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giovedì 23 luglio 2015

VISITANDO ZOGNO



Zogno è posto a 16 chilometri da Bergamo sulla sponda destra del fiume Brembo. Raggruppa intorno alla chiesa e allinea lungo i bordi della strada provinciale i nuclei principali delle sue abitazioni. Il resto è disseminato qua e là sui fianchi dei monti che lo cingono, come un arco di cerchio che comincia ai Ponti di Sedrina e va fin oltre la località di Ambria.

Il Museo di S. Lorenzo viene fondato nel 1985 da Mons. Giulio Gabanelli e da un gruppo di cultori di storia locale. Disposto su tre piani in un edificio di proprietà della Parrocchia, raccoglie materiale relativo alle varie fasi della religiosità popolare zognese nel corso dei secoli. Si tratta di affreschi, quadri, sculture, crocefissi, calici, pissidi, ostensori, candelabri, baldacchini, para¬menti, indumenti sacri, pizzi e ricami, mobili, libretti di preghiere, immaginette e tanti altri oggetti devozionali di grande valore artistico e storico. Nel cortiletto esterno sono esposte sculture e manufatti in pietra.

Nell’anno 2002 il gruppo Alpini di Zogno guidato dal capogruppo Luigi Garofano, tramite una convenzione con l’Amministrazione Comunale, ristrutturava lo stabile e lasciava la vecchia sede in affitto per una più spaziosa e moderna.
Avendo in magazzino del materiale militare molto importante si decideva di esporlo in una apposita sala, chiamandola “Museo dell’Alpino” (Anche se all’inizio poteva sembrare una definizione esagerata).
Col passare del tempo, grazie al lavoro di tante persone, del consiglio direttivo e del segretario Renato Gherardi, con varie ricerche il museo si ampliava con nuovo materiale, non solo alpino ma di tutti i corpi militari.
Nel giro di pochi mesi venne ribattezzato “Museo del Soldato”.
Il materiale è vario, dalle armi alle divise, dai cappelli ai distintivi, alle fotografie e lettere dal fronte. Il fiore all’occhiello –precisa Garofano- sono gli attestati con Croce di guerra dei nostri reduci di tutte le guerre.

Il museo della Valle è un museo etnografico e archeologico fondato nel 1979 dal Comm. Vittorio Polli in collaborazione con un gruppo di amici protagonisti della cultura vallare bergamasca. La sede è la Casa del Cardinal Furietti, disposta su due piani in via Mazzini, e la raccolta è costituita da un lato da reperti archeologici di notevole importanza, preziose testimonianze della vita nella nostra Valle in tempi remotissimi, e dall'altro da oggetti di epoche più recenti. Il ritrovamento di tale materiale risale al 1975, quando Onorato Pesenti scopre nella Buca di S. Andrea, nei pressi delle Grotte delle Meraviglie, numerosi resti di sepolture collettive (veri e propri ossari, corredi funerari, oggetti d'ornamento, ecc.) relativi ad un arco di tempo che partiva dalla metà del III millennio fino al XIX secolo a.C.. Per quanto riguarda i tempi a noi più vicini, invece, il museo raccoglie attrezzi degli antichi mestieri (fabbro, maniscalco, arrotino, tessitrice, fabbricante di zoccoli e di chiodi, contadino ecc....), oggetti d'uso domestico, arredi, indumenti e pizzi, antichi divertimenti (roulette paesana e baracca dei burattini) che permettono al visitatore di ricostruire le immagini di vita dei propri antenati.

Esplorate per la prima volta nel 1932 dal Gruppo di speleologi guidato da Ermenegildo Zanchi, furono in breve tempo fra le prime grotte turistiche d'Italia (1939). Il complesso delle Grotte delle Meraviglie, pur nella sua modesta estensione, presenta spunti di notevole interesse sia per la comprensione delle vicende geologiche legate alla formazione della cavità, sia per i fenomeni carsici che vi sono riccamente rappresentati. Un complesso di gallerie di antica formazione, irregolarmente circolari che confluiscono in stupende grotte. Fra queste, la zona più spettacolare è quella del "Labirinto" (Büs de la Marta), che si sviluppa prevalentemente in una sala di ampie dimensioni e dalla volta altissima arricchita dalle più svariate decorazioni calcaree. Stalagmiti di varie forme e dimensioni vanno ad incontrare le stalattiti, costruendo una serie interessante di colonne. Il contesto ricco di fascino e debitamente illuminato, rende la visita stimolante e piacevole. Da alcuni anni la gestione è affidata al gruppo speleologico "Grotte delle Meraviglie" che, oltre ad un continuo studio dell'interno, ne segue anche il comportamento e ne gestisce le visite.

La villa zognese, che dal 1985 ospita la Biblioteca Comunale "B. Belotti", venne realizzata nel 1906 per il notaio Ulisse Cacciamali dall'architetto bergamasco Giovanni Barboglio, autore a Zogno anche di edifici pubblici e della vecchia scalinata alla parrocchiale, ma più famoso in Lombardia per la costruzione o il restauro di chiese. Nel 1913 la acquistò Bortolo Belotti, che era interessato ad avere un punto d'appoggio per affrontare l'impegnativa campagna elettorale per il seggio parlamentare, che lo vedeva contrapposto al deputato uscente Egildo Carugati, appoggiato dai liberali di Giolitti e dai cattolici. Su richiesta del Belotti, il Barboglio trasfomò l'abitazione da civile in signorile, con il recupero del seminterrato e la costruzione di uno studio esterno e di un portichetto. Contemporaneamente, l'ampio prato a sud dell'abitazione veniva trasformato in giardino con alberi pregiati, vialetti e gradinate. La cura della villa e del giardino accompagnò il successo politico di Bortolo Belotti che, da giovanissimo deputato, divenne sottosegretario, ministro e leader della destra liberale. L'opposizione al fascismo ne determinò l'allontanamento dalla politica attiva e, quasi come compensazione, Belotti iniziò ad intervenire sul giardino e ad arricchirlo di opere d'arte particolarmente significative. Gli interventi si susseguirono in tre fasi principali: 1928 - 29,1931 - 33 e 1937 - 40. Particolarmente ricca è la prima fase con l'ideazione del Convito dei Grandi Brembani, undici busti di uomini di grande fama di famiglia originaria della Val Brembana, eseguiti dallo scultore bergamasco Nino Galizzi. Di questi nove sono raccolti a semicerchio nella parte pianeggiante del parco: sono i grandi vissuti tra il 1500 e il 1700, tra i quali campeggia il busto di Jacopo Palma il Vecchio, che probabilmente è l'autoritratto dello scultore; altri tre (Calvi, Cattaneo e Ruggeri), sono collocati a monte di questi e appaiono rivolti verso di loro. L'insieme è completato dalla stele del Saluto all'ospite, opera sempre del Galizzi e con testo del Belotti. Con questa operazione, il giardino diviene luogo di rifugio adatto all’otium umanistico e specchio di un animo profondamente turbato dalle sorti della nazione. Dello stesso periodo sono il gioco delle bocce (con la caccia, una delle passioni del Belotti) con la famosa sestina S'ha da Tegn ol balì, basata su un'efficace relazione tra sport e vita e che appare anche come un esame di coscienza. Il secondo periodo segue immediatamente la breve ma triste esperienza del confino a Cava dei Tirreni ed è contrassegnato dall'edificazione dell'edicola della Madonna, dalle statue dei leoni e del busto del Gioppino. L'edicola, probabilmente un ex voto, segno della profonda fede del Belotti, racchiude un quadretto in marmo della Natività, interessante opera del giovane scultore cremonese Dante Ruffini; completano la cappellina due terzine tratte dalla Divina Commedia di Dante Alighieri che richiamano la necessità di una fede assoluta nel disegno provvidenziale di un Dio misericordioso. I leoni, opera dell'artista veronese Bragantin, rappresentano gli stemmi di Venezia e di Bortolo Belotti: particolarmente significativo è quello posto accanto alla stele del Saluto dell'ospite con l'emblema della quercia sradicata o il motto Non col vento, così spiegati da un amico: "la bufera non potè schiantare rami né strappare fronde, ma l'albero intero fu divelto dalla furia della tempesta e nel saldo terreno apparvero le forti radici spez-zate come membra ferite e lacerate", in cui la bufera è la violenza del regime fascista e le forti radici nel saldo terreno sono la tempra e la fedeltà di Belotti nei confronti della civiltà millenaria italiana e del popolo brembano. Il Gioppino, infine, opera dell'artista Alfredo Faino e dono degli amici del Ducato di Piazza Pontida, dovrebbe rappresentare il carattere dell'uomo bergamasco, a cui Belotti e i suoi amici aderivano, cioè "un onest'uomo, bonario, leale, pacifico", contrapposto all'ideale di uomo fascista, vendicatore, violento, prevaricatore e ambizioso. Poche, ma sempre interessanti, sono le realizzazioni dell'ultimo periodo: la statua della Fede, l'epigrafe Hyeme et aestate e la lapide tassesca. La prima, che conserva nel basamento una pergamena, è copia tratta da una statua della cattedrale francese di Reims e rappresenta la fede religiosa e la fedeltà alle scelte politiche e di vita, in quanto "simbolo di un ideale che non tramonti e che illumini ogni giorno della tua vita". La parola incisa sul basamento, "Sempre", esprime un concetto, l'assoluta coerenza di vita, che viene ribadito anche in una piccola stele con l'epigrafe Hyeme et aestate. Infine, la lapide tassesca con l'iscrizione "hinc discessit nobilissima tassorum gens…", presentata dal Belotti stesso come lapide settecentesca ritrovata nella sua casa natale zognese (abitata nel Seicento da Maffeo Tasso) e poi collocata nel giardino della villa. Probabilmente, però, si tratta di un'epigrafe dettata dallo stesso Belotti: l'operazione è di difficile interpretazione, forse richiama il senso della stele del Saluto dell’ospite e può essere intesa come sintesi delle realizzazioni artistiche del giardino, con riferimento alla civiltà brembana, bergamasca e italiana nel momento in cui veniva messa in crisi dallo scoppio devastante della Seconda Guerra Mondiale. E' quindi, forse un ultimo messaggio ai posteri di Bortolo Belotti, che nello stesso periodo si accingeva a completare la Storia di Bergamo e la Storia di Zogno e che sarebbe morto poco dopo in esilio, nel 1944, senza vedere la resurrezione della Patria.

