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venerdì 14 ottobre 2016

LE SPOSE BAMBINE




Milioni di bambine e giovani donne nel mondo sono vittime di abusi, discriminazioni o costrette a matrimoni forzati in età minorile. L'11 ottobre, è la Giornata Mondiale delle bambine e delle ragazze, proclamata dall'Onu, e le varie organizzazioni umanitarie ricordano l'impegno comune nella lotta ai diritti delle giovani donne, diffondendo dati allarmanti sul fenomeno.

"Oggi nel mondo ci sono oltre 700 milioni di donne che si sono sposate in età minorile e che hanno dovuto rinunciare ad avere una crescita normale, fisica e mentale. Ogni anno 15 milioni di matrimoni hanno per protagonista una minorenne; una volta su tre - cinque milioni di casi - si tratta di una bambina con meno di 15 anni. Hanno dovuto spesso affrontare gravidanze precoci e violenze domestiche - ha sottolineato il presidente dell`Unicef Italia Giacomo Guerrera e promuovere l'istruzione delle bambine è l`investimento più potente che una nazione possa fare, perché accelera la lotta contro la povertà, le malattie, la disuguaglianza e la discriminazione di genere".

I dati diffusi dall'Unicef sui diritti negati e sul fenomeno delle spose bambine sono preoccupanti. Sarebbero 70.000 le ragazze, tra i 15 e i 19, che muoiono a causa di complicazioni durante la gravidanza e il parto e le bambine sotto i 15 anni hanno 5 volte più probabilità di morire durante la gestazione rispetto alle donne tra i 20 e i 29 anni. Inoltre un bambino che nasce da una madre minorenne ha il 60% delle probabilità in più di morire in età neonatale, rispetto a un bambino che nasce da una donna di età superiore a 19 anni. E anche quando sopravvive, sono molto più alte le possibilità che possa soffrire di denutrizione e di ritardi cognitivi o fisici. Per quanto riguarda il livello di povertà e la mancata istruzione, sempre secondo il rapporto, le donne rappresentano la metà della popolazione nel mondo, ma costituiscono il 70% dei poveri. Si stima che un aumento del 10% di ragazze che frequentano la scuola, farebbe aumentare il pil del 3% e che solo 1 ragazza ogni 3 maschi frequenta la scuola secondaria.
 
Il fenomeno delle spose bambine è in costante aumento e, secondo il rapporto di Save The Children, tra le principali barriere che impediscono alle ragazze di accedere a servizi e opportunità ci sono i matrimoni precoci. "Ogni sette secondi, nel mondo, una ragazza con meno di 15 anni si sposa, spesso con un uomo molto più grande di lei", stando ai dati del dossier Every Last Girl: Free to live, free to learn, free from harm.

La comunità internazionale si è impegnata a mettere fine alla pratica dei matrimoni precoci entro il 2030, tuttavia se il numero di spose bambine nel mondo crescerà ai ritmi attuali nel 2030 avremo 950 milioni di donne sposate giovanissime e 1,2 miliardi nel 2050, sempre secondo i dati diffusi.

"I matrimoni in età minorile rappresentano l'inizio di un ciclo di ostacoli e svantaggi che negano alle ragazze i loro diritti fondamentali, tra cui i diritti alla salute e all'istruzione, e impediscono loro di vivere la propria infanzia, di realizzare i propri sogni e di costruirsi un futuro ricco di opportunità - ha affermato Helle Thorning-Schmidt, direttore generale di Save the Children International - e ha aggiunto - "Le bambine e le ragazze che si sposano troppo presto sono spesso costrette ad abbandonare la scuola e sono le prime a rischiare di subire violenze domestiche, abusi e stupri. Rischiano inoltre di incorrere in gravidanze precoci, con conseguenze molto gravi sulla loro salute e su quella dei loro bambini, e risultano particolarmente esposte al rischio di contrarre malattie sessualmente trasmissibili come l'Hiv".

Il dossier contiene anche la graduatoria dei Paesi dove le ragazze hanno maggiori opportunità di crescita e di sviluppo, basata su 5 parametri: matrimoni precoci, numero di bambini per madri adolescenti, mortalità materna, completamento della scuola secondaria di primo grado e numero di donne in Parlamento. Il Niger, valutando tutti i 5 criteri, occupa il posto più basso della classifica, la Svezia quello più alto. Tra i paesi virtuosi l'Italia è in decima posizione: ha gli stessi risultati della Svezia per quanto riguarda il numero di figli per madri adolescenti (6 su 1.000) e tasso di mortalità materna (4 su 100.000 nascite), mentre ha una percentuale minore di donne che siedono in Parlamento (31% contro 44%). Per quanto riguarda gli altri Paesi, Finlandia e Norvegia, occupano il secondo e il terzo posto in classifica, mentre Spagna e Germania seguono l'Italia di qualche posizione. In coda alla classifica ci sono Ciad, Repubblica Centrafricana, Mali e Somalia, che si caratterizzano per numeri molto alti di spose bambine. Gli Stati Uniti non vanno invece oltre la 32esima posizione, in virtù di tassi di mortalità materna e numero di bambini nati da madri adolescenti più alti di quelli di altri Paesi ad alto reddito.



Inoltre si sottolinea che l'India è il Paese con il più alto numero di spose bambine, con il 47% delle ragazze, più di 24,5 milioni, sposate prima di aver compiuto i 18 anni. In India, del resto, così come in Afghanistan, Yemen e Somalia, sono numerosi i casi di spose bambine che hanno meno di 10 anni. Anche guerre e crisi umanitarie contribuiscono ad alimentare il fenomeno: molte ragazze siriane vengono costrette dalle famiglie a sposarsi in tenerissima età, nella convinzione che questo sia l'unico modo per metterle al riparo da violenze e per assicurare loro risorse e mezzi di sostentamento che le stesse famiglie non sono più in grado di garantire. Tra le ragazze siriane rifugiate in Giordania, nel 2013, una su quattro di età compresa tra i 15 e i 17 anni risultava già sposata.

