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venerdì 9 ottobre 2015

L'INCESTO


Con il termine incesto (dal latino incestum, "non casto", "impuro") si intende un rapporto sessuale fra due persone tra le quali esiste un vincolo di parentela. L'incesto è il tabù più comune presso tutti i popoli e respinto da tutte le grandi religioni.

L'incesto è un trauma, una violenza psicologica che condiziona il comportamento diventando patologico in chi lo subisce. Le vittime dell'incesto sono in numero quasi uguali tra maschi e femmine; gli aggressori sono in maggioranza uomini, però il numero delle donne che abusano dei figli è in costante aumento e vi sono casi di madre coinvolte nell'abuso quanto il padre.

Nel passato era cosa comune incolpare le vittime dell'incesto, di solito bambine, e non i incestoloro seduttori (violentatori), infatti si riteneva che le conseguenze dell'incesto fossero dovute al comportamento seduttivo della vittima. Questo è fuorviante perché una bambina non può comprendere la sessualità adulta e quindi non può essere seduttiva. Certi gesti, atteggiamenti, espressioni che assume sono interpretati come richiami sessuali solo da un adulto "malato". Il bambino vuole amore, affetto, calore e contatto. Gesti e atteggiamenti che assume vengono interpretati dall'adulto malato come seduttivi, invece sono comportamenti che assume per ottenere affetto e attenzione, poiché è l'unico modo che ha conosciuto per riceverle. Non si rende conto che invece riceve qualcosa di diverso, violenza sessuale.

Crescendo comincia a capire in che modo è stato usato, prova profondo rimorso e sensi di colpa ritenendosi almeno in parte o addirittura completamente responsabile di ciò che è accaduto. Questi rimorsi saranno particolarmente gravosi se ha provato piacere da alcune di quelle attività sessuali, come accade a qualche vittima che non prende in considerazione che l'istinto sessuale incomincia già in tenera età e non era in grado di valutare la situazione come avrebbe fatto d'adulto.

L'incesto è un trauma che condiziona la vita delle vittime e spesso viene rimosso. Quando si prende consapevolezza di ciò che è accaduto la sofferenza è grande e si può vivere una depressione o la tendenza a ritirarsi dalla realtà in una scissione nell'unità della personalità. Si sviluppa un disturbo della personalità, il mondo emozionale e affettivo sarà disturbato per sempre con la probabilità di diventare anch'essi dei violentatori sessuali.

In tutte le persone che sono state vittime dell'incesto possono manifestarsi alcuni o diversi disturbi: disturbi del comportamento, nevrosi, dissociazione, comportamenti e atteggiamenti socialmente indesiderabili, delinquenza giovanile, atteggiamento sessuale invadente con una agilità corporea da civettuola, difficoltà all'addormentarsi,disturbi cardiaci, difficoltà di respiro (senso di soffocazione), risveglio spaventato e improvviso durante la notte, frequenti menzogne,marinare la scuola,fughe ripetute da casa, stato di abbandono sessuale (atteggiamento provocante), facilità ai rapporti sessuali, disturbi sessuali, furti di denaro o altro, paura di rimanere soffocata, sogni ansiosi con allucinazioni al risveglio, paura di andare a dormire, claustrofobia, tentativi di suicidio, pensieri di carattere suicida, cattivo rendimento scolastico, isolamento rispetto ai rapporti sociali, sensi di colpa, sonnambulismo.

Molte persone rompendo il muro del silenzio e facendo emergere l’esperienza incestuosa ne hanno tratto giovamento, anche se è avvenuta a molti anni di distanza, parlandone con colui che ha commesso l’atto. Oppure se non è possibile il confronto, come ad esempio, perché è morto, è importante confidarsi con uno psicologo o consulente spirituale, che potrà servirvi ad alleviare il peso del vostro segreto. Questo è valido quando non si vivono problemi psicologici importanti.



Prescindendo dal significato simbolico dell'incesto messo in luce dalla psicoanalisi, sembrerebbe, da indagini storiche, che il tabù dell'incesto abbia anche assolto la funzione sociale di rafforzare la coesione sociale e di prevenire o impedire i conflitti con le tribù vicine: questo risultato veniva perseguito incrementando i vincoli di parentela con queste ultime attraverso lo scambio delle donne come legame di amicizia e la pratica dei matrimoni combinati tra i due gruppi.

II codice penale italiano stabilisce ex art. 564 la pena della reclusione da uno a cinque anni per chiunque commetta incesto con un discendente o un ascendente, o con un affine in linea retta, ovvero con un fratello o con una sorella, in modo che ne derivi scandalo pubblico. La nozione di pubblico scandalo è condizione obiettiva di punibilità e non elemento costitutivo della fattispecie delittuosa: ciò comporta che il reato si configura per il semplice fatto della consumazione della condotta incriminata. La relazione incestuosa (rapporto continuato) aggrava il delitto; la pena prevista, in questo caso, è da due a otto anni. Inoltre, se l'incesto è commesso da persona maggiore di età con persona minore degli anni diciotto, la pena è aumentata per la persona maggiorenne.

La condanna per il delitto di incesto pronunciata contro il genitore importa la perdita della potestà o della tutela legale. La condanna a qualsiasi pena detentiva per il delitto di incesto, subita da un coniuge, costituisce in Italia, per l'altro coniuge, una causa di divorzio. Altra causa di divorzio è il procedimento penale per il medesimo delitto, conclusosi con sentenza di proscioglimento o di assoluzione che dichiari non punibile il fatto per mancanza di pubblico scandalo ancorché con sentenza di condanna passata in giudicato. Il diritto italiano vieta il matrimonio tra consanguinei: i figli incestuosi sono riconoscibili solo da parte del genitore di buona fede al momento del concepimento previa autorizzazione da parte del tribunale se ciò è conforme all'interesse del figlio. I genitori con mala fede bilaterale (cioè con reciproca consapevolezza della relazione incestuosa) non possono mai procedere al riconoscimento (art. 251 c.c.). Il figlio non riconosciuto può agire ex art. 269 c.c. previa autorizzazione del tribunale (art. 274 c.c.), al riconoscimento giudiziale della maternità o paternità. L'azione è imprescrittibile riguardo al figlio.

La dichiarazione giudiziale produce gli stessi effetti del riconoscimento nei confronti del soggetto verso la quale è pronunciata. Qualora il tribunale neghi tale autorizzazione, al figlio irriconoscibile spetta l'azione di mantenimento cui all'art. 279 c.c. per ottenere dai genitori incestuosi un trattamento economico per il suo mantenimento e l'istruzione in adempimento dei doveri ex artt. 147 e 148 c.c. Ma la Corte costituzionale, con sentenza n. 50 del 2006, ha dichiarato incostituzionale l'art. 274 c.c., che ora non è più applicabile: l'autorizzazione del Tribunale non è più richiesta. Di conseguenza, mentre resta il divieto per i genitori incestuosi di riconoscere il figlio naturale, il figlio può ora chiedere il riconoscimento giudiziale della paternità e della maternità senza particolari restrizioni e la residua ipotesi prevista dall'art. 279 c.c. pare ormai priva di oggetto.

L'incestum nel diritto romano indicava l'unione sessuale tra persone legate da vincoli di parentela o affinità, oppure la violazione del trentennale voto di castità delle sacerdotesse Vestali. Il divieto si estendeva fino al sesto grado, anche se nel corso della storia romana, fu più volte temporaneamente abrogato. Il delitto di incestum fu previsto con l'istituzione della relativa quaestio dalla Lex Iulia de adulteriis coercendis.
L'incesto è, assieme al cannibalismo, il tabù più comune presso tutti i gruppi umani e come tale è respinto da tutte le grandi religioni storiche per motivi molto discussi da vari studiosi, ma prevalentemente dettati dalla preoccupazione per la difesa della specie umana, in senso culturale piuttosto che biologico. Non pare infatti che l'interdizione dell'incesto abbia origini eugenetiche poiché la stessa biologia insegna che solo in caso di tare ereditarie il matrimonio tra consanguinei può essere dannoso per la prole. In sostanza se il matrimonio è uno scambio, è logico che questo avvenga tra gruppi diversi (esogamia), in cui ci sia spazio per un'azione reciproca sia in senso socio-economico, sia in senso culturale, piuttosto che all'interno di uno solo (endogamia).



L'antropologo Claude Lévi-Strauss ritiene a questo proposito che la proibizione dell'incesto sia la costante universale che segna il passaggio dal puro stato di natura a una società umana seppure minimamente organizzata. In talune società antiche l'incesto era spesso consuetudine nelle famiglie che detenevano il potere, con l'evidente finalità dell'autoconservazione dello stesso: esempi giunti fino a noi sono quelli dei faraoni egizi, soprattutto in età tolemaica, e degli Inca; nel mondo greco il mito di Edipo è il tentativo di razionalizzazione di un costume storicamente superato ma di cui si conserva il ricordo.

Ultimamente è stata avanzata l'ipotesi che alla base di questo tabù vi sia una sostanziale repulsione odorifera. Nella fase primordiale (animalesca) l'attrazione sessuale era manifestata da richiami odorosi che indicavano la disponibilità della femmina feconda. Un'ipotesi si fonda sul fatto che riconoscere nell'odore della femmina somiglianze col proprio determini una fisiologica ripulsa. Un'altra ipotesi (la più probabile) consiste nella non rilevabile percezione, da parte del maschio, di un richiamo odoroso troppo simile al proprio. La “femmina in estro” non viene riconosciuta come tale in conseguenza della sostanziale identità qualitativa dei feromoni.

La consanguineità diventa un ostacolo fattuale all'attrazione e al rapporto, che nel tempo si sedimenterà in comportamento e si giustificherà (ovviamente a posteriori) in tabù. Accanto a questa ipotesi va affermandosi quella secondo cui gli individui tenderebbero "naturalmente" a preferire soggetti con sistema immune differente (rafforzando l'ipotesi di odori distintivi), che mostrerebbero diverse risposte immuni verso l'ambiente, verso diversi batteri e virus, con la tendenza a creare individui con un vantaggio evolutivo ampio e soddisfacente a contrastare malattie infettive che, nel corso del tempo, hanno dato luogo a pandemìe che sterminarono intere popolazioni.

Di contro, i fenotipi somatici e non strettamente genetici, quindi non in contrapposizione ad un Dna differente, ossia espressione della forma del viso del corpo, colore dei capelli e pelle sembrerebbero essere un'importante modalità decisionale dal punto di vista della scelta del congiunto, e gli individui con fenotipi simili tenderebbero a scegliersi. Trattandosi di armonizzazione di fenotipi, tale situazione può contraddistinguere l'impiego di una vastissima varietà di geni, posti anche su cromosomi diversi, tanto da eliminare al momento una teoria dell'incesto vantaggioso per l'essere umano.

