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lunedì 7 marzo 2016

LE DONNE NEL MONDO



Numerose e diverse culture hanno riconosciuto alla donna capacità e ruoli limitati alla procreazione e alla cura della prole e della famiglia. L'emancipazione femminile ha rappresentato, negli ultimi secoli, la ricerca di un'uguaglianza formale e sostanziale tra la donna e l'uomo.

Nella preistoria di Homo sapiens la situazione è stata sicuramente variata e diversificata a seconda delle culture, epoche e luoghi geografici. Partendo da 200 000 anni fa, la società ha presentato variabili modelli, dal cacciatore di piccole prede e raccoglitore del paleolitico medio organizzato in piccole unità sociali, attraverso le più numerose società dedite alla caccia dei grossi mammiferi come mammut e ungulati, fino alle culture stanziali dedite ad agricoltura ed allevamento dell'età del rame.
Attraverso le varie epoche si sono potuti ipotizzare vari schemi sociali, e secondo alcune teorie anche matriarcato o società con parità di genere come nel caso delle sei nazioni, formate da popoli ascrivibili al neolitico, ma in nord America giunte alla nostra cultura in epoca storica, in popolazioni melanesiane, ed altre ancora.

Nell'immaginario, sicuramente supportato da diverse prove, ma non esauriente tutte le situazioni, mentre l'uomo si dedicava alla caccia le donne si specializzarono nella raccolta di bacche commestibili, radici e frutti. Si ritiene, in alcune situazioni, che fossero impegnate per gran parte della loro vita da gravidanze, allattamento e cura della prole, fossero meno mobili e si dedicassero alla raccolta dei vegetali commestibili e dei piccoli animali.

Alla fine del paleolitico superiore si ritiene che la donna avesse come compito primario quello di procreare, come si dedurrebbe dal fatto che in alcune sculture (di epoca magdaleniana), vengono evidenziati gli organi connessi alla riproduzione: a scapito delle altre parti del corpo, il ventre e i fianchi sono decisamente prominenti, il seno voluminoso. In altri reperti invece, sempre afferenti alle veneri paleolitiche si evidenziano fatture longilinee.
In alcuni periodi in cui parte dell'umanità viveva allo stato nomade, si suppone che esse fossero sottomesse al maschio. Secondo altre teorie, almeno alcune società primitive erano invece matriarcali e, solo in un secondo momento, si sviluppò la supremazia maschile. Non ci sono sufficienti dati archeologici per convalidare o confutare completamente le teorie.

In un primo momento nella civiltà egizia ed in quelle mesopotamiche (Persia, Assiria, Babilonia) la donna aveva una posizione molto elevata all'interno della società. In questi luoghi è stato presente anche il matriarcato ma poi, con l'ascesa delle monarchie militari, persero di prestigio e si iniziarono a formare i ginecei, dai quali le donne non potevano uscire e dove non potevano vedere nessun uomo ad eccezione degli eunuchi e del proprio marito. In Egitto vi furono anche casi di donne di casta elevata, che riuscirono, spesso governando in nome dei figli ancora piccoli, dopo essere rimaste vedove, a divenire persino faraone: esempi furono Hatshepsut, Nefertiti e Cleopatra. Nefertari, la moglie di Ramses II, influenzò grandemente la politica del marito.

Nella civiltà minoica la condizione della donna era molto più avanzata che fra i micenei e la Grecia classica. Nella Grecia omerica la donna veniva rispettata ma esistevano comunque numerose contraddizioni. Nell'età di Pericle la donna ricca era tenuta in casa, mentre le donne povere erano costrette a lavorare e quindi avevano una certa libertà. Le donne non avevano diritti politici (non potevano quindi votare o essere elette membri dell'assemblea, durante l'età delle poleis) e non erano oggetto di legislazione giuridica (una donna non era colpevole, ad esempio del reato di adulterio, a differenza dell'uomo, perché ritenuta "oggetto del reato"). La condizione femminile ad Atene era assimilata a quella dello schiavo e dello straniero, o del maschio ancora minorenne. La donna passava molto tempo a contatto con la madre del marito, nel gineceo, e quest'ultima aveva un ruolo primario sulla sua educazione. Paradossalmente, se nella più raffinata Atene la donna era in condizione di inferiorità, nella militarista Sparta le donne della classe dominante (spartiati), pur non potendo governare o combattere, erano addestrate alle arti militari e godevano di maggiore libertà.



Nella società greca alle donne era vietato assistere a qualsiasi manifestazione pubblica, oltre che praticare qualsiasi attività sportiva (ad Atene), mentre a Sparta potevano dedicarsi a sport di tipo esclusivamente ginnico (danza, corsa, ecc). In occasione dei Giochi olimpici alle donne non era nemmeno permesso di avvicinarsi al perimetro esterno del santuario, pena la morte. Secondo un'antica tradizione si diceva addirittura che, se mai una donna avesse praticato una qualche attività sportiva, grandi sventure sarebbero arrivate in seguito a tutto il genere femminile. Ciò conferma la condizione di inferiorità a cui era soggetta la donna nella società greca, molto diversa, ad esempio, dalla condizione di relativa emancipazione di cui godeva la donna nel mondo romano.

In Grecia esistevano le mogli che si dedicavano esclusivamente all'educazione dei figli legittimi, le concubine che avevano rapporti sessuali stabili con l'uomo e la compagna, per il piacere. Esisteva inoltre la prostituta, che svolgeva il suo lavoro nelle strade o nelle case di tolleranza e alla quale spettava l'ultimo "gradino" nella scala sociale.

Aristotele affermava che la donna era inferiore all'uomo in quanto aveva cervello più piccolo e che la donna era un maschio mutilato.

Platone invece fu uno dei primi a pronunciarsi in favore delle donne, almeno in parte: sosteneva che le donne istruite alla filosofia, nello stato ideale da lui delineato, avessero uguali diritti politici degli uomini, e potessero accedere al governo. Questa tradizione rimarrà diffusa negli ambienti del platonismo. Anche Epicuro rivendicava pari dignità per le donne, all'interno della sua scuola filosofica, che accettava anche schiavi e stranieri. Durante l'età ellenistica la condizione femminile migliorò molto. Durante il dominio romano sul mondo greco (I secolo a.C-IV secolo d.C) molte donne di cultura ricoprivano ruoli importanti nella società, come Ipazia di Alessandria.

A Roma la donna era considerata quasi pari all'uomo: entrambi i genitori avevano pari obblighi nei confronti dei figli e la donna poteva accompagnare il marito ad una festa, a patto che mangiasse seduta e non sdraiata come era norma per gli uomini. In età arcaica era sottomessa al padre e al marito, mentre verso la fine della Repubblica e in età imperiale le donne di condizione elevata potevano svolgere una vita indipendente, ottenere il divorzio e risposarsi, mentre quelle delle classi basse erano rimaste sotto la soggezione maschile, con eccezioni delle prostitute, che pur essendo al gradino più basso (ad eccezione delle donne schiave), avevano una discreta libertà. Una certa indipendenza avevano le donne sacerdotesse dei vari templi.

Non mancarono tuttavia le limitazioni poste dal diritto romano alla capacità giuridica delle donne: esse non avevano lo ius suffragii e lo ius honorum, ciò che impediva loro di accedere alle magistrature pubbliche. Nel campo del diritto privato era inoltre negata alle donne la patria potestas, prerogativa esclusiva del pater, e conseguentemente la capacità di adottare. Il principio è espresso per il diritto classico dal giurista romano Gaio nelle sue Istituzioni: Feminae vero nullo modo adoptare possunt, quia ne quidem naturales liberos in potestate habent ("Le donne non possono affatto adottare, perché non hanno potestà neanche sui figli naturali"). Sempre da Gaio apprendiamo che alle donne, con l'eccezione delle Vestali, non era consentito in epoca arcaica di poter fare testamento. Tale ultima limitazione venne però abrogata già in epoca repubblicana.

Tra i casi di donne importanti, si può ricordare quello di Agrippina minore, moglie e nipote dell'imperatore Claudio e madre di Nerone, che durante l'assenza del marito in guerra, divenne l'unica imperatrice a battere moneta con la propria effigie e a governare de facto l'impero romano.

Nell'impero romano d'Oriente vi furono donne che regnarono e governarono in maniera assoluta, senza dividere il potere con i consorti, un esempio fu l'imperatrice Irene di Bisanzio.

Il messaggio cristiano contenuto nel Nuovo Testamento, che sotto questo punto di vista supera e reinterpreta notevolmente i precedenti testi dell'Antico Testamento, giunge ad equiparare di fatto uomo e donna. Gesù non si faceva scrupolo di predicare alle donne come agli uomini, dei miracoli narrati nei Vangeli ne beneficiavano tanto le donne quanto gli uomini, esse erano protagoniste delle parabole al pari degli uomini, e infine Gesù appare dopo risorto alle donne prima che agli uomini. Nelle lettere di Paolo, che descrivono la vita della primordiale chiesa apostolica, le donne vengono in alcuni passi esplicitamente equiparate agli uomini (Gal3,28;1Cor11,11-12).

Non mancano però testi delle epistole paoline in cui riemerge una visione impregnata dell'Antico Testamento, in cui s'invitano le donne alla sottomissione all'uomo (1Cor11,7;Ef5,22), o ne limitano l'attività nelle varie chiese locali (1Tm2,12;1Cor14,34-35). Il tenore dei passi però non sarebbe così marcato da indurre a parlare di misoginia e l'esame del contesto storico e letterario dei passi 'misogini' ridimensiona maggiormente il tenore del discredito: in 1Tm Paolo si riferisce a un problema concreto che la comunità di Efeso aveva con alcune fedeli (1Tm5,13), mentre in 1Cor la richiesta di silenzio durante i momenti carismatici dedicati alla profezia richiama il fenomeno della libera profezia femminile, spesso in contrasto con l'insegnamento degli Apostoli e della guida dei vescovi, che evolverà in seguito nel montanismo. La chiesa, se in principio aveva nella propria gerarchia anche donne, nel ruolo di diacono, successivamente riserverà agli uomini l'ordinazione sacerdotale, regola tuttora in vigore nella chiesa cattolica, e abolito invece nelle varie chiese protestanti e riformate.



Con l'arrivo dei barbari Franchi e Longobardi in Italia, la condizione della donna peggiora. Essa è infatti un oggetto nelle mani del padre, finché questi non decida di venderla ad un uomo, anche se vi furono regine che tennero il potere di fatto, come in effetti accadeva a volte nelle tribù barbariche.

Il Cristianesimo medioevale impose la sottomissione della donna all'uomo, ma la considerò importante in quanto doveva crescere spiritualmente i figli.

Con l'inquisizione alcune donne vennero ritenute rappresentanti del Diavolo sulla Terra (le streghe), capaci di trarre in inganno l'uomo spingendolo al peccato in qualsiasi modo.

Tuttavia, dopo il 1000, con l'avvento del dolce stil novo, la donna venne angelicata e considerata un tramite tra Dio e l'uomo. Tra le donne di potere vi fu la regina d'Italia e contessa Matilde di Canossa.

Alcuni filosofi illuministi avevano in precedenza preso posizione a favore dell'uguaglianza fra i sessi: fra essi d'Holbach, Condorcet, Voltaire.

Nelle insurrezioni le donne lottano a fianco degli uomini. Sono presenti il 14 luglio 1789 (presa della Bastiglia) e il 10 agosto del 1792 (assalto alle Tuileries). Nell'ottobre 1789 sono le prime a mobilitarsi e a marciare su Versailles, seguite nel pomeriggio dalla guardia nazionale. Quando la guerra porta gli uomini al fronte sono loro a sostituirli nelle fabbriche e nei laboratori con un salario minimo e inferiore a quello dei maschi. Non possono votare né essere elette, sono totalmente escluse dalla vita politica e dalle assemblee. Ma le donne non si arrendono e chiedono di essere arruolate nell'esercito per difendere la propria patria. L'assemblea legislativa, a cui si sono rivolte, gli ride in faccia, segno che, naturalmente,fa capire che non possono. Ma centinaia e centinaia di donne riescono a partire e a marciare verso il fronte. La girondina Olympe de Gouges fu una militante per i diritti femminili, ghigliottinata per aver difeso la regina Maria Antonietta e attaccato i giacobini di Robespierre.

Nel 1793 le repubblicane di Parigi chiedono che a tutte le donne sia fatto obbligo di portare la coccarda simbolo della rivoluzione e diritto alla cittadinanza. La convenzione approva, ma gli uomini hanno paura che poi chiedano anche il berretto frigio e le armi. Inoltre gli uomini trovano insopportabile che gli stessi diritti possono essere estesi anche alle donne e pensano che debbano ritornare alle faccende domestiche e non immischiarsi nella guerra.

Nell'Ottocento si diffusero anche le prime istanze femministe e di suffragio a livello europeo e negli Stati Uniti: si pronuciarono e lottarono per l'eguaglianza William Godwin e sua moglie Mary Wollstonecraft, quest'ultima dando inizio al movimento femminista. Il suffragio femminile fu sostenuto anche da John Stuart Mill, nel periodo della sua elezione come deputato alla Camera dei comuni. Anche il movimento marxista e socialista ebbe un ruolo importante nell'emancipazione femminile.

Le donne ebbero parte importante nel risorgimento italiano, ricordiamo numerose patriote: Cristina Trivulzio di Belgiojoso, Anita Garibaldi, Rosalia Montmasson (una dei Mille), Giuditta Bellerio Sidoli (amica di Giuseppe Mazzini).

La condizione delle donne nell'era vittoriana, nonostante il fatto che il sovrano fosse una donna, è spesso vista come l'emblema della discrepanza notevole fra il potere e le ricchezze nazionali dell'Inghilterra e l'arretrata condizione sociale. Durante il regno della regina Vittoria, la vita delle donne divenne sempre più difficile a causa della diffusione dell'ideale della "donna angelo", condiviso dalla maggior parte della società. I diritti legali delle donne sposate erano simili a quelli dei figli: esse non potevano votare, citare qualcuno in giudizio né possedere alcuna proprietà.

Inoltre, le donne erano viste come esseri puri e puliti. A causa di questa visione, i loro corpi erano visti come templi che non dovevano essere adornati con gioielli né essere utilizzati per sforzi fisici o nella pratica sessuale. Il ruolo delle donne si riduceva a procreare ed occuparsi della casa. Non potevano esercitare una professione, a meno che non fosse quella di insegnante o di domestica, né era loro riconosciuto il diritto di avere propri conti correnti o libretti di risparmio. A dispetto della loro condizione di "angeli del focolare", venerate come sante, la loro condizione giuridica era spaventosamente misera.

L’assenza di molti uomini chiamati a combattere provocò delle conseguenze a livello economico e sociale. Durante la Grande Guerra i posti di operai e contadini furono lasciati vuoti e vennero coperti dalle donne che passarono da "Angeli del Focolare" a membri attivi dell’economia e della società. Questo processo, però, non fu indolore perché le donne furono obbligate a compiere gli stessi lavori degli uomini e esse presero anche il posto dei mariti nelle faccende domestiche maschili. A questo non corrispose una maggiore libertà poiché spesso nelle case rimanevano gli anziani, i quali continuavano ad esercitare un ruolo autoritario all’interno della famiglia.

Il primo traguardo importante è il conseguimento del diritto di voto per il quale si batterono le suffragette. In seguito ai conflitti mondiali le donne, che avevano rimpiazzato i molti uomini mandati al fronte sul lavoro, ottennero maggiori ruoli in società e possibilità lavorative fuori dalla famiglia.Inoltre iniziarono ad aprire esercizi commerciali autonomi.

Le donne si sono battute per sostenere cambiamenti nel campo del diritto, dal voto all'IVG, dal divorzio alle leggi in materia di violenza sessuale. Le conquiste femminili nel mondo occidentale si sono tradotte in maggiori diritti e in un divario meno ampio tra i sessi. Malgrado questo, nemmeno nel mondo occidentale è stata raggiunta un'effettiva parità. La violenza sulle donne è una piaga presente tutt'oggi anche nei paesi occidentali. In base ad un'indagine del Parlamento Europeo, "almeno il 20% delle donne europee ha subito violenza nelle relazioni familiari e questa è una delle principali cause di decesso per le donne.



La condizione femminile in Italia comincia a migliorare verso la metà del XX secolo, quando, secondo alcune fonti, il movimento delle suffragette ottenne il suffragio femminile. Quest'ultimo venne infatti riconosciuto solo nel 1945 con un decreto di Umberto di Savoia, ultimo re d'Italia, anche in riconoscimento della lotta sostenuta da molte donne durante la guerra. Nel dopoguerra, all'Assemblea Costituente vennero elette 21 donne. La spinta femminile per l'emancipazione diminuì con il raggiungimento del diritto al voto, nel 1946 per poi rafforzarsi a partire dagli anni sessanta.

Si rafforza il movimento femminista che rivendicò gli stessi diritti degli uomini nella famiglia, nel lavoro e nella società. La Costituzione italiana del 1948 garantiva pari diritti in ogni campo (le donne hanno pari dignità sociale e uguali diritti rispetto al genere maschile, secondo l'articolo tre della Costituzione). Questo venne tradotto in legge effettiva solo con la riforma del diritto di famiglia del 1975, e l'apertura degli anni '90 al servizio militare femminile, l'ultima categoria rimasta (con l'eccezione del diritto canonico che è però un diritto fra privati interno alla chiesa) ad essere esclusivamente maschile, fino all'introduzione della nuova norma.

Ancora oggi però il World Economic Forum con un'indagine chiamata Global Gender Gap Index, rivela che nel 2010, su 128 Paesi, l'Italia si trova al 74º posto per uguaglianza di genere. L'indagine è oggetto di critiche in quanto è volta a rilevare i soli ambiti nei quali le donne sono sotto la parità. A sostegno di tale tesi si riporta che nello stesso documento è evidenziato che qualora, in un determinato ambito, sia rilevata una disparità a favore della donna e dunque a svantaggio dell'uomo il giudizio attribuito sarà "parità perfetta" e non sarà rilevata pertanto la disuguaglianza inversa donna-uomo. Tale metodologia rende, per molti, tale documento utile a valutare solo quei paesi nei quali le disparità uomo-donna sono molto elevate e presenti in tutti gli ambiti (escludendo dunque l'Italia).

Lo svantaggio femminile nella scuola secondaria di secondo grado, che storicamente caratterizzava il sistema scolastico italiano, è stato colmato agli inizi degli anni Ottanta. Da quel momento in poi le ragazze hanno sorpassato i ragazzi sia per tasso di partecipazione (il 93 per cento, contro il 91,5 degli studenti maschi nell'a.s. 2010/2011), sia soprattutto per percentuale di conseguimento del diploma: tra i diciannovenni nell'a.s. 2009/2010 il 78,4 per cento delle ragazze ha conseguito il diploma contro il 69,5 per cento dei ragazzi.

Anche nel proseguimento degli studi universitari le donne ormai sorpassano gli uomini: nel 2004 su 100 laureati con il vecchio ordinamento 59 erano donne, mentre per i corsi triennali le donne rappresentavano il quasi il 57 per cento. Inoltre i voti finali sono mediamente più alti per le donne. Attualmente le donne hanno maggiore accesso, e agevolazioni nel mondo del lavoro alla fine del percorso di studi (laurea). Inoltre, le giovani donne che decidono di essere single raggiungono posizioni dirigenziali in percentuale pari ai colleghi uomini nelle medesime condizioni.

Dal punto di vista universitario e del mondo del lavoro le giovani italiane sono ormai più istruite degli uomini, anche se scelgono spesso percorsi di studio meno remunerativi nel mercato del lavoro: scelgono infatti percorsi umanistici, artistici e sanitari piuttosto che altri (soprattutto ingegneristici).

Il tasso di disoccupazione femminile in Italia è più elevato di quello maschile. Il tasso di occupazione femminile è nettamente inferiore a quello maschile, risultando occupate nel 2010 solo circa 46 donne su 100, contro una percentuale del 67% degli uomini. Nel Mezzogiorno le differenze sono più accentuate e l'occupazione delle donne arriva a appena a superare il 30%. Il tasso di inattività è, di contro, molto alto, arrivando a sfiorare la metà di tutta la popolazione femminile in età lavorativa. Tra le principali cause di questo fenomeno va citata l'indisponibilità per motivi familiari, motivazione che è quasi inesistente per la popolazione maschile. Ad esempio il 15% delle donne dichiara di aver abbandonato il posto di lavoro a causa della nascita di un figlio. Spesso si tratta di una scelta imposta, infatti in oltre la metà dei casi sono state licenziate o messe in condizione di lasciare il lavoro perché in gravidanza.

Tutta questa inattività non si traduce però in un maggiore tempo libero per le donne. Al contrario, il tempo delle donne italiane è impiegato nel sopportare in maniera preponderante i carichi di lavoro familiari, molto più che in tutto il resto d'Europa. Gli uomini italiani risultano i meno attivi del continente nel lavoro familiare, dedicando a tali attività appena 1 h 35 min della propria giornata. Per lavoro familiare si intende sia le attività domestiche (cucinare, pulire la casa, fare il bucato etc.), sia le attività di cura dei bambini e degli adulti conviventi. Si stima che il 76,2 per cento del lavoro familiare delle coppie sia ancora a carico delle donne. Considerando i tempi di lavoro totale, cioè la somma del tempo dedicato al lavoro retribuito e di quello dedicato al lavoro familiare, le donne lavorano sempre più dei loro partner. Una donna con una occupazione tra 25 e 44 anni senza figli lavora giornalmente 53 min in più del suo partner; se però ci sono i figli la differenza aumenta ad 1 h 02 min più del partner. Persino le madri non occupate lavorano più dei loro partner (8 h 15 m contro 7 h 48 m). Una conseguenza di questa disparità è che le lavoratrici italiane dormono meno che in tutti gli altri paesi europei e hanno poco tempo da dedicare allo svago.

I dati dimostrano che le lavoratrici donne sembrano orientate a lavori meno usuranti e meno pericolosi rispetto agli uomini. Il tasso di mortalità sul lavoro è di circa 11 punti per milione; quello maschile si attesta a circa 86 unità per milione. Inoltre le donne occupate che lavorano la sera sono il 16% contro il 25% dei loro colleghi uomini. Le donne occupare che lavorano la notte sono solo il 7% contro il 14% dei loro colleghi uomini.

Nella pubblica amministrazione italiana le lavoratrici donne sono poco più della metà del totale, grazie alla preponderanza femminile tra gli insegnanti soprattutto nella scuola di base. In tale settore si nota tuttavia una netta prevalenza maschile nelle qualifiche più elevate: ogni 100 dirigenti generali si contano solo 11 donne.

Le retribuzioni degli uomini in Italia sono superiori mediamente a quelle delle donne: nel 2004 ad esempio il monte salari maschile (reddito complessivamente percepito dagli uomini italiani) era superiore di circa il 7% rispetto a quello femminile, mentre nel 2010 questo divario è arrivato al 20%. Questo si verifica perché l'occupazione femminile è concentrata su lavori a più bassa retribuzione e perché a parità di mansioni gli stipendi maschili sono, seppur leggermente (del 2%), superiori. Le donne inoltre hanno minori possibilità di beneficiare delle voci salariali accessorie, quali gli incentivi o lo straordinario.

La speranza di vita alla nascita femminile è di 5,6 anni superiore a quella maschile. Le donne, inoltre, sono meno esposte ad omicidi ed aggressioni rispetto agli uomini: i decessi per tali ragioni ai danni di persone del genere femminile rappresentano circa un quarto del totale.

In materia di diritto di famiglia svariate sentenze della magistratura italiana, tutelano la figura femminile in maniera più marcata, affermando il principio di “non bilateralità” tra i coniugi in materia di procreazione. In particolare il tribunale di Monza afferma che “non può … attribuirsi alle scelte attinenti alla maternità una qualsivoglia valenza ‘bilaterale'”.

Sempre in materia di diritto di famiglia si registra che il 71% delle richieste di divorzio è presentata dal genere femminile. Inoltre, in caso di divorzio, l'assegnazione della casa dove la famiglia viveva (in assenza di figli ed indipendentemente della proprietà della stessa) è attribuita alle donne nel 57% dei casi e solo nel 21% ai loro ex-mariti.

Sul totale delle persone che hanno svolto attività gratuita per un partito politico nel corso del 2005, circa un quarto sono donne. Il numero di parlamentari donne in Italia è coerente con tale tasso di partecipazione alla vita politica.

Nel Parlamento italiano le donne rappresentano meno del 20% del totale (18,69% al Senato e 21,43% alla Camera nella XVI Legislatura) con un risultato peggiore rispetto ad esempio alla composizione del Parlamento europeo, nel quale le donne rappresentano circa il 35%.

Oggi possiamo affermare che nei Paesi occidentali i diritti delle donne sono legalmente riconosciuti e le leggi italiane sono tra le più avanzate d'Europa, soprattutto quelle per la tutela della maternità e sulle pari opportunità. Nonostante le leggi, molti ostacoli si frappongono ancora tra le donne e la carriera: infatti sono pochissime quelle che occupano posti di vertice nelle aziende e nei partiti politici, continuando la loro giornata ad essere la somma di due fatiche, quella domestica e quella extradomestica. Occorre realizzare quelle strutture sociali che consentirebbero di conciliare il lavoro fuori casa con la vita domestica, e particolarmente efficace potrebbe risultare la legge sul lavoro part-time.
Se però allarghiamo lo sguardo al mondo intero, il quadro è per varie ragioni sconfortante; il genere femminile, che costituisce poco più della metà dell'umanità e svolge i due terzi circa del lavoro globale, non possiede che un decimo della ricchezza, è rappresentato minimamente nei parlamenti, subisce forti discriminazioni. La piaga della violenza sessuale esiste in tutti i continenti, nei paesi industrializzati come in quelli in via di sviluppo e non conosce differenze sociali o culturali; secondo l'OMS almeno una donna su cinque nel corso della vita subisce abusi fisici o sessuali.
In paesi come la Cina e l'India, dove nascere donna è spesso considerata una disgrazia, migliaia di neonate vengono lasciate morire per cure inadeguate o per abbandono.
Nei paesi del terzo mondo la violenza sulle donne è una normale componente del tessuto culturale e non viene identificata come tale neppure dalle sue vittime.
Anche la povertà miete vittime in primo luogo tra le donne; in Nepal circa 10 mila ragazze ogni anno vengono vendute dalle famiglie per essere avviate alla prostituzione e nell'Asia sudorientale sono oltre mezzo milione le bambine costrette a tale attività.
Un problema specifico di alcune culture africane è invece quello della mutilazione genitale, ancora ampiamente praticata ed effettuata in condizioni sanitarie abominevoli, senza anestesia e soprattutto su bambine anche in tenerissima età. Gli effetti sulla salute sono devastanti e colpiscono le donne in ogni momento della loro vita sessuale e riproduttiva. Sarebbero 130 milioni le donne che hanno subito questa mutilazione e i flussi migratori stanno facendo arrivare il problema anche nei paesi occidentali.
Un altro fattore di disuguaglianza è quello derivante da motivi religiosi, presente soprattutto nei paesi di religione islamica, dove le donne sono vittime di pesanti discriminazioni. Diffusi in alcuni paesi musulmani, i gruppi integralisti si propongono di trasformare la società secondo le regole del Corano e di imporle come legge dello Stato. In Algeria alle donne è imposto di portare l'hidjab, il velo, e di vivere ai margini della società; in Iran, in Afghanistan è imposto il burka e alle donne è preclusa l'istruzione.


Un'altra piaga che colpisce le donne in ogni parte del mondo è lo stupro: sconvolge sapere quanto sia diffuso in paesi ricchi e civili quali gli Usa e il Canada, ma ancor più sconvolgente è scoprire come per esempio in Pakistan, per avere giustizia, la donna debba presentare quattro testimoni maschi e non possa testimoniare lei stessa. Inoltre, se la vittima non riesce a dimostrare il reato viene incriminata per attività sessuali illecite, incarcerata, frustata pubblicamente; in Nigeria, per un fatto analogo, è stata condannata alla lapidazione Safja, per la quale si stanno mobilitando anche le donne italiane. La violenza sessuale è anche un'arma di guerra, solo da poco riconosciuta come tale dalle leggi internazionali. I conflitti con un forte connotato etnico, come quelli nei Balcani o in Africa centrale, vedono l'uso dello stupro come strumento bellico da parte di entrambi i contendenti.



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lunedì 1 giugno 2015

LE CITTA' DELLA PIANURA PADANA : CASTEL GOFFREDO



Castel Goffredo è un comune italiano della provincia di Mantova in Lombardia. Situato nella pianura padana e nell'Alto Mantovano al confine con la provincia di Brescia, è il settimo comune più popoloso della provincia.

Feudo autonomo gonzaghesco dal 1444 al 1602, qui nel 1444 Alessandro Gonzaga diede origine al Marchesato di Castel Goffredo. Nel 1511 il marchese Aloisio Gonzaga diede inizio al ramo cadetto dei "Gonzaga di Castel Goffredo", linea che si estinse nel 1593 ed elesse la fortezza di Castel Goffredo a capitale del suo piccolo Stato, comprendente anche Castiglione e Solferino.

È noto come la "città della calza" per la presenza di numerose industrie di calzetteria maschile e soprattutto femminile. È sede del distretto industriale tessile numero 6, composto da 15 comuni mantovani, bresciani e cremonesi.

Sull'origine del toponimo Castel Goffredo ci sono diverse ipotesi. Composto di castrum, fortificazione, e di un imprecisato "Goffredo" (dal germanico Gottfried che significa "in pace con Dio"), sul quale molti studiosi hanno cercato di trovarne il significato preciso.
Un decreto imperiale del 1164 di Federico I identifica così Castel Goffredo: Curtem de Runco Sigifredi cum castro et ecclesia, significando così che la seconda parte del nome sia derivato da Sigifredi.

Già il poeta Matteo Bandello (1554) nella sua opera in versi (Canti XI) composta proprio a Castel Goffredo mentre era ospite del marchese Aloisio Gonzaga, faceva riferimento ad un nome di persona («… giunsi al castel c'ha di Gioffredo il nome»).

Il primo ad occuparsi del significato di "Goffredo" fu Carlo Gozzi, che, nel 1810, azzardò alcune ipotesi, ma senza giungere ad una conclusione certa: Goffredo di Buglione, Goffredo il Gobbo marito di Matilde di Canossa, Goffredo di Malaterra, Goffredo da Viterbo o Goffredo di Vendôme.
Lo storico Francesco Bonfiglio, sulla base di alcune ricerche storiche effettuate intorno al 1920, farebbe risalire il nome della città ad un documento datato 8 luglio 1107 nel quale si parla di Castello Vifredi (o Castrum Vifredi). Negli atti di un convegno del 2009 si avanza l'ipotesi che il "Vifredi" citato in questo documento del 1107, sia riferito a Vifredo VI (conte di Piacenza).

Studi recenti (2010) farebbero risalire il nome Vifredi ad un adattamento fonetico e grafico invalso nel Medioevo, che vorrebbe trasformato Vifredus in Guifredus e quindi in Guffredus.
Un'altra ipotesi vorrebbe rimandare il nome "Goffredo" al vescovo di Brescia Goffredo di Canossa (X secolo), prozio della contessa Matilde, che teneva estesi possedimenti nell'area o a un Goffredo confaloniere di Medole, investito di immobili a Castel Goffredo l'8 luglio 1230 dal vescovo di Mantova Pellizzario.
Nelle carte antiche il paese è citato con nomi diversi: Kastelo Gifredo, Castel Giufrìdo, Castel Zanfrìdo, Castel Zanfrìso, Castro Grifedo, Castriguffredi, Castri Gufregi, Castel Zufrè, Castel Giufrè. E ancora, Castel Sufrè nel quale l'etimologia latina suffere porta al nome castrum suffers, che significa "castello forte", resistente, e quindi a Castello Suffrè o Zuffrè.

La storia di Castel Goffredo iniziò già nella prima metà del III millennio a.C., anche se il centro abitato attuale venne fondato in età romana (I secolo d.C.) per poi svilupparsi nel corso dei secoli successivi. In epoca altomedievale la storia della città fu strettamente legata al controllo delle potenti famiglie dei Visconti, dei Della Scala e della Repubblica di Venezia. Ma la storia della città resta indissolubilmente legata ai Gonzaga, che per quattrocento anni la governarono. Feudo autonomo dal 1444 al 1602 col primo marchese Alessandro Gonzaga, qui nel 1511 con Aloisio Gonzaga ebbero origine i rami cadetti dei "Gonzaga di Castel Goffredo, Castiglione e Solferino" e il ramo minore dei "Gonzaga di Castel Goffredo", che si estinse nel 1593. Con l'avvento di Napoleone il comune fece parte della Repubblica Cisalpina e, dopo la sua caduta, del Lombardo-Veneto; nel 1861 venne infine unito al Regno d'Italia seguendone le successive vicende storiche.

Alcuni siti venuti alla luce nel corso di scavi, testimoniano che Castel Goffredo era abitata già in epoca preistorica (età del bronzo medio). Anche l’epoca romana ha restituito reperti interessanti. Tra questi, in special modo, due steli funerarie chiaramente attribuibili alla famiglia Magia, cioè il ramo materno del grande poeta mantovano Publio Virgilio Marone. Da qui la possibilità, sostenuta anche da seri studi, che Virgilio abbia avuto i natali nel territorio goffredese. Il periodo longobardo ha lasciato solo qualche traccia.

Importanti ceramiche, ora conservate presso il Museo Civico di Padova, indicano una presenza etrusca, mentre numerosi sono gli insediamenti di epoca romana e la stessa impronta urbanistica di Castel Goffredo è ascrivibile a questo periodo storico. Questa epoca è inoltre testimoniata da diverse epigrafi di cui alcune si possono far risalire alla famiglia di Publio Virgilio Marone, il grande poeta latino che, secondo il professor Nardoni dell'Università di Cassino, ebbe i natali nel territorio goffredese.
Un bassorilievo longobardo del VII-VIII secolo, custodito presso l'Oratorio di San Michele, è il più antico segno della presenza cristiana in questa comunità.
In età carolingia Castel Goffredo appartiene alla contea di Brescia.

Quest'area, appartenente alla zona dell'Alto Mantovano infatti venne interessata dalla centuriazione di Mantova. Di questo periodo è la scoperta nel 1989, accanto all'Oratorio di San Michele Arcangelo, di tracce di una necropoli romana, con pezzi in ceramica, bronzo, tessere di mosaico e monete. Sulla romanizzazione del centro storico, alcuni studiosi suppongono che questo fosse diviso in dodici isolati e caratterizzato da cardini e decumani e che all'intersezione del "cardo massimo" e "decumano massimo" fosse posto il forum, oggi rappresentato da Piazza Mazzini.
Anche la presenza dei Longobardi è data da ritrovamenti di bassorilievi marmorei in frazione Bocchere e da un marmo lavorato con cornici e stella esagonale nell'Oratorio di San Michele Arcangelo in frazione Zecchini.

Alla caduta dei Longobardi, Castel Goffredo, intorno all'anno 800, si trovò a fare parte del distretto di Sirmione che si estendeva fra Chiese e Mincio e fino al 1115 appartenne alla contea di Brescia. La più importante testimonianza della presenza dell'abitato è data da un documento datato 8 luglio 1107 nel quale la contessa Matilde, vedova di Ugone conte di Desenzano, fece una cospicua donazione di beni al monastero benedettino di San Tommaso di Acquanegra: in esso vengono citati alcuni luoghi dell'Alto Mantovano e della Bassa Bresciana orientale, tra i quali Castello Vifredi. A quel tempo (fra il 900 ed il 1000) risale l'origine della prima fortificazione della città chiamata Castellum vetus, "Castelvecchio", comprendente anche il castello, ora scomparso. Successivamente, dal 1115 al 1190 circa, appartenne ai conti Longhi, nobile famiglia di Desenzano che estendeva le sue proprietà dal lago d'Iseo al basso Chiese. Nel XIII secolo la città fu assediata da Ezzelino da Romano, dai Della Scala di Verona e dai Visconti di Milano. In quel tempo Mantova stava evolvendo verso la signoria e nel 1272 prese il potere la famiglia Bonacolsi con Pinamonte. Il casato giunse al culmine del suo prestigio il 16 agosto 1328, anno in cui Luigi Gonzaga, appoggiato da Cangrande della Scala, prese il potere ferendo a morte l'ultimo dei Bonacolsi, Rinaldo detto Passerino.

In seguito Castel Goffredo si diede lo statuto di libero comune e quando Brescia non fu in grado di assicurare la sua difesa, il 20 settembre 1337 la popolazione, con atto pubblico del notaio Giacomino Gandolfi, preferì porsi sotto la protezione di Luigi Gonzaga, primo capitano del popolo di Mantova. Iniziava così il dominio della signoria gonzaghesca destinato a protrarsi fino al 1707. Primo vicario con poteri civili e militari fu Ambrogio de Ferrari.

Nel 1348, allo scoppio della guerra dei Gonzaga contro Visconti, Scaligeri ed Estensi, Luchino Visconti (signore di Milano), duca di Milano, tolse le terre di confine a Mantova e Castel Goffredo rimase sotto Milano sino al 1404. Per un breve periodo, dal 1426 al 1431, Castel Goffredo passò alla Repubblica Veneta per poi tornare sotto Gianfrancesco Gonzaga, V Capitano del popolo di Mantova, nel 1431. Per la seconda volta, dal 1439 al 1441, venne governato dalla Serenissima Repubblica di Venezia e nel 1441 passò definitivamente a Gianfrancesco Gonzaga, primo marchese di Mantova che, firmando la Pace di Cremona (o Pace di Cavriana), accettò l'acquisizione dei territori di Castel Goffredo, Castiglione, Solferino, Redondesco e Canneto. Queste nuove terre, nella geografia gonzaghesca, furono chiamate "mantovano nuovo". Con la morte di Gianfrancesco nel 1444 si ebbe la prima divisione dello Stato mantovano. Nel suo testamento egli lasciò al terzo figlio, il marchese Alessandro, discepolo di Vittorino da Feltre, il dominio di molti borghi mantovani e di Castel Goffredo come feudo autonomo da Mantova. Nasceva il Marchesato di Castel Goffredo.

Ad Alessandro Gonzaga si deve l'ampliamento del borgo e l'edificazione di una seconda cinta muraria di difesa. Emanò uno statuto contenente norme amministrative per il suo feudo che dal suo nome si chiamò Alessandrino e che rimase in vigore fino al 1796. Egli istituì inoltre, il 1º luglio 1457, il mercato del giovedì e la fiera di San Luca. Alessandro morì senza figli nel 1466 lasciando al fratello Ludovico III, secondo marchese di Mantova detto il Turco, i possedimenti di Castel Goffredo. Venne nominato vicario dei Gonzaga il giurista Anselmo Folengo. Risale al 1468 l'istituzione in città di una banca di prestito gestita da Leone Ebreo che venne soppressa nel 1477 a causa degli alti tassi di prestito praticati. Ma il banco, sotto la protezione dei Gonzaga, proseguì la sua attività sino alla caduta del ducato mantovano (1707). Per successione testamentaria di Ludovico III e per soli due anni, dal 1478 al 1479, governarono congiuntamente i figli Rodolfo Gonzaga e Ludovico Gonzaga, vescovo di Mantova. Nel 1480 fu affidato l'incarico di potenziare le mura difensive all'architetto militare Giovanni da Padova.

Il vescovo Ludovico e il fratello Rodolfo divisero i loro beni: il feudo di Castel Goffredo, assieme a Ostiano e Redondesco, rimase a Ludovico, che governò dal 1479 al 1511.
Alla scomparsa di Ludovico nel 1511, dopo una lunga disputa presso la corte imperiale, lo stato di Castel Goffredo, Castiglione e Solferino passò al nipote marchese Aloisio (o Luigi Alessandro).

Iniziava con Aloisio il marchesato di Castel Goffredo del ramo cadetto dei "Gonzaga di Castel Goffredo". Egli fece del suo palazzo la sede di una corte sfarzosa, la quale ospitò personaggi illustri, tra cui il capitano imperiale Luigi Gonzaga "Rodomonte" il poeta Pietro Aretino nel 1536, dal 1538 al 1541 lo scrittore Matteo Bandello (protetto da Isabella d'Este, qui conobbe Lucrezia Gonzaga di Gazzuolo, che divenne la sua musa ispiratrice e della quale si innamorò), il condottiero Cesare Fregoso, Costanza Rangoni e i loro figli, Paolo Battista Fregoso militare parente di Cesare, l'ambasciatore Antonio Rincon e lo studioso di chiromanzia frate Patrizio Tricasso da Ceresara.

Nel 1516 transitò per Castel Goffredo l'imperatore Massimiliano I d'Asburgo mentre inseguiva le truppe francesi e un altro imperatore, Carlo V, il 28 giugno 1543, fu ospite della corte di Castel Goffredo. Ottenne le chiavi della fortezza e ripartì il giorno seguente. In un manoscritto anonimo si legge:

« Questa venuta, che tanto desiderava il signor marchese, fu quella e non altre, che lo indussero a cambiare, per così dire, la faccia al paese. Non era casa, non vi erano pareti esteriori in cui non si vedessero a fresco dipinte maestose logge, militari trofei, vasi egizi ed ornati d'ogni sorta, per cui più che un paese, sembrava un teatro magnifico e sorprendente »

Carlo V era in viaggio da Busseto, dove incontrò papa Paolo III, verso Trento e si intrattenne nel Castello di Canneto con Ferrante Gonzaga, col cardinale Ercole Gonzaga e con Margherita Paleologa, per legittimare a suo figlio Francesco la duplice investitura nei titoli di Duca di Mantova e Marchese del Monferrato, oltre a concordare le sue future nozze con Caterina, nipote dell'imperatore.

Nel 1543 in alcune località nello Stato gonzaghesco (Castel Goffredo, Gonzaga e Viadana) si manifestarono le prime teorie luterane, che misero preoccupazione nel cardinale Ercole Gonzaga, vescovo di Mantova.

Alla morte di Aloisio toccò al marchese primogenito Alfonso Gonzaga, che risiedette per molto tempo in Spagna, governare la città dal 1565. Costui, l'8 maggio 1568, chiamò da Mantova la famiglia ebrea Norsa affinché continuasse l'attività di prestito ed istituisse un Monte di Pietà. Fu creata anche la sinagoga, collocata nell'attuale vicolo Remoto. In quell'anno si registrò pure la costituzione a Castel Goffredo, come in altre località del mantovano, del Monte di Pietà, che affiancò l'attività degli ebrei, ma a condizioni più vantaggiose ed operò sino al 1799. Castel Goffredo nel 1580 ricevette la visita pastorale dell'arcivescovo san Carlo Borromeo, con lo scopo di vedere applicate le risoluzioni adottate nel Concilio di Trento. Alfonso Gonzaga venne assassinato il 6 maggio 1592 alla Corte Gambaredolo, per motivi ereditari, da otto sicari del nipote Rodolfo di Castiglione, fratello di San Luigi che per farsi gesuita aveva rinunciato al marchesato. Rodolfo dominò in Castel Goffredo col terrore e commise crudeltà senza esempio. Fu ucciso con un colpo di archibugio da Michele Volpetti durante una congiura di popolo sostenuta dalla "Magnifica Comunità" castellana il 3 gennaio 1593 mentre si recava alle funzioni religiose nella Chiesa Prepositurale di Sant'Erasmo, accompagnato dalla moglie Elena e dalla figlia Cinzia. Con il successore Francesco Gonzaga (Rodolfo non ebbe figli maschi), che non diventò signore di Castel Goffredo a causa di una lunga disputa presso la corte imperiale, la quale nel 1602 riconobbe il dominio al IV duca di Mantova Vincenzo I, si concludeva anche la storia della località come feudo autonomo gonzaghesco. Ebbe in tal modo termine anche la breve signoria dei "Gonzaga di Castel Goffredo".

Il territorio dello Stato fu oggetto di un'aspra contesa presso l'imperatore Rodolfo II tra il marchese di Castiglione e il duca di Mantova. Nel 1602 Lorenzo da Brindisi venne incaricato dall'imperatore di farsi ambasciatore presso il duca di Mantova Vincenzo affinché restituisse il feudo al marchese di Castiglione. La mediazione fallì e Castel Goffredo fu annesso definitivamente al ducato di Mantova con decreto del 1603 e ne condivise la sorte sino al 1707. Alla calata degli imperiali dalla Germania, la fortezza di Castel Goffredo venne nomentaneamente riconquistata dai veneziani, tra la fine del 1629 e la primavera del 1630, anno in cui fu colpito dalla peste, che decimò i due terzi della sua popolazione. Nell'anno 1707 i francesi lasciarono l'Italia e cedettero la Lombardia all'imperatore d'Austria Giuseppe I, sebbene Mantova fosse ancora governata dai Gonzaga: Ferdinando Carlo di Gonzaga-Nevers, decimo e ultimo duca di Mantova, perdette lo Stato gonzaghesco e morì a Padova il 5 luglio 1708. Terminò così la dominazione dei Gonzaga, durata ininterrottamente quattro secoli.

L'occupazione austriaca determinò la requisizione dei magazzini di rifornimenti nella città e fra il 1705 e il 1706 soldati austriaci saccheggiarono Castel Goffredo, traendo in ostaggio anche alcuni abitanti. Il 3 luglio 1735 Carlo Emanuele, re di Sardegna e duca di Savoia, arrivò sino a Castel Goffredo e prese possesso della fortezza. Nel 1796 Napoleone Bonaparte spinse gli austriaci oltre il Mincio e nel 1797 l'Austria cedette la Lombardia ai francesi. Il 13 maggio di quell'anno Castel Goffredo fu occupata dalle truppe francesi. Si susseguirono i governi austriaci nel 1799, francesi dal 1801 al 1814 e di nuovo austriaci sino al 1866.

Negli anni del 1848 Castel Goffredo fu il centro cospirativo antiaustriaco dell'Alto Mantovano legato ai Martiri di Belfiore e contò la presenza di numerosi patrioti, capeggiati dal castellano Giovanni Acerbi, che diventerà in seguito intendente dei Mille di Garibaldi.
Essi furono: Alessandro Bertani, organista; Luciano Bertasi, barbiere; Luigi Betti, calzolaio; Ottaviano Bonfiglio, farmacista; Claudio Casella, possidente terriero; Carlo Cessi, caffettiere, nonno di Anselmo Cessi; Domenico Fiorio, farmacista; Luigi Gozzi, praticante notaio; Giacomo Luzzardi, oste; Luigi Pesci, esattore comunale a Castiglione delle Stiviere; Anselmo Tommasi, possidente terriero; Andrea Zanoni, agricoltore; Omero Zanucchi, possidente terriero.
Furono tutti arrestati e processati nel 1852 e uscirono dal carcere nel 1853 a seguito dell'amnistia. Giovanni Acerbi, fuggito all'estero, fu condannato in contumacia.
Nei giorni precedenti la Battaglia di Goito (30 maggio 1848), fu illustre ospite di Bartolomeo Riva a Castel Goffredo il duca di Savoia Vittorio Emanuele, futuro re d'Italia. Nello stesso anno l'avversione al regime austriaco portò alla costituzione a Castel Goffredo di un gruppo clandestino di mazziniani, tra i quali Giovanni Acerbi ed Omero Zanucchi, arrestato assieme ad altri dodici compaesani.

Nel 1859 l'esercito austriaco, incalzato dai franco-piemontesi, fu costretto a ritirarsi verso il Mincio e le alture di Solferino, San Martino e Cavriana.
Castel Goffredo fu teatro della Battaglia di Solferino e San Martino e vide schierato il terzo corpo d'armata francese al comando del generale François Certain de Canrobert, diretto con i suoi uomini a Medole, dove si combatté una delle battaglie più cruente (Battaglia di Medole). Il 24 giugno, alle 7 del mattino, la fortezza di Castel Goffredo, ancora occupata da un avamposto della cavalleria austriaca, venne liberata dal generale francese Renault appoggiato dagli uomini del generale Jannin che, sfondando le porte del paese con gli zappatori del genio, penetrarono all'interno del paese liberandolo dai nemici.

A seguito della ristrutturazione delle provincie italiane, nel 1859 Castel Goffredo fu inserita nel Circondario di Castiglione delle Stiviere, mandamento III di Asola.

Il 1860 vide un illustre cittadino di Castel Goffredo, Giovanni Acerbi, partecipare a fianco di Garibaldi nella prima spedizione dei Mille, col grado di intendente generale.

La città entrò a fare parte del Regno d'Italia nel 1861. Nei giorni 27, 28 e 29 aprile 1862 Giuseppe Garibaldi fu ospite del patriota Giovanni Acerbi.

A servizio dell’Austria si pose l’avvocato Giuseppe Acerbi, nato a Castel Goffredo nel 1773 da un’antica famiglia. Nel 1802 pubblicò a Londra, in lingua inglese, un resoconto dei suoi viaggi nell’Europa del Nord (da notare che la sua figura è notissima in Finlandia che gli ha dedicato strade e strutture pubbliche). Nel 1825 l’Acerbi fu nominato dall’Austria console generale in Egitto, dove compì numerosi viaggi ed esplorazioni, nel corso dei quali riuscì a raccogliere una cospicua quantità di materiale archeologico che oggi si trova esposto in vari musei italiani e stranieri, tra cui quello di Milano e di Mantova (Museo Egizio di Palazzo Te).

Negli anni del Risorgimento si distinsero, soprattutto per la parte attiva che ebbero nella congiura anti-austriaca messa in atto a Mantova, alcuni castellani tra cui Omero Zanucchi e Giovanni Acerbi. Quest’ultimo partecipò alla spedizione dei Mille con la qualifica di Intendente generale e, nel 1866, venne eletto deputato nel parlamento del neo-nato Regno d’Italia.
Deputato del Regno fu anche un altro castellano, l’avvocato Andrea Botturi, eletto nel 1861 nel collegio di Lonato. Anche il 1900 ebbe in Castel Goffredo dei protagonisti illustri: il maestro Anselmo Cessi, presidente provinciale dei Maestri Cattolici, che nel 1926 fu assassinato da alcuni fascisti a causa del suo impegno politico per la difesa della libertà e della verità. La sua ferma testimonianza cristiana ha portato Giovanni Paolo II ad annoverarlo, in occasione del Giubileo del 2000, fra i “martiri del nostro tempo”. Protagonisti, poi, possiamo considerare anche tutti quei castellani che dagli anni Sessanta ad oggi hanno speso le loro energie per dare vita ad una comunità attiva, dimostrando coraggio, intelligenza e sano ottimismo, frutti di una secolare e ben radicata cultura cristiana.

Il 1º gennaio 1871 si costituì anche a Castel Goffredo la Società operaia di Mutuo Soccorso, con lo scopo di sopperire alle carenze dello stato sociale ed aiutare così i lavoratori.

Nel 1925 a Castel Goffredo aprì lo storico primo calzificio che si chiamò NO.E.MI., sigla dei cognomi dei fondatori, destinato a segnare la storia dell'industria e dell'economia locale. L'azienda, in due anni, arrivò ad impiegare 50 dipendenti.

Dopo la seconda guerra mondiale Castel Goffredo ha avuto un grande sviluppo economico divenendo un centro industriale di primaria importanza per l'industria tessile, grazie alla consistente produzione di calze, collants e filati. È sede del distretto industriale tessile numero 6, composto da 15 comuni mantovani, bresciani e cremonesi.

Ha acquisito il titolo di città nel 2002.




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mercoledì 8 aprile 2015

GIOVANNI RAMBOTTI

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Giovanni Rambotti fu un uomo di grande rigore e dirittura morale, di fede cattolica e ricco di sensibilità anche per i problemi sociali. A lui si deve la fondazione della Società Operaia di Desenzano, di cui fu presidente.

Giovanni Rambotti nacque a Desenzano il 21 novembre 1817.

Dopo aver compiuto gli studi primari e secondari nella sua città natale, studiò legge all'Università di Pavia, dove conseguì la laurea nel 1840.

Esercitò la professione di notaio in Desenzano. Membro della Deputazione Comunale dal 1848 al 1859, alla nascita del Regno d'Italia nel 1860 ricoprì l'incarico di primo sindaco di Desenzano, che tenne fino al 1862.
Dal 1863 al 1872 fu direttore della Scuola Tecnica pareggiata.

Nel 1872 iniziò a interessarsi dei materiali archeologici preistorici che venivano alla luce durante i lavori di estrazione della torba nel bacino inframorenico di Polada presso Lonato.
In pochi anni mise insieme la più importante collezione di materiali palafitticoli dell'età del Bronzo e nel 1875 sarà il principale prestatore all'esposizione di Archeologia Preistorica organizzata a Brescia dall'Ateneo di Scienze e Lettere.

Grazie a queste scoperte il Rambotti entrò in relazione con i maggiori studiosi dell'epoca, primo fra tutti Luigi Pigorini, con il quale rimase in costante contatto epistolare.

Dal 1878 fino alla morte, fu Preside del Ginnasio-Liceo Bagatta di Desenzano. Il Rambotti era socio dell'Ateneo di Scienze e Lettere di Brescia e per i meriti acquisiti in diversi campi ottenne la nomina a"Cavaliere" e "Ufficiale" del Regno.

Grazie alle importanti scoperte archeologiche effettuate a Polada nel 1882 - e certamente per interessamento di Luigi Pigorini - fu nominato"Regio Ispettore degli Scavi e Monumenti" per la zona di Desenzano. In questa sua veste inviò una breve relazione sulle circostanze della scoperta di una lapide romana nel corso di lavori edilizi al castello di Desenzano, riferendo anche sulla precedente scoperta di una tomba di età romana imperiale ai piedi del muro occidentale del castello.

Nella sua qualità di preside del Liceo Bagatta, il Rambotti conobbe personalmente Giosuè Carducci, venuto a Desenzano per quattro anni consecutivi (1882-1885) come Regio Commissario per gli esami di maturità. Carducci ne ha lasciato un breve ritratto in una lettera indirizzata da Desenzano a Severino Ferrari e datata 8 luglio 1882: "i professori sono tutti preti, e il preside è un notaio, un notaio lungo, di pelo bianco, vestito di nero".
Rambotti coltivava interessi per la storia, le scienze naturali e l'archeologia e amava collezionare antichità. Di questi suoi interessi sono testimonianza la collezione archeologica, formata nel corso degli anni, e un manoscritto inedito intitolato"Cenni sul lago di Garda e i suoi contorni", in cui, oltre a fornire innumerevoli notizie di carattere storico ed economico, si dedica una parte importante alle specie ittiche del lago, sistematicamente classificate, e alle tecniche della pesca.

Rambotti aveva raccolto qualche oggetto di bronzo proveniente dalla palafitta di Peschiera o scoperto occasionalmente in diverse località (una fibula Certosa presso Rivoltella, un'ascia ad alette mediane da Carpenedolo, una falce di bronzo dal Trentino), i materiali di una tomba forse di età gallica scoperta in una cava di ghiaia in località Taverna a Desenzano e quelli di tre tombe romane rinvenute a Pozzolengo- contrada Celadina, presso la Rocca di Manerba e in contrada Bionde a Sirmione. Della sua collezione facevano parte due statuette in bronzo di Minerva, una scoperta presso l'osteria di Lugana Vecchia, l'altra rinvenuta in località Menassasso di Desenzano; frammenti di mosaici e di intonaci dipinti dalla villa romana della punta di Sirmione; il frammento di un'iscrizione romana in bronzo ritrovata a Desenzano tra la propria casa e il lago.Rambotti recuperò, e conservava nella propria collezione, i frammenti di un mosaico romano venuto alla luce a Desenzano in via Borgo Regio, dove in seguito, a partire dal 1921, gli scavi porteranno alla luce un'importante villa della metà del IV secolo. Nel giardino della sua casa in Desenzano il Rambotti conservava anche un monumento romano con bassorilievo allusivo all'agricoltura, scoperto tra Monzambano e Castellaro Lagusello. Nella collezione Rambotti figuravano monete di bronzo e d'argento dell'Egitto di età ellenistica, una lucerna fittile da Pompei, e diversi materiali scoperti tra le rovine dell'antica Scolacium, presso la foce del Corace poco a sud di Catanzaro Marina, e alla foce del Simeri a nord di Marina di Catanzaro.

Nell'estate del 1868 i lavori di estrazione della torba nella valletta del Machetto, a sud di Desenzano, intaccarono i resti di una palafitta e portarono alla luce selci scheggiate, ossi animali e i resti di uno scheletro umano. Informato immediatamente dal suo amico Alberto Bazoli, il Rambotti si recò subito sul luogo, recuperando cinque strumenti di selce scheggiata, resti di legni e di ossi animali e soprattutto un cranio quasi completo e consistenti parti di uno scheletro umano. Le selci del Machetto sono attualmente conservate al museo Pigorini di Roma, dove pervennero insieme a tutta la collezione Rambotti.

Quando nel marzo 1872 iniziarono i lavori di estrazione della torba nel piccolo bacino inframorenico della Polada, tra Lonato e Desenzano, vennero alla luce i resti di una palafitta. I fratelli Bazoli, amici del Rambotti gli consentirono di eseguire scavi per proprio conto. Tuttavia, dopo la metà del 1873, ai Bazoli subentrò nello sfruttamento della torbiera la Società Anonima dei Combustibili di Milano, che impedì al Rambotti la prosecuzione delle sue ricerche. Il Rambotti formò così una grande collezione di oggetti preistorici provenienti dalla palafitta di Polada, che fu esposta per la prima volta al pubblico in occasione dell'Esposizione di Archeologia preistorica e Belle Arti della Provincia di Brescia, inaugurata il 19 agosto 1875.

L'esposizione di Brescia procurò al Rambotti una larghissima fama nel campo degli studi di archeologia preistorica ed egli poté intrattenere cordiali rapporti con i maggiori studiosi italiani, in particolare con Luigi Pigorini, al quale, in occasione di una sua visita a Desenzano nel 1878, regalò per il museo Preistorico di Roma alcuni degli oggetti di bronzo della palafitta di Peschiera da lui posseduti.

Nel corso del 1876 il Rambotti recuperò dalla torbiera Fornaci, immediatamente a sud di quella di Polada, il cranio di un uro (Bos primigenius), di eccezionale interesse poiché recava una cuspide di freccia in selce infissa nell'osso frontale vicino all'occhio destro. Nel 1878 insieme a Luigi Pigorini e Stefano de Stefani il Rambotti effettuò un sopralluogo alla palafitta della Cattaragna, tra Castel Venzago e Solferino.

Nel 1880 fu invitato insieme a G. Chierici, G. Bandieri e L. Ruzzenenti agli scavi delle terramare di Bellanda e di Villa Cappella nel Mantovano.

Nel 1886 accolse nella sua casa di Desenzano Robert Munro, di Edinburgo, segretario della Società degli Antiquari della Scozia, a cui illustrò i materiali di Polada, che erano raccolti in due stanze al piano terra della sua abitazione, e lo accompagnò in un sopralluogo al sito stesso di Polada, esponendogli le conclusioni a cui era pervenuto intorno all'estensione e alle caratteristiche della palafitta.

Il Rambotti fu certamente in contatto anche con Pompeo Castelfranco, illustre paletnologo di Milano, amico del Pigorini e collaboratore del "Bullettino di Paletnologia Italiana". Tra le carte del Castelfranco già conservate alla biblioteca d'arte al Castello Sforzesco ed ora presso le civiche raccolte archeologiche di Milano vi sono due tavole con il disegno a grandezza naturale di alcune asce e di due cuspidi di lancia in bronzo della raccolta Rambotti.

Anche se era stata progettata una pubblicazione su Polada, il Rambotti non lasciò alcuno scritto edito sulle scoperte da lui effettuate.

G. Rambotti morì a Desenzano del Garda il 22 dicembre 1896, all'età di 79 anni.


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sabato 28 marzo 2015

LE GROTTE DI CATULLO

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La denominazione di "Grotte di Catullo" risale al Quattrocento, quando la riscoperta delle liriche di Catullo, fra cui il Carme 31 in cui il poeta descrive il suo ritorno nell'amata casa di Sirmione, suggerì il collegamento con i grandiosi resti ancora visibili benché largamento interrati e coperti da vegetazione tanto da apparire come caverne. Il primo ad attribuire la villa a Gaio Valerio Catullo fu, nel 1483, Marin Sanudo il giovane. Tale ipotesi fu poi ripresa da eruditi e studiosi successivi, nonostante la villa oggi visibile sia stata costruita dopo la morte del poeta veronese. Allo stato attuale non esistono elementi sicuri per localizzare la casa di Catullo. Il termine è comunque rimasto e ancora oggi è utilizzato per identificare il sito archeologico.

Nel XVI secolo la villa fu meta di alcuni celebri viaggiatori fra cui la marchesa Isabella d'Este Gonzaga (1514 e 1535) e Andrea Palladio, che compì la visita per studiare i resti sotto il profilo delle tecniche di costruzione.

La grande villa, al di sotto della quale sono state rinvenute strutture del I secolo a.C., viene edificata agli inizi del I secolo d.C.. La villa doveva essere in stato di abbandono già nel III secolo d.C. quando parte della sua decorazione architettonica viene reimpiegata nell'altra villa romana di Sirmione, quella di Via Antiche Mura. Fra il IV secolo e il V secolo le imponenti strutture superstiti della villa vengono incluse nelle fortificazioni che recingono la penisola di Sirmione e all'interno dei resti dell'edificio romano vengono realizzate delle sepolture.

Nel corso dei secoli diversi cronisti e viaggiatori visitano le rovine, ma i primi studi concreti su di esse vengono effettuati solamente nel 1801 dal generale La Combe St. Michel, comandante d'artiglieria dell'esercito di Napoleone Bonaparte. Successivamente, il conte veronese Giovanni Girolamo Orti Manara esegue scavi e rilievi, ancor oggi fondamentali, che pubblica nel 1856.

Nel 1939 la Soprintendenza per i beni archeologici avvia un ampio programma di scavi e restauri, acquisendo infine nel 1948 l'intera area per permettere un'adeguata la tutela del complesso, immerso nel suo ambiente naturale.

Durante gli anni novanta del Novecento ulteriori studi hanno confermato che la costruzione è stata realizzata attraverso un progetto unitario, che ne ha definito l'orientamento e la distribuzione degli spazi interni secondo un preciso criterio di assialità e di simmetria.

Il complesso archeologico, ancora oggi portato alla luce solo parzialmente, copre un'area di circa due ettari. La villa ha pianta rettangolare, di 167 x 105 metri, con due avancorpi sui lati corti nord e sud. Per superare l'inclinazione del banco roccioso su cui fu impostato l'edificio vennero create grandi opere di sostegno (sostruzioni) nella parte settentrionale e furono effettuati imponenti tagli per modellare il banco roccioso. Questi ultimi sono paricolarmente ben visibili sul lato ovest (Grande Criptoportico) e sul lato orientale dell'avancorpo settentrionale.

Il piano nobile, corrispondente agli ambienti di abitazione del proprietario, risulta il più danneggiato, sia perché era il più esposto sia perché la villa, dopo il suo abbandono, è stata per secoli una cava di materiali. Meglio conservati sono il piano intermedio e quello inferiore.

L'ingresso principale dell'edificio si trovava nell'avancorpo meridionale. La villa era caratterizzata da lunghi porticati e terrazze aperti verso il lago lungo i lati est e ovest, comunicanti a nord con un'ampia terrazza belvedere, munita di velarium.

Lungo il lato occidentale, oggi è visitabile il criptoportico, una lunga passeggiata un tempo coperta. Le parti residenziali dell'edificio erano situate nelle zone nord e sud, mentre la parte centrale, costituita oggi dal Grande Oliveto, era occupata da un esteso giardino. Sul lato meridionale, sotto un pavimento in opus spicatum, si trova una grande cisterna lunga quasi 43 metri, che raccoglieva l'acqua necessaria per gli usi quotidiani. L'ampio settore termale della villa, costituito da diversi vani situati nella zona sud occidentale, tra i quali la cosiddetta piscina, fu ricavato probabilmente all'inizio del II secolo. I vari ambienti della villa possiedono suggestivi nomi convenzionali, derivati da una tradizione locale consolidata oppure da interpretazioni e denominazioni date durante i primi scavi. Fra le rovine, ad esempio, si possono trovare l'Aula a tre pilastri, il Lungo corridoio, la Trifora del Paradiso, il Grande Pilone, la Grotta del Cavallo, il Grande Oliveto prima citato e l'Aula dei Giganti.

L'ingresso dell'edificio si trovava nell'avancorpo meridionale. La villa era caratterizzata da lunghi porticati aperti verso il lago sui lati occidentale  e orientale, direttamente comunicanti sul lato settentrionale con l'ampia terrazza - belvedere situata al centro dell'avancorpo nord. Sul lato occidentale, al di sotto del porticato si trovava il "doppio criptoportico", lunga passeggiata coperta. Le parti residenziali dell'edificio erano situate nella parte settentrionale e meridionale, mentre la parte centrale, costituita oggi dal "grande oliveto", corrispondeva a uno spazio aperto. Questo è limitato sul lato meridionale da un pavimento in mattoni a spina di pesce che copre una grande cisterna, di quasi 43 metri di lunghezza. L'ampio settore termale, costituito da diversi vani, ricavati probabilmente in un momento successivo alla costruzione dell'edificio, all'inizio del II secolo d.C., era situato nella zona meridionale.

La costruzione della villa può essere datata ad età augustea (fine I secolo a.C.-inizio I secolo d.C.). Il crollo delle strutture e il conseguente parziale o totale abbandono dell'edificio sono fissati nel IV secolo d.C., periodo cui sono attribuibili diverse tombe a inumazione collocate in una parte della villa ormai distrutta.

I Romani indicavano con la parola "terme" i bagni sia privati che pubblici, mentre per noi oggi questa parola si riferisce a stabilimenti che sfruttano sorgenti di acqua calda. Nelle "grotte di Catullo" le terme sono state costruite nella parte meridionale  nel Il secolo dopo Cristo, circa un secolo dopo la costruzione della villa.
II settore termale ha un'estensione di quasi 800 mq e comprende vari ambienti. Purtroppo alcune di queste stanze sono state fortemente danneggiate e quindi oggi è difficile ricostruire la loro esatta funzione. L'ambiente meglio conservato è la cosiddetta "piscina". Si tratta di un grande vano rettangolare che ospitava una vasca. Il pavimento di quest'ultima era rialzato, probabilmente sostenuto da pilastrini (= pilae), e si trovava sopra gli archi presenti lungo le pareti. Dietro alla "piscina" c'era un ambiente dove probabilmente veniva acceso il fuoco (=praefurnium). L'aria calda ed il fumo prodotti entravano in un'intercapedine che circonda la piscina e che doveva arrivare fino al soffitto. Attraverso gli archi quest'aria circolava anche nell'area sotto al pavimento  e così l'ambiente veniva riscaldato. I costruttori hanno utilizzato molti mattoni nei muri per fare in modo che il calore non si disperdesse tanto facilmente.

Per le sue caratteristiche è probabile che questo ambiente fosse il tepidarium, ossia la stanza dei bagni con la vasca di acqua tiepida. L'ambiente per l'acqua calda (il calidarium) era di dimensioni inferiori ed anziché avere un'unica grande piscina possedeva piccole vasche poste agli angoli della stanza e destinate non a nuotare, ma ad immergere una parte del corpo. Anche il calidarium si trovava vicino al forno di riscaldamento. Infine l'ambiente per l'acqua fredda (il frigidarium) aveva al centro una vasca poco profonda sui cui bordi, decorati a mosaico, le persone potevano sedere. Nelle terme delle "grotte di Catullo" sono presenti anche altri ambienti, oltre a quelli descritti, la cui funzione non è però chiara. Per la decorazione di alcune pareti sono stati impiegati, stucchi ritrovati durante gli scavi. Nelle vasche non veniva utilizzata l'acqua del lago a causa del notevole dislivello che la separa dall'edificio. Per risolvere il problema dell'approvvigionamento idrico sono state costruite nella zona termale tre cisterne in cui veniva raccolta l'acqua piovana. Due di queste cisterne si trovano alle spalle della "piscina", mentre la terza, un tempo mal interpretata come il "bagno" di Catullo è posta vicino all'ingresso della villa. L'acqua veniva estratta dalla cisterna e convogliata verso le terme attraverso tubi di piombo, le cosiddette fistule, che per i Romani erano le tipiche condutture per l'acqua.
Nelle terme pubbliche, che erano più complesse di quelle private, oltre alle stanze con le vasche vi erano spogliatoi, palestre, spazi aperti (come giardini e cortili), sale per conferenze e letture, latrine e ambienti destinati alla cura del corpo.
I Romani quindi frequentavano le terme alla ricerca non solo di benessere fisico, ma anche di momenti d'incontro.

Nel 1999, all'interno del parco che accoglie i resti della villa, è stato inaugurato il Museo.

Esso ospita numerosi reperti provenienti dagli scavi della villa romana delle "Grotte di Catullo", da altre ville romane situate sul lago di Garda (villa di via Antiche Mura a Sirmione e villa di Toscolano) e da altri siti archeologici della zona. Il Museo è organizzato in più sezioni.

Nel portico d'ingresso sono spiegate la genesi e la morfologia del lago di Garda; inoltre sono illustrate le differenti vie di comunicazione nel territorio in età antica.

All'interno del Museo sono ospitate altre tre sezioni:

la preistoria e la protostoria del lago di Garda, con i ritrovamenti dalle palafitte rinvenute sulle rive del lago;
l'età romana, all'interno della quale sono esposti anche i reperti provenienti dalle "Grotte di Catullo";
l'età medievale, con i corredi funerari della chiesa di S. Pietro in Mavino di Sirmione e altre località adiacenti
Nel Museo sono ospitati un plastico che riproduce la villa romana e un monitor touch-screen con filmati in tre lingue sulle Grotte di Catullo e su altri siti del lago di Garda.

Grazie alla collaborazione dell'UNAPROL e dell'Associazione Interprovinciale Produttori Olivicoli Lombardi (AIPOL) si è concluso di recente, grazie a finanziamenti da parte dell'Unione Europea e dell'Italia, un programma di recupero dell'oliveto storico delle Grotte di Catullo. In tutta l'area archeologica sono presenti attualmente circa 1500 ulivi, alcuni plurisecolari, appartenenti a tre differenti varietà gardesane (casaliva, leccino e gargnà). Dal 2012 è ripresa la raccolta delle olive finalizzata alla produzione dell'olio extra vergine dell'oliveto storico delle "Grotte di Catullo".



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