrà il legame in maniera estremamente intima. Allo stesso tempo il genitore/partner è irragiugibile come amante. Ciò comporterà che in età adulta, in una sorta di coazione a ripetere come la chiamano gli psicanalisti, ripeterà il copione affettivo incestuoso cercando partner irragiungibili.

Questa ripetersi è legato a due aspetti dell'incesto affettivo diversi fra loro:

ricerca del partner irragiungibile al fine di conquistare e possedere ciò che non si è conquistato e posseduto del tutto nell'infanza;
ricerca del partner irragiungibile al fine di non riuscire ad entrare in una relazione di coppia sana e rimanere, in questo modo, amanti inconsci del proprio genitore.


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lunedì 28 settembre 2015

MATRIMONI MISTI



Nel panorama di un’Italia che cambia rapidamente e che sta diventando giorno dopo giorno sempre più multietnica, multiculturale e multireligiosa, un aspetto che sta assumendo un carattere sempre più significativo è quello dei matrimoni misti.
Nel 2013 ne sono stati celebrati o, comunque, si sono formate 18.273 famiglie con due partner di religione diversa. In Europa nello stesso anno una unione su 12 è stata mista, con Svizzera e Lettonia a guidare la classifica e la Romania a chiuderla in coda, tenendo conto che, tuttavia, i rumeni contraggono matrimoni con partner di altra religione o denominazione cristiana fuori della loro patria.
Quando si tratta questo argomento, sono necessarie precisazioni di termini, in quanto la parola “misti” comprende una notevole varietà di possibilità. A fronte di matrimoni fra partner di etnie e culture diverse, sta crescendo sempre più il numero di unioni fra persone di credo diversi. La questione è di quelle che, nonostante i freni e i deterrenti spesso suggeriti o anche imposti, sono continuate a crescere e a interrogare la società italiana per le sue implicazioni sociali e giuridiche, oltre che i diversi ambiti religiosi. Si tratta, in effetti, di trovare adattamenti funzionali ed efficaci sia a livello sociale e amministrativo, ma anche nell’ambito religioso.
Infatti, il matrimonio misto è da sempre una delle chiavi di integrazione sociale, etnica e culturale. È, con tutta probabilità, la conseguenza immediata più normale di incontri di popoli e persone di etnie, culture e religioni diverse. Ma è anche un efficace deterrente contro la xenofobia. Negli anni Cinquanta, il matrimonio misto che faceva guardare con sospetto certe coppie era quello fra gli italiani del Nord e quelli del Sud.
Come, tuttavia, fanno notare molti, i rischi aumentano quando le unioni avvengono fra culture e religioni diverse. Il vecchio adagio – moglie e buoi dei Paesi tuoi – diventa un cavallo di battaglia di coloro che, per esperienza vissuta, ritrosia alla novità e radicamento nella propria cultura e fede, guardano con sospetto alla possibilità dell’incontro di due fedi religiose sotto lo stesso tetto.



Riccardo di Segni, rabbino capo della comunità di Roma, ha sottolineato senza mezzi termini come la famiglia resti il punto di trasmissione della tradizione, culturale e religiosa dell’ebraismo, e ammettere la possibilità di un matrimonio con un partner di altra fede, soprattutto se questo è la madre, significhi instaurare un meccanismo che può portare, nel giro di alcune generazioni, all’annacquarsi, prima, e, in tempi più lunghi, alla sparizione della tradizione ebraica.
Dello stesso parere è anche Maria Angela Falà, rappresentante dell'Unione Buddista Italiana, e, sebbene in maniera diversa, pure Swamini Hansananda Ghiri, in rappresentanza dell’induismo, ha insistito sulla complessità del fenomeno dei matrimoni misti che, in India, presenta una varietà di esempi e di declinazioni.
Mons. Serrano evidenzia come in merito a queste unioni sussistono aspetti giuridici, canonici e pastorali che andrebbero maggiormente armonizzati nel rispetto della confessione religiosa dell’altro coniuge.
L’aspetto che emerge dai è l'importanza di una maggiore apertura da parte di tutte le realtà religiose ad affrontare un aspetto destinato a diventare sempre più comune e per il quale è necessario, anche all’interno delle diverse strutture religiose, avere persone preparate ad affrontare positivamente le questioni che possono emergere.

L’espressione “matrimonio misto” si applica soltanto ai matrimoni tra cristiani di confessione diversa – cattolici con ortodossi o protestanti -, cioè, tra battezzati; il matrimonio tra persone di diversa fede si chiama “matrimonio con disparità di culto”. Per i matrimoni misti, serve una dispensa dell’autorità ecclesiastica. Sono molto diffusi, in molti Paesi. In Germania le famiglie composte da cattolici e luterani sono la metà della popolazione. Queste unioni non presentano particolari difficoltà, perché gli sposi fanno entrambi riferimento a Cristo. Tuttavia, non è banale amare qualcuno che non condivide la stessa confessione religiosa, può avere conseguenze sulla partecipazione attiva alla vita della fede, e dunque, il cristiano che voglia partecipare attivamente deve porsi il problema se il coniuge non possa ostacolare la pratica religiosa. La fede cattolica collega il matrimonio ad un mistero più grande, di unione tra Cristo sposo e la Chiesa sposa. Per i cattolici, il matrimonio è un sacramento, il settimo, e dunque, non è solo un segno della volontà di unione tra i due coniugi, ma è il segno efficace dell’unione di Cristo con la Chiesa e del battezzato con Cristo. Il matrimonio, per la Chiesa cattolica, è non soltanto l’unione tra un uomo e una donna, ma un mistero ecclesiale. Quando si sposa una persona di fede diversa, bisogna considerare preventivamente determinate questioni: per la pratica del culto, quali saranno i modi familiari di vivere la fede cristiana, per esempio, attraverso la preghiera comune; la confessione nella quale i bambini saranno battezzati ed educati, tema, questo, di vita matrimoniale molto importante, che non può essere lasciato nell’indeciso, da rinviare alla vita familiare dopo le nozze. Per avere l’autorizzazione al matrimonio dell’autorità ecclesiastica, occorre l’impegno dei coniugi a battezzare i figli ed educarli nella fede cattolica. C’è, poi, un altro problema, legato alla concezione del matrimonio come sacramento soltanto per i cattolici, non per i protestanti. Quest’ultimi, dunque, non credono nell’indissolubilità del matrimonio, proprio perché non credono che esso sia anche un mistero di unione degli sposi con Cristo, pertanto, ammettono il divorzio e le seconde nozze. Per i cattolici, invece, nel matrimonio, Cristo stringe un’alleanza con gli sposi per sua natura irrevocabile, che dura, quindi, fino alla morte di uno dei due coniugi. Sono questioni rilevanti, che richiedono una pastorale dedicata.