Con l'aumentare della consanguineità tra i genitori aumenta la probabilità della comparsa di malattie ereditarie rare recessive.Tuttavia, il rischio principale di tare genetiche non è dovuto tanto a una consanguineità stretta dei genitori, quanto a un alto coefficiente di incrocio in una popolazione o sottopopolazione che, per ragioni geografiche, sociali o religiose, ha scarsi rapporti riproduttivi con l'esterno ed è di consistenza relativamente limitata.

La tendenza incestuosa è fondante la teoria psicoanalitica in tutte le sue varianti principali che hanno segnato la storia della psicoanalisi: sia freudiana sia junghiana. L'interpretazione del fenomeno tuttavia è diversa. In ogni caso è comunque proprio questa problematica incestuosa che dà l'avvio alla vicenda edipica che è il perno fondante la teoria e la pratica clinica psiconalitica.

Recentemente in Germania è emerso un caso controverso di incesto: due fratelli di Lipsia - Patrick Stübing e Susan Karolewski - dopo essere stati separati alla nascita si sono conosciuti quando lei aveva 16 anni ed hanno cominciato una relazione: da questa unione sono inoltre nati 4 figli (Eric, Sarah, Nancy e Sofia), dei quali solo l'ultimo non ha problemi di salute. Una volta appurata la loro consanguineità, il tribunale ha disposto l'arresto per lui e un periodo di assistenza sociale per lei in quanto affetta da disturbo dipendente di personalità; nel frattempo, il ragazzo si era sottoposto volontariamente a vasectomia. Dopo aver scontato due anni in carcere, è notizia del 15 marzo 2008 il suo rientro nel penitenziario per scontare gli ultimi 30 mesi di condanna. Il 12 aprile 2012 la Corte europea dei diritti dell'uomo ha stabilito che "la condanna al carcere per una relazione incestuosa" di Stübing non ha violato l'articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (relativa al diritto al rispetto della vita privata e familiare), in quanto "le autorità tedesche avevano un ampio margine di valutazione nell'affrontare la questione". Stübing ha richiesto il rinvio del caso alla Grande Camera, ma il 24 settembre 2012 è stata respinta e la sentenza è diventata definitiva. Nel 2014 il Consiglio etico tedesco chiede al governo la depenalizzazione del reato.

In tempi storici era considerato incestuoso anche il rapporto sessuale con persone legate da affinità spirituale consacrata alla divinità (ad esempio le vestali), specie se legate al culto della fertilità (Demetra e Persefone); ciò prende il nome di incesto spirituale. Stessa cosa si verificava nell'Induismo: al discepolo non era consentito sposare i figli del guru, in quanto il rapporto tra quest'ultimo e il discepolo era così intimo e profondo che una simile unione sarebbe stata considerata incestuosa.



Nell'Antico Testamento e nella legge Mosaica l'incesto è proibito da Jahvé, anche se proprio gli stralci storiografici della Bibbia registrano numerosi casi di incesto. Gli esempi più evidenti sono il fatto che Abramo e la moglie Sara erano fratellastri e le relazioni tra Lot e le sue figlie, senza poi contare che Giacobbe e Rachele erano primi cugini e Isacco cugino del padre di Rebecca; nonostante i dettami morali delle tre principali Religioni, che hanno come fondamento i testi sacri ebraici, che vietano espressamente l'incesto.

C'è un tipo d'incesto che è altrettanto dannoso come quello reale: è l'incesto affettivo. Laddove vi è una seduzione, più o meno esplicita, da parte di uno dei genitori nei confronti di uno dei figli, seduzione che poi culmina nella sostituzione del partner di coppia col figlio/a sedotto, parliamo di incesto affettivo.

In questi casi il genitore incestuoso, a causa della sua fragilità, non è in grado di svolgere appieno il proprio ruolo genitoriale di riferimento ed investe il figlio di un affetto inadeguato, come se fosse l'amante.

Non si arriverà mai a consumare fisicamente l'incesto, ma incosciamente il figlio coinvolto vivrà il legame in maniera estremamente intima. Allo stesso tempo il genitore/partner è irragiugibile come amante. Ciò comporterà che in età adulta, in una sorta di coazione a ripetere come la chiamano gli psicanalisti, ripeterà il copione affettivo incestuoso cercando partner irragiungibili.

Questa ripetersi è legato a due aspetti dell'incesto affettivo diversi fra loro:

ricerca del partner irragiungibile al fine di conquistare e possedere ciò che non si è conquistato e posseduto del tutto nell'infanza;
ricerca del partner irragiungibile al fine di non riuscire ad entrare in una relazione di coppia sana e rimanere, in questo modo, amanti inconsci del proprio genitore.


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sabato 13 giugno 2015

LE DOMUS DELL' ORTAGLIA A BRESCIA

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Le domus dell'Ortaglia sono parte di un quartiere romano residenziale, situato sui terrazzamenti del colle Cidneo, tra l'area pubblica monumentale e le mura orientali.

Intorno ad atrii lastricati in pietra sono distribuiti gli ambienti di rappresentanza, quelli della vita privata e quelli di servizio, con mosaici ed affreschi secondo modelli decorativi analoghi a quelli di Roma e Pompei, affacciati sui viridaria e gli orti verso le mura. I vani più importanti sono dotati di un impianto di riscaldamento a parete ed a pavimento, una fitta rete di condutture in piombo, derivata da uno degli acquedotti urbani, garantiva acqua corrente ai vani di servizio ed alle fontane, rinvenute anche all'interno delle sale più rappresentative, a testimonianza dell'alto livello sociale e culturale dei proprietari.

Le domus rimasero in uso dal I al IV secolo d.C. quindi subirono un progressivo degrado fino al'abbandono per diventare, con i Longobardi, area demaniale regia e poi ortaglia del convento del monastero di Santa Giulia.
L'alto livello di conservazione di strutture murarie e piani pavimentali nonchè la prossimità al Museo di Santa Giulia hanno favorito la progettazione di un percorso espositivo omogeneo, che consente ai visitatori di passare senza soluzione di continuità dai settori archeologici del museo all'interno delle domus, protette da una grande struttura che mantiene inalterati i parametri conservativi e che consente una corretta lettura del sito ed un'ottimale percezione dei suoi rapporti con la città antica.
All'esterno è stato realizzato un grande spazio verde, arricchito da oggetti funerari e resti architettonici, che ricostruisce un esempio di hortus e di Viridarium, giardini che arricchivano le case romane.

Dall’area museale delle Domus dell’Ortaglia, gettando uno sguardo verso l’esterno, è possibile cogliere in tutta la sua particolarità il Viridarium, una sorta di giardino delle abitazioni dell’antica Brixia.

Partendo dagli scavi archeologici, che hanno restituito alla luce spazi quadrangolari delimitati da muretti, verosimilmente gli horti delle case romane, è stato possibile ricostruire le aree verdi adiacenti alle domus, come dovevano essere duemila anni fa.

Se infatti in epoca più antica gli orti erano terreni prevalentemente produttivi, in cui venivano coltivati alberi da frutto ed erbe aromatiche, dal I secolo a.C. si afferma il gusto del giardino ameno, il viridarium, con fiori e specie arboree a scopo decorativo e contemplativo.

In concomitanza con l’allestimento museale delle domus, archeologi, botanici e architetti si sono cimentati per ricreare in Santa Giulia, su un’area di oltre 3.000 mq, un orto-frutteto e un viridarium con specie arboree diffuse e utilizzate in epoca romana per scopi ornamentali, culinari o terapeutici.
Lungo percorsi pavimentati con lastre di pietra, seguendo una geometria semplice e ordinata, nell’hortus sono stati messi a dimora alberi da frutto fra cui la vite (protagonista dei mosaici della domus di Dioniso), il fico, il melo e il cotogno, il pero, il nespolo, insieme al susino, al pesco e al melograno, ingredienti immancabili nelle ricette di epoca latina, oltre che simboli emblematici della civiltà mediterranea.

Nel Viridarium, invece, per ricreare l’atmosfera in cui si immergevano gli abitanti dell’antica Brixia, catturano lo sguardo siepi geometriche di bosso e di lauro, pianta consacrata ad Apollo, insieme a cespugli di oleandro, viburno e mirto.
La rosa nelle sue varietà più antiche, quale elemento di spicco in ogni giardino romano, rappresenta la macchia cromatica più significativa, nelle diverse specie fra cui la canina, la gallica e la muschiata, che avvolgono con profumi e colori, oggi come al tempo del divo Augusto.

Proseguendo verso le mura romane, sono stati posizionati reperti frutto dei lavori di scavo nelle diverse aree cittadine, quali iscrizioni, altari votivi, fregi, monumenti funerari fra cui grandi sarcofagi, attorniati da olmi, cipressi e filari di acanto.

La Domus di Dioniso prende il suo nome dalla raffigurazione del dio greco nell’atto di abbeverare una pantera inserita in un pannello a mosaico nel triclinio.

L’abitazione risale probabilmente al II secolo d.C. e dai resti delle pareti possiamo ricostruire la posizione dell’ingresso originario dalla strada come pure il passaggio che portava dalla porta alla corte scoperta su cui si affacciavano anche i vani superiori e dalla quale era garantito l’accesso agli ambienti del piano terra.

Il triclinio che conserva il mosaico di Dioniso reca anche sulle pareti stupendi affreschi che riproducono motivi coevi che rappresentano forse i gusti eclettici del primo proprietario: una serie di riquadri raffigurano maschere teatrali, uccelli in volo, pesci, erme e paesaggi.

Accanto al triclinio sorgeva una piccola cucina, che cedeva il suo calore anche ai locali adiacenti, tra cui forse si può individuare un cubiculum (camera da letto) con il pavimento rialzato, sostenuto da colonnine (pilae) che consentivano il passaggio dell’aria calda.

Tra le decorazioni della casa, degna di nota è anche la parete di fondo del cortile, che porta tracce di affreschi  su due registri con scene di pigmei che lottano con un ippopotamo e di un personaggio (un pigmeo in veste di sacerdote di Iside ?) che solleva un candelabro, di ispirazione egizia come era di moda anche a Roma appunto durante il II secolo d.C..

Provenendo direttamente dalla domus di Dioniso il percorso del museo prosegue senza soluzione di continuità guidando il visitatore ad ammirare la domus delle Fontane, che deve questa volta il suo nome al ritrovamento di un buon numero di accorgimenti idraulici per alimentare le fontane di cui si faceva bello il ricco proprietario di questa abitazione.

Anche questa casa era dotata di un portico lastricato. L’allacciamento all’acquedotto di Brixia fu realizzato con ogni probabilità nel II secolo d.C. ed in questo periodo il proprietario fece costruire le sue meraviglie idrauliche (di cui oggi possiamo purtroppo solo avere un’idea) ed anche le principali decorazioni interne, come è facile immaginare.

Attorno alla corte lastricata si aprivano i vani più importanti della casa, tra cui spiccano i numerosi ambienti di rappresentanza ed il soggiorno: il vano più esteso, forse una sala di ricevimento, ospitava in origine una fontana di marmo. Incredibilmente di questo locale è stato recuperato anche il soffitto affrescato, che pure era crollato.