Infine ogni anno, secondo il rapporto, 16 milioni di ragazze tra i 15 e i 19 anni mettono al mondo un figlio, mentre sono oltre un milione le ragazze che diventano madri prima di compiere i 15 anni. Le complicazioni durante la gravidanza e il parto rappresentano, dopo i suicidi, la seconda causa di morte per le ragazze tra i 15 e i 19 anni, con circa 70.000 ragazzine che perdono la vita ogni anno.

Ancora, nel mondo 30 milioni di bambine rischiano di subire mutilazioni genitali femminili nel prossimo decennio e oltre un terzo delle giovani donne nei Paesi in via di sviluppo non ha accesso all'istruzione. In molti Paesi al mondo, infine, le ragazze continuano a non potersi esprimere liberamente e a non essere coinvolte nei processi decisionali pubblici e privati. A livello globale, solo il 23% dei seggi parlamentari è occupato da donne le quali, peraltro, presiedono le Camere dei Parlamenti solo nel 18% dei casi. La più alta percentuale di donne in Parlamento si registra in Ruanda (64%).

Non hanno nessun potere di scelta, sono isolate dalla società e private di un’infanzia normale. Spesso sono vittime di abusi e violenze, tagliate fuori dalla famiglia, dagli amici e dalla scuola.

In Turchia, tra il 2010 e il 2015, secondo il ministro della Famiglia di Ankara Sema Ramazanoglu sono state oltre 230 mila le unioni tra bambini e adulti.

Ma il numero potrebbe essere più elevato visto che molte delle nozze con minori vengono celebrate solo con rito religioso (non riconosciuto dalla legge turca) e quindi non registrate ufficialmente.

Nel centro dell'India si possono trovare in tuguri affollati donne spettrali anche bambine di 8 o 9 anni con la testa rasata e avvolte nelle bianche garze del lutto: le vedove.
Dopo la cerimonia delle nozze, le spose bambine dovrebbero tornare nella casa dei genitori fino alla prima mestruazione, ma i genitori che hanno fretta di disfarsi di loro le consegnano subito alla famiglia dello sposo.
In India il matrimonio è merce di scambio, un'alleanza, tanto che le nozze possono evitare una faida tra due famiglie, sposare una donna ancora bambina significa preservarla integra, lasciare intatta tutta la sua forza vitale, la sua purezza creatrice.
Rari sono i matrimoni d'amore, sostituiti da quelli combinati dai genitori della ragazza che la cedono a  un uomo di 30-40 anni, il quale la prende in sposa che non ha più di 12 anni; a causa della grande differenza di età esse corrono il rischio di rimanere vedove prematuramente, finendo relegate in una casa per vedove.
Con il matrimonio le spose bambine abbandonano la famiglia e la scuola per andare a vivere con il marito nella capanna dei suoceri, dove si occupano di tutte le faccende domestiche; il loro compito principale è mettere al mondo quanti più figli maschi possibile anche se il loro giovane corpo non è in grado di sopportare il peso di molteplici gravidanze: così si rischia che la madre non sopravviva al trauma del parto e che anche i neonati abbiano poche possibilità di vivere.
Dopo aver dato alla luce due o più figli, le ragazze vengono poi spesso abbandonate dal marito che prende un'altra giovane in sposa.
Tuttavia solo cinque bambine su cento hanno il coraggio di denunciare le violenze subite.

Molte società di Paesi che hanno il problema dei matrimoni precoci, attribuiscono un grande valore alla verginità prima del matrimonio, e questo può dar luogo ad una serie di pratiche miranti a “proteggere” una ragazza da un’attività sessuale sconveniente. Di fatto, si tratta di un sistema di rigido controllo imposto ad essa.
Per esempio, può succedere che le venga impedito di avere relazioni sociali al di fuori della famiglia, oppure che le venga dettato quello che può e quello che non può indossare.

In altre società, come ad esempio in Africa nord-orientale, i genitori tolgono le loro bambine da scuola non appena queste iniziano ad avere le mestruazioni, temendo che il contatto con i compagni o con gli insegnanti di sesso maschile le esponga a dei rischi. Tutte queste pratiche hanno lo scopo di sottrarre la ragazza all’attenzione sessuale maschile, ed agli occhi di genitori preoccupati il matrimonio sembra offrire la “protezione” ideale.

In ulteriori società tradizionaliste non esiste il concetto di un periodo dell’adolescenza situato tra la pubertà e l’età adulta.  Una ragazza che ha le mestruazioni è in grado di partorire un figlio, e perciò viene considerata “una donna”.

In alcune culture, l’indipendente autoconsapevolezza che una ragazza può sviluppare durante l’adolescenza, viene considerata indesiderabile.
Anche se in questi casi le donne vengono magari (raramente) onorate, da loro ci si aspetta che si sottomettano ai desideri dei padri e dei mariti, mettendosi così sotto la loro protezione per il loro stesso bene.
Ne consegue che se non lo fanno, esse meritano una punizione: per esempio, in Kenya, la violenza contro una moglie disobbediente viene comunemente ammessa.



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lunedì 3 ottobre 2016

UCCIDERE PER ADULTERIO

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Pare che in Italia la tendenza dell’omicidio volontario, dal 1990, abbia subito parecchi cambiamenti (primo tra tutti il calare del numero dei morti). Se, infatti, vent’anni fa erano le stragi di mafia e i regolamenti di conti tra organizzazioni criminali a fare il maggior numero di morti, oggi sembra che si muoia di più tra le mura domestiche per mano di mariti, fidanzati, partner e amanti.

A farne le spese sono le donne. Un tempo, infatti, le donne venivano assassinate con meno frequenza. Anche se ancora adesso sono gli uomini a uccidere e a morire maggiormente, le donne compaiono con una certa allarmante frequenza nelle cronache in veste di vittime.

I casi di uomini che uccidono le loro donne si contano sia tra gli italiani che tra gli immigrati.

Il motivo del contendere, il movente, pare sia sempre più o meno lo stesso: gelosia. Alcuni uomini uccidono perché convinti di essere o di essere stati traditi dalla compagna o per motivi che rientrano a pieno titolo nella voce “gelosia”, altri non sembra seguano questo copione.

La gelosia ha preso una connotazione totalmente negativa. Eppure essere gelosi della propria moglie, compagna, del proprio partner, non dovrebbe essere una cosa brutta.