Gli sposi con disparità di culto sono le unioni tra un coniuge cristiano con un non cristiano. È impossibile analizzare in dettaglio i problemi specifici relativi alle unioni, per esempio, con un induista, un buddista, uno scintoista. Sono, però, tantissimi e, spesso, insuperabili, indagati e compresi in studi e ricerche a cura delle Conferenze episcopali dei Paesi in cui si riscontra maggiormente il fenomeno oppure delle istituzioni accademiche (come l’Istituto pontificio di studi su Matrimonio e Famiglia “Giovanni Paolo II”). Più diffusi sono, invece, in Europa, in Africa, in Medio Oriente e in alcuni Paesi dell’Asia, come Indonesia, Malesia e India, i matrimoni tra credenti delle religioni monoteiste, soprattutto tra cattolici e musulmani. È richiesta una dispensa espressa di impedimento affinché il matrimonio sia valido. Per essere concessa, questa autorizzazione presuppone un accordo tra le parti sui fini e sulle proprietà essenziali del matrimonio. La parte cattolica porta a conoscenza dell’altra il proprio impegno a mantenere e vivere la propria fede, battezzare i figli ed educarli nella Chiesa cattolica. Dunque, si vede fin dall’inizio la difficoltà specifica delle unioni islamo-cristiane. La tradizione islamica esige che i figli dei musulmani siano educati nella religione del padre musulmano. In certi paesi, in cui vige la legge islamica, il matrimonio tra cristiani e musulmani è addirittura vietato. Ci sono esperienze positive di matrimoni islamo-cristiani in certi Paesi in cui c’è stata una lunga coabitazione delle due religioni, come in Libano. Tuttavia, perlopiù i problemi sorgono nel tempo, dopo anni di vita coniugale, come conflitto che riguarda l’educazione dei figli, la concezione della donna o semplicemente la differenza di fervore religioso dei due coniugi verso la propria fede.Il rischio, per i cattolici, può essere allora il prevalere dell’indifferentismo religioso, per il il coniuge cristiano si accontenta di rispettare il coniuge musulmano, rinunciando a dare testimonianza visibile della propria fede in Gesù Cristo.

La presenza in Italia di persone appartenenti ad altri popoli, ad altre etnie e ad altre religioni comporta un problema di convivenza e di condivisione di un territorio, oltre che di interazione di usi, di costumi e di culture differenti. Una pronuncia della Suprema Corte di Cassazione, n. 14960, secondo cui non si può accettare il principio di “relativismo culturale” quando viene usato per giustificare condotte violente e contrarie ai principi basilari del rispetto e della collaborazione morale e materiale nell’interesse della famiglia. In particolare, è stato respinto il ricorso di un cittadino marocchino condannato per aver imposto rapporti sessuali alla moglie, già incinta, oltre a far mancare mezzi di sussistenza giornaliera al figlio. L’uomo si è difeso sostenendo che tali condotte costituiscono, nel suo Stato di provenienza, una facoltà, a suo dire, cioè, la sua legge gli consentirebbe un tale comportamento. Secondo i Giudici di legittimità non è concepibile la scomposizione dell’ordinamento in tanti istituti e leggi per quante sono le etnie, è pertanto doveroso condannare comportamenti contrari al nostro ordinamento. Anche il Tribunale di Roma si è pronunciato in merito ad un procedimento di separazione e ha richiamato la sentenza penale di condanna, secondo cui nella famiglia vigeva “un sistema di vita familiare improntato dal coniuge, secondo mentalità e costume, a una metodica di violenza e sopraffazione e all’autoritarismo più assoluto, sia nei confronti della moglie, trattata alla stregua di una proprietà (anche sessualmente), in spregio alla sua personalità ed autonomia, che nei riguardi del figlio, chiamato a rispondere alle pressanti aspettative (anche religiose) del padre e trattato con estrema durezza o noncuranza”. Si tratta di comportamenti che vanno censurati e puniti, che non trovano alcuna giustificazione in appartenenze religiose e che oggi più che mai vanno denunciati e condannati. La presenza di forti flussi di persone provenienti da paesi e culture diversi ci porta ad un’ ulteriore riflessione sulla celebrazione dei matrimoni misti, che talora comportano situazioni di rischio per donne e bambini, costretti nelle maglie di un agire ispirato a culture assai diverse che non possono trovare ingresso nel nostro sistema familiare.