Notevole all’interno della domus è un cubiculum (forse un piccolo studio) in cui, nonostante il succedersi di proprietari diversi lungo circa 2 secoli di vita dell’abitazione, la pavimentazione originaria, un prezioso e raffinato mosaico, è sempre stata mantenuta.

Furono anche approntate in tutte le stanze svariate soluzioni per deumidificare e riscaldare i locali, a causa del fatto che – sorgendo la casa alla pendici del colle – numerosi dovettero essere i problemi di infiltrazione: ancora oggi si possono osservare tracce di questi lavori. Anche in questa abitazione sono stati rinvenuti e sono ben visibili ambienti che conservano tracce di pilae per pavimenti sopraelevati per la circolazione dell’aria di riscaldamento.

L’altra fontana che dà il nome alla casa si trovava in un secondo triclinio ( forse destinato ad accogliere gli ospiti in estate ): si trattava di una fontana in marmo a forma di piccolo bacino e serviva a ravvivare il mosaico pavimentale, che raffigurava degli oggetti di vasellame.

L’uso di decorare gli interni di un’abitazione con giochi d’acqua era abbastanza frequente nel mondo romano, soprattutto in zone – come è il caso di Brixia, alimentata da un acquedotto voluto da Augusto – ben rifornite d’acqua. Purtroppo, però, le due fontane oggi si possono ricostruire solo con l’immaginazione, perché ne rimane solo la traccia “in negativo” sul pavimento, a causa della spoliazione dei marmi e persino del sottostante raccordo dell’acqua realizzato in piombo.

Anche la domus di Dioniso ospitava una fontana, collocata nel cortile centrale: nella domus delle fontane, invece, stupiscono gli ambienti di collocazione delle due fontane (due locali coperti), forse corrispondente ai gusti personali del ricco proprietario ed al suo desiderio di sorprendere gli ospiti.    

I pavimenti di questa domus portano i colori vivaci di stupendi mosaici: ad esempio in un vano sono riprodotte le quattro stagioni, di cui sopravvive purtroppo solo l’Estate (con le spighe tra i capelli), mentre nel triclinio sono raffigurate le brocche di cui abbiamo detto, inquadrate in un complesso e fantasioso schema geometrico di losanghe e rettangoli. Il pavimento in assoluto più stupefacente della domus delle fontane si trova in una sala dotata di una volta a botte e suddivisa in tre zone decorate in modo differente con losanghe, fiori e foglie di acanto e girandole ed infine esagoni e fiori, il tutto realizzato con la tecnica del mosaico.

Anche questa domus ospita tracce di decorazioni parietali ad affresco, quali pitture a finto marmo con venature trasversali nere, oppure lo zoccolo rosso a pannelli alternati che decorava un vano a nord del cortile.

Dove né l’occhio né l’immaginazione possono arrivare viene in soccorso una bella ricostruzione tridimensionale ed animata realizzata con l’aiuto di strumenti informatici, che consente quasi per magia di passare in rassegna tutti gli ambienti delle due case così come dovevano forse apparire in origine: questo video, proiettato in una saletta disposta accanto agli ambienti delle domus, permette di immergersi ancora più a fondo nella visita e di cogliere meglio la disposizione di tutti i locali e l’effetto visivo delle splendide decorazioni che li avvolgevano.

Accanto al percorso guidato che permette di esplorare i locali delle due abitazioni questa sezione del museo ospita intelligentemente molti reperti emersi dagli scavi dell’Ortaglia ed appartenenti agli abitanti delle domus stesse: osservando ceramiche, mortai, olle, anfore ancora recanti i bolli d’importazione, recipienti di terracotta, oggetti da cucina, lucerne, serrature e scrigni con chiavi, amuleti e spille, pinzette… si è ancora più coinvolti nella vita quotidiana dei proprietari della due case.




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lunedì 18 maggio 2015

I PAESI DELLA BRIANZA : RENATE

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Renate è un comune italiano della provincia di Monza e della Brianza. Il suo territorio risulta compreso tra i 281 e i 333 metri sul livello del mare. La superficie è di 2,88 km², dei quali 1,30 km² risultano urbanizzati per una percentuale del 44,828%.
Il comune ha una vocazione prevalentemente industriale, con manifatture tessili e altre legate alla lavorazione del legno e delle materie plastiche, in particolare ha due industrie particolarmente sviluppate, basate sulla produzione di maniglie, di cui una conosciuta anche a livello internazionale. Vi è anche una fabbrica di elettrodomestici.

L'origine del nome del paese deriva, probabilmente, da "Arenate" per la tipologia sabbiosa (rena) del terreno. Il territorio fu abitato prima dai Celti e successivamente dai Romani.

La Brianza fu certamente abitata da popolazioni orobiche cui seguirono i Celti (Galli) spinti a Nord dagli Etruschi.

I Romani occuparono  la Brianza dopo aver vinto Milano nel 222 a.C. come riportato nel "De Bello Gallico" di Giulio Cesare; l'imperatore Ottaviano Augusto, subentragli, divise l'Italia in 11 province e Plinio il Vecchio riferisce che la Brianza rientrava nell'ottava. In Renate sono stati rinvenuti reperti di sepolture di epoca romana in località Odosa - durante gli scavi della ferrovia Monza-Molteno (donati ai Musei di Lecco) - e ai Cariggi una spada in bronzo del tipo a forma di salice che verosimilmente contraddistingueva la tomba di un guerriero. In centro paese, nel cortile detto "Curt di Bioi", furono rinvenute antiche monete romane tra le quali un "Sesterzio di rame".

 Sul territorio comunale sono stati rinvenuti alcuni reperti di sepolture di epoca romana nonché alcune monete sempre della stessa epoca. Da citare la presenza nel confinante comune di Cassago Brianza di una villa romana che ospitò San Agostino d'Ippona tra il 386 e il 387 d.C. e di una piccola necropoli. Il nome "Renate" viene successivamente citato in epoca medievale in alcuni documenti, in particolare testamenti. Nel 1162 Benedetto d'Assia, ambasciatore di Federico Barbarossa, destina dei fondi a località della zona tra le quali viene citata la località renatese del Tornago. Il 22 dicembre 1451 le tre località di Renate, Tornago e Vianò sono inserite nelle immunità fiscali che il duca di Milano Francesco Sforza concede al Monte di Brianza. Nel 1530, Renate contava 91 abitanti, 20 capi di bestiame bovino. V'erano 240 pertiche coltivate a vigna, 298 a campo e prato, 230 a ronco. Oltre al centro storico (via Umberto) e il Tornago d'antica origine medievale, vicino a Cremella e alla Pieve di Missaglia v'erano il Vianò col suo monastero sotto la Pieve di Agliate e la Cascina Odosa al confine con Besana. Il 10 maggio 1607, Renate dà ospitalità alla soldataglia lanzichenecca della compagnia del capitano Alberto Baldovino. Nel 1630, di nuovo, si ospita la compagnia lanzichenecca del capitano Rainoldo del reggimento del colonnello Ciamburgo. Il XVIII secolo vede la dominazione austriaca. Nel 1843 Emilia Redaelli sposa nella chiesa parrocchiale il nobile Enrico Manzoni, figlio dello scrittore Alessandro e di Enrichetta Blondel. Abiteranno nella villa Cagnola-Mazzucchelli per 20 anni. L'8 novembre 1928 viene pubblicato il Regio Decreto 8556 con il quale il Comune di Renate viene fuso con il Comune di Veduggio e così rimarrà fino al 1956.

Sul territorio comunale insiste una parte del parco agricolo La Valletta. Il parco ha una superficie totale di 837 ettari, dei quali 129 sul territorio di Renate. Il territorio del parco La Valletta si trova interposto tra due grandi aree protette quali il "Parco della Valle del Lambro", di carattere fluviale, e il "Parco naturale di Montevecchia e della Valle del Curone", di carattere agricolo-forestale. La particolare collocazione dell'area, ha portato a valutarla come un possibile terzo "corridoio ecologico", un ponte di connessione tra i due parchi regionali che rappresentano i nodi funzionali di un sistema di rete ecologica a scala provinciale e regionale. L'ampia area verde del parco agricolo La Valletta è costituita da caratteri naturali, storici e culturali propri che si sono mantenuti nel tempo. Gli elementi che permettono di conoscere le qualità e i pregi del territorio della Valletta sono sia gli elementi naturali (geomorfologia, idrologia, vegetazione, zoologia) che gli elementi culturali (uso del suolo, valori scenografici - architettonici, rete sentieristica).

Lo Stadio Comunale "Mario Riboldi" è l'impianto sportivo comunale di Renate. È intitolato a Mario Riboldi, uno dei fondatori del Renate Calcio, situato al nord del paese, confina con Cassago Brianza ed è utilizzato dal Renate Calcio.
Il campo da gioco è in erba e misura: 105 x 65 m, ed è sprovvisto sia dell'impianto di illuminazione sia della pista d'atletica. Adiacente allo stadio c'è un altro campo da calcio in sintetico che misura 86 X 48 metri dotato di un impianto di illuminazione. La sua capienza è di 1.400 posti, ed a causa della insufficiente ricettività sia di capienza che logistica, non a norma per ospitare partite di Lega Pro, la squadra gioca le partite casalinghe allo Stadio Città di Meda nel comune di Meda.

La società che rappresenta il calcio nel comune brianzolo è l'Associazione Calcio Renate, fondata nel 1947 da un gruppo di tifosi interisti; da cui derivano i colori sociali nero e azzurro.

Persone legate a Renate:
Edoardo Mangiarotti, schermidore
Dionigi Tettamanzi, cardinale, arcivescovo emerito di Milano




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sabato 25 aprile 2015

BIZZOZERO

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Bizzozero è un rione della città di Varese. Antico borgo rurale di origine celtica, fu comune autonomo sino al 1927, quando fu accorpato a Varese in seguito alla elevazione della città bosina a capoluogo dell'omonima provincia.

L'origine del toponimo attuale va associata alla nobile famiglia Bizzozero, originaria del posto e tenutaria del castello sulla valle del fiume Olona. Per alcuni studiosi  l'origine etimologica del termine "Bizzozero" riporta ai Galli Insubri: "Bizzozero, pronunciato in dialetto BYGIOGIAR, può indicare un insieme di baite galliche con annessa una chiesa. Le baite hanno origine circa nel III secolo a.C., dislocate in recinti(by); la igegia (chiesa) è proprio nel centro di questi recinti in terrapieni e nel confluire di tre antichissime strade". Tali asserzioni hanno un fondamento dovuto a scoperte di tipo archeologico; nel 1881, in un campo detto "Opagn" furono trovati i resti di una tomba gallica contenente un vasetto a forma di munera, un'ampolla, un collare, tre braccialetti di bronzo ed altri due di pietra micacea. La preziosità di tali oggetti farebbe supporre che la persona ivi cremata fosse di elevato rango. Lo stanziamento dei galli insubri è stato confermato anche dal successivo ritrovamento in un campo vicino di un'altra tomba in pietra con la presenza di vasi.