La Chiesa di San Lorenzo Martire, costruita sui ruderi dell'antico castello nel 1431, prendeva il posto della vecchia chiesa dell'Annunciazione di S. Maria. Nel 1458 l'edificio è già murato, sebbene non del tutto completato. I decori interni, infatti, oltre al campanile, al cimitero e allo scalone, furono realizzati in un secondo tempo. Il 10 agosto 1472 si procedette all’inaugurazione. Ulteriori trasformazioni e restauri operati nel corso dei secoli la porteranno poi ad assumere l'aspetto attuale. Sul campanile si trova la statua di S. Lorenzo, opera dello scultore Francesco Albera di Milano che eseguì anche le statue dei dodici apostoli poste all'interno. Oltre alle decorazioni neoclassiche, l’interno racchiude numerosi dipinti e opere di nomi famosi, tra cui si ricordano Vincenzo Angelo Orelli, Palma il Vecchio, Enrico Albricci, Cavagna e Rillosi. Di particolare valore anche i quindici Misteri del S. Rosario ritenuti sino ad ora di Francesco Zucco. Una moderna vasca battesimale in bronzo, il leggio del presbiterio e l'altare comunitario sono opere dello scultore con-temporaneo Alberto Meli. Il coro è dell'abilissimo artista zognese Giuseppe Lazzaroni.

Le vicende architettoniche del Palazzo Rimani devono essere ancora chiarite nelle sue principali trasformazioni mentre, al punto attuale della ricerca, si dovrà ampliare la sua denominazione da Palazzo Rimani  a  Palazzo Zambelli Rimani.
Il rilevamento catastale, rappresentato in una mappa del 1812, ci descrive una casa di abitazione con corte intestata a Bernardo Zambelli.
L'edificio, già completato nelle sue parti architettoniche e decorative, prospettava sul tracciato della "via Priula" ed era presumibilmente racchiuso da un muro di cinta che lo delimitava dai campi retrostanti coltivati ad aratorio e a prato con moroni. Di pertinenza al Palazzo, ed accostati da un viale che conduceva alla via allora detta "strada delle   muracche", si estendevano un piccolo orto e il brolo. Il diverso contesto urbano illustrato dalla mappa era costituito, nel sito attualmente occupato dalla piazza, da campi arati e orti e, in prossimità ad essa, da alcune case periferiche al nucleo storico e disposte lungo la Priula. La posizione e il disegno architettonico del palazzo conferivano così importanza e prestigio sia al manufatto che al proprietario.
Fino ad ora non è possibile datare l'edificio anche se si potrebbe supporre la costruzione, o un suo adattamento, nell’ultimo quarto del XVIII  secolo. Alcuni particolari sono riscontrabili con quelli della chiesa parrocchiale, trasformata tra il 1770 ed il 1789 da Giuseppe Damiani. Neanche sulla famiglia promotrice vi sono precise certezze. Il   ritrovamento di un atto di vendita datato 27 Luglio 1800 tra Francesco Maffei (figlio di Carlo) e Bernardino Zambelli di un "corpo di case consistenti in sette fondi terranei in parte cilterati e superiori ... con una pezza di terra broliva cinta di muro attaccata alla suddetta  casa posta in principio della contrada di Foppa e confinante a nord con la Priula, a est con lo Zimbelli, a sud con la strada delle muracche”, suggerisce forse l’esistenza di una certa attività nella stessa proprietà della quale però non vi sono notizie.
In seguito la proprietà venne ereditata da Barnaba Vincenzo, sindaco di Zogno nel 1828 professore all'università di Padova tra gli anni quaranta e cinquanta, e primo deputato del distretto al Parlamento Italiano negli anni 1860 e 1861.

Il paese di Zogno, centro principale della valle inferiore, attivo nell'industria tessile, era già noto nel '600 per la lavorazione della carta da stracci. Alla sinistra della statale, ancora oggi si notano lungo il fiume, oltre a tessiture del primo '900, alcuni edifici a loggiato usati un tempo per asciugare la carta.

Fanno corona al capoluogo, nel verde delle sue alture, numerose frazioni come Poscante, luogo d'origine del bandito Paci' Paciana, Endenna, Stabello, dove nacque il poeta dialettale Pietro Ruggeri, Grumello de' Zanchi, patria degli omonimi pittori, Miragolo e Spino al Brembo.

Molte di queste contrade furono comuni autonomi fino all'inizio di questo secolo e conservano tuttora testimonianze artistiche e architettoniche di notevole importanza. Di rilievo il convento di Romacolo (XV secolo) che mantiene evidenti, nel chiostro e nel campanile a cuspide conica le linee originarie. Da vedere anche la chiesa dell'Assunta a Grumello de' Zanchi, con tele di Antonio Zanchi e un polittico di Francesco Rizzo da Santa Croce.

Rinomato a Zogno e' anche l'aspetto culinario con ristoranti e trattorie che servono piatti locali della tradizione bergamasca.
La sagra del paese di Zogno si svolge ad Agosto (San Lorenzo).

Uno degli elementi più belli e caratteristici del paesaggio in Valle Brembana è quello costituito dai roccoli.

Nati in epoca medievale come fonte integrativa di sostentamento della magra economia rurale, essi rappresentano un importante capitolo dell'architettura spontanea e della cultura rurale della Valle Brembana.
Utilizzati per la cattura degli uccelli, sono il risultato della sinergia tra una secolare passione venatoria, assai diffusa nei nostri paesi, la grande conoscenza dell'avifauna e una raffinata tecnica silvicolturale, proprie delle popolazioni di montagna. Malgrado molti siano andati perduti per abbandono, ve ne sono ancora decine che si stagliano con il loro profili sulle dorsali, sui poggi e sui crinali, lungo le linee migratorie dell'avifauna.
Tutti i roccoli sono infatti posti su punti dominanti, con ampio campo visivo, soprattutto verso est, per poter scorgere tempestivamente gli stormi in avvicinamento.
L'impianto fondamentale consiste in una costruzione realizzata in murature e legno (il casello), a forma di torretta e avvolta da specie rampicanti o da alberi addossati alla parete che mascherano la costruzione.
Sul casello, solitamente dotato di un piccolo ballatoio, si apposta l'uccellatore a sorvegliare l'arrivo dei migratori. Dal casello si sviluppa un doppio filare di alberi a semicerchio (il tondo o il cerchio) con la parte aperta in corrispondenza del casello.
Il tondo costituisce la parte fondamentale per la cattura degli uccelli: le cime degli alberi si fanno congiungere così da formare una galleria all'interno della quale è posta un'intelaiatura che regge delle reti.
La funzione del roccolo è quella appunto di attrarre gli stormi degli uccelli in volo e catturarli mediante le reti. Nel tondo vi sono degli uccelli (richiami) disposti in gabbie che con il loro canto richiamano l'attenzione dello stormo.
Quando lo stormo si posa, l'uccellatore dal casello lancia gli spauracchi, formati da rametti con penne di un rapace, che spingono gli uccelli a infilarsi nel tondo, rimanendo intrappolati nelle reti. Naturalmente oggi esiste una coscienza ecologica che ha portato già da anni al divieto di questa forma di caccia e i roccoli ancora funzionanti sono utilizzati per importanti studi sui flussi migratori dell'avifauna.
Di certo essi rimangono ancora oggi veri e propri monumenti architettonici, rappresentazione di una grande cultura naturalistica che ha permeato per secoli generazioni di montanari. Delle centinaia di roccoli esistenti un tempo sui passi e sulle creste della Valle Brembana, molti sono oggi andati perduti per abbandono e perché ricoperti e ormai nascosti dalla vegetazione. Ne rimangono tuttavia diverse decine che possiamo ancora oggi ammirare in tutta la loro bellezza.
Partendo dalla bassa valle troviamo sul Canto Alto, raggiungibili da Sorisole, Sedrina o Zogno, il Fontanù, o Fontanone, il Prat tònd e il Prati Parini.
Una magnifica zona di passaggio era Miragolo San Marco, sopra Zogno, che conta ancora diversi roccoli: il Colombèr, il Prato Rosso, il roccolo al colle e quello del Flin.