La gelosia, quella buona, indica l’unicità della relazione. E, se è vero che ci sono i gelosi patologici, è anche vero che non è possibile, statisticamente parlando, che tutti gli uomini che ammazzano le donne ne soffrano.

Il possesso, invece, l’avere una donna, il possederla (non solo a letto), il controllarla, comandarla, dirigerla è tutt’altra faccenda. E pare che il problema sia proprio questo e non (solo) la gelosia (patologica). Gli uomini, quelli che uccidono (ma anche quelli che picchiano, che violentano, che umiliano), sembrano spaventati dall’eventualità di perdere l’oggetto del loro potere.

Per secoli, il "dispotismo domestico", come lo chiamava nel XIX secolo il filosofo inglese John Stuart Mill, è stato giustificato nel nome della superiorità maschile. Dotate di una natura irrazionale, "uterina", e utili solo - o principalmente - alla procreazione e alla gestione della vita domestica, le donne dovevano accettare quello che gli uomini decidevano per loro (e per il loro bene) e sottomettersi al volere del pater familias. Sprovviste di autonomia morale, erano costrette ad incarnare tutta una serie di "virtù femminili" come l'obbedienza, il silenzio, la fedeltà. Caste e pure, dovevano preservarsi per il legittimo sposo. Fino alla rinuncia definitiva. Al disinteresse, in sostanza, per il proprio destino. A meno di non accettare la messa al bando dalla società. Essere considerate delle donne di malaffare. E, in casi estremi, subire la morte come punizione.

Le battaglie femministe del secolo scorso avrebbero dovuto far uscire le donne da questa terribile impasse e sbriciolare definitivamente la divisione tra "donne per bene" e "donne di malaffare". In nome della parità uomo/donna, le donne hanno lottato duramente per rivendicare la possibilità di essere al tempo stesso mogli, madri e amanti. Come diceva uno slogan del 1968: "Non più puttane, non più madonne, ma solo donne!".

Paradossalmente, molti di questi delitti passionali non sono altro che il sintomo del "declino dell'impero patriarcale". Come se la violenza fosse l'unico modo per sventare la minaccia della perdita. Per continuare a mantenere un controllo sulla donna. Per ridurla a mero oggetto di possesso. Ma quando la persona che si ama non è altro che un oggetto, non solo il mondo relazionale diventa un inferno, ma anche l'amore si dissolve e sparisce. Certo, quando si ama, si dipende in parte dall'altra persona. Ma la dipendenza non esclude mai l'autonomia. Al contrario, talvolta è proprio quando si è consapevoli del valore che ha per se stessi un'altra persona che si può capire meglio chi si è e ciò che si vuole. Come scrive Hannah Arendt in una lettera al marito, l'amore permette di rendersi conto che, da soli, si è profondamente incompleti e che è solo quando si è accanto ad un'altra persona che si ha la forza di esplorare zone sconosciute del proprio essere. Ma, per amare, bisogna anche essere pronti a rinunciare a qualcosa. L'altro non è a nostra completa disposizione. L'altro fa resistenza di fronte al nostro tentativo di trattarlo come una semplice "cosa". È tutto questo che dimenticano, non sanno, o non vogliono sapere gli uomini che uccidono per amore. E che pensano di salvaguardare la propria virilità negando all'altro la possibilità di esistere.



Donne decapitate, bruciate, lapidate, pugnalate, folgorate, strangolate e seppellite vive per lavare “l’onore di famiglia” – sono terrificanti. Le ultime statistiche mondiali pubblicate dall’Onu nel 2007 parlano di circa cinquemila morti all’anno, ma in Medio Oriente e nel sudest asiatico molte associazioni di donne sospettano che le vittime siano al meno quattro volte di più.

L’Independentha condotto un’indagine durata dieci mesi in Giordania, Pakistan, Egitto, Gaza e Cisgiordania per raccontare questi crimini, che riguardano soprattutto donne giovanissime, spesso adolescenti. Tra le vittime ci sono anche degli uomini e, sebbene i giornalisti la descrivano come un’usanza prevalentemente musulmana, i delitti d’onore avvengono anche nelle comunità cristiane e indù.
Il concetto di “onore” va al di là della religione e trascende la pietà umana. Le volontarie che lavorano nelle organizzazioni peri diritti umani, ad Amnesty International, nelle associazioni delle donne, e negli archivi dei mezzi d’informazione, ci dicono che la strage delle innocenti accusate di aver disonorato la famiglia si aggrava ogni anno che passa.
I delitti d’onore sono frequenti soprattutto tra i kurdi dell’Iraq, tra i palestinesi della Giordania, in Pakistan, e in Turchia. Forse però questa sproporzione dipende dal fatto che in alcuni Paesi la stampa è più libera di denunciare e compensa la segretezza che circonda gli stessi delitti in Egitto, dove il governo nega che esistano, e in altri Paesi del Golfo e del Medio Oriente. Da molto tempo i delitti d’onore sono aumentati anche in Occidente: in Gran Bretagna, in Belgio, in Russia, in Canada. In molti Paesi del Medio Oriente, le autorità sono complici dì questi crimini, e riducono o addirittura annullano le condanne degli assassini se le donne fanno parte della famiglia, oppure classificano gli omicidi come suicidi per evitare i processi.

Il ruolo della donna nelle associazioni criminali di stampo mafioso è sempre stato caratterizzato da una certa ambiguità. La presenza femminile nell'organizzazione si basa sia su un’esclusione formale che in una partecipazione sostanziale alla vita dell'organizzazione.

Le donne non fanno giuramento di fedeltà all'organizzazione perché il loro primo dovere è quello di essere fedeli ai propri uomini. Nei casi in cui alle donne venga riconosciuto tale titolo, queste hanno il compito di dare assistenza ai latitanti, di far circolare le ‘mbasciate e di mantenere i contatti, attraverso i colloqui, tra i detenuti e l’organizzazione esterna.

Sono cruciali nel sistema della vendetta e risultano indispensabili in uno dei momenti simbolici più importanti per l’organizzazione, i matrimoni. La donna non risulta inserita nella dimensione inter-organizzativa, ma svolge funzioni essenziali nella dimensione famigliare dell’unità di base. Le donne risultano in grado di svolgere i ruoli criminali richiesti ai membri dell’organizzazione proprio perché sono appartenenti alla famiglia biologica. Per questo le donne non necessitano di ulteriori riti simbolici: sono considerate già per nascita fedeli e leali all'organizzazione.