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venerdì 25 settembre 2015

LE BESTEMMIE



Il verbo blaspheméo significa nella lingua greca insultare, calunniare, bestemmiare: esso infatti e composto da due verbi che significano danneggiare e dire (blapto-phemí). Nel greco profano lo si usava sia nel senso proprio di bestemmia, cioè ingiuria o falsità nei confronti di una divinità, come anche nei confronti delle persone con il senso di calunniare, insultare. Con questi significati il verbo e i sostantivi da esso derivati sono usati anche nella bibbia greca detta dei LXX e nel nuovo testamento. In italiano bestemmiare ha un uso molto più ristretto che nella lingua greca tanto che la traduzione di questo verbo deve servirsi di molte altre parole per renderne il significato.

Nel vocabolario del nuovo testamento il verbo blaspheméo lo si usa in assoluto parlando della vera e propria bestemmia contro Dio e i suoi attributi, ma si usa anche per indicare un atteggiamento che mette in questione le prerogative di Dio.

Gli scribi e i farisei diranno «costui bestemmia» quando Gesù affermerà di rimettere i peccati (Marco 2,7) e uno dei motivi della condanna di Gesù sarà appunto la bestemmia perché Gesù si dichiara giudice escatologico (Marco 14,64). E' bestemmiare anche l'affermare che Gesù non è il messia (Marco 15,29), «Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava...»  Luca 23,39, ed è bestemmia l'abbandono della fede (1 Tim. 1,20). E così bestemmiano gli avversari di Paolo (Rom. 3,8) che lo accusano di essere lui stesso un bestemmiatore.

In ultima analisi secondo il nuovo testamento la bestemmia si rivolge sì contro Dio, ma soprattutto contro il suo Cristo negandone la funzione salvifica. In questo senso va inteso anche l'insulto del "malfattore" appeso con Gesù alla croce.

C'è poi una affermazione sulla bocca di Gesù, che per certi versi è misteriosa, ed è il passo, comune ai vangeli sinottici, con cui egli dichiara imperdonabile la bestemmia contro lo Spirito Santo (Mc 3,28-30). Secondo i più Gesù vuole affermare che chi rifiuta il suo dono di salvezza non potrà essere forzato a riceverlo e renderà così impotente l'azione dello Spirito Santo.

Presso i popoli primitivi esisteva la convinzione che la parola possedesse una forza magica, cioè che fosse in grado di rendere magico l'oggetto interessato, di modificarlo. La funzione antica della bestemmia, così come dell'invettiva e della calunnia vanno compresi alla luce di tale mentalità.

Negli scritti greci profani possono essere indicate come bestemmie le false presentazioni della divinità, per esempio le forme antropomorfe, come pure il dubbio circa la potenza della divinità.

Nel diritto romano la bestemmia non era considerata un reato. Il brocardo "deorum iniuriae diis curae" (delle ingiurie agli dei si occupino gli dei) esprimeva il carattere laico dello stato. Infatti lo stato romano fu sempre caratterizzato dalla presenza di diverse religioni. Solo quando nel 313 il Cristianesimo divenne religione ufficiale dell’Impero la bestemmia fu considerata un grave delitto, da punire con la morte o altre incisive sanzioni penali. Col Codice Giustinianeo del 534 la bestemmia fu sanzionata con la pena di morte.



Nell'Antico Testamento greco il termine blasphemeo dice sempre riferimento, diretto o indiretto, contro la maestà divina, e, con poche eccezioni, indica sempre l'ingiuria a Dio dei popoli nemici di Israele. Alcuni esempi:

Nel paragone con il re di Assur, JHWH è privato di ogni potere, è "reso inferiore", cioè insultato (2 Re).
Quando Israele viene assalito è JHWH che viene bestemmiato (Tobia, 2 Mac).
Quando Edom si felicita della rovina di Israele, insolentisce contro JHWH (Ez).
Dato che per i pagani il Dio d'Israele non è fonte di speranza, essi sono in genere indicati come bestemmiatori di Dio (cf. Dn Versione dei Settanta).

L'espressione di Levitico:

« Chi bestemmia il nome del Signore dovrà essere messo a morte: tutta la comunità lo dovrà lapidare. »
si interpreta nel senso che anche solo menzionare il nome di JHWH è una bestemmia, perché tale nome non deve essere assolutamente pronunciato (Es). Viene comminata la morte non soltanto agli israeliti che bestemmino, ma anche ai pagani (2 Re, 2 Mac, ecc.)

L'affermazione di Giobbe: La collera non ti trasporti alla bestemmia, l'abbondanza dell'espiazione non ti faccia fuorviare, è interpretata da mons. Gianfranco Ravasi nel senso che "anche la bestemmia, come conferma il libro di Giobbe, è una forma di preghiera. Esprime un'istanza metafisica, tipica della preghiera degli atei, nel limite e nella solitudine: è una forma di superamento del limite imposta dall'impotenza che l'uomo avverte per sé".
Il giudaismo conserva in genere la valenza dei testi esaminati della Versione dei Settanta.

I termini legati alla radice di blasfemia compaiono nel Nuovo Testamento 56 volte, di cui 34 nella forma di verbo, senza che ci sia alcun libro nel quale tali voci siano più attestate che in altri. Si tratta sempre di un uso religioso, cioè in riferimento diretto o indiretto a Dio (eccetto Gd): bestemmie contro Dio sono parole o atteggiamenti che offendono la gloria e la santità di Dio.

I significati riscontrati sono i seguenti:

Bestemmia come mancanza contro la maestà di Dio. Può essere contro Dio stesso (At, Ap) o contro il suo nome (Rm, 1Tim, Ap, dove il nome è parafrasi di Dio stesso), come contro la parola di Dio (Tt) o contro gli angeli di Dio (2Pt). Lo stesso Gesù, quando rivendica alla sua parola e alle sue azioni un'autorità messianica e si attribuisce diritti e poteri (per esempio, quello di rimettere i peccati, Lc, Mt), appare agli occhi dei giudei come un bestemmiatore di Dio (Mc, Gv). La sua condanna a morte è basata tra l'altro sulla bestemmia di Dio (Mc e par., Mt). Anche nel tardo giudaismo tale delitto comporta la morte.
Bestemmia come negazione della messianicità di Gesù, a cui consegue l'ingiuria e la derisione (Mc e par., Lc); chi lede la dignità dell'inviato, Gesù, con la bestemmia, pecca contro Dio stesso.
Bestemmia come ingiuria rivolta verso i discepoli di Gesù: la chiesa di Cristo e i suoi membri che testimoniano il Cristo con la loro vita sono oggetto delle ingiurie che avevano colpito il loro Signore (1 Pt, Ap). Allo stesso modo Paolo deve a sua volta patire le persecuzioni che aveva prima consumato contro i cristiani (At, 1 Tim). Bestemmiare la chiesa che porta il nome di Cristo costituisce derisione del Cristo e indirettamente bestemmia contro Dio.
La condotta cattiva dei discepoli può essere occasione di bestemmia contro Dio o contro la sua parola (1 Tim, Tt). La vocazione dei discepoli è quella di contribuire alla glorificazione del Padre (Mt). In questa linea vanno compresi anche i cataloghi dei vizi in cui si trova sempre la condanna della bestemmia (Ef, Col, 1 Tim; 2 Tim). La bestemmia è presentata quale caratteristica specifica dei pagani e dei cristiani apostati.



Giuda parla di una bestemmia contro esseri gloriosi. L'espressione, non chiara, si riferirebbe a propagatori di false dottrine dalla vita libertina, che con la loro immoralità contravvenivano a determinate esigenze rituali e ascetiche delle potenze angeliche, bestemmiando così questi esseri gloriosi.

Il peccato della bestemmia può essere perdonato (Mc, Mt), ma la bestemmia contro lo Spirito Santo non può essere perdonata (Mc). Tale loghion, di carattere per noi enigmatico, viene interpretato comunemente nel senso che, tra coloro che recano ingiuria allo Spirito Santo vi sono alcuni che, pur riconoscendo l'azione dello Spirito di Dio nell'attività di Gesù, possono (e in questo consiste la bestemmia) scambiare la fede in Dio con la fede nel diavolo; il loghion mette in guardia, con profonda serietà, dal quest'estrema e quasi inimmaginabile possibilità demoniaca dell'uomo di dichiarare guerra a Dio, non in debolezza e in dubbio, ma dopo essere stato sopraffatto dallo Spirito Santo, sapendo quindi con precisione a chi dichiara guerra. Questo bestemmiatore diventa pienamente consapevole nell'incontro con Dio. "Perciò colui che bestemmia lo Spirito impreca non più un Dio Lontano del quale si è fatta un'idea ridicola, ma un Dio che gli ha manifestato la sua opera di grazia convalidata dal segno della rivelazione. Per cui dovrebbe rivolgersi a lui con un atteggiamento di riconoscenza, non di bestemmia".

Al contrario di alcune religioni - fra cui l'Ebraismo - il Corano esorta i suoi fedeli a nominare spesso il nome di Dio (che, in base a una semplice lettura del testo sacro dell'Islam, è Allah, ma anche al-Rahman, ossia "Il misericordioso").

Dunque, nella normale parlata araba e di altre lingue di Paesi di cultura islamica, si usano numerose espressioni e interiezioni che impiegano il termine Allah o i sinonimi relativi all'Essere Supremo: "Se Dio vuole", "Dio mi perdoni", "Mi rifugio in Dio", "Dio ne sa di più" o il noto takbir (Allahu Akbar ) o il semplice Ya Allah! (Oh Dio!).

Accostare il nome di Dio o del profeta Maometto a sostantivi o aggettivi insultanti oppure osceni costituisce nondimeno uno dei principali peccati, sanzionati con la massima durezza dalla giurisprudenza islamica, come avvenne ad esempio, per bestemmie rivolte al profeta dell'Islam, con un folto gruppo di oltranzisti cristiani mozarabi a Cordova (i cosiddetti "Martiri di Cordova") che, all'epoca dell'Emirato dell'omayyade Abd al-Raman II (822-852), si recavano nella moschea principale per rivolgere insulti a Maometto.
Anche più di recente tale grave fattispecie giuridico-religiosa è stata ipotizzata per quanto riguarda la nota opera letteraria di Salman Rushdie "I versi satanici", anche se il reato contestato dai mullah sciiti iranici e dall'Ayatollah Khomeini fu piuttosto quello di apostasia, in punta di principio sciaraitico sanzionabile parimenti con la pena di morte.



La bestemmia ingiuriosa e triviale, in quanto offensiva del sentimento religioso dei rispettivi fedeli, è punita nelle legislazioni penali vigenti in molti paesi sia teocratici che laici; in questi ultimi, i termini della legge sono stati estesi per tener conto delle sensibilità religiose delle popolazioni immigrate da altri paesi.

In alcuni paesi la bestemmia non è un crimine. Per esempio, negli Stati Uniti d'America essere perseguiti per questo crimine violerebbe la Costituzione secondo quanto stabilito dalla giurisprudenza nel caso Joseph Burstyn, Inc contro Wilson. Nel Regno Unito, precisamente in Inghilterra e Galles i reati di blasfemia sono stati aboliti nel 2008. In Europa, il Consiglio d'Europa ha raccomandato che i paesi membri adottino leggi a favore della libertà d'espressione. Nei paesi in cui è in vigore la shari'a ed in altri paesi (come ad esempio il Pakistan), la blasfemia è un reato punibile con la pena di morte.

In luogo del reato di blasfemia, o in aggiunta ad esso, alcuni paesi vietano l'incitazione all'odio su base religiosa, il vilipendio della religione o gli "insulti religiosi". Queste reati si configurano con la citazione in giudizio effettuata da chi si senta offeso nei confronti della propria sensibilità religiosa.

Come tutte le imprecazioni, anche non di natura sacrilega (es. porca miseria, porca puttana), le bestemmie italiane più diffuse accostano l'epiteto porco al nome da profanare: i più tipici esempi sono infatti i nominativi della divinità e della Madonna associati prima o dopo l'elemento lessicale offensivo (spesso tale elemento coincide con il termine riferito al suino, porco o maiale). Essi sono testimoniati anche dalla letteratura contemporanea, in questa forma (Ammaniti, 2004, p. 46) o in alcune varianti (Iddio invece di Dio, Manganelli, 1975, p. 125; mapporco, Scòzzari, 1996, p. 29). Anche Pasolini, nelle opere ispirate alla vita di borgata, riproduce queste bestemmie, ma censurandole in porco d... e porca m...

L'epiteto porco non è però l'unico. Fra le altre bestemmie si ricordano l'uso di termini come bestia, boia, serpente, e cane, quest'ultima specialmente in Italia settentrionale; nella forma dialettale can è il tipico intercalare veneto. Sempre in Veneto sono molto usati "mas-ciò", "lazaròn" e "luamàro" (rispettivamente maiale, lazzarone e letamaio). In Piemonte frequentemente l'epiteto usato è "faus" (falso). Inoltre, tra gli altri epiteti offensivi si nomina "mannaggia" associato prima del nome della divinità (utilizzato specialmente per Cristo e per la Madonna), e "puttana" se la bestemmia è rivolta alla Madonna.



Frequente è il mascheramento del nome venerato in vocaboli assonanti, a volte dotati di significato ("Maremma" per "Madonna"; "zio", oppure "diesel", "due", "duo", "Diaz", "disco", "Dionisio", "Diogene", "Diomede" per "Dio"; "Christian", "Cristoforo", "cristallo", "Cristopher", "cribbio" per "Cristo"), a volte privi di senso ("diu", "dao", "tio", "dino", "dinci", "dindio" ("tacchino" in veneto), "dindo", "disse", "diona", "diose", "madosca", "cristianamento"), e "ostrega" al posto di "ostia".

Fenomeno inverso è la sostituzione dell'epiteto offensivo: essa può tradire l'intento blasfemo (es. "porlo" per "porco", "bo" per "boia") o tradursi in un'espressione ancora forte ma non più ingiuriosa. È il caso dell'eufemismo "perdio", registrato come lemma autonomo dai dizionari, e dei suoi derivati ancora più blandi ("perdinci", "perdiana").

Su questa scia si pongono espressioni che sostituiscono l'epiteto offensivo con sostantivi e aggettivi privi del tradizionale senso di impurità (es. "campanaro", "povero", "cantante", "Carlo"; nell'area modenese e reggiana, però, si nomina un "cantero" che può riferirsi al pitale), quando non, apparentemente, benevoli ("caro", "bono", "bello", "santo", "benedetto", "beato"). Tra gli eufemismi si nomina anche l'associazione tra "Dio" e "Cristo".

Inoltre, vi sono altre espressioni usate per mascherare l'intera bestemmia, utilizzando parole inventate o non, che si basano sulla somiglianza fonetica ("Marcoddio", "Bioparco", il veneto "Orcodì" - dove "dì" sta per "giorno"- ecc.).

L'insegnamento morale della Chiesa cattolica applica il secondo comandamento Non pronunciare il nome di Dio invano alle bestemmie, anzi, vede nella bestemmia un gesto ancora più grave di quello stigmatizzato dal secondo comandamento.

L'imperatore Giustiniano giudicava i bestemmiatori meritevoli di morte più di qualsiasi altro delinquente e Filippo II li faceva affogare con una grossa pietra al collo. Luigi IX faceva forare la lingua dei bestemmiatori con un ferro rovente e diceva che egli stesso si sarebbe sottoposto a tale supplizio pur di eliminare la bestemmia dal suo regno.

Alcuni uomini e padri della Chiesa, autorevoli per la santità della vita nonché per l'alto insegnamento lasciato in eredità alla Chiesa come sant'Agostino d'Ippona, san Girolamo, san Tommaso d'Aquino, san Bernardo da Chiaravalle, san Bernardino da Siena fin dall'antichità hanno ritenuto la bestemmia come il peccato più grave tra tutti i peccati mortali.

Nelle religioni patriarcali, come quelle abramitiche (Ebraismo, Cristianesimo, Islam), il corpo e l'istinto naturale animale a livello popolare sono spesso percepiti fortemente negativi e triviali; perciò una tipica bestemmia per queste religioni è l'identificazione con animali quali i suini, oppure ancora come escrementi.

Poiché la bestemmia, nella storia, è stata spesso contrastata da legislazioni mirate a sopprimerne la diffusione, non ne è particolarmente frequente l'uso in letteratura dove, nei rari casi in cui se ne trovano accenni, è spesso censurata o variamente mascherata. L'esempio più eminente è quello dell'opera in francese di Rabelais, scritta a cavallo tra Medioevo e Rinascimento. Come analizzato dal critico russo Mikhail Bakhtin, l'uso sistematico della bestemmia e del corpo grottesco, nel contesto carnevalesco, ha il significato di una gioiosa celebrazione della vittoria della vita.



Nel nostro ordinamento pronunciare bestemmia è stato, per lungo tempo, un reato penale. Sulle ragioni di questa collocazione particolarmente “severa” è difficile esprimersi in modo univoco, ma si può certamente rilevare che la risalente compenetrazione tra tavola valoriale e principi del cattolicesimo potrebbe aver ragionevolmente influito sul Legislatore del tempo.
Oggi, con l’avvento di una penetrante tendenza alla secolarizzazione, il disvalore sociale della bestemmia si è considerevolmente ridotto. L’esperienza comparatistica restituisce risultati disuniformi: nonostante la bestemmia sia considerata un comportamentto antigiuridico in una significativa parte della comunità internazionale, molti ordinamenti prediligono una più ampia estensione del diritto di espressione (si pensi agli Stati Uniti d’America ). Il Legislatore ha, nell’ambito di un progressivo fenomeno di deflazione del sistema penale, parzialmente eroso la precedente disciplina, riallocando la condotta della “bestemmia” tra gli illeciti amministrativi. L’illecito amministrativo (ad esempio la c.d. “multa per eccesso di velocità”), pur condividendo alcuni profili strutturali con il reato penale (in particolare i principi di personalità, legalità, tassatività, capacità), se ne discosta significativamente per il ridotto disvalore giuridico e per la relativa inferiore entità della pena.
Attualmente l’art. 724 del Codice Penale prevede, per chiunque pronunci bestemmia, la sanzione amministrativa nella misura massima di euro 309. Il precetto ha subito un intervento erosivo della Consulta che, con una pronuncia del 1995, ha espunto il riferimento al credo cattolico come “religione dello Stato”, sulla scorta della modifica dei Patti bilaterali tra Repubblica Italiana e Chiesa Cattolica noti come “Lateranensi”. Quanto al soggetto attivo, l’illecito può essere commesso da chiunque (si trattava in passato di un “reato proprio”) ed, in riferimento al bene giuridico oggetto di tutela, può pacificamente ritenersi che esso si identifichi col sentimento religioso e con la libertà di professione del credo. La norma richiede, ai fini della configurabilità dell’illecito, che la condotta sia tenuta “pubblicamente” e quindi in luoghi accessibili ad altri soggetti. Molto discussa è la possibilità di ritenere la sanzione applicabile nel caso in cui la bestemmia si concretizzi per il tramite di mezzi telematici di comunicazione. La giurisprudenza consolidata considera i “social network” luoghi pubblici. Il tema è tornato agli onori della cronaca a seguito di un generalizzato malcontento dei credenti per il proliferare di siti web e pagine sui social network caratterizzate da contenuti oltraggiosi per il cattolicesimo e, più in generale, per l’altrui sentimento religioso. Nello specifico caso delle pagine sui social network, si era spesso profilato il più grave reato di “Istigazione a disobbedire alle leggi”, condotta penalmente sanzionata all’art. 415 del Codice Penale con la reclusione da sei mesi a cinque anni. In alcuni siti e pagine web si è manifestata la preoccupante tendenza degli utenti alla realizzazione e condivisione di testi, immagini ed altri file multimediali a contenuto spregiativo nei confronti del sentimento religioso. Assunto che la bestemmia costituisce illecito amministrativo, la condotta del soggetto che, personalmente o telematicamente, istighi o induca altri all’atto di bestemmiare rientra infatti nel perimetro della fattispecie citata del 415 C.P..
L’oggetto della bestemmia era indicato genericamente, nel testo censurato dalla Consulta, in “simboli” e “persone” venerate dalla religione. Nel testo originario si considerava bestemmia, quindi, non solo l’invettiva verbale rivolta alla divinità, ma segnatamente l’oltraggio a simboli del culto (si pensi alla croce) o a soggetti destinatari di venerazione. Eppure, la giurisprudenza di merito ha disatteso le aspettative più rigoriste: il vilipendio alla Vergine è stato infatti in più casi escluso dall’area di punibilità della norma. Tra i tanti, una richiesta di archiviazione in tal senso è stata in passafo accolta dal Tribunale di Bologna, aderendo alla prospettazione che, non trattandosi di divinità in senso stretto, la Madonna non goda delle stesse garanzie di tutela. Nonostante l’intervento erosivo della Corte Costituzionale abbia espunto il riferimento alla “religione dello stato”, de facto la norma è rivolta alla tutela specifica (ed unica) del credo cristiano cattolico.
Già nel 1988 con la storica sentenza n. 925 la Corte Costituzionale aveva denunciato il periglioso vuoto di tutela in relazione alle altre religioni. Allo stato dell’arte, la norma si limita a sanzionare gli abusi ai danni del sentimento religioso cattolico, marginalizzando gli altri credi e mancando di apprestare garanzie uniformi. Il monito della Consulta è passato inascoltato, dato che ad oggi non si sono registrati interventi estensivi della tutela anche alle altre religioni, creando una concreta disparità di trattamento tra i soggetti dell’ordinamento in relazione al loro credo, (mal)giustificabile esclusivamente per ragioni storiche e tradizionali.
I possibili sviluppi de jure condendo si collocano essenzialmente lungo due possibili direttrici: l’abrogazione in toto dell’illecito amministrativo (sull’esempio del Regno Unito, che nel 2008 ha espunto la fattispecie dall’ordinamento) per decomprimere il sofferente diritto di espressione, oppure la riforma della struttura dell’illecito, al fine di apprestare una tutela uniforme ed indifferenziata.

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sabato 7 marzo 2015

LA PICCOLA GRANDE DONNA : MADRE TERESA

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« Io non sono che una piccola matita nelle mani di Dio. »
(Teresa di Calcutta)
Medaglia del Premio Nobel Nobel per la pace 1979
Madre Teresa di Calcutta, al secolo Anjëzë Gonxhe Bojaxhiu (pron. aŋɛzə gɔnʤa bɔjadʒi:u; Skopje, 26 agosto 1910 – Calcutta, 5 settembre 1997), è stata una religiosa albanese, di fede cattolica, fondatrice della congregazione religiosa delle Missionarie della Carità.

Il suo lavoro instancabile tra le vittime della povertà di Calcutta l'ha resa una delle persone più famose al mondo. Ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace nel 1979, e il 19 ottobre 2003 è stata proclamata beata da Papa Giovanni Paolo II.

Nacque il 26 agosto 1910 a Skopje in una benestante famiglia di genitori albanesi originari del Kosovo: la madre, Drane, era nata a Gjakova e il padre, Kolë era originario di Prizren. All'età di otto anni rimase orfana di padre e la sua famiglia si trovò in gravi difficoltà economiche. A partire dall'età di dieci - quattordici anni partecipò alle attività della parrocchia del Sacro Cuore di Skopje, in particolare quelle del coro, del teatro e dell'aiuto alle persone povere. In quel periodo cominciò a conoscere l'India tramite le lettere di missionari gesuiti attivi nel Bengala.

Nel 1928, a diciotto anni, decise di prendere i voti entrando come aspirante nelle Suore di Loreto, un ramo dell'Istituto della Beata Vergine Maria che svolgeva attività missionarie in India. Dopo un primo colloquio a Parigi, venne inizialmente inviata a Dublino, in Irlanda, dove si fermò sei settimane per imparare le prime nozioni di inglese e ricevere il velo di postulante.

Nel gennaio 1929 raggiunse l'India dove, dopo una breve sosta a Calcutta, venne inviata nel Darjeeling, alle pendici dell'Himalaya, per completare la sua preparazione. Qui si fermò due anni, studiando le lingue inglese e bengali e insegnando nella scuola annessa al convento. Svolse anche un'attività come aiuto-infermiera che la mise in contatto con la realtà dei malati. Il 24 maggio 1931, prese i voti temporanei, assumendo il nome di Maria Teresa, ispirandosi a santa Teresa di Lisieux.

Nel 1950, Madre Teresa fondò la congregazione delle Missionarie della carità, la cui missione era quella di prendersi cura dei "più poveri dei poveri" e di tutte quelle persone che si sentono non volute, non amate, non curate dalla società, tutte quelle persone che sono diventate un peso per la società e che sono fuggite da tutti". Le prime aderenti furono dodici ragazze, tra cui alcune sue ex allieve alla Saint Mary. Stabilì come divisa un semplice sari bianco a strisce azzurre, pare fu scelto da Madre Teresa perché era il più economico fra quelli in vendita in un piccolo negozio ma soprattutto perché aveva i colori della casta degli intoccabili, la più povera dell'india.

Il numero di persone che desideravano seguire l'esempio di Madre Teresa crebbe rapidamente, tanto che le stanze messe inizialmente a disposizione da Gomes si rivelarono presto inadeguate. Nel febbraio 1953 le suore poterono quindi spostarsi in una nuova sede a 54A Lower Circular Road, messa a loro disposizione dall'arcidiocesi di Calcutta, che ospita tuttora la casa madre delle Missionarie della Carità. Lo stile di vita voluto da Madre Teresa, ispirato in parte a san Francesco, prevedeva un'austerità rigorosa, in linea con la condizione di vita dei poveri e con la necessità di preservare gli ideali del nuovo ordine.

Per dieci anni Madre Teresa operò solo nel territorio di Calcutta: nel 1959 aprì infine una nuova struttura a Ranchi, nello stato indiano dello Jharkhand.

Nel febbraio 1965, papa Paolo VI concesse alle Missionarie della Carità il titolo di "congregazione di diritto pontificio" e la possibilità di espandersi anche fuori dall'India. Il 26 luglio 1965 a Cocorote, in Venezuela, venne quindi aperta la prima casa della congregazione fuori dall'India. Seguì, l'8 dicembre 1967, l'avvio di un centro a Colombo (Sri Lanka). Fu poi la volta di sedi in Africa, America, Asia ed Europa nel corso degli anni settanta, ottanta e novanta.

Nel frattempo, la fama di Madre Teresa cresceva anche grazie alla crescente attenzione che la sua attività riceveva da parte dei media.

L'Ordine si ampliò con la nascita di un ramo contemplativo e di due organizzazioni laicali, aperte cioè anche ai laici. Per i Collaboratori di Madre Teresa, la fondatrice volle mettere in luce la natura non confessionale dell'iniziativa, aperta a persone "di tutte le religioni e tutte le denominazioni". Nel 1981 fu fondato il movimento Corpus Christi aperto ai sacerdoti secolari.

Nel corso degli anni ottanta nacque l'amicizia fra papa Giovanni Paolo II e Madre Teresa, i quali si scambiarono visite reciproche. Grazie all'appoggio di papa Wojtyła, Madre Teresa riuscì ad aprire ben tre case a Roma, fra cui una mensa nella Città del Vaticano dedicata a Santa Marta, patrona dell'ospitalità. Negli anni novanta, le Missionarie della Carità superarono le quattromila unità con cinquanta case sparse in tutti i continenti.

Nel 1979 ottenne il Premio Nobel per la Pace. Tra le motivazioni, venne indicato il suo impegno per i più poveri tra i poveri e il suo rispetto per il valore e la dignità di ogni singola persona.

Madre Teresa rifiutò il convenzionale banchetto cerimoniale per i vincitori, e chiese che i 6000 dollari di fondi fossero destinati ai poveri di Calcutta, che avrebbero potuto essere sfamati per un anno intero: "le ricompense terrene sono importanti solo se utilizzate per aiutare i bisognosi del mondo".

A partire dalla fine degli anni ottanta, le sue condizioni peggiorarono: dopo un primo ricovero nel 1983, nel 1989 in seguito a un infarto le fu applicato un pacemaker. Si dimise da superiora dell'Ordine ma in seguito a un ballottaggio fu rieletta praticamente all'unanimità, contando solo qualche voto astenuto. Accettò il risultato e rimase alla guida della congregazione.

Nel 1991 si ammalò di polmonite, nel 1992 ebbe nuovi problemi cardiaci e l'anno successivo contrasse la malaria. Nell'aprile del 1996 Madre Teresa cadde e si ruppe la clavicola.

Il 13 marzo 1997 lasciò definitivamente la guida delle Missionarie della Carità, alla cui guida subentrò suor Nirmala Joshi. A marzo incontrò papa Giovanni Paolo II per l'ultima volta, prima di rientrare a Calcutta dove morì il 5 settembre seguente, all'età di 87 anni.

La sua scomparsa suscitò grande commozione nel mondo intero: l'India le riservò solenni funerali di stato, che videro un'enorme partecipazione popolare e la presenza di importanti autorità del mondo intero. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Javier Pérez de Cuéllar, arrivò persino a dichiarare: "Lei è le Nazioni Unite. Lei è la pace nel mondo." Nawaz Sharif, Primo Ministro del Pakistan, disse inoltre che Madre Teresa era "un raro e unico individuo che ha vissuto a lungo per più alti scopi. La sua lunga vita di devozione alla cura dei poveri, dei malati e degli svantaggiati è stata uno dei più grandi esempi di servizio alla nostra umanità."

Madre Teresa è stata sepolta a Calcutta, presso la sede delle Missionarie della Carità. Sulla semplice tomba bianca è stato inciso un verso del Vangelo di Giovanni:

« Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi. »   (Giovanni 15,12)

Con una deroga speciale Giovanni Paolo II fece aprire il processo di beatificazione a soli due anni dalla sua morte. La procedura si concluse nell'estate del 2003 e la proclamazione avvenne il 19 ottobre.

L'arcidiocesi di Calcutta ha aperto già nel 2005 il processo per la canonizzazione. Il 5 settembre 2007, per la ricorrenza del decimo anno dalla morte, papa Benedetto XVI ha celebrato in Vaticano una messa solenne alla presenza dell'arcivescovo di Calcutta.

La vita di Madre Teresa è stata dedicata all'assistenza dei più poveri, valorizzando la dignità presente in ogni persona, anche nelle condizioni di disagio più estreme. Il suo obiettivo è stato rovesciare la tradizionale asimmetria delle pratiche di assistenza che, spesso condotte con movimenti dall'alto al basso, si rivelavano umilianti e demotivanti per chi riceveva il sostegno. Nella sua ottica, la relazione tra chi dona e chi riceve deve invece essere paritaria, basata sulla reciproca comprensione e rispetto, anche attraverso la condivisione di stili e condizioni di vita.

Particolare attenzione ha dedicato al tema dell'isolamento sociale: secondo Madre Teresa "essere rifiutati è la peggiore malattia che un essere umano possa provare". Per questo le sue iniziative hanno cercato di essere il più possibile inclusive, anche in relazione alle diversità di cultura, lingua e religione.

In ambito demografico, Madre Teresa ha promosso la pianificazione delle nascite con metodi naturali, condannando l'aborto e i metodi di contraccezione nei suoi incontri con esponenti politici di tutto il mondo. Nel discorso tenuto alla consegna del Premio Nobel, dichiarò: «Sento che oggigiorno il più grande distruttore di pace è l'aborto, perché è una guerra diretta, una diretta uccisione, un diretto omicidio per mano della madre stessa. Perché se una madre può uccidere il suo proprio figlio, non c'è più niente che impedisce a me di uccidere te, e a te di uccidere me». Nel 1987, Madre Teresa è diventata presidente onoraria dei Movimenti per la Vita di tutto il mondo.

Sul tema della famiglia, Madre Teresa ha difeso le posizioni della Chiesa cattolica, sostenendo anche campagne contro il divorzio, come ad esempio quella del 1996 in Irlanda. Nello stesso anno suscitò polemiche un'intervista, che la religiosa comunque negò di aver mai rilasciato, nella quale avrebbe dichiarato a un giornale inglese di considerare un bene la fine del matrimonio di Diana Spencer.

Madre Teresa sosteneva l'ecumenismo e l'apertura alle religioni non-cristiane. Su questi temi affermò, in particolare:

« C'è un solo Dio, ed è Dio per tutti; è per questo importante che ognuno appaia uguale dinnanzi a Lui. Ho sempre detto che dobbiamo aiutare un indù a diventare un indù migliore, un musulmano a diventare un musulmano migliore ed un cattolico a diventare un cattolico migliore. Crediamo che il nostro lavoro debba essere d'esempio alla gente. Attorno noi abbiamo 475 anime: di queste, solo 30 famiglie sono cattoliche. Le altre sono indù, musulmane, sikh... Sono tutti di religioni diverse, ma tutti quanti vengono alle nostre preghiere». »
(Lucinda Yardey, Mother Teresa: A Simple Path, Ballantine Books, 1995.)


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