LEGGI ANCHE : http://asiamicky.blogspot.it/2015/07/zogno.html



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domenica 28 giugno 2015

CUNARDO



Cunardo è un comune della provincia di Varese noto fin dall'epoca antica, per la lavorazione della ceramica.

Cunardo, deriva dal celtico “Kun Ard”, che significa Posto in alto, e quindi punto d’incontro delle tre valli varesine Valcuvia, Valganna, Val Marchirolo.
In epoca tardo medievale Cunardo era compreso nel feudo di Valtravaglia, concesso al conte Franchino Rusca dal duca di Milano Filippo Maria Visconti, nel 1438.
Nel 1583 il territorio passò alla famiglia Marliani.

Nel XVIII secolo, essendo comune di scarso interesse, l'amministrazione era curata esclusivamente dal sindaco, che procedeva nell'ordinaria amministrazione, mentre per gli eventi straordinari veniva coadiuvato da un gruppo di cittadini. Nel 1751 la popolazione ammontava a 443 abitanti.

Nel 1757 il comune fa parte della Pieve di Val Travaglia. Nel 1786 Cunardo entra nella provincia di Gallarate, e successivamente di Varese, a seguito dell'editto austriaco che divide la regione Lombardia in otto province. Nel 1791 il comune passa alla provincia di Milano. Il primo Consiglio comunale fu eletto nel 1821.

Il paese è posto ai piedi di due monti (Monte Castelvecchio e monte Penegra). Il monte Castelvecchio prende il suo nome dalla fortezza fatta costruire dai Longobardi nel 700 d.C. che dall'alto dominava la valcuvia e la val Marchirolo. Nel comune di Cunardo si ramifica nel sottosuolo una grotta chiamata "Orrido di cunardo" nella quale scorre anche il fiume Margorabbia. Alcune tra le zone importanti della grotta sono l'Antro dei Morti, Lago Ignoto e Grotta della Madonnina.

Cunardo vanta un antichissimo mulino ad acqua, il Molino Rigamonti, di proprietà della famiglia Rigamonti dal 1787. Ancora oggi tutto l’impianto dell’epoca è completamente funzionante e produce crusca, farina integrale, farina da polenta, fine e grossa.

Il Molino Rigamonti si trova lungo il fiume Margorabbia, al confine tra Cunardo e Ghirla.
È un mulino ad acqua. L’acqua della roggia di derivazione viene convogliata in un canale così che, per caduta, fa girare una ruota idraulica verticale in ferro. È il movimento di questa ruota a produrre l’energia necessaria per il funzionamento, tramite una serie di cinghie e di ingranaggi, di tutte le attrezzature necessarie alla macinazione: le macine, la tramoggia, il buratto.
La costruzione del mulino si perde nei secoli. Notizie certe si hanno a partire dal 1787, quando la famiglia Rigamonti acquistò l’impianto da Pasquale Aimetti. La famiglia Rigamonti proveniva da Barzago, in Brianza, ecco il perché della denominazione Molino Barzago, denominazione che ha poi contrassegnato anche la località.
Nel 1891 furono poste le basi per la costituzione della società “Fratelli Rigamonti” per l’attività – così come recita il certificato rilasciato dalla Camera di commercio di Varese – “di oleificio per la fabbricazione degli olii di semi e mulino di granoturco, commercio al minuto di semi e panelli, farina di granoturco e cascami”. Il mulino serviva i contadini e i proprietari che vi portavano il granoturco, che macinato forniva la farina per la polenta, piatto principe nell’alimentazione del passato. Fino al 1951 presso il mulino veniva prodotto anche olio di noci.
La ruota del mulino, immutata, continua a girare grazie alle incessanti e appassionate attenzioni della famiglia Rigamonti, che ancora oggi è proprietaria di questo gioiello. Tutto l’impianto è dell’epoca e completamente funzionante.
L’attuale proprietario, Riccardo Rigamonti produce e vende farina integrale, crusca, farina da polenta, fine e grossa.
L’antico mulino ad acqua Rigamonti, forse l’unico ancora attivo in tutta la provincia di Varese, costituisce ormai una tappa significativa degli itinerari turistici locali.
L’area in cui sorge il mulino, che ha rispettato nel corso degli anni il verde circostante, viene inserita nel 2010 nel Parco regionale Campo dei fiori.
Sempre nel 2010 la Regione Lombardia riconosce al Molino Rigamonti la qualifica di “negozio di storica attività”. Nel 2011 nell’ambito delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, l’impresa viene inserita tra le 150 imprese storiche d’Italia premiate a Roma durante la cerimonia “Italia 150.
La chiesa della Beata Vergine del Rosario, amatissima dai Cunardesi è destinata alla devozione fin dal 1300. Sulla parete esterna del pronao è dipinto l’affresco della Madonna delle Grazie o delle Rose. L’opera, che raffigura la Vergine con in braccio il Bambino, fu eseguita dal professor Valli di Brebbia nel 1940.
La chiesa parrocchiale di Sant’Abbondio, in stile tardo barocco, fu costruita sullo stesso luogo dove sorgevano edifici di culto precedenti e fu consacrata nel 1779. La tradizione vuole che nella costruzione sia stato utilizzato il materiale del vecchio castello da tempo abbandonato. All’interno vi sono affreschi di Alessandro Valdani da Chiasso e l’organo costruito nel 1833 dagli organisti Arioli & Franzetti, usato regolarmente durante la liturgia per sostenere il canto della corale parrocchiale.

Al centro del paese si apre la bellissima piazza IV Novembre, con la “Vittoria alata”, il monumento ai caduti cunardesi delle due guerre. L’opera è stata realizzata negli Stati Uniti dallo scultore locale J. G. Sassi. Il marmo, il bronzo e la modella sono americani e questo è uno dei pochi monumenti in Italia realizzato con marmo statunitense.

Cunardo è attraversata anche da un tratto della Linea Cadorna, il sistema di fortificazioni costruito lungo il confine italo-svizzero durante la Prima Guerra Mondiale, ma mai utilizzato.

Numerose sono inoltre le cappelle votive e gli affreschi sulle facciate delle vecchie case che si possono trovare passeggiando nel paese. In particolare vi sono due affreschi del pittore locale Antonio da Tradate, attivo lungo le sponde del Lago Maggiore e le valli ticinesi tra la fine del XV secolo e l'inizio del XVI secolo. Sono la “Madonna in trono”, nella frazione di Raglio e la “Pietà” in via Vaccarossi.

Sulle facciate delle case più vecchie, si possono trovare anche diversi motti fascisti risalenti agli anni ’30.

Cunardo vanta antiche tradizioni nella lavorazione della ceramica, pare che l’inizio della sua produzione risalga al tempo dell’Imperatore Tiberio.

Nel 1796 Camillo Adreani rivitalizzò la ceramica di Cunardo, con l’introduzione di colorazioni verdi e blu la cui lucentezza era insuperabile e che ornò una produzione quasi esclusiva costituita da vasi per unguenti e profumi e vasi per speziali, venduti anche Oltralpe. Adreani impiantò il suo laboratorio di ceramica sfruttando le conoscenze dell’arte apprese a Faenza. La materia prima era a portata di mano: l’argilla dei luoghi, la legna dei boschi, l’acqua pura, sono gli ingredienti che hanno consentito di creare una felice storia della ceramica nella provincia di Varese.
 Alcuni pezzi decorati col “blu Cunardo“, (colore di cui solo i maestri cunardesi conoscevano il segreto della produzione) sono ormai autentiche rarità e sono conservati al Museo internazionale delle ceramiche di Faenza e al Museo Poldi Pezzoli di Milano.

Nel 1896 le fabbriche di ceramica a Cunardo risultavano essere quattro; oltre ad esse, vi erano svariate fornaci per laterizi e calcina. Delle molte fabbriche storiche di maioliche del Piambello, oggi ne sopravvive solo una, sorta sui resti di una fornace da calce ottocentesca, attiva fino agli anni ’30.