La donna deve salvaguardare la reputazione maschile (che garantisce agli uomini di essere formalmente affiliati alla mafia) attraverso la sua rispettabilità e onorabilità. Alle donne era perciò richiesto un comportamento sessuale "corretto", ossia la verginità prima delle nozze e successivamente la castità. Per evitare la perdita dell'onore gli uomini dovevano così esercitare uno stretto controllo sulle proprie donne, un controllo che permaneva attraverso gli occhi del clan qualora l'uomo fosse stato incarcerato. Se l'uomo si dimostra capace di mantenere un controllo totale sulla propria donna, agli occhi degli altri sarà capace di mantenere un controllo anche sul proprio territorio. Il pudore femminile rappresentava la via per mantenere intatto l'onore maschile. L'uomo in sostanza deve mantenere una buona reputazione. La rettitudine femminile garantisce la reputazione maschile. Il comportamento sessuale di una donna condiziona sia l'entrata di un uomo all'interno dell'organizzazione che la propria carriera. Per la donna vige il divieto assoluto di commettere adulterio. Divieto che per l'uomo non sussiste dato che privatamente può mantenere una doppia vita. Anche le vedove sono obbligate a rimanere fedeli ai mariti o fidanzati defunti, per evitare un eventuale disonore familiare.


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giovedì 22 settembre 2016

LE SOLDATESSE

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Francesca Scanagatta è un personaggio singolare dell'Ottocento italiano. La vita di Francesca, fino a quel momento del tutto normale, cambiò radicalmente quando si ammalò uno dei fratelli che avrebbe dovuto frequentare l'Accademia Militare Teresiana di Wiener Neustadt. Francesca, che amava i poemi eroici e leggendari e si entusiasmava alle vicende delle amazzoni, si travestì allora da uomo e seguì al suo posto del fratello i corsi dell'Accademia, dal 16 febbraio 1794 al 16 gennaio 1797, combattendo poi nelle guerre napoleoniche in Germania e in Italia. Fu decorata e promossa.
Nel 1800 fu scoperta e congedata, ma ottenne una pensione. Poi si sposò e dal matrimonio nacquero quattro figli. Diventata nonna e bisnonna si sarà certamente augurata prima di chiudere gli occhi nel 1864 all’età di ottantotto anni, che le sue discendenti potessero un giorno vestire una divisa senza più menzogne e sotterfugi.

Le donne italiane con le stellette hanno dimostrato di essere più predisposte a svolgere attività particolarmente delicate quali, ad esempio, il sostegno alle vittime di violenza sessuale, il lavoro nelle prigioni femminili, l'addestramento delle donne cadetto nelle accademie di polizia. Oltre a questo valore aggiunto, le donne militari impegnate nelle missioni di pace costituiscono anche un modello per le donne che vivono in lontane comunità.
L'esempio delle donne peacekeeper è fonte di ispirazione ed incoraggiamento per donne e ragazze appartenenti a società spesso controllate da uomini, dimostrando loro che è possibile, per il genere femminile diventare protagoniste delle loro esistenze.
Mentre in Europa il velo è fonte di polemica e di battaglie legali, in altri paesi può essere un mezzo per favorire la comunicazione e il dialogo tra appartenenti a culture diverse. Una donna soldato italiana ha infatti capito che per una "straniera" in cerca di un contatto verso la comunità, indossare il velo poteva essere il mezzo per abbattere la barriera delle differenze e muovere un primo passo verso l'integrazione nella comunità.
E' quanto si è verificato ad Herat, in Afghanistan, nella zona di controllo dell'esercito italiano, dove la tenente degli Alpini Silvia Guberti ha scelto di mettere il velo per facilitare il suo lavoro a contatto con le donne del luogo. Guberti è a capo di un team che porta avanti azioni rivolte alle donne afgane, insieme alla caporalmaggiore Laura Fortunato e ad un'interprete afgana.

Il primo esempio di "donne soldato" risale al 1992: lo realizzò l'Esercito nella caserma dei 'Lancieri di Montebello', dove fu consentito a 29 ragazze di svolgere per 36 ore le normali attività di addestramento. Con il superamento di un percorso di guerra, con tanto di filo spinato e lotta nel fango, le 29 rappresentanti del gentil sesso fecero da spartiacque per tutte coloro che in futuro avrebbero portato un tocco di rosa nelle caserme. Ma bisogna aspettare sette anni (arrivando ultimi a livello europeo) perché il disegno di legge presentato dall'onorevole Valdo Spini ed altri venisse approvato, a larghissima maggioranza, il 29 settembre 1999. La parità non è stata inizialmente completa: c'era una regola che differenziava nettamente il servizio volontario femminile da quello maschile: le donne non potevano andare in prima linea.

Il Parlamento dava così il via libera all'ingresso delle donne nelle Forze armate a partire dall'anno 2000. La legge n. 380 del 20 ottobre 1999 ha delegato il Governo a predisporre uno o più decreti per disciplinare l'istituzione del servizio militare volontario femminile. I decreti sono stati tre, uno dei quali riguardanti l'altezza: non meno di 1 metro e 61 (1 e 65 per i carabinieri e i piloti).
Ecco i tratti fondamentali della legge sopra citata:
-assicurare la realizzazione del principio delle pari opportunità uomo-donna, nel reclutamento del personale militare, nell'accesso ai diversi gradi, qualifiche, specializzazioni ed incarichi del personale delle Forze armate e del Corpo della Guardia di finanza;
-applicare al personale militare femminile e maschile la normativa vigente per il personale dipendente delle pubbliche amministrazioni in materia di maternità e paternità e di pari opportunità uomo-donna, tenendo conto dello status del personale militare.