Nel II secolo a.C., conquistando il territorio varesino, i Romani si insediarono anche a Bizzozero, lasciando successivamente numerose tracce della loro duratura permanenza. In primo luogo vanno ricordate le due lapidi ritrovate nel XVIII secolo dal Sormanni, prefetto della Biblioteca Ambrosiana di Milano: di queste la più interessante è quella rinvenuta nei pressi della chiesa di Santo Stefano e che nella traduzione interpretata dal latino recitava: "Tertullo figlio di Censorino coi suoi scioglie il voto al dio Silvano". Particolare rilevanza assume il richiamo al culto del dio delle selve, in quanto confermerebbe storicamente la presenza di un delubro pagano nella zona ove sorge la chiesa di Santo Stefano. Secondo un'antica tradizione la località che circonda la chiesa e l'annesso cimitero prendeva il nome di "Luco", derivante dal verbo latino "lucere", col quale si solevano indicare i fuochi accesi per i sacrifici in onore del dio protettore delle selve. Il sito appartato, boscoso, misterioso, e, nel contempo, posto nelle vicinanze di un fiume, era l'ideale per la localizzazione di un tale culto. Ancora oggi la strada che collega Bizzozero a Schianno si denomina proprio via Piana di Luco. Da ultimo ricordiamo che durante i recenti lavori di restauro in Santo Stefano l'architetto Ravasi ha scoperto e rilevato in pianta, poco distante dalla torre campanaria, una tomba di epoca romana: con un fondo in tegole romane e i fianchi foderati con pietre e mattoni simili, la tomba conteneva due scheletri con le teste appoggiate ai mattoni, nonché due fibbie dell'epoca.

Ulteriore testimonianza della presenza romana è data dallo sviluppo della rete viaria: la strada che da Milano raggiungeva il Passo del Lucomagno e la Rezia, passava attraverso Bizzozero. Questo tipo di strade consolari rappresentava sia un efficace mezzo di difesa e di comunicazione, sia il simbolo evidente dell'unità dell'Impero. In tal modo Bizzozero diventò il passaggio obbligatorio di carovane militari e soldati, oltre che di commercianti, pellegrini, sede di presidio militare con compiti di vigilanza. Tra queste strade consolari transalpine la più conosciuta è la Via Mala, che da Milano raggiungeva prima il Passo del San Bernardino e poi Lindau, sul Lago di Costanza, che si trova tra Austria, Germania e Svizzera.

Risalgono invece al X secolo i primi documenti che riportano il nome di Bizzozero, mentre sono di qualche secolo antecedenti le fondamenta della chiesa di Santo Stefano, ora riconosciuta monumento nazionale. Forse a causa di qualche pestilenza, o più probabilmente per ragioni di sicurezza, l'abitato del paese si spostò a più est, sullo sperone che domina la Valle Olona, nei pressi del castello di Bizzozero, in epoca basso medioevale. Fu qui che sorse una nuova chiesa parrocchiale dedicata ai Santi Evasio e Stefano. La parrocchia autonoma, che comprendeva anche la comunità di Gurone sino al XVIII secolo quando la popolazione era di 380 anime, e che in età napoleonica si allargò fino a ricomprendere Gurone, Schianno, Buguggiate e Gazzada, godette anche di autonomia amministrativa fino al 1927, quando il comune di Bizzozero coi suoi 1537 abitanti fu accorpato al comune di Varese. Il canonico don Luigi Antonetti, parroco dal 1957, scomparso nel 1988, diede vita ad un profondo rinnovamento delle associazioni religiose e di laicato, di accoglienza sociale, di conservazione del patrimonio parrocchiale. Alla sua iniziativa sono dovute,tra l'altro, il completo restauro degli oratori, la decorazione pittorica della chiesa di San Evasio ad opera dei fratelli Monzio Compagnoni, bergamaschi, ultimata nel 1960, il recupero alla fruizione dell'arte e all'esercizio religioso della'antichissima chiesa di Santo Stefano, presso il cimitero.

Carlo Francesco Bizzozero, fonditore di campane, rilevò la fonderia dei Sottile, il figlio Giuseppe continuò l'attività, trasmettendola ai figli Antonio e Felice.
Giulio Bizzozero (Varese, 20 marzo 1846 – Torino, 8 aprile 1901), figlio di Felice Bizzozero e Carolina Veratti, insigne medico e docente all'università di Pavia, padre dell'istologia italiana.
Giulio Cesare Bizzozero (Varese, 6 gennaio 1833-Varese, 15 maggio 1888), suo fratello. Avvocato per alcuni anni, nel 1859 da volontario partecipò alla seconda guerra d'indipendenza italiana, combattendo anche la battaglia di San Martino. Nel 1877 diresse la gestione della fonderia. Fu eletto consigliere municipale di Varese nel 1874 ed in seguito assessore supplente per gli anni dal 1878 al 1886, e facente funzioni di sindaco nel 1878 in occasione dell'importante Congresso della Società Italiana di Scienze Naturali in Varese. Pubblicò nel 1874 il volume Varese e il suo territorio. Guida descrittiva, e nel 1882 lo studio Le belle arti nel territorio varesino. Raccolta di pitture e sculture antiche e moderne, illustrato con sessantuno tavole con disegni e litografie del pittore Pasquale Baroni.
La chiesa di Santo Stefano, monumento nazionale è un autentico gioiello architettonico, ricco di testimonianze dell'arte pittorica romanica, dei secoli XV e XVI.
La chiesa parrocchiale di Sant'Evasio è assai antica, già registrata dal Bussero: "In plebe uarixio loco Bexozano est ecclesia sancti euaxii martiris", ma della primitiva costruzione nulla rimane. Verso la fine del Seicento venne ricostruita e nel 1911 si terminò un ardito ampliamento, dovuto all'architetto don Enrico Locatelli, verso la Valle Olona, ad opera del parroco don Antonio Canziani che curò personalmente l'esecuzione dei lavori, arretrando l'abside grazie all'edificazione di imponenti bastioni che ancora oggi sono ben visibili dalla sottostante vallata. Il campanile venne costruito nel 1844 e nel 1848 furono collocate le campane. Una di queste porta la seguente iscrizione: "nata la libertà / nacqui ancor io ad echeggiar / w l'Italia e Pio / vigente il governo provvisosrio 1848". Recenti studi del prof. Renzo Talamona stanno finalmente chiarendo le motivazioni della dedica della parrocchiale a Sant'Evasio, al punto che la presenza emblematica a Bizzozero di Evasio santo dell'VIII secolo, martirizzato a Sedula, l'attuale Casale Monferrato, lascia forse meno isolata la prima testimonianza scritta sul paese, contemporanea alle vicende del Santo, la cui devozione è sempre rimasta per lo più circoscritta alla terra piemontese. "Concediamo a quel santo e venerabile luogo tutti quei carpentieri che il predetto luogo si riconosce, tramite il testo di un diploma, aver posseduto fin dal tempo del nostro antesessore Liutprando sia nella valle che si dice Antelamo (Valle d'Intelvi) sia quelli che sono nel villaggio di Besogolo (Bizzozero)" così traduce ed interpreta il Talamona il testo del documento con cui i re Franchi Ugo e Lotario concedono al Monastero di San Pietro in Ciel d'Oro di Pavia di avvalersi di carpentieri residenti in Val d'Intelvi e Bizzozero, rinnovando una concessione fatta due secoli prima dal re longobardo. L'antichità di tale documento ha sempre assunto una notevole importanza, sia per l'attestazione del nome che come riflesso della mobilità della forza lavoro nell'ambito del regno longobardo, che vede moltiplicarsi, prima della rovina ad opera dei Franchi, scambi di ogni natura tra il Seprio, di cui Bizzozero faceva parte, e Pavia, capitale del regno. Una delle ipotesi altamente prese in considerazione è la devozione delle stesse maestranze di ritorno da Pavia verso il Santo martirizzato: la Chiesa locale si affidò così alla protezione spirituale di Evasio.
La Torretta di Bizzozero: l'originale manufetto che caratterizza il borgo potrebbe risalire al Regno longobardo, mentre nel suo attuale aspetto è comunemente attribuita al Cinquecento.
Altri edifici degni di menzione sono il Castello di Bizzozero, profondamente rimaneggiato ad inizio '900, la chiesa di Santa Maria Maddalena, che giurisdizionalmente apparteneva con il quartiere circostante alla Parrocchia di Bizzozero, prima di passare, dopo che fu creata, nei limiti della nuova Parrocchia di San Carlo, negli anni sessanta del XX secolo. Il più importante ed unico quadro, attribuito a Francesco del Cairo (1598-1674) ritrae cristo risorto che appare alla santa in penitenza.
La chiesa "della Maddalena" è ancora oggi il cuore di un antico quartiere, che fino a qualche decennio fa respirava l'aria di una comunità prevalentemente agricola. Accanto alla chiesa esiste un importante fabbricato, già di proprietà delle sorelle Ambrosini, custodi della tradizione religiosa del sito. All'interno esiste un vecchio camino barocco, gli alti soffitti sono testimonianza di una nobiltà abitativa, in netto contrasto con il quadrilatero di case, quasi un blocco unico, intorno al cortile, prevalentemente abitazioni rustiche di un ceto rurale. Sono in corso lavori di ristrutturazione, con la realizzazione di una grande meridiana, sul muro esterno, lato cortile. esattamente al posto di quella che era ormai ridotta a stato di non visibilità a motivo del suo deprecabile stato di degrado. A poca distanza della chiesetta, al limite ovest del cortile furono rimessi in luce dopo sapienti restauri affreschi del 1400, riconducenti alla Bottega di Galdino da Varese. La chiesa, prima di pervenire all'accennata proprietà Ambrosini, apparteneva a due fratelli, pittori varesini di nascita, ma normalmente residenti a Milano, Giovanni Battista e Gerolamo Grandi. Proprio a loro è dovuta la dotazione della grande tela e pala d'altare, oltre pitture di loro creazione, un tempo a decoro delle pareti. I fratelli pittori, morti nell'anno 1718, costituirono una dote per una cappellania, per la celebrazione della Messa; dote che si conservò a lungo, fino alle leggi di Napoleone I, che soppressero i beni ecclesiastici.
Fino agli anni cinquanta del XX secolo le "Cascine della Maddalena" rappresentavano un modello, in scala ridotta, delle condizioni socio economiche e religiose del tempo; pochi nuclei familiari: due rami della famiglia Vedani, i Nicora, i Rossi, gli Ambrosini, suddivisi in tre ceppi, i Mai.
I riferimenti alla chiesa parrocchiale di San Carlo, che ha inglobato la chiesa di Santa Maria Maddalena, ci obbligano a dare notizia della fondazione della stessa ad opera dell'allora cardinale di Milano cardinale Giovanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI. Nel 1960 egli benedisse la prima pietra della chiesa, istituendo la parrocchia con decreto arcivescovile in data 4 novembre 1961. Il territorio assegnato è confinante con la parrocchia di Giubiano, (all'altezza di via Guicciardini), Bosto, Bizzozero. La benedizione rituale di mons. Francesco Rossi di fatto aprì la chiesa di San Carlo ai fedeli il giorno 8 dicembre 1961. La solenne consacrazione si compì il 16 gennaio 1966 da parte del successore di Montini, il cardinale Giovanni Colombo il 16 gennaio 1966. Dalla sua nascita la rettoria della parrocchia è di don Gianni Brambilla per un numero assai considerevole di famiglie e di abitanti, che certamente si aggirano intorno alle 10000 unità: la figura di Don Brambilla è diventata con il passare degli anni un elemento di eccezionale rilevanza religiosa e sociale, attraverso gli indirizzi propri e carismatici della persona e le sue realizzazioni nell'ambito della pastorale parrocchiale. La chiesa fu costruita sul viale Luigi Borri negli anni 1960-1961 su disegno e progetto dell'architetto Stefano Lo Biacco di Milano coadiuvato dall'architetto Giorgio Clerici di Cavenago. La struttura architettonica rispecchia le tendenze dell'arte moderna. È a pianta circolare con la copertura che è simile ad una grande tenda che vuole essere il simbolo della tenda di Dio in mezzo agli uomini ed espressione del popolo nuovo in cammino verso la Patria celeste. La chiesa è uno degli esempi più significativi di questa corrente dell'architettura moderna: è stata citata in mostre di architettura religiosa. L'interno, ampio e luminoso, può contenere fino a 800 fedeli. La pala, quadro più importante nella chiesa, raffigura San Carlo innalzato dagli angeli sull'altare e viene attribuita al pittore milanese Andrea Bianchi, detto il Vespino, appartenente alla Scuola del Morazzone. L'opera fu realizzata agli inizi del Seicento e fu donata dall'avv. Franco Marzoli, mentre il restauro conservativo fu operato dal prof. Mario Rossi. Sul piazzale esterno della chiesa si può ammirare la statua di San Carlo Borromeo, opera dello scultore Campagna di Viggiù, benedetta il giorno della sua inaugurazione da mons. Bernardo Citterio il 4 novembre 1982.

Esisteva anche un'importante componente industriale, rappresentata dalla Carrozzeria Ambrosini e Botta, sorta ai primi decenni del Novecento e da un'azienda, la Vedani, nota per la distillazione della grappa, di elevata qualità. La prima assorbiva più di doppio centinaio di maestranze, risultante requisita dai tedeschi nel corso della seconda guerra mondiale, che portò ad una conversione in senso militare della produzione, che era prevalentemente di autobus. Ai margini del quartiere esisteva, prima della Bassani, anche la Azienda Minonzio, altra nota carrozzeria specializzata nella creazione di autocarri negozio, successivamente trasferitasi presso Lozza. Attualmente Santa Maria Maddalena è popolata prevalentemente da famiglie extracomunitarie relativamente ben integrate, interessate a mantenere uno stato di civile convivenza con i gruppi sociali autoctoni.
Celebre in tutta l'area prealpina è l'antica fonderia Bizzozero che ha fuso centinaia di campane per le chiese del Varesotto e del vicino Canton Ticino.


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lunedì 6 aprile 2015

GLI ANTICHI VENETI

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La civiltà paleoveneta, secondo Omero, Livio e Virgilio ed accreditata da studi moderni, si sarebbe prodotta dalla fusione di abitanti indigeni della preistorica cultura Villanoviana Padana con gruppi di Eneti (o Enetoi o Heneti o Evetoy secondo Omero) provenienti dalla Paflagonia (Asia Minore - Turchia) tra i secoli XV e XII a.C.
I centri più importanti furono Padova e, soprattutto, Este il centro dominante da cui dipendevano numerosi villaggi sparsi lungo le innumerevoli vie d'acqua. Attività principale per la quale erano famosi fu l'allevamento dei cavalli, oltre all'agricoltura e a forme artigianali di sussistenza.

Migrazioni di tribù di Celti, Reti, Galli Cenomani, Galli Carni, Histri, che ambivano ad insediarsi nelle fertili terre padane, furono una costante per tutto il millennio avanti Cristo e finirono per intrecciarsi con gli antichi indigeni e gli 'immigrati' orientali.
All'incirca tra i secoli VI-III a.C. s'intensificarono i contatti con la vicina civiltà Etrusca, molto evoluta, dalla quale i Veneti trassero i caratteri alfabetici.
Quindi l'influenza militare e culturale romana, dal I secolo a.C., che finì per integrarsi con l'originalità Veneta e farne la regione più ricca ed abitata dell'impero.

I Veneti, a volte indicati anche come Venetici, antichi Veneti o Paleoveneti per distinguerli dagli odierni abitanti del Veneto, erano una popolazione indoeuropea che si stanziò nell'Italia nord-orientale dopo la metà del II millennio a.C. e sviluppò una propria originale civiltà nel corso del millennio successivo.

Caso unico tra i popoli dell'epoca nell'Italia settentrionale, si può stabilire l'identità tra la popolazione e la cultura veneta, ovvero agli antichi Veneti è possibile attribuire una precisa cultura materiale e artistica sviluppatasi nel loro territorio di stanziamento, la Venezia. Questa facies culturale si sviluppò durante un lungo periodo, per tutto il I millennio a.C., anche se nel tempo subì diverse influenze. Di questa popolazione e identità la documentazione archeologica è particolarmente ricca.

I Veneti si stanziarono inizialmente nell'area tra il Lago di Garda ed i Colli Euganei; in seguito si espansero fino a raggiungere confini simili a quelli del Veneto attuale, anche se bisogna considerare che la linea di costa del Mar Adriatico era più arretrata rispetto ad oggi. Secondo i ritrovamenti archeologici (che concordano anche con le fonti scritte), i confini occidentali del loro territorio correvano lungo il Lago di Garda, quelli meridionali seguivano una linea che parte dal fiume Tartaro, segue il Po e raggiunge Adria, lungo il ramo estinto del Po di Adria, mentre quelli orientali giungevano fino al Tagliamento. Oltre tale fiume erano insediate genti di ceppo illirico, anche se fino all'Isonzo la presenza veneta era tanto forte che si può parlare di popolazione veneto-illirica. I confini settentrionali erano invece meno definiti e omogenei; il territorio veneto risaliva soprattutto i fiumi Adige, Brenta e Piave verso le Alpi, che fungevano comunque da confine naturale. La presenza veneta sulle Alpi è attestata soprattutto nelle Dolomiti del Cadore, a Lagole.

La storia dei Veneti si può dividere in due periodi: uno antico, che va dalle origini fino al V secolo a.C., in cui è più evidente l'originalità culturale veneta, e uno più recente che va fino al I secolo d.C., che vede prima un influsso celtico, e poi una lenta assimilazione romana.

Nel periodo antico vi erano rapporti culturali con la Civiltà villanoviana, con l'Egeo e l'Oriente, e successivamente anche con gli Etruschi. Nel periodo più recente i Veneti vennero a contatto prevalentemente ad occidente con i Galli: ad ovest si stanziarono i Galli Cenomani (con cui si sarebbero alleati, insieme ai Romani), a sud i Boi (con cui invece furono sovente in guerra) e a nord-est i Carni, ad est e a sud-est rimasero prevalentemente in contatto con le popolazioni illiriche. Anche all'interno del Veneto vi fu qualche stanziamento di Galli, anche se in minima entità, probabilmente non sempre di tipo pacifico. L'influsso culturale celtico diventò comunque via via importante, e la cultura veneta lentamente mutò e si adeguò ai tempi; sempre importante si mantenne il rapporto con le popolazioni balcaniche di oltre Adriatico come quelle illiriche, con cui i Veneti venivano facilmente confusi dagli storici greci e che furono considerati parenti stretti dei Veneti fino al primo Novecento. Successivamente divenne decisivo il contatto con la civiltà romana, anche per i reiterati rapporti di alleanza che legarono i Veneti ai Romani e per la tradizionale ipotesi di parentela tra Veneti e Latini. La cultura veneta venne assimilata in quella romana già in età tardo repubblicana, anche se alcune specificità venete permasero, presumibilmente, nelle zone marginali anche in tarda età imperiale.

Nell'età del Bronzo fra il 1350 e il 1150 a.C. i villaggi terramaricoli delle basse pianure venete entrano in vasti circuiti commerciali che coinvolgono le coste del Baltico, l'area danubiano-carpatica, l'Egeo e il Mediterraneo orientale. Nelle pianure del Veneto meridionale fra il 1150 e il 900 a.C. sorge il grande centro preurbano di Frattesina, crocevia di traffici fra il Baltico, le Alpi Orientali e Cipro, con sistema socio-economico fortemente gerarchizzato; quindi si sviluppano Villamarzana, e poi Montagnana. Nel corso del X secolo crescono anche Treviso, Oderzo e Concordia. Nell'età del Ferro, intorno all'800 a.C., sono abbandonati alcuni grandi centri del Veneto meridionale; parallelamente sono fondate Este e Padova. Fra l'800 e il 600 a.C. i centri egemoni sono dominati da potenti gruppi dell'aristocrazia. Sorgono le prime grandi necropoli ai margini delle città. Nella media età del Ferro fra il 600 e il 400 a.C. le potenti città-stato venete hanno territori ben definiti; le aree collinari e montane sono invece organizzate in distretti di tipo "cantonale". Le città-stato di pianura hanno sistemi viari ortogonali simili a quelli dell'Etruria padana. Este ha importanti rapporti con il mondo etrusco, Padova con il mare e la frontiera nord-orientale. Ad Altino, nella laguna di Venezia, ad Adria e a Spina i Veneti incontrano mercanti greci ed etruschi. Nella tarda età del Ferro fra il 400 e il 200 a.C. popolazioni celtiche invadono l'Italia settentrionale e parte del litorale adriatico. I Veneti alleati dei Romani partecipano nel 222 a.C. alla battaglia di Clastidium contro Insubri, Boi e Gesati (tribù dei Galli). Poi avviene un pacifico ingresso del mondo veneto nell'orbita politica e culturale di Roma.

Secondo la storiografia romana, i Veneti sarebbero stati una popolazione proveniente dalla Paflagonia, regione dell'Asia Minore sul Mar Nero. Essi furono da lì espulsi, e per questo parteciparono alla Guerra di Troia, dove l'anziano saggio Antenore implorò i troiani stessi di restituire Elena ai Greci. A Troia morì anche Pilemene, il comandante degli Eneti (venivano così chiamati), che, rimasti senza patria e senza guida, si rivolsero ad Antenore che, dopo varie vicende, approdò sulle coste occidentali del Mar Adriatico settentrionale. Qui la popolazione scacciò gli Euganei, una popolazione di cui oggi non rimangono tracce rilevanti.

Nel racconto di Virgilio, Antenore viene addirittura presentato come fondatore di Padova. Ai Veneti viene associato pure Diomede, eroe divinizzato, il quale avrebbe fondato, oltre a Spina, anche l'importante città portuale di Adria, anche se l'abitato, pur avendo in effetti origini venete, è più conosciuta come emporio greco, come centro etrusco e successivamente gallico.

Plinio il Vecchio parla dei Veneti riferendo ciò che aveva scritto Catone:

« Venetos troiana stirpe ortos auctor est Cato »

« Catone attesta che i Veneti discendono dalla stirpe troiana »
(Gaio Plinio Secondo, Naturalis Historia, III, 130)
Strabone invece riporta un'ipotesi diversa, ovvero che i Veneti fossero una popolazione celtica: questo, perché egli era a conoscenza dell'esistenza di una popolazione portante lo stesso nome, i Veneti dell'Armorica (l'odierna Bretagna).

Le fonti antiche concordano nel parlare dei Veneti come di una popolazione giunta nella sua sede storica da una regione orientale, che raggiunse via mare l'Adriatico settentrionale e sbarcò nella costa occidentale; qui respinsero più a nord la popolazione nativa. Se l'ipotesi che vede nei Veneti una popolazione orientale, frazionata e dispersa dopo un'ampia diaspora, è abbastanza realistica, non lo è affatto l'ubicazione della loro patria originaria in un'area di cultura greca, e nemmeno la narrazione di uno spostamento via mare.

Per lungo tempo, la storiografia moderna ha accettato l'ipotesi, ispirata ad Erodoto, di una filiazione illirica dei Veneti, che sarebbero quindi stati il ramo più occidentale di quell'insieme di popolazioni indoeuropee. Nelle sue Storie, lo storico greco parla degli Ἐνετοί come di una parte del popolo illirico, stanziata presso l'Adriatico. La tesi dell'illiricità dei Veneti, sostenuta principalmente da Carl Pauli a fine XIX secolo, continuò a essere largamente condivisa anche quando, nella prima metà del XX secolo, Vittore Pisani e Hans Krahe dimostrarono che Erodoto si riferiva in realtà a una tribù illirica stanziata nella Penisola balcanica, e non in area italica.

La ricerca più recente, lavorando principalmente su materiale linguistico, è giunta a escludere una filiazione illirica per i Veneti, secondo quanto proposto già negli anni quaranta dallo stesso Krahe. Dopo un'iniziale proposta di legare la lingua venetica alle lingue italiche osco-umbre, ha in seguito trovato maggior credito il riconoscimento del venetico come parte della famiglia latino-falisca, comprendente anche il latino.[16] Su questo punto, tuttavia, l'indagine dell'indoeuropeistica è ancora aperta; più prudente, ad esempio, Francisco Villar.

La ricerca moderna, in questo modo, si è trovata in sostanziale accordo con quanto sostenuto già dalla storiografia latina: i Veneti condividono con i Latini una comune origine protostorica, anche se non attraverso quel comune legame con l'Antica Grecia (e con Troia in particolare) postulato dai Romani mediante il mito di Antenore. L'insieme indoeuropeo veneto-latino si era formato come gruppo a sé in un'area dell'Europa centrale, probabilmente ubicato entro i confini dell'odierna Germania e parte di un vasto continuum indoeuropeo esteso nell'Europa centro-orientale fin dagli inizi del III millennio a.C. Da qui mosse verso sud nel corso del II millennio a.C., probabilmente intorno al XV secolo a.C.; mentre una parte di queste genti proseguì fino all'odierno Lazio (i Latini), il gruppo che avrebbe dato origine ai Veneti si insediò a nord del Golfo di Venezia e lì si attestò definitivamente.

I migranti che giunsero nell'area veneta dalle regioni nord-orientali erano più probabilmente piccoli gruppi di colonizzatori, piuttosto che un'ingente massa di popolazione. Al di là delle questioni sulla loro origine, i Veneti erano di cultura articolata, abili guerrieri e commercianti arrivati. È probabile che i nuovi colonizzatori si siano sovrapposti alle popolazioni nativa (gli Euganei preindoeuropei).

I Veneti crearono una cultura unitaria che ebbe il suo massimo sviluppo tra l'VIII e il II secolo a.C., una cultura nettamente differenziata rispetto alle altre dell'Italia protostorica. Peculiarità di questa popolazione, presenti in tutto il territorio in cui erano stanziati, erano soprattutto le produzioni bronzee e fittili, le forti credenze religiose, le espressioni artistiche, l'agricoltura, armature e vestiti, lo strutturarsi di nuclei prima protourbani e quindi urbani e l'allevamento di bestiame.

La regione cispadana era abitata nel III secolo a.C. da numerose popolazioni bellicose – in particolare, i Galli che a partire dal secolo precedente avevano fatto irruzione nella regione – e i Romani si rivolsero, per ottenere aiuto, ai Veneti, poiché li ritenevano consanguinei per via della leggenda di Antenore. Romani e Veneti stabilirono rapporti di amicizia e di alleanza (già nel 283 a.C. il Senato romano aveva stretto un patto con i Veneti ed i Galli Cenomani per rallentare l'invasione gallica). Probabilmente i contatti avevano avuto inizio più anticamente, già nel 390 a.C.: infatti, quando i Galli Senoni di Brenno occuparono la stessa Roma, fu forse proprio grazie ad un'azione diversiva dei Veneti che potrebbero essere stati costretti a venire a patti con i Romani.

Nel 225 a.C. i Romani mandarono ambasciatori presso i Veneti ed i Galli Cenomani per stringere un'alleanza contro i Galli Boi e gli Insubri, che minacciavano le frontiere romane, ed essi rimasero dalla parte romana anche durante la Seconda guerra punica, mentre tutte le altre popolazioni galliche si erano schierate con Cartagine. Al termine della guerra, per poter completare la sottomissione della Gallia cisalpina (Galli e Liguri non accettavano la supremazia romana), Roma cominciò una vera e propria guerra di conquista, sempre sostenuta da Veneti e Cenomani. È probabile che in questo momento storico i Veneti fossero legati ai Romani tramite amicitia, diversamente dai Galli legati a Roma dal foedus: questo legame era utilizzato soprattutto negli Stati ellenistici, e prevedeva la neutralità, che poteva diventare alleanza solo in via eccezionale.

I Veneti non appaiono come un popolo bellicoso, e non furono coinvolti in battaglie o guerre importanti. Tuttavia non furono isolati, anzi intrattennero rapporti commerciali e culturali con la vicina Etruria e mutuarono certe caratteristiche artistico-sociali dai mercanti greci delle colonie. Ebbero con Roma rapporti amichevoli e si giovarono dell'aiuto della città laziale per allontanare la minaccia costituita dall'invasione dei Galli: in cambio di protezione, permisero ai Romani di stabilirsi pacificamente nel loro territorio, e in definitiva di colonizzarlo costruendo strade, ponti e villaggi. Il Veneto non venne quindi conquistato con la forza dai Romani, ma fu inglobato pacificamente e, con il tempo, la cultura veneta si perse e venne sostituita (in parte assimilata) dalle usanze di Roma.

I Veneti si stanziarono dapprima in piccoli villaggi, principalmente tra l'Adige e il Lago di Garda, ma anche nelle zone prealpine della Valbelluna, essendo allora la pianura Padana ricoperta da boschi e zone paludose. Una delle maggiori necropoli venete, perfettamente conservata, si trova infatti a Mel, tra Belluno e Feltre. I centri abitati sorgevano lungo i corsi d'acqua su dossi sabbiosi (dato che la sabbia è molto permeabile e si asciugava velocemente) e sulle colline. I centri abitati erano costituiti di poche capanne rettangolari raggruppate e collegate le une alle altre; quando il villaggio si espandeva, si costruivano abitazioni con più ambienti, e con parti riservate ad attività artigiane.

Le case erano formate da pareti con uno scheletro in legno, che veniva solitamente ricoperto di argilla, mentre la base era in pietra, in modo da ridurre l'umidità. I pavimenti erano di argilla battuta, mentre il tetto era di paglia. Il cuore delle abitazioni era il focolare, realizzato da una base di argilla sulla quale erano stesi frammenti di ceramiche e ciottoli (in modo che trattenessero il calore, agendo da isolante); attorno a esso si raggruppava la famiglia. I centri maggiori erano dotati anche di porti: non solo quelli lungo la costa, ma anche quelli situati lungo fiumi con sufficiente portata d'acqua. In quest'ultimo caso veniva scavata una rete di canali, consentendo così l'attracco di barche.

Sempre attorno ai centri più grossi i Veneti iniziarono il disboscamento delle foreste, e si organizzarono in centri abitati sempre più grossi, soprattutto lungo i fiumi Adige, Brenta e Piave. Le maggiori città furono Este, Altino, Padova, Montebelluna, Oppeano e Gazzo Veronese.

Le abitazioni sorte in aree montagnose erano differenti rispetto a quelle costruite in pianura o collina: si trattava di case seminterrate, con fondamenta in pietra ed elevazione in legno, esposte preferibilmente verso sud, in modo da ricevere la maggior quantità possibile di luce e calore.

Forti erano i contatti commerciali con il mondo greco, sia diretto sia mediato dai popoli dell'Italia meridionale, con l'Etruria e con le realtà vicino-orientali. Raffinati bronzetti giungevano dall'Etruria e dalla Grecia, perle colorate in pasta vitrea dalla zona del Caucaso, i pendenti in faience testimoniano contatti con l'Egitto, i manufatti in ceramica (daunia, ionica, attica a figure nere e rosse) con ricchi apparati figurativi mostrano come le coste dell'alto Adriatico fossero frequentate da naviganti provenienti dai più lontani lidi del Mediterraneo.

Dai reperti archeologici, tra i quali abbondano le rappresentazioni di sacerdoti, capi e notabili, si può inferire che i Veneti portavano grandi mantelli di lana pesante, che venivano appoggiati sulle spalle. Sotto il mantello, donne e uomini portavano una tunica di stoffa (più leggera rispetto al mantello), con maniche che potevano essere lunghe o corte, simili a quelle portate da Romani ed Etruschi. Nelle donne la tunica era spesso trattenuta da un cinturone (il quale veniva utilizzato anche dagli uomini e dai ragazzi), da cui, nella parte inferiore, si formavano delle pieghe. In alcuni casi esse vi sovrapponevano dei grembiuli. Le donne portavano anche, in testa o sulle spalle, uno scialle (o mantellina), simile a quello utilizzato in Veneto (soprattutto a Venezia e nella fascia montana) fino al Novecento. I Veneti portavano anche i cappelli, segni di distinzione e dalla tesa larga e rialzati sui bordi, stivali, utilizzati soprattutto per cavalcare, e calzature a punta. Dalle immagini pervenuteci si può vedere come era usanza maschile radersi il capo.

Sono arrivati sino ad oggi anche numerosi ornamenti del vestiario, come spilloni, pendagli, fibule, collane, braccialetti e orecchini, realizzati anche con materiali preziosi come oro, argento, corallo, ambra e perle.

I guerrieri portavano inizialmente scudi rotondi simili a quelli degli opliti greci, elmi a calotta bassa e con una cresta, e venivano spesso rappresentati con lance a punta larga. Successivamente si diffusero grandi spade, scudi di forma ovoidale ed elmi simili a quelli utilizzati dai Galli.

Non vi sono molte notizie scritte circa la religione veneta, ma sono stati ritrovati numerosi luoghi di culto, necropoli e materiale votivo. I luoghi di culto non erano quasi mai situati in edifici chiusi, ma i riti si svolgevano solitamente in boschi sacri, in luogo libero da vegetazione e circondato da grandi alberi. All'interno si svolgevano processioni con canti e danze sacre, e all'interno di piccole edicole in legno vi erano rappresentazioni sacre. La quantità dei siti fa presumere l'esistenza di una classe sacerdotale, il cui compito era l'accensione dei fuochi sacri e i sacrifici animali, oltre a quello di scrivere (la scrittura era un privilegio di pochi).

Nelle necropoli venete si possono distinguere i doni modesti dei ceti meno abbienti e quelli dei più ricchi, i quali venivano depositati insieme alle spoglie come corredo funebre. Il corpo del defunto veniva cremato e le ceneri erano poste in apposite urne e, durante la sepoltura, si offrivano alle divinità cibo e bevande (si praticava, dunque, il rito del banchetto funebre). Si è a conoscenza della presenza del culto degli elementi naturali, e in particolare dell'acqua medicamentaria (o per lo meno ritenuta tale), mediante la quale la divinità interveniva dando la guarigione: la cerimonia prevedeva la richiesta di guarigione da parte del malato, una processione e quindi vi erano le offerte a qualche idolo.

Ad Este è stata rinvenuta una lamina da cui si può ricavare il nome di una divinità: Reitia, dea guaritrice, della natura, protettrice delle nascite e dea della fertilità. Essa viene rappresentata con i tipici abiti veneti e con in mano la chiave per aprire la porta dell'aldilà.

Nei territori abitati dai Veneti sono state rinvenute molte sortes, tavolette di ossi di animali con iscrizioni, gettati dagli indovini per trarne gli auspici (ad esempio a Magrè di Schio, ad Asolo, sul Monte Summano in provincia di Vicenza).

La lingua dei Veneti, detta dai linguisti lingua venetica o semplicemente lingua veneta, è documentata da iscrizioni risalenti a un arco di tempo compreso tra il VI e il I secolo a.C. e redatte prima in un alfabeto etruscoide (dal quale differiva per varie aggiunte, per esempio quella della vocale /o/), poi in alfabeto latino (entrambi derivati da quello greco). Questa lingua è di classificazione incerta; tuttavia, condivide numerosi tratti fonetici e morfologici con il latino, tanto da condurre Giacomo Devoto e diversi altri studiosi a ipotizzare una parentela genetica tra i due idiomi, giunti in Italia nel corso di uno stesso movimento migratorio di elementi indoeuropei dall'Europa centrale o centro-orientale. L'introduzione della scrittura con un alfabeto etrusco settentrionale risale ad un'epoca intorno al 600 a.C.

Era una lingua di ceppo indoeuropeo, lo stesso a cui appartengono alcune lingue dell’India, le lingue germaniche (tedesco, inglese, danese, svedese, norvegese, ecc.), quelle celtiche (gallese, scozzese, irlandese, ecc), quelle slave (russo, bulgaro, polacco, ecc.), l’albanese, il greco, l’ iranico. Dello stesso ceppo è anche il latino, da cui sono derivate le lingue cosiddette neolatine o romanze: il francese, lo spagnolo, il portoghese, il rumeno e naturalmente l’italiano con i suoi dialetti.

Dalle iscrizioni riportate su lamine di bronzo e altri oggetti di metallo, su manufatti di ceramica e, più tardi , da quelle scolpite su pietra (iscrizioni lapidee).
Quelle a nostra disposizione sono ormai varie centinaia e sono custodite, assieme agli altri reperti di origine venetica, in vari musei della regione, di cui Il più importante è quello di Este. Solo nel secolo appena passato esse sono state studiate e decifrate sistematicamente, ad opera soprattutto di studiosi dell’Università di Padova del calibro di G. B. Pellegrini e A. L. Prosdocimi. Le iscrizioni, assieme agli altri reperti archeologici, hanno fatto conoscere molti aspetti della vita e della organizzazione sociale degli antenati Veneti.

La scrittura va da destra a sinistra, non va a caporiga, ma gira verso l’alto continuando da sinistra verso destra senza interruzioni o intervalli fra una parola e un’altra e senza punteggiatura. E’ chiamata “bustrofedica”, perché viene paragonata al percorso che fanno i buoi quando arano.
Noi invece scriviamo da sinistra a destra e andiamo a capo appena finita la riga.
L’alfabeto che i Veneti usavano l’avevano mutuato dagli Etruschi, adattandolo alla loro lingua che non era però quella degli Etruschi. Dovettero aggiungere , ad esempio la lettera “o” che gli Etruschi non avevano.

Abbiamo detto che le scritte più antiche erano su lamine di bronzo o su oggetti di ceramica e che quelle più recenti erano su lapidi, cioè su pietra, e il materiale lapideo ci parla del lento abbandono da parte dei Veneti della loro lingua nativa per adottare il latino, la lingua degli alleati-dominatori romani. Lì scopriamo che le più antiche iscrizioni erano rigorosamente in lingua e caratteri venetici; successivamente cominceranno ad apparire iscrizioni a caratteri latini, ma in lingua venetica. Nelle più vicine a noi, lingua e scrittura sono esclusivamente latine: esse ci indicano che i nostri progenitori, oltre che l’indipendenza politica, avevano ormai perso un altro tesoro importante: la propria lingua.

Molti studiosi ritengono che vi si possa far risalire l’uso dell’interdentale, cioè di quel suono che si ottiene mettendo la lingua fra i denti e che è presente in termini come zhuc (zucca), zhavàta (ciabatta), zhavariàr (vaneggiare), zhiésa (siepe), ecc . Ora esso appare relegato, anche nel Trevigiano, a qualche zona periferica, quasi ovunque sostituito dalla “esse sorda”, perché contrassegnato da una connotazione negativa: mantenerlo dà l’impressione di essere grezzi e retrogradi. Eppure è usato in tutta tranquillità in lingue straniere come l’inglese (thing, think, three, ecc.. ) o in spagnolo (cabeza, corazon, cerbeza,ecc.).
Si fanno risalire al substrato paleoveneto anche i nomi di certe città, che hanno una caratteristica in comune: sono parole proparossitone o sdrucciole, cioè hanno l’accento sulla terzultima sillaba, come ad esempio Asolo, Abano, Enego, Padova.
Bisogna sapere che i nomi di luogo (topònimi) sono quelli che meglio resistono alla prova del tempo e di rado vengono sostituiti radicalmente: al massimo possono subire qualche modificazione in correlazione con l’evolversi delle abitudini linguistiche dei parlanti.

Alla scuola elementare ci avevano insegnato che l’alfabeto italiano era composto di 21 lettere, dalla “a” alla “zeta”. Ora se ne aggiungono normalmente altre tre: la “J”, La “X” e la “Y”, che servono di solito per la trascrizione di parole straniere, anche se la “j” veniva già usata un tempo per indicare la i consonantica in parole come jeri, vassoio/ vassoj, frantojo/frantoj, gioja ecc.
Nelle parlate venete ci sono dei suoni o fonemi che non hanno riscontro nella lingua italiana. Chi ha il gusto di scrivere in dialetto o di trascrivere, sempre in dialetto, antichi detti, racconti o altro si trova in difficoltà di fronte a questo scoglio. La Giunta regionale del Veneto, nell’intento di metter ordine rispetto a questo problema, ha nominato nel 1994 una commissione scientifica coordinata dal prof. Manlio Cortelazzo. Il risultato fu la realizzazione e la pubblicazione nel 1995 del manuale “Grafia Veneta Unitaria”, che esamina tutte le modalità usate per rappresentare i vari fonemi o suoni da parte di chi scrive in veneto e inoltre consiglia la versione da preferire. Uno dei criteri seguiti dalla commissione era quello di “allontanarsi il meno possibile dalle consuetudini grafiche dell’italiano”.

Peculiaria dei Veneti era la cosiddetta "arte delle situle". Queste situle venivano create tramite la lavorazione del bronzo in lamine, che venivano modellate e ricongiunte a formare non solo situle, ma anche più in generale vasi, coperchi, cinture e foderi di pugnali e spade. Le lamine venivano lavorate a sbalzo, ovvero l'artista batteva la lamina dal rovescio, facendo così sollevare al diritto le forme volute, creando un bassorilievo.

Con i Veneti si passò per la prima volta dalla raffigurazione geometrica a quella di figure naturali e umane, come si può vedere nell'importante Situla Benvenuti. Questa situla, della quale manca la parte inferiore (che terminava in un basso piede svasato), era parte del corredo funebre di una tomba femminile, scoperta nella necropoli Benvenuti. Essa è il primo e più importante esempio di situla con raffigurazioni umane. Sono visibili tre fasce in cui sono rappresentate uomini, attività umane (guerra, gare, commercio) e figure mitologiche. Situle, cinturoni, elmi, laminette presentano sulle superfici motivi decorativi legati alla realtà quotidiana, ai commerci, alle attività agricole, alla ritualità, alla guerra insieme con animali fantastici di derivazione orientale.

Gli unici precedenti – soltanto per ciò che riguarda la forma – delle situle venetiche sono manufatti orientali e centro-europei. Per quanto riguarda, invece, i soggetti raffigurati, l'unico precedente è il tintinnabulo della Tomba degli ori di Bologna, del VII secolo a.C. Quest'arte nacque probabilmente in ambito veneto, dove si sviluppò per secoli passando da forme più naturali a forme più artificiose, in un certo senso "barocche". Gli ultimi esempi ad oggi conosciuti di questa arte sono le laminette dei donari.

Il cavallo, chiamato Ekvo dai Veneti antichi, animale-totem della protostoria dell'Europa, giocò nella loro cultura un ruolo di prim'ordine. Questi animali erano allevati per la loro valenza economica e come simbolo di predominio aristocratico e militare. I cavalli dei Veneti erano noti per la loro abilità nella corsa ed erano spesso riprodotti negli ex voto, nelle aree più sacre. Centinaia di bronzetti a forma di cavallo o di cavaliere su cavallo provengono dai luoghi di culto dei Veneti. Al cavallo erano riservati appositi spazi di sepoltura nelle necropoli. Il cavallo compare in vari manufatti come immagine simbolica o elemento decorativo nonché in alcune sepolture (come quella del Piovego, VI-V sec. a. Cr.) insieme all'uomo che di lui si era preso cura in vita.


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sabato 28 marzo 2015

LE GROTTE DI CATULLO

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La denominazione di "Grotte di Catullo" risale al Quattrocento, quando la riscoperta delle liriche di Catullo, fra cui il Carme 31 in cui il poeta descrive il suo ritorno nell'amata casa di Sirmione, suggerì il collegamento con i grandiosi resti ancora visibili benché largamento interrati e coperti da vegetazione tanto da apparire come caverne. Il primo ad attribuire la villa a Gaio Valerio Catullo fu, nel 1483, Marin Sanudo il giovane. Tale ipotesi fu poi ripresa da eruditi e studiosi successivi, nonostante la villa oggi visibile sia stata costruita dopo la morte del poeta veronese. Allo stato attuale non esistono elementi sicuri per localizzare la casa di Catullo. Il termine è comunque rimasto e ancora oggi è utilizzato per identificare il sito archeologico.

Nel XVI secolo la villa fu meta di alcuni celebri viaggiatori fra cui la marchesa Isabella d'Este Gonzaga (1514 e 1535) e Andrea Palladio, che compì la visita per studiare i resti sotto il profilo delle tecniche di costruzione.

La grande villa, al di sotto della quale sono state rinvenute strutture del I secolo a.C., viene edificata agli inizi del I secolo d.C.. La villa doveva essere in stato di abbandono già nel III secolo d.C. quando parte della sua decorazione architettonica viene reimpiegata nell'altra villa romana di Sirmione, quella di Via Antiche Mura. Fra il IV secolo e il V secolo le imponenti strutture superstiti della villa vengono incluse nelle fortificazioni che recingono la penisola di Sirmione e all'interno dei resti dell'edificio romano vengono realizzate delle sepolture.

Nel corso dei secoli diversi cronisti e viaggiatori visitano le rovine, ma i primi studi concreti su di esse vengono effettuati solamente nel 1801 dal generale La Combe St. Michel, comandante d'artiglieria dell'esercito di Napoleone Bonaparte. Successivamente, il conte veronese Giovanni Girolamo Orti Manara esegue scavi e rilievi, ancor oggi fondamentali, che pubblica nel 1856.

Nel 1939 la Soprintendenza per i beni archeologici avvia un ampio programma di scavi e restauri, acquisendo infine nel 1948 l'intera area per permettere un'adeguata la tutela del complesso, immerso nel suo ambiente naturale.

Durante gli anni novanta del Novecento ulteriori studi hanno confermato che la costruzione è stata realizzata attraverso un progetto unitario, che ne ha definito l'orientamento e la distribuzione degli spazi interni secondo un preciso criterio di assialità e di simmetria.

Il complesso archeologico, ancora oggi portato alla luce solo parzialmente, copre un'area di circa due ettari. La villa ha pianta rettangolare, di 167 x 105 metri, con due avancorpi sui lati corti nord e sud. Per superare l'inclinazione del banco roccioso su cui fu impostato l'edificio vennero create grandi opere di sostegno (sostruzioni) nella parte settentrionale e furono effettuati imponenti tagli per modellare il banco roccioso. Questi ultimi sono paricolarmente ben visibili sul lato ovest (Grande Criptoportico) e sul lato orientale dell'avancorpo settentrionale.

Il piano nobile, corrispondente agli ambienti di abitazione del proprietario, risulta il più danneggiato, sia perché era il più esposto sia perché la villa, dopo il suo abbandono, è stata per secoli una cava di materiali. Meglio conservati sono il piano intermedio e quello inferiore.

L'ingresso principale dell'edificio si trovava nell'avancorpo meridionale. La villa era caratterizzata da lunghi porticati e terrazze aperti verso il lago lungo i lati est e ovest, comunicanti a nord con un'ampia terrazza belvedere, munita di velarium.

Lungo il lato occidentale, oggi è visitabile il criptoportico, una lunga passeggiata un tempo coperta. Le parti residenziali dell'edificio erano situate nelle zone nord e sud, mentre la parte centrale, costituita oggi dal Grande Oliveto, era occupata da un esteso giardino. Sul lato meridionale, sotto un pavimento in opus spicatum, si trova una grande cisterna lunga quasi 43 metri, che raccoglieva l'acqua necessaria per gli usi quotidiani. L'ampio settore termale della villa, costituito da diversi vani situati nella zona sud occidentale, tra i quali la cosiddetta piscina, fu ricavato probabilmente all'inizio del II secolo. I vari ambienti della villa possiedono suggestivi nomi convenzionali, derivati da una tradizione locale consolidata oppure da interpretazioni e denominazioni date durante i primi scavi. Fra le rovine, ad esempio, si possono trovare l'Aula a tre pilastri, il Lungo corridoio, la Trifora del Paradiso, il Grande Pilone, la Grotta del Cavallo, il Grande Oliveto prima citato e l'Aula dei Giganti.

L'ingresso dell'edificio si trovava nell'avancorpo meridionale. La villa era caratterizzata da lunghi porticati aperti verso il lago sui lati occidentale  e orientale, direttamente comunicanti sul lato settentrionale con l'ampia terrazza - belvedere situata al centro dell'avancorpo nord. Sul lato occidentale, al di sotto del porticato si trovava il "doppio criptoportico", lunga passeggiata coperta. Le parti residenziali dell'edificio erano situate nella parte settentrionale e meridionale, mentre la parte centrale, costituita oggi dal "grande oliveto", corrispondeva a uno spazio aperto. Questo è limitato sul lato meridionale da un pavimento in mattoni a spina di pesce che copre una grande cisterna, di quasi 43 metri di lunghezza. L'ampio settore termale, costituito da diversi vani, ricavati probabilmente in un momento successivo alla costruzione dell'edificio, all'inizio del II secolo d.C., era situato nella zona meridionale.

La costruzione della villa può essere datata ad età augustea (fine I secolo a.C.-inizio I secolo d.C.). Il crollo delle strutture e il conseguente parziale o totale abbandono dell'edificio sono fissati nel IV secolo d.C., periodo cui sono attribuibili diverse tombe a inumazione collocate in una parte della villa ormai distrutta.

I Romani indicavano con la parola "terme" i bagni sia privati che pubblici, mentre per noi oggi questa parola si riferisce a stabilimenti che sfruttano sorgenti di acqua calda. Nelle "grotte di Catullo" le terme sono state costruite nella parte meridionale  nel Il secolo dopo Cristo, circa un secolo dopo la costruzione della villa.
II settore termale ha un'estensione di quasi 800 mq e comprende vari ambienti. Purtroppo alcune di queste stanze sono state fortemente danneggiate e quindi oggi è difficile ricostruire la loro esatta funzione. L'ambiente meglio conservato è la cosiddetta "piscina". Si tratta di un grande vano rettangolare che ospitava una vasca. Il pavimento di quest'ultima era rialzato, probabilmente sostenuto da pilastrini (= pilae), e si trovava sopra gli archi presenti lungo le pareti. Dietro alla "piscina" c'era un ambiente dove probabilmente veniva acceso il fuoco (=praefurnium). L'aria calda ed il fumo prodotti entravano in un'intercapedine che circonda la piscina e che doveva arrivare fino al soffitto. Attraverso gli archi quest'aria circolava anche nell'area sotto al pavimento  e così l'ambiente veniva riscaldato. I costruttori hanno utilizzato molti mattoni nei muri per fare in modo che il calore non si disperdesse tanto facilmente.

Per le sue caratteristiche è probabile che questo ambiente fosse il tepidarium, ossia la stanza dei bagni con la vasca di acqua tiepida. L'ambiente per l'acqua calda (il calidarium) era di dimensioni inferiori ed anziché avere un'unica grande piscina possedeva piccole vasche poste agli angoli della stanza e destinate non a nuotare, ma ad immergere una parte del corpo. Anche il calidarium si trovava vicino al forno di riscaldamento. Infine l'ambiente per l'acqua fredda (il frigidarium) aveva al centro una vasca poco profonda sui cui bordi, decorati a mosaico, le persone potevano sedere. Nelle terme delle "grotte di Catullo" sono presenti anche altri ambienti, oltre a quelli descritti, la cui funzione non è però chiara. Per la decorazione di alcune pareti sono stati impiegati, stucchi ritrovati durante gli scavi. Nelle vasche non veniva utilizzata l'acqua del lago a causa del notevole dislivello che la separa dall'edificio. Per risolvere il problema dell'approvvigionamento idrico sono state costruite nella zona termale tre cisterne in cui veniva raccolta l'acqua piovana. Due di queste cisterne si trovano alle spalle della "piscina", mentre la terza, un tempo mal interpretata come il "bagno" di Catullo è posta vicino all'ingresso della villa. L'acqua veniva estratta dalla cisterna e convogliata verso le terme attraverso tubi di piombo, le cosiddette fistule, che per i Romani erano le tipiche condutture per l'acqua.
Nelle terme pubbliche, che erano più complesse di quelle private, oltre alle stanze con le vasche vi erano spogliatoi, palestre, spazi aperti (come giardini e cortili), sale per conferenze e letture, latrine e ambienti destinati alla cura del corpo.
I Romani quindi frequentavano le terme alla ricerca non solo di benessere fisico, ma anche di momenti d'incontro.

Nel 1999, all'interno del parco che accoglie i resti della villa, è stato inaugurato il Museo.

Esso ospita numerosi reperti provenienti dagli scavi della villa romana delle "Grotte di Catullo", da altre ville romane situate sul lago di Garda (villa di via Antiche Mura a Sirmione e villa di Toscolano) e da altri siti archeologici della zona. Il Museo è organizzato in più sezioni.

Nel portico d'ingresso sono spiegate la genesi e la morfologia del lago di Garda; inoltre sono illustrate le differenti vie di comunicazione nel territorio in età antica.

All'interno del Museo sono ospitate altre tre sezioni:

la preistoria e la protostoria del lago di Garda, con i ritrovamenti dalle palafitte rinvenute sulle rive del lago;
l'età romana, all'interno della quale sono esposti anche i reperti provenienti dalle "Grotte di Catullo";
l'età medievale, con i corredi funerari della chiesa di S. Pietro in Mavino di Sirmione e altre località adiacenti
Nel Museo sono ospitati un plastico che riproduce la villa romana e un monitor touch-screen con filmati in tre lingue sulle Grotte di Catullo e su altri siti del lago di Garda.

Grazie alla collaborazione dell'UNAPROL e dell'Associazione Interprovinciale Produttori Olivicoli Lombardi (AIPOL) si è concluso di recente, grazie a finanziamenti da parte dell'Unione Europea e dell'Italia, un programma di recupero dell'oliveto storico delle Grotte di Catullo. In tutta l'area archeologica sono presenti attualmente circa 1500 ulivi, alcuni plurisecolari, appartenenti a tre differenti varietà gardesane (casaliva, leccino e gargnà). Dal 2012 è ripresa la raccolta delle olive finalizzata alla produzione dell'olio extra vergine dell'oliveto storico delle "Grotte di Catullo".



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