Nel 1951, la famiglia di Gianni e Giorgio Robustelli fonda la ceramica Ibis. Dagli anni ’60, con l’istituzione dell’Associazione Culturale Cun-Art, la ex fornace da calce diventa luogo di incontro per artisti di livello mondiale, desiderosi di cimentarsi con l’arte ceramica. Tra le illustri firme rimaste alle Fornaci si leggono infatti quelle di Fontana e Burri, di Guttuso e Ennio Morlotti, di Baj e di Schumacher. Importante è la presenza alle Fornaci di Aldo Carpi e il ricordo delle gustose liti tra Guttuso e Alberto Milani. Anche Piero Chiara veniva a dilettarsi alle Fornaci, tanto da aver lasciato una collezione di piatti, dipinti di sua mano e destinati a essere riprodotti sulle copertine di alcuni suoi romanzi. Vittorio Tavernari ha sua volta prodotto per gli amici Robustelli le sue uniche ceramiche. Piaceva lavorare qui anche ai Frattini, padre e figlio, a Spaventa Filippi e Sergio Pasetto, a Gottardo Ortelli e Luciano Ferriani.

Nel 2014 Giorgio Robustelli ha creato l’associazione “Amici delle Fornaci Ibis”, che ha come scopo il rilancio culturale delle Fornaci di Cunardo con iniziative incentrate non necessariamente sull'arte ceramica, ma che spaziano anche in altre forme di espressione.



Le grotte di Cunardo si sono formate dove il fiume Margorabbia ha scavato nella roccia calcarea, nel corso dei millenni, uno spettacolare traforo idrogeologico, tra cui una grotta ampia e lunga circa una centinaia di metri, percorribile anche da persone poco esperte. E’ un fenomeno naturale unico in Lombardia

Si tratta di un complesso ed importante traforo idrogeologico unico in Lombardia.Comprende le grotte Pont Niv e Antro dei Morti ma si collega anche con altre grotte.Si sviluppa in forma di labirinto di gallerie,ora ampie,ora anguste,scavate dalle acque,talvolta in pressione(condotta forzata) con diversi sifoni attivi di cui due importanti. E percorso dal torrente Margorabia che, nei periodi di piena allarga i rami attivi e rende pericoloso l'accesso a buona parte delle grotte.

Ingresso a spaccatura orizzontale larga m.20 tra strati orizzontali.Inoltrandosi si costeggia una cartiera diroccata,si lascia a destra un laghetto e si prende a sinistra fino ad un salto di m.3.Alle spalle vi è un laghetto limpido e calmo a monte del quale si trova un vasto e scomodo labirinto. Scendendo invece,si giunge ad una comoda galleria,a sinistra della quale si staccano alcuni cunicoli tortuosi; a destra si sbocca  ai due terzi di un pozzo con violenta cascata di una dozzina di metri.Proseguendo su un terreno molto sdrucciolevole si perviene ad un salto di 12 metri che si affaccia su di un vasto cavernone. Superato si accede ad una galleria levigata,un successivo  salto di 3 m. ci permette di arrivare nel cavernone  che si attraversa completamente per raggiungere l'ingresso di una galleria che porta,dopo un nuovo pozzetto di m.8,direttamente al laghetto terminale.Il lago terminale o lago sferico,così chiamato per la forma della volta, ha una quindicina di metri di diametro ed è in comunicazione attraverso un sifone lungo una trentina di metri,con l'Antro dei Morti.

Ingresso pure a spaccatura orizzontale larga una ventina di metri tra strati orizzontali.La grotta si divide in 2 parti distinte:la prima, a sinistra, detta galleria del torrente,è lunga 120m. circa.Da una bassa volta laterale esce il torrente, alimentato dal cosiddetto lago Ignoto che comunicava,per via subacquea  col Lago Sferico di Ponte Nativo.Seguendo il corso del torrente si arriva a  un piccolo e suggestivo laghetto che comunica con l'esterno per mezzo di un breve sifone.Piegando sulla sinistra del lago ed inoltrandosi nella prima parte del labirinto, si giunge in breve alla seconda uscita della grotta che si affaccia nella parte superiore del profondo Orrido nel quale si getta il torrente Margorabia. La seconda parte della grotta è costituita dalla cosiddetta galleria  asciutta o fossile,lunga 180 metri.

Il complesso carsico di Cunardo  venne visitato numerose volte nel passato soprattutto per il suo facile accesso e per la vicinanza con i centri abitati.Una buona descrizione venne data nel 1923 da A.Bohm e A.Di Renzo e la pianta dell'Antro dei Morti,pubblicata in quella occasione,fece testo per molti anni.Successivo è l'interessamento da parte di squadre di speleologi che miravano alla soluzione dell'ultima delle incognite di questo complesso ipogeo,cioè il collegamento  sotterraneo tra il Ponte Nativo e l'Antro dei Morti. A ciò si dedicarono in particolar modo elementi di Gruppi Grotte di Varese, Desio,Milano e Como cui si devono le scoperte  e le esplorazioni  del cosiddetto lago Ignoto  nella prima parte dell'Antro dei Morti,del lago Sferico e l'individuazione del sifone terminale del Ponte Nativo.Nel 1954 due sommozzatori del Gruppo Grotte Milano,forzarono felicemente il sifone n.2 che collega il laghetto terminale dell'Antro dei Morti con lo sbocco della grotta sull'Orrido.IL 7 ottobre 1954 venne finalmente effettuato il superamento del sifone n.1 che unisce ,l'Antro dei morti con il Ponte Nativo.

Il torrente Margorabia ,che prende origine dal Monte Martica,dopo aver percorso la Valganna, alimentando i laghetti di Ganna e Ghirla , con un notevole salto all'altezza di Cunardo scende in Valcuvia per gettarsi,infine,nel Lago Maggiore unitamente al Fiume Tresa,poco a sud di Luino.Nel salto tra Cunardo e Ferrera il Margorabia ha traforato il gradino roccioso formando le due caverne che si susseguono separate da un sifone.Questo complesso carsico sotterraneo costituisce l'unico traforo naturale lombardo d'un corso d'acqua quasi solo superficiale.Subito a monte della grotta superiore le acque del torrente sono trattenute da una piccola diga che alimenta la centrale di Ferrera Valcuvia.

Dal punto di vista archeologico meritano menzione alcuni frammenti di ceramica romana raccolti da C. Chiesa nel 1937 ed altri d'età meno remota rivenuti da G. C. Cadeo e G. Orlandi nel 1948.

Cunardo è famosa per la pista di sci di fondo “Sole e Neve”. La pista è gestita dallo Sci Club Cunardo, che ogni anno organizza corsi individuali e di gruppo. Numerose sono anche le scuole che sfruttano il centro per proporre ai propri alunni un’attività di avviamento alla pratica dello Sci di fondo.

Il percorso della pista Sole e Neve parte dalla Baita del fondista, fornita di locale ristoro, spogliatoi, docce, noleggio del materiale tecnico, impianto di illuminazione, impianto di innevamento programmato (il primo realizzato in Italia per l’approntamento di una pista di sci di fondo, nel 1987).

D’estate la pista da sci si trasforma in bellissime piste ciclabili, completamente asfaltate, che collegano Cunardo con i paesi vicini. Le piste si addentrano nei prati e nei boschi e permettono di ammirare i tesori cunardesi (costeggiano anche il Molino Rigamonti e la Fornace Ibis).

Numerose sono le manifestazioni organizzate dalle associazioni cunardesi. Le più importanti hanno luogo durante il periodo estivo.
Ogni anno, a giugno, la Pro Loco organizza il Palio dei Rioni, una gara dove per tre settimane i 6 rioni di Cunardo (Borgo, Filanda, Ponte Nativo, Pozzo Castelvecchio, Raglio, Sasso Morone) si sfidano in diversi giochi.
Nel mese di luglio, il gruppo folkloristico I Tencitt organizza, presso la Baita del fondista, il Festival Internazionale del folklore, che trasforma Cunardo “nell’ombelico del mondo”. Due settimane di danze, canti, musiche e colori da ogni parte dell’Italia e del mondo.

Ad agosto arriva invece uno degli appuntamenti più attesi dell’estate cunardese, la Sagra della patata, con un menù ricco di specialità. Il ricavato è donato ogni anno alla Scuola Materna di Cunardo.

Sempre ad agosto, i cunardesi celebrano il loro Santo Patrono, Sant’Abbondio.

Il gruppo folkloristico I Tencitt a settembre organizza inoltre la Sagra del fungo, un appuntamento fisso per tantissimi appassionati, con un ricchissimo stand gastronomico.

La festa più sentita dai Cunardesi è però la Festa della Madonna del Rosario, considerata la vera “Festa del paese”, che ha luogo la prima domenica di ottobre. Ogni anno, dopo le celebrazioni religiose e la processione per le vie del paese con la statua della Madonna del Rosario, si tiene l’incanto dei canestri, dove i doni (solitamente prodotti gastronomici) che i Cunardesi offrono alla Madonna vengono “venduti all’asta”. Il ricavato è destinato al sostentamento della Parrocchia.

Fra le personalità cunardesi più influenti vi è sicuramente Vittorio Formentano, fondatore dell’AVIS (Associazione Volontari Italiani del Sangue).
Formentano acquistò una residenza estiva ottocentesca a Cunardo, dove scelse di trascorre gli ultimi anni della sua vita.
A lui Cunardo ha dedicato il parco e l’anfiteatro Formentano, sede di numerose manifestazioni.

A Cunardo vive anche il campione Federico Morlacchi, il nuotatore italiano vincitore di tre medaglie di bronzo ai giochi paralimpici di Londra, un oro, un argento ed un bronzo mondiali, cinque ori europei e detentore del record del mondo dei 400 farfalla S9.



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venerdì 8 maggio 2015

LE GROTTE DI BUENO FONTENO

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Il fenomeno carsico è caratteristico di tutte quelle aree geologiche, tra cui una delle più importanti corrisponde alla sponda bergamasca del lago di Iseo, nelle quali affiorano rocce carbonatiche. La loro peculiarità consiste nel fatto che il carbonato di calcio può essere facilmente sciolto da acqua a bassa acidità come l’acqua piovana. Questo processo porta alla formazione e allo sviluppo di grotte.
Nel corso di migliaia di anni nelle grotte si sono succeduti eventi di elevato interesse geologico e naturalistico, che sono testimoniati ad esempio dalle meravigliose concrezioni di calcite, come le stalattiti e le stalagmiti, o dalla presenza di specie animali completamente adattate all’habitat cavernicolo: i troglobi.

Sulla sponda bergamasca del lago di Iseo gli speleologi di Progetto Sebino hanno scoperto una delle grotte più estese e profonde della Lombardia, con ambienti di dimensioni ciclopiche e corsi d'acqua.
L’acqua di questi fiumi sotterranei sgorga dalle sorgenti ed è fonte indispensabile per l’approvvigionamento idrico umano.

Nel 2005  il gruppo speleologico Valle Imagna Cai-Ssi individua una vasta zona carsica che si estende dal lago d’Endine al lago d’Iseo.

Un anno dopo gli speleologi del “Progetto Sebino” si accorgono che nella valle di Fonteno da una fessura della roccia esce dell’aria particolarmente fredda. Subito gli speleologi comprendono che qualcosa lì sotto è nascosto ma ancora non si rendono conto della meravigliosa sorpresa che li attenderà da lì a poco.

A partire da Maggio 2006, in pochi mesi gli speleologi riescono ad avanzare per 8 km. È durante questo periodo che viene scoperto quello che verrà poi denominato “Sifone Smeraldo” e che conduce a un dislivello di – 451 mt. Durante l’esplorazione vengono scoperti saloni di dimensioni imponenti che arrivano addirittura a superare i 100 mt., un tratto fossile e il resto percorso da vari corsi d’acqua. L’esplorazione si rivela tutt’altro che facile perché lungo il percorso gli esploratori hanno trovato lunghi canyon con pareti verticali che hanno costretto l’uso delle corde.

All’inizio del 2007 il progetto ottiene il patrocinio dall’Ente Regionale Speleologico Lombardo. Le esplorazioni continuano per gli anni successivi durante i quali vengono aperte nuove vie, scoperti nuovi percorsi e viene anche messa in sicurezza la zona per impedire che bambini o adulti poco esperti possano rischiare di farsi male.

L’ultima scoperta nell’Agosto 2011 quando i sommozzatori riescono a mappare, segnare e verificare nuove grotte così’ che ad oggi l’ “Abisso Bueno Fonteno” supera nella sua totalità i 19 Km di sviluppo.

I colli attorno al lago d’Iseo e specie quelli della Bergamasca potrebbero essere tutti collegati da una serie di grotte sotterranee. È uno dei dati che emerge dalle ricerche del “Team Progetto Sebino”, composto da uomini e donne del Gruppo Speleologico Montorfano di Coccaglio, dallo Speleoclub di Lovere e dal Gruppo Speleologico di Valle Imagna. Dal 2013 si sono aggiunti sportivi del Gruppo Grotte Brescia.

Recentemente gli esperti hanno individuato un’enorme grotta che va ad affiancarsi a quella lunga 22 chilometri che si estende da Fonteno alla Valcavallina e Sarnico, in un’area da 80 chilometri quadrati. Si tratta dell’abisso “Buena Vida”. Il lavoro di ricerca è immane  recentemente scoperto nella zona della Bergamasca, a Fonteno, l’abisso “Nueva vida”, che  esplorato per 3 chilometri e che potrebbe essere collegato all’abisso “Bueno – Fonteno”, di cui si sono setacciati 22 chilometri ma che presenta ancora tanti punti oscuri e  lascia pensare di essere ancora più esteso. L’ipotesi è quella che esistano dei passaggi che rendano i due abissi un’unica enorme grotta.
Le caratteristiche della “Nueva Vida” sono simili al vicino “Bueno-Fonteno” anche se nella prima delle due c’è un passaggio che è incredibile. Si tratta di un pozzo alto 175 metri e largo 30. È molto difficile da discendere e salire e rende l’esplorazione difficoltosa. Solo speleologi esperti sono in grado di affrontarlo.

Sono grotte di incredibile bellezza, ricchissime di acqua. Riteniamo che sia l’abisso “Nueva vida” sia l’abisso “Bueno–Fonteno” siano una delle riserve idriche fondamentali del lago d’Iseo, indispensabili in un momento storico come questo: anche dagli abissi, difatti, deriva la salute del Sebino.



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sabato 28 marzo 2015

LE GROTTE DI CATULLO

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La denominazione di "Grotte di Catullo" risale al Quattrocento, quando la riscoperta delle liriche di Catullo, fra cui il Carme 31 in cui il poeta descrive il suo ritorno nell'amata casa di Sirmione, suggerì il collegamento con i grandiosi resti ancora visibili benché largamento interrati e coperti da vegetazione tanto da apparire come caverne. Il primo ad attribuire la villa a Gaio Valerio Catullo fu, nel 1483, Marin Sanudo il giovane. Tale ipotesi fu poi ripresa da eruditi e studiosi successivi, nonostante la villa oggi visibile sia stata costruita dopo la morte del poeta veronese. Allo stato attuale non esistono elementi sicuri per localizzare la casa di Catullo. Il termine è comunque rimasto e ancora oggi è utilizzato per identificare il sito archeologico.

Nel XVI secolo la villa fu meta di alcuni celebri viaggiatori fra cui la marchesa Isabella d'Este Gonzaga (1514 e 1535) e Andrea Palladio, che compì la visita per studiare i resti sotto il profilo delle tecniche di costruzione.

La grande villa, al di sotto della quale sono state rinvenute strutture del I secolo a.C., viene edificata agli inizi del I secolo d.C.. La villa doveva essere in stato di abbandono già nel III secolo d.C. quando parte della sua decorazione architettonica viene reimpiegata nell'altra villa romana di Sirmione, quella di Via Antiche Mura. Fra il IV secolo e il V secolo le imponenti strutture superstiti della villa vengono incluse nelle fortificazioni che recingono la penisola di Sirmione e all'interno dei resti dell'edificio romano vengono realizzate delle sepolture.

Nel corso dei secoli diversi cronisti e viaggiatori visitano le rovine, ma i primi studi concreti su di esse vengono effettuati solamente nel 1801 dal generale La Combe St. Michel, comandante d'artiglieria dell'esercito di Napoleone Bonaparte. Successivamente, il conte veronese Giovanni Girolamo Orti Manara esegue scavi e rilievi, ancor oggi fondamentali, che pubblica nel 1856.

Nel 1939 la Soprintendenza per i beni archeologici avvia un ampio programma di scavi e restauri, acquisendo infine nel 1948 l'intera area per permettere un'adeguata la tutela del complesso, immerso nel suo ambiente naturale.

Durante gli anni novanta del Novecento ulteriori studi hanno confermato che la costruzione è stata realizzata attraverso un progetto unitario, che ne ha definito l'orientamento e la distribuzione degli spazi interni secondo un preciso criterio di assialità e di simmetria.

Il complesso archeologico, ancora oggi portato alla luce solo parzialmente, copre un'area di circa due ettari. La villa ha pianta rettangolare, di 167 x 105 metri, con due avancorpi sui lati corti nord e sud. Per superare l'inclinazione del banco roccioso su cui fu impostato l'edificio vennero create grandi opere di sostegno (sostruzioni) nella parte settentrionale e furono effettuati imponenti tagli per modellare il banco roccioso. Questi ultimi sono paricolarmente ben visibili sul lato ovest (Grande Criptoportico) e sul lato orientale dell'avancorpo settentrionale.

Il piano nobile, corrispondente agli ambienti di abitazione del proprietario, risulta il più danneggiato, sia perché era il più esposto sia perché la villa, dopo il suo abbandono, è stata per secoli una cava di materiali. Meglio conservati sono il piano intermedio e quello inferiore.

L'ingresso principale dell'edificio si trovava nell'avancorpo meridionale. La villa era caratterizzata da lunghi porticati e terrazze aperti verso il lago lungo i lati est e ovest, comunicanti a nord con un'ampia terrazza belvedere, munita di velarium.

Lungo il lato occidentale, oggi è visitabile il criptoportico, una lunga passeggiata un tempo coperta. Le parti residenziali dell'edificio erano situate nelle zone nord e sud, mentre la parte centrale, costituita oggi dal Grande Oliveto, era occupata da un esteso giardino. Sul lato meridionale, sotto un pavimento in opus spicatum, si trova una grande cisterna lunga quasi 43 metri, che raccoglieva l'acqua necessaria per gli usi quotidiani. L'ampio settore termale della villa, costituito da diversi vani situati nella zona sud occidentale, tra i quali la cosiddetta piscina, fu ricavato probabilmente all'inizio del II secolo. I vari ambienti della villa possiedono suggestivi nomi convenzionali, derivati da una tradizione locale consolidata oppure da interpretazioni e denominazioni date durante i primi scavi. Fra le rovine, ad esempio, si possono trovare l'Aula a tre pilastri, il Lungo corridoio, la Trifora del Paradiso, il Grande Pilone, la Grotta del Cavallo, il Grande Oliveto prima citato e l'Aula dei Giganti.

L'ingresso dell'edificio si trovava nell'avancorpo meridionale. La villa era caratterizzata da lunghi porticati aperti verso il lago sui lati occidentale  e orientale, direttamente comunicanti sul lato settentrionale con l'ampia terrazza - belvedere situata al centro dell'avancorpo nord. Sul lato occidentale, al di sotto del porticato si trovava il "doppio criptoportico", lunga passeggiata coperta. Le parti residenziali dell'edificio erano situate nella parte settentrionale e meridionale, mentre la parte centrale, costituita oggi dal "grande oliveto", corrispondeva a uno spazio aperto. Questo è limitato sul lato meridionale da un pavimento in mattoni a spina di pesce che copre una grande cisterna, di quasi 43 metri di lunghezza. L'ampio settore termale, costituito da diversi vani, ricavati probabilmente in un momento successivo alla costruzione dell'edificio, all'inizio del II secolo d.C., era situato nella zona meridionale.

La costruzione della villa può essere datata ad età augustea (fine I secolo a.C.-inizio I secolo d.C.). Il crollo delle strutture e il conseguente parziale o totale abbandono dell'edificio sono fissati nel IV secolo d.C., periodo cui sono attribuibili diverse tombe a inumazione collocate in una parte della villa ormai distrutta.

I Romani indicavano con la parola "terme" i bagni sia privati che pubblici, mentre per noi oggi questa parola si riferisce a stabilimenti che sfruttano sorgenti di acqua calda. Nelle "grotte di Catullo" le terme sono state costruite nella parte meridionale  nel Il secolo dopo Cristo, circa un secolo dopo la costruzione della villa.
II settore termale ha un'estensione di quasi 800 mq e comprende vari ambienti. Purtroppo alcune di queste stanze sono state fortemente danneggiate e quindi oggi è difficile ricostruire la loro esatta funzione. L'ambiente meglio conservato è la cosiddetta "piscina". Si tratta di un grande vano rettangolare che ospitava una vasca. Il pavimento di quest'ultima era rialzato, probabilmente sostenuto da pilastrini (= pilae), e si trovava sopra gli archi presenti lungo le pareti. Dietro alla "piscina" c'era un ambiente dove probabilmente veniva acceso il fuoco (=praefurnium). L'aria calda ed il fumo prodotti entravano in un'intercapedine che circonda la piscina e che doveva arrivare fino al soffitto. Attraverso gli archi quest'aria circolava anche nell'area sotto al pavimento  e così l'ambiente veniva riscaldato. I costruttori hanno utilizzato molti mattoni nei muri per fare in modo che il calore non si disperdesse tanto facilmente.

Per le sue caratteristiche è probabile che questo ambiente fosse il tepidarium, ossia la stanza dei bagni con la vasca di acqua tiepida. L'ambiente per l'acqua calda (il calidarium) era di dimensioni inferiori ed anziché avere un'unica grande piscina possedeva piccole vasche poste agli angoli della stanza e destinate non a nuotare, ma ad immergere una parte del corpo. Anche il calidarium si trovava vicino al forno di riscaldamento. Infine l'ambiente per l'acqua fredda (il frigidarium) aveva al centro una vasca poco profonda sui cui bordi, decorati a mosaico, le persone potevano sedere. Nelle terme delle "grotte di Catullo" sono presenti anche altri ambienti, oltre a quelli descritti, la cui funzione non è però chiara. Per la decorazione di alcune pareti sono stati impiegati, stucchi ritrovati durante gli scavi. Nelle vasche non veniva utilizzata l'acqua del lago a causa del notevole dislivello che la separa dall'edificio. Per risolvere il problema dell'approvvigionamento idrico sono state costruite nella zona termale tre cisterne in cui veniva raccolta l'acqua piovana. Due di queste cisterne si trovano alle spalle della "piscina", mentre la terza, un tempo mal interpretata come il "bagno" di Catullo è posta vicino all'ingresso della villa. L'acqua veniva estratta dalla cisterna e convogliata verso le terme attraverso tubi di piombo, le cosiddette fistule, che per i Romani erano le tipiche condutture per l'acqua.
Nelle terme pubbliche, che erano più complesse di quelle private, oltre alle stanze con le vasche vi erano spogliatoi, palestre, spazi aperti (come giardini e cortili), sale per conferenze e letture, latrine e ambienti destinati alla cura del corpo.
I Romani quindi frequentavano le terme alla ricerca non solo di benessere fisico, ma anche di momenti d'incontro.

Nel 1999, all'interno del parco che accoglie i resti della villa, è stato inaugurato il Museo.

Esso ospita numerosi reperti provenienti dagli scavi della villa romana delle "Grotte di Catullo", da altre ville romane situate sul lago di Garda (villa di via Antiche Mura a Sirmione e villa di Toscolano) e da altri siti archeologici della zona. Il Museo è organizzato in più sezioni.

Nel portico d'ingresso sono spiegate la genesi e la morfologia del lago di Garda; inoltre sono illustrate le differenti vie di comunicazione nel territorio in età antica.

All'interno del Museo sono ospitate altre tre sezioni:

la preistoria e la protostoria del lago di Garda, con i ritrovamenti dalle palafitte rinvenute sulle rive del lago;
l'età romana, all'interno della quale sono esposti anche i reperti provenienti dalle "Grotte di Catullo";
l'età medievale, con i corredi funerari della chiesa di S. Pietro in Mavino di Sirmione e altre località adiacenti
Nel Museo sono ospitati un plastico che riproduce la villa romana e un monitor touch-screen con filmati in tre lingue sulle Grotte di Catullo e su altri siti del lago di Garda.

Grazie alla collaborazione dell'UNAPROL e dell'Associazione Interprovinciale Produttori Olivicoli Lombardi (AIPOL) si è concluso di recente, grazie a finanziamenti da parte dell'Unione Europea e dell'Italia, un programma di recupero dell'oliveto storico delle Grotte di Catullo. In tutta l'area archeologica sono presenti attualmente circa 1500 ulivi, alcuni plurisecolari, appartenenti a tre differenti varietà gardesane (casaliva, leccino e gargnà). Dal 2012 è ripresa la raccolta delle olive finalizzata alla produzione dell'olio extra vergine dell'oliveto storico delle "Grotte di Catullo".



LEGGI ANCHE : http://asiamicky.blogspot.it/2015/03/sirmione.html




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SIRMIONE

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Sirmione è un piccolo gioiello sospeso in mezzo al basso lago di Garda.

Sirmione è posta lungo la penisola omonima che si protende all'interno del lago di Garda per circa quattro chilometri e che divide in due parti la riva lacuale meridionale. Parte del territorio comunale si estende ad est rispetto alla penisola per includere quella di Punta Grò.

L'entroterra si estende in direzione delle colline moreniche che cingono la parte meridionale del lago stesso e comprende una parte della zona di produzione del Lugana.

Il comune confina a sud-est con Peschiera del Garda e a sud-ovest con Desenzano del Garda. La sezione sul lago confina ad est con Lazise e Castelnuovo del Garda e a nord con Padenghe sul Garda.

Classificazione sismica: zona 3 (sismicità bassa).

L'origine del nome in base al toponimo, Mazza (1986) riporta due tesi:
dal greco syrma, quindi coda o strascico;
dal gallico sirm, albergo od ospizio, ed one, acquatico.

Sono state rinvenute tracce di antropizzazione risalenti al neolitico e Sirmione fu centro urbano rilevante in epoca romana. La via Gallica seguiva la sponda meridionale del lago tagliando poi per l'istmo della penisola sirmionese. Vi sorse dunque la Sermione Mansio menzionata nell'Itinerarium Antonini.

Secondo un'ipotesi di Elisabetta Roffia, la mansio non solo corrisponderebbe a una trattoria del luogo, documentata come "Osteria" o "Bettola" fin dal XV secolo, ma anche alla Mansio ad Flexum riportata nell'Itinerarium Burdigalense.

Gaio Valerio Catullo menzionò Sirmio fra i luoghi in cui soggiornò. Tradizionalmente, a partire da Marin Sanudo il giovane, i resti della villa romana sirmionese sono a lui attribuiti, ma non c'è alcuna certezza in merito. Le parti più antiche della villa risalgono al I secolo a.C. con estensioni nel secolo seguente.

Nel III secolo, per l'Orti Manara, la Lugana di Sirmione fu teatro di diversi scontri. Nel 249, fra gli eserciti di Decio Traiano e Filippo l'Arabo, mentre nel 268 vi fu la Battaglia del lago Benaco fra l'imperatore Claudio il Gotico e la federazione degli Alamanni. Nel 312, il primo scontro tra le truppe di Costantino I e quelle di Massenzio, preludio della Battaglia di Verona, avvenne nei pressi di Sirmione.

Sempre secondo l'Orti Manara, nel 463 Ritmiro, capitano dell'imperatore Libio Severo, sconfisse gli Alani nei terreni della Lugana

Nella prima metà dell'VIII secolo, Sirmione fu possedimento del longobardo Cunimondo. Nel 762 questi entrò in contrasto con un cortigiano della regina Ansa, moglie di Desiderio, uccidendolo in seguito ad una rissa. Fu di conseguenza privato dei suoi beni e imprigionato. Le proprietà del signore decaduto furono assegnate al Monastero di san Salvatore, fondato in quegli anni dai monarchi longobardi.

La regina Ansa costituì una succursale del monastero, restaurando la mansio romana e costruendo la basilica di san Salvatore in Cortine. Nella stessa epoca sorsero anche la prima chiesa di san Pietro in Mavino e la chiesa di san Martino in castro Sermioni ovvero situata all'interno del castrum romano.

Carlo Magno con un diploma del 16 luglio 774 cedette l'isola, il castrum e il monasteriolo di san Salvatore al monastero francese di san Martino di Tours a favore degli abiti dei monaci (in latino, causa vestimentorum). Tuttavia, dopo pochi anni, le proprietà tornarono al Monastero bresciano insieme con tutte le pertinenze, come il porto, le chiese della penisola e le rendite fondiarie dei dintorni. L'Imperatore Carlo il Grosso diede al Monastero la pescheria.

Nei secoli successivi il dominio del monastero di san Salvatore presso Sirmione andò attenuandosi. Nel 1158 è attestato un dominio, almeno nominale, da parte imperiale: Federico Barbarossa concesse ampia autonomia nell'ambito di una soggezione diretta al potere dell'Imperatore.

Nel 1197, il podestà sirmionese giurò fedeltà al comune di Verona, legando con quest'atto la cittadina gardesana alla città sull'Adige.

Nel XIII secolo sia Federico II, nel 1220, sia Corradino di Svevia, nel 1267, confermarono ed estesero i privilegi fiscali e le concessioni rilasciate al Comune. I medesimi atti furono compiuti dagli Scaligeri dopo che ebbero ottenuto il giuspatronato sul castrum.

La presenza di una comunità di patarini, eretici secondo la Chiesa Cattolica, spinse all'azione gli Scaligeri, che pochi anni prima avevano assunto la signoria veronese. Nel 1276, Mastino della Scala ottenne dal Consiglio di Verona la possibilità di istituire due compagnie di soldati per combattere i patarini sirmionesi. Il controllo delle stesse fu affidato ad un fratello di Mastino, Alberto, che assediò la cittadina gardesana e dopo poco tempo imprigionò diversi eretici. Due anni dopo, coloro che non si erano pentiti furono bruciati sul rogo a Verona.

Secondo Mazza (1986), il Castello Scaligero fu completato durante la signoria di Cangrande I e probabilmente fu costruito sui resti del castrum romano nel punto più stretto della penisola.

Nel 1378, Sirmione fu conquistata da Gian Galeazzo Visconti, che rinnovò i privilegi feudali del Comune sirmionese. Agli inizi del XV secolo fu occupata da Francesco Novello da Carrara, a quel tempo signore di Verona, per poi passare, nel 1405, sotto il controllo della repubblica di Venezia.

Sotto la Serenissima, Sirmione rimase legata al distretto veronese. Durante la riorganizzazione delle fortificazioni del Basso Garda, il fortilizio perse di importanza a vantaggio della vicina Peschiera. Rimase comunque avamposto militare come dimostra la costruzione della chiesetta di Sant'Anna, all'interno del castello, per il servizio religioso della guarnigione.

Nel corso del XV secolo fu edificata la chiesa di santa Maria Maggiore, sopra i resti di quella di san Martino in Castro. Nel XVII secolo, il nobile Francesco Rovizzi edificò una dimora e la chiesetta dedicata a sant'Orsola presso la località in seguito nota come Rovizza.

Nel corso del 1797, Sirmione fu dapprima occupata dalle forze francesi e, in seguito alla caduta della Repubblica di Venezia (16 maggio), fu sottoposta al controllo formale della Municipalità provvisoria veneta.

Il trattato di Campoformio stabilì che tutta la sponda meridionale del Garda passasse alla Repubblica cisalpina. Il 3 novembre fu istituito il dipartimento del Benaco comprendente anche Sirmione. Solo il 1º marzo dell'anno seguente fu creato il distretto, suddivisione amministrativa intermedia fra comuni e dipartimento, della penisola di Catullo all'interno del quale fu inclusa anche la municipalità sirmionese.

Dopo la soppressione del dipartimento benacense (1º settembre 1798), seguirono diverse riorganizzazioni amministrative che coinvolsero il comune di Sirmione: il 26 settembre fu associato al distretto VI di Villafranca del dipartimento del Mincio, mentre il 12 ottobre fu assegnato al distretto delle Vigne del dipartimento del Mella.

Dopo la parentesi dell'occupazione austro-russa (1799), fece seguito la riorganizzazione amministrativa della seconda repubblica cisalpina nella quale Sirmione entrò a far parte del distretto IV di Salò (maggio 1801). L'anno seguente la repubblica cisalpina cambiò denominazione in repubblica italiana.

Nel giugno 1805, con l'istituzione del napoleonico regno d'Italia, si procedette ad un nuovo riassetto amministrativo. Sirmione fu considerato di terza classe ed assegnato al cantone VII di Lonato a sua volta facente parte del distretto I di Brescia del dipartimento del Mella.

Nel 1816, a seguito del Congresso di Vienna e l'istituzione del Regno Lombardo-Veneto sotto l'amministrazione degli Asburgo d'Austria, Sirmione fu assegnato al distretto V di Lonato della provincia di Brescia. Nel 1853, con una revisione dell'assetto amministrativo, la cittadina entrò a far parte del distretto VIII, sempre con capoluogo Lonato.

Il 25 giugno 1859, durante la seconda guerra di indipendenza italiana, Sirmione fu occupata dalle truppe franco-piemontesi, vittoriose sull'esercito austriaco dopo la battaglia di Solferino e San Martino. Nello stesso tempo, parte dei feriti fu accolta presso la cascina Todeschini, a Colombare.

L'esito della seconda guerra di indipendenza conseguì il passaggio del comune sirmionese, come buona parte del territorio della Lombardia e della riva destra del Mincio, al regno di Sardegna (dal 1861 Regno d'Italia). Con il Decreto Rattazzi fu assegnato al mandamento X di Lonato appartenente al circondario I di Brescia della nuova provincia di Brescia. Fino al 1866, in cui a seguito della terza guerra di indipendenza italiana il Veneto fu annesso all'Italia, il confine con il territorio sotto il dominio asburgico correva da Rovizza fino a Lugana, nei pressi del quale si trovava la dogana.

Sul finire del XIX secolo si svolsero i lavori di intubazione delle acque termali. La sorgente termale era nota già nel Cinquecento, ma la profondità dalla quale sgorgava, 19 metri sotto il livello del lago, ne aveva impedito un qualsiasi uso fino a quel momento. Grazie alla tubazione fu possibile attivare il primo stabilimento termale e procedere alle prime analisi sulle qualità dell'acqua.

Con regio decreto 20 gennaio 1930, n. 53, il comune assunse la denominazione di Sirmione, dato che in precedenza era noto come Sermione.

A Sirmione nelle sere delle bella stagione ci sono le rondini; il mattino, specie nelle aree contigue a parchi o a giardini, come quelli di alcuni Alberghi, si può sentire il canto di numerosi uccelli (numerosi soprattutto i passeri, ma anche fringuelli, pettirossi, merli). germano reale. Altri abitatori dell'habitat sirmionese sono i gabbiani, come pure varie specie di uccelli acquatici, tra cui i germani reali e i cigni, divenuti ormai una popolosa colonia.

Attualmente la fauna terrestre della regione gardesana è costituita da qualche raro esemplare di mammifero selvatico (caprioli, volpi, lepri) e da alcuni uccelli rapaci provenienti dalle montagne circostanti.

Le acque del Lago di Garda sono inoltre ricche di numerose specie ittiche; fra le più conosciute il pregiato Carpione (Salmo Carpio) trota la cui presenza sulle mense era apprezzata da personaggi storici quali l'imperatore romano Tiberio, Galeazzo Visconti, Federico III, Maria d'Austria e Giuseppe II.

Altri rappresentanti dei salmonidi sono la trota ed il salmerino. Anche il persico reale, l'anguilla, il coregone ed il luccio sono presenti nel lago. Altri pesci presenti nelle acque del bacino sono la tinca, l'alborella, il cavedano, il barbo, la carpa ed il vairone, della famiglia dei ciprinidi.

L'ittiofauna del lago comprende anche l'agone, altro endemismo del Benaco, la bottatrice, molto ricercata per la bontà delle sue carni senza lische, e il lavarello.

Due sono le piante predominanti a Sirmione: l'olivo e il cipresso, piante tipicamente mediterranee, attecchite grazie al clima tradizionalmente mite.

Altro elemento caratteristico sono i canneti, che si ritrovano in buona parte della costa non antropizzata.

La chiesa parrocchiale: S.Maria Maggiore bella e armonicamente sobria costruzione della fine del XV secolo. Contiene opere attribuite al Brusasorci (1516/67), allievo di Paolo Veronese, e ad altri artisti di età barocca, benchè il suo stile complessivo la avvicini alle semplicità di linee del romanico.
Recente il Battistero, a sinistra subito dopo l'entrata.

La chiesa di S.Pietro in Mavino è la più antica chiesa (tra quelle rimaste, almeno) del centro storico di Sirmione.

La chiesa si Sant'Anna è una piccola chiesetta; la sua costruzione è fatta risalire al XIV secolo. È stata recentemente restaurata.

S.Salvatore è ritenuta la chiesa del complesso monastico di S.Salvatore, che fiorì in età altomedioevale; ciò che ora ne resta, come evidenziato da recenti lavori di valorizzazione sono solo tre absidi. La chiesa sembra sia stata fatta costruire dalla regina Ansa nel 765-774, ricostruita poi nel sec.XI.

Il Santuario mariano del Frassino, tenuto dai frati francescani, si trova nell'entroterra di Peschiera, a circa 11 km dal centro di Sirmione.

Le Grotte di Catullo sono una meta turistica decisamente gettonata, e ne vale la pena.

Il comune è zona di produzione sia del Lugana sia dell'olio Garda bresciano DOP.

La principale industria è quella turistica: sia perché in riva al lago di Garda, sia per il sito archeologico delle Grotte di Catullo, sia per la presenza di una sorgente termale. Quest'ultima si tratta di acqua sulfurea salsobromoiodica di origine vulcanica e serve due stabilimenti: "Catullo", in prossimità delle omonime grotte, e "Virgilio", in località Colombare.
L'"Acqua di Sirmione" viene commercializzata in boccette per spray nasale.



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giovedì 12 marzo 2015

IL BIRRIFICIO DI VARESE

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L'azienda venne fondata il 26 dicembre 1877, ossia quando venne prodotta in Italia la prima birra boema Pilsner.

Angelo Poretti, il fondatore dell’omonimo stabilimento, nasce a Vedano Olona nel 1829, e decide in gioventù di emigrare in Europa, spostandosi tra Austria, Germania e Boemia. Arricchito dall’esperienza all’estero, a metà degli anni settanta del XIX secolo, tornò in Italia per diffondere la birra nel suo paese. Infatti i vari anni trascorsi all’estero diedero ad Angelo Poretti anche la possibilità di acquisire una profonda conoscenza della birra, grazie all’incontro con alcuni tra i migliori mastri birrai del tempo. Cercò allora nella provincia di Varese, di cui era originario, la migliore zona dove costruire il suo birrificio, investendo i risparmi accumulati con fatica assieme alla moglie boema Franziska Peterzilka. A Induno Olona, nei pressi delle grotte della Valganna, acquistò la fabbrica dismessa di amido Amideria del Dones; dall’estero importò i macchinari, le materie prime e il primo mastro birraio, mentre la purezza dell’acqua, elemento fondamentale per una birra di qualità, era garantita dalla fonte della Valganna nota come “fontana degli ammalati”, che Angelo Poretti aveva acquistato. La scelta dettata dalla ricerca della qualità ebbe anche un forte impatto pubblicitario in quanto l’acqua della “fontana degli ammalati”, famosa per i suoi effetti curativi, divenne così l’elemento base delle birre prodotte nel nuovo birrificio Poretti. Un altro elemento chiave nella scelta della zona era la presenza dei laghi di Ganna e di Ghirla dai quali attinse il ghiaccio per la conservazione della bevanda.

Nel 1901 Angelo Poretti morì e, non avendo figli, gli subentrarono i suoi quattro nipoti: i fratelli Angelo e Tranquillo Magnani, Edoardo Chiesa e Francesco Bianchi. L'azienda continuò a crescere, posizionandosi stabilmente al vertice della graduatoria nazionale per ettolitri di birra prodotti e fu in grado di superare momenti difficili, come la prima guerra mondiale, anche attraverso fasi di ampliamento e ammodernamento del birrificio. Nel 1905 infatti i nipoti decisero di rinnovare l'impianto produttivo di Induno Olona per soddisfare l’accresciuto consumo di birra Poretti. L’opera venne affidata allo studio tedesco Bihl e Woltz che realizzò uno stabilimento in stile Jugendstil. Nel 1922 l'impresa si trasformò in società anonima con un processo di rimodellamento gestionale e organizzativo. La crisi mondiale scoppiata nell'autunno del 1929 e la prematura scomparsa di due dei nipoti succeduti ad Angelo Poretti rischiarono però di portare lo storico birrificio alla chiusura.

Nel 1939 la famiglia Bassetti, proprietaria del birrificio Spluga di Chiavenna, acquistò e rilanciò l'impresa, arrivando a produrre oltre mezzo milione di ettolitri di birra. La crescita avvenne sia diversificando la produzione di birra (l'intera attività dello stabilimento chiavennasco della Birra Spluga venne concentrata nell'impianto di Induno Olona), sia potenziando la struttura e la rete commerciale. Nel 1969 fu lanciato il marchio “Splügen Bock” (protagonista tra l’altro di uno spot firmato Ermanno Olmi) e le prime birre “dry”.

Nel 1975 le Industrie Poretti firmano con la multinazionale danese United Breweries A/S (che di lì a breve prenderà il nome di Carlsberg Breweries), fondata a Copenaghen nel 1847 dal mastro birraio J.C. Jacobsen, un accordo per la produzione e la commercializzazione dei marchi “Tuborg” e “Carlsberg” in Italia. Nel 1982, il gruppo Carlsberg acquista dalla famiglia Bassetti il 50% del pacchetto azionario dell'impresa, seguito nel 1998 da un ulteriore 25% del capitale arrivando così a detenerne il 75%. Contemporaneamente le Industrie Poretti cambiano denominazione in Carlsberg Italia Spa. Nel 2002 il gruppo danese acquista il restante 25% e ottiene così la piena proprietà dell'impresa di Induno Olona.

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LE CASCATE E LE GROTTE DELLA VALGANNA

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Le Cascate di Valganna sono delle cascate artificiali che si trovano in Valganna, nel comune di Induno Olona, in provincia di Varese.

Le cascate sono originate da una delle tre sorgenti principali del fiume Olona. Più precisamente, fanno parte del ramo del fiume che nasce all'Alpe Ravetta (618 m s.l.m.). La quota base della cascata è 613 m, mentre il salto è 20 m. Vicino alle cascate vi sono le altrettanto famose ed omonime grotte.

Dato che nelle acque dell'Olona sono presenti carbonati, sulle cascate è possibile ammirare il fenomeno del deposito del travertino. Conosciute localmente anche come "sorgenti petrificanti", le cascate sono state create artificialmente all'inizio del XX secolo per migliorare il prelievo dell'acqua dal fiume. In inverno, a causa del clima rigido e dell'insolazione praticamente assente, sono spesso ghiacciate.

In Valganna vi sono molte grotte di origine carsica. Le più famose sono le Grotte di Valganna, presso le omonime cascate, in territorio di Induno Olona. Esempio del fenomeno carsico in Valganna è rappresentato dal Margorabbia, che a Cunardo scompare sotto un sistema di grotte, per tornare in superficie a Ferrera di Varese.



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