Oggi le donne soldato in Italia sono circa 11000; esse rappresentano ancora una minima parte rispetto ai loro colleghi, al contrario di altri paesi Europei dove i numeri crescono ampiamente. Inoltre anche se sulla carta questo non accade, come dimostrano alcune testimonianze, l’ avanzamento di carriera per le donne trova notevoli ostacoli. Infatti la lotta delle donne per far valere i propri diritti all’interno dell’ esercito non può dirsi ancora conclusa. Visivamente le donne in divisa hanno ancora un impatto molto forte; per molti l'espressione "donna soldato" costituisce ancora una contraddizione, ma certo non per le reclute che ogni anno scelgono di intraprendere questa carriera. Per le soldatesse, questa è ancora una fase di affermazione della personalità, in cui agiscono con molta più determinazione perché sentono di dover dimostrare di valere almeno quanto gli uomini. È una battaglia personale. Nelle donne nasce infatti il desiderio di non sentirsi differenti: «Qui non siamo né uomini, né donne: siamo soldati» rivela una volontaria, come se l'essere un soldato diventasse un valore che supera la distinzione sessuale.
Amara è la lettera inviata ad un settimanale da un’altra volontaria dell’esercito: “… quando decidi di arruolarti, a vent’anni, credi fermamente in ciò che fai, vivi per quel tricolore che porti sulla spalla, rinunci alla tua famiglia, agli amici … lo fai volentieri perché hai voglia di dare, come soldato e come persona ... e’ subito difficile gestire i rapporti con un mondo da sempre maschile … Passano gli anni e ti senti di dover dimostrare a questi uomini di essere più di loro, perché per essere giudicata al pari di un uomo, devi fare una stessa cosa ma dieci volte meglio…”. Afferma con delusione ma con orgoglio che anche la partecipazione alle missioni all’estero non è semplice “… se per un uomo partire è scontato, ogni donna viene scelta … nel primo elenco manca il tuo nome. Combatti per ottenere un posto … anche se l’ultimo arrivato ha già il suo posto. Dopo tutto sono solo una donna, no?”.

Le donne soldato, purtroppo, sono ancora spesso vittime di infondati pregiudizi da parte degli uomini, alcuni sostengono che la donna sia fisicamente inferiore all'uomo, che non sia portata per fare il soldato, che non abbia quella cattiveria che serve al soldato, che l'uomo non può prendere ordini da una donna soldato, che l'esercito è stato fin dai tempi antichi esclusiva maschile.
La recente regolarizzazione delle donne soldato dell’ultimo scorcio del XX secolo arriva in realtà come riconoscimento istituzionale di una figura, quella della donna guerriera, che è sempre esistita e che si è tramandata nei secoli passando sotto silenzio, emergendo di tanto in tanto nella figura di qualche eroina ancora oggi commemorata. Le sue tracce ricorrono anche a partire dalla leggenda delle Amazzoni, le famose guerriere di cui per primi ci diedero testimonianza gli antichi Greci. Inoltre le donne, che adorano il proprio mestiere e la divisa che indossano, dimostrano ogni giorno di essere professionali, competenti, preparate e soprattutto determinate e coraggiose, quanto gli uomini. Per capire quanto queste discriminazioni siano terribili basterebbe guardare tutto ciò dagli occhi di queste donne che, stringendo i denti, non curanti dei preconcetti di molti colleghi, sono pronte a combattere per difendere la patria e a lottare con forza per i propri diritti.

Secondo la legge una donna ha il pieno diritto di avere figli e di dedicarsi alla carriera militare. Nella realtà però, la questione non è cosi semplice a causa dei molti ostacoli che mamme soldato sono costrette a sopportare.

Per una donna è più facile ordinare una guerra che combatterla in prima persona. Nel 1982, durante la guerra delle Falklands, al numero 11 di Downing Street, c'era la signora di ferro, Margaret Thatcher, a comandare l'offensiva contro gli argentini. A battersi in prima fila sotto la bandiera di Sua Maestà per riconquistare l'arcipelago, però, donne non ce n'erano. Anche trent'anni dopo, oggi che le Forze Armate dei Paesi occidentali hanno aperto i ranghi al sesso femminile, per una donna sembra quasi più facile arrivare a posizioni di potere che andare al fronte. Basta guardare all'Europa: hanno affidato a una donna il ministero della Difesa Italia, Germania, Norvegia, Olanda, Albania, Montenegro. Ma in combattimento, no. Sembra quasi una logica da film bellico di terza categoria: dove fischiano le pallottole non è posto per signore. Persino i libri di storia confermano il pregiudizio: le eroine capaci di affrontare la morte senza paura non mancano, ma per molte di loro l'unica strada percorribile è quella di fingersi uomini.
Luogo comune o pregiudizio puro e semplice che sia, resta ancora consolidato al giorno d'oggi. L'altra metà delle stellette deve farsi largo a fatica, con il doppio dello sforzo. Arriva a comandare brigate, a pilotare navi o cacciabombardieri, a strappare l'ingresso nelle Forze speciali, ma in Occidente resta spesso accolta con un filo di condiscendenza dai commilitoni più tradizionalisti. Per limitare l'accesso delle donne alle posizioni più rischiose, cioè alle occasioni di combattimento, viene spesso citato il timore che i soldati maschi siano distratti dai loro compiti perché istintivamente sono portati a proteggere le colleghe. Apparentemente, all'origine di questa vicenda sembra esserci una citazione di Edward Luttwak, ripresa ampiamente dai circoli conservatori americani e basata, sostiene lo storico militare, sulle esperienze riferite dai militari israeliani durante la Guerra arabo-israeliana del 1948. In realtà questo comportamento incoerente non è mai stato evidenziato da esperimenti scientifici. E questo vale anche per gli altri luoghi comuni, come il presunto crollo psicologico degli uomini se vedono una donna ferita o uccisa.



Ma ci sono Paesi dove questi pregiudizi non vengono considerati, dove cioè le soldatesse rivestono anche ruoli di combattimento. Spesso il via libera alle donne arriva da motivazioni strategiche, cioè in Paesi che hanno estremo bisogno di militari per motivi storici e politici: Eritrea, Corea del Nord, la stessa Israele. Ma va sottolineato che il ruolo femminile è ancora più significativo nelle situazioni di scontro asimmetrico o non convenzionale. In altre parole, se gli eserciti delle nazioni sviluppate seguono regole rigide, evitando alle soldatesse l'impegno nelle situazione rischiose, gli schieramenti guerriglieri e le formazioni terroriste non si fanno troppi problemi. La tendenza era emersa già durante la guerra del Vietnam, per poi diventare comune nelle guerriglie moderne. Persino quando sono coinvolte fazioni che fanno riferimento alla religione islamica, il tradizionale ruolo subalterno della donna viene spesso dimenticato in favore dell'efficacia bellica. Le notizie degli ultimi mesi lo confermano: servono guerrieri per difendere Siria e Iraq, o almeno le province curde. E le donne peshmerga rispondono all'appello. Anche dall'altra parte, cioè fra le file del sedicente Stato islamico, ci sono combattenti con il velo. Insomma, se si tratta di apertura alle soldatesse, anche l'orda di Abubakr al Baghdadi appare più moderna delle Forze armate d'Occidente.

Le donne soldato soffrirebbero di disturbi mentali più del doppio dei loro colleghi maschi, anche se gli ufficiali tenderebbero a tenere nascosti problemi come lo stress post traumatico (definito PTSD) rispetto a coloro che hanno gradi inferiori. E a dirlo è un report del Dasa, il servizio di consulenza e analisi analitica del ministero della Difesa inglese, secondo il quale negli ultimi tre mesi del 2009 si sarebbero registrati 821 nuovi casi di disturbi psicologici accertati all’interno delle Forze Armate britanniche, con una crescita di 476 casi rispetto ai dati dell’ultimo quadrimestre e un’incidenza del 4 per 1000, che non si discosta molto dal 3,7 del periodo luglio-settembre 2009.

Un’analisi separata ha, poi, permesso di stabilire che le donne che lamentano tali tipi di disturbi, che vanno dalla depressione all’abuso di alcool e droga, sono oltre il doppio degli uomini, come conferma la percentuale di 7,6 per 1000 rispetto al 3,6 dei maschietti. Ma non è tutto. Sebbene il Dasa inviti alla cautela per il risultato dell’indagine e le inevitabili implicazioni che ne potrebbero derivare, è anche emerso che la percentuale relativa agli ufficiali che soffrirebbero di problemi di natura psicologica è sensibilmente più bassa rispetto a quella delle truppe (2,1 per 1000 contro 4,3), mentre i dati relativi all’esercito e alla RAF sono decisamente più alti di quelli della Marina (rispettivamente, 4,2 per 1000 e 4,4 per 1000 contro 2,7).

Ma l’eventuale impiego in zone di guerra non sembrerebbe avere troppa incidenza sui dati finali: stando, infatti, alla ricerca, comparando il personale che è stato inviato in Iraq e/o Afghanistan con quello che non si è mai mosso, non ci sarebbero differenze evidenti nel numero complessivo di disturbi mentali, mentre la percentuale di persone affette da PTSD sarebbe maggiore fra coloro che sono stati impiegati al fronte, sebbene tale disturbo resti ancora piuttosto limitato, visto che avrebbe colpito appena 44 persone nei tre mesi analizzati. A detta del Ministero della Difesa, sarebbero stati compiuti notevoli passi in avanti nel trattamento delle malattie mentali nelle truppe, fra cui l’introduzione di un sistema che insegna ai militari come individuare i segnali di stress ed angoscia nei loro commilitoni, così da spingerli a parlare apertamente dei loro problemi con gli esperti ed essere, quindi, aiutati. Sempre secondo i dati, il numero dei suicidi sembrerebbe essere in calo, sebbene i coroner abbiano ancora 19 verdetti di morte in sospeso: in pratica, i decessi archiviati come suicidi o verdetti aperti fra il 2000 e il 2009 sarebbero stati 163, per un totale di 737 dal 1984, di cui 19 donne. «C’è stata una chiara diminuzione nel numero dei suicidi nelle Forze Armate negli ultimi anni – ha spiegato un portavoce del Ministero della Difesa al "Times" – e ciò sta ad indicare che abbiamo fatto significativi progressi nella gestione dei suicidi e dei casi di autolesionismo e nell’individuazione e cura delle persone a rischio». A detta della "Combat Stress", l’associazione che aiuta i veterani di guerra con problemi psicologici, un soldato, uomo o donna che sia, ci mette all'incirca 14 anni per cercare assistenza nel risolvere i disturbi di natura mentale, tanto che ogni anno la charity riceve oltre 1000 richieste di aiuto e, ad ora, sono più di 4300 i militari di entrambi i sessi in cura presso la struttura.



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giovedì 2 giugno 2016

MORIRE BRUCIATI

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È verosimile che questa forma di condanna a morte fosse presente nelle culture più antiche, ma le prime testimonianze di condanne al rogo sono di epoca romana e ci vengono fornite dai Martirologi e dalle Vite dei Santi, in cui vengono descritti i supplizi dei martiri del cristianesimo.

Secondo leggende cristiane, la condanna al rogo di questi da parte del Senato e degli imperatori romani non era molto frequente e si concludeva sempre con la salvezza del Santo a cui, poiché le fiamme non riuscivano a lambirlo, veniva staccata la testa. Nei primi anni dell'impero bizantino il rogo fu utilizzato come punizione per gli zoroastriani, come pena di contrappasso alla loro adorazione del fuoco sacro.

Nei territori conquistati dai Vandali nell'Africa settentrionale, durante il Regno di Unerico la morte sul rogo fu dispensata a molti vescovi cattolici che si erano rifiutati di convertirsi all'arianesimo. Nella Bibbia la punizione del fuoco (Serefa) non era invece riferita al rogo come oggi lo intendiamo: ai condannati veniva fatto ingerire piombo fuso provocando la morte istantanea del reo dovuta alla distruzione delle vene e delle arterie del collo. La Serifa fu una delle quattro pene di morte prescritte dal libro sacro e, come le rimanenti (lapidazione, decapitazione e impiccagione) raramente fu praticata dagli ebrei.

Al di fuori dell'area mediterranea il rogo è stato praticato da alcune civiltà precolombiane per cerimonie sacrificali e in India, dove nel passato, ma in alcune regioni la tradizione persiste ancor oggi, le donne sposate venivano sacrificate sulla pira ove ardevano i corpi dei mariti morti. Il rogo era usato anche da alcune tribù di Indiani d'America, in alternativa alla trafittura con frecce, per uccidere i nemici catturati.

Nel mondo cristiano, il rogo venne utilizzato per punire l'eresia. Tra le personalità di spicco giustiziate tramite questo supplizio possiamo ricordare Jacques de Molay (1314), Jan Hus (1415), Giovanna D'Arco (1431) e Giordano Bruno (1600). Dopo l'affermarsi della riforma luterana e di quella calvinista la condanna a morte per rogo venne applicata da tutte le correnti religiose.

Gli ultimi roghi per stregoneria in Europa avvennero tra il 1782 e il 1793 in Svizzera e in Polonia.

Fin dal Medioevo, in Gran Bretagna, il rogo fu la pena capitale decretata per le donne condannate per tradimento: questo poteva essere high treason quando si trattava di crimini commessi contro i sovrani o petty treason per l'uccisione di coloro che erano superiori per legge a chi commetteva il reato, come nel caso della moglie che uccideva il marito. Nel 1790, Sir Benjamin Hammett, riuscì a far approvare una legge al Parlamento inglese che pose fine sull'isola all'esecuzione capitale sul rogo.

Seppure nella nostra società questa forma di condanna a morte sia cessata da alcuni secoli, nel mondo sono ancora frequenti le condanne a morte e i linciaggi che hanno come mezzo di esecuzione il rogo. Nel 1916 in Texas, Jesse Washington, un diciassettenne afroamericano, poco dopo aver subito una condanna a morte per aver stuprato e ucciso una donna, fu trascinato da una folla su un rogo, e fu torturato e ucciso. Nel corso del XX secolo, in tutto il Sud degli Stati Uniti, furono numerosissimi i casi di persone di colore o cattoliche bruciate su roghi improvvisati o bruciate nelle proprie case dai membri del Ku Klux Klan.



Durante la seconda guerra mondiale il fuoco era poi spesso utilizzato dalle truppe nazifasciste sia per far scomparire i corpi delle vittime delle rappresaglie contro la popolazione civile, fossero queste già morte o agonizzanti, come è avvenuto, ad esempio, a Sant'Anna di Stazzema, sia come vero e proprio mezzo di esecuzione capitale, come verificatosi a Lipa. Nell'Africa animista coinvolgono le persone accusate di stregoneria ma, seppur per fini differenti, sono praticate anche in India.

Chiudere gli occhi e provare a immaginare quel dolore replicato all'infinito. Quel dolore che parte dai piedi, si arrampica veloce su per i vestiti imbevuti di un accelerante qualsiasi, che avvolge le gambe. Iniziando dalle caviglie si insinua fino alle cosce e poi su agli organi genitali. Brucia i peli, uno dopo l'altro ma senza distinguere la sequenza temporale. Sentire quel male infame e la puzza che lo accompagna. Se la fortuna viene in soccorso i neurorecettori del dolore mandano tutto a quel paese e regalano il sollievo dello stato di shock. Se invece la soglia di sopportazione del dolore è drammaticamente alta, si avrà modo di sentire il fuoco che trapassa la carne, la strappa via un lembo dopo l'altro e continua a salire arrivando alla pancia, alla schiena, al petto, al collo. Le mani le ha già prese:le ha prese quasi subito perché quel poco di istinto di sopravvivenza che rimane, dopo essersi piegati sulle ginocchia, spinge a cercare di fermare il dolore delle fiamme premendo le mani sulle parti del corpo che bruciano. L'istinto di sopravvivenza si arrende all'evidenza: le mani sono infuocate. Provare a rotolarsi a terra, meglio se sabbiosa, ma quella terra sarà imbevuta di quello stesso liquido accelerante che si ha addosso e così anche l'ultimo tentativo di sopravvivere al fuoco si spegnerà.

Che riposino in pace quelle donne bruciate per pareggiare una contabilità diabolica.



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lunedì 7 marzo 2016

LE DONNE NEL MONDO



Numerose e diverse culture hanno riconosciuto alla donna capacità e ruoli limitati alla procreazione e alla cura della prole e della famiglia. L'emancipazione femminile ha rappresentato, negli ultimi secoli, la ricerca di un'uguaglianza formale e sostanziale tra la donna e l'uomo.

Nella preistoria di Homo sapiens la situazione è stata sicuramente variata e diversificata a seconda delle culture, epoche e luoghi geografici. Partendo da 200 000 anni fa, la società ha presentato variabili modelli, dal cacciatore di piccole prede e raccoglitore del paleolitico medio organizzato in piccole unità sociali, attraverso le più numerose società dedite alla caccia dei grossi mammiferi come mammut e ungulati, fino alle culture stanziali dedite ad agricoltura ed allevamento dell'età del rame.
Attraverso le varie epoche si sono potuti ipotizzare vari schemi sociali, e secondo alcune teorie anche matriarcato o società con parità di genere come nel caso delle sei nazioni, formate da popoli ascrivibili al neolitico, ma in nord America giunte alla nostra cultura in epoca storica, in popolazioni melanesiane, ed altre ancora.

Nell'immaginario, sicuramente supportato da diverse prove, ma non esauriente tutte le situazioni, mentre l'uomo si dedicava alla caccia le donne si specializzarono nella raccolta di bacche commestibili, radici e frutti. Si ritiene, in alcune situazioni, che fossero impegnate per gran parte della loro vita da gravidanze, allattamento e cura della prole, fossero meno mobili e si dedicassero alla raccolta dei vegetali commestibili e dei piccoli animali.

Alla fine del paleolitico superiore si ritiene che la donna avesse come compito primario quello di procreare, come si dedurrebbe dal fatto che in alcune sculture (di epoca magdaleniana), vengono evidenziati gli organi connessi alla riproduzione: a scapito delle altre parti del corpo, il ventre e i fianchi sono decisamente prominenti, il seno voluminoso. In altri reperti invece, sempre afferenti alle veneri paleolitiche si evidenziano fatture longilinee.
In alcuni periodi in cui parte dell'umanità viveva allo stato nomade, si suppone che esse fossero sottomesse al maschio. Secondo altre teorie, almeno alcune società primitive erano invece matriarcali e, solo in un secondo momento, si sviluppò la supremazia maschile. Non ci sono sufficienti dati archeologici per convalidare o confutare completamente le teorie.

In un primo momento nella civiltà egizia ed in quelle mesopotamiche (Persia, Assiria, Babilonia) la donna aveva una posizione molto elevata all'interno della società. In questi luoghi è stato presente anche il matriarcato ma poi, con l'ascesa delle monarchie militari, persero di prestigio e si iniziarono a formare i ginecei, dai quali le donne non potevano uscire e dove non potevano vedere nessun uomo ad eccezione degli eunuchi e del proprio marito. In Egitto vi furono anche casi di donne di casta elevata, che riuscirono, spesso governando in nome dei figli ancora piccoli, dopo essere rimaste vedove, a divenire persino faraone: esempi furono Hatshepsut, Nefertiti e Cleopatra. Nefertari, la moglie di Ramses II, influenzò grandemente la politica del marito.

Nella civiltà minoica la condizione della donna era molto più avanzata che fra i micenei e la Grecia classica. Nella Grecia omerica la donna veniva rispettata ma esistevano comunque numerose contraddizioni. Nell'età di Pericle la donna ricca era tenuta in casa, mentre le donne povere erano costrette a lavorare e quindi avevano una certa libertà. Le donne non avevano diritti politici (non potevano quindi votare o essere elette membri dell'assemblea, durante l'età delle poleis) e non erano oggetto di legislazione giuridica (una donna non era colpevole, ad esempio del reato di adulterio, a differenza dell'uomo, perché ritenuta "oggetto del reato"). La condizione femminile ad Atene era assimilata a quella dello schiavo e dello straniero, o del maschio ancora minorenne. La donna passava molto tempo a contatto con la madre del marito, nel gineceo, e quest'ultima aveva un ruolo primario sulla sua educazione. Paradossalmente, se nella più raffinata Atene la donna era in condizione di inferiorità, nella militarista Sparta le donne della classe dominante (spartiati), pur non potendo governare o combattere, erano addestrate alle arti militari e godevano di maggiore libertà.



Nella società greca alle donne era vietato assistere a qualsiasi manifestazione pubblica, oltre che praticare qualsiasi attività sportiva (ad Atene), mentre a Sparta potevano dedicarsi a sport di tipo esclusivamente ginnico (danza, corsa, ecc). In occasione dei Giochi olimpici alle donne non era nemmeno permesso di avvicinarsi al perimetro esterno del santuario, pena la morte. Secondo un'antica tradizione si diceva addirittura che, se mai una donna avesse praticato una qualche attività sportiva, grandi sventure sarebbero arrivate in seguito a tutto il genere femminile. Ciò conferma la condizione di inferiorità a cui era soggetta la donna nella società greca, molto diversa, ad esempio, dalla condizione di relativa emancipazione di cui godeva la donna nel mondo romano.

In Grecia esistevano le mogli che si dedicavano esclusivamente all'educazione dei figli legittimi, le concubine che avevano rapporti sessuali stabili con l'uomo e la compagna, per il piacere. Esisteva inoltre la prostituta, che svolgeva il suo lavoro nelle strade o nelle case di tolleranza e alla quale spettava l'ultimo "gradino" nella scala sociale.

Aristotele affermava che la donna era inferiore all'uomo in quanto aveva cervello più piccolo e che la donna era un maschio mutilato.

Platone invece fu uno dei primi a pronunciarsi in favore delle donne, almeno in parte: sosteneva che le donne istruite alla filosofia, nello stato ideale da lui delineato, avessero uguali diritti politici degli uomini, e potessero accedere al governo. Questa tradizione rimarrà diffusa negli ambienti del platonismo. Anche Epicuro rivendicava pari dignità per le donne, all'interno della sua scuola filosofica, che accettava anche schiavi e stranieri. Durante l'età ellenistica la condizione femminile migliorò molto. Durante il dominio romano sul mondo greco (I secolo a.C-IV secolo d.C) molte donne di cultura ricoprivano ruoli importanti nella società, come Ipazia di Alessandria.

A Roma la donna era considerata quasi pari all'uomo: entrambi i genitori avevano pari obblighi nei confronti dei figli e la donna poteva accompagnare il marito ad una festa, a patto che mangiasse seduta e non sdraiata come era norma per gli uomini. In età arcaica era sottomessa al padre e al marito, mentre verso la fine della Repubblica e in età imperiale le donne di condizione elevata potevano svolgere una vita indipendente, ottenere il divorzio e risposarsi, mentre quelle delle classi basse erano rimaste sotto la soggezione maschile, con eccezioni delle prostitute, che pur essendo al gradino più basso (ad eccezione delle donne schiave), avevano una discreta libertà. Una certa indipendenza avevano le donne sacerdotesse dei vari templi.

Non mancarono tuttavia le limitazioni poste dal diritto romano alla capacità giuridica delle donne: esse non avevano lo ius suffragii e lo ius honorum, ciò che impediva loro di accedere alle magistrature pubbliche. Nel campo del diritto privato era inoltre negata alle donne la patria potestas, prerogativa esclusiva del pater, e conseguentemente la capacità di adottare. Il principio è espresso per il diritto classico dal giurista romano Gaio nelle sue Istituzioni: Feminae vero nullo modo adoptare possunt, quia ne quidem naturales liberos in potestate habent ("Le donne non possono affatto adottare, perché non hanno potestà neanche sui figli naturali"). Sempre da Gaio apprendiamo che alle donne, con l'eccezione delle Vestali, non era consentito in epoca arcaica di poter fare testamento. Tale ultima limitazione venne però abrogata già in epoca repubblicana.

Tra i casi di donne importanti, si può ricordare quello di Agrippina minore, moglie e nipote dell'imperatore Claudio e madre di Nerone, che durante l'assenza del marito in guerra, divenne l'unica imperatrice a battere moneta con la propria effigie e a governare de facto l'impero romano.

Nell'impero romano d'Oriente vi furono donne che regnarono e governarono in maniera assoluta, senza dividere il potere con i consorti, un esempio fu l'imperatrice Irene di Bisanzio.

Il messaggio cristiano contenuto nel Nuovo Testamento, che sotto questo punto di vista supera e reinterpreta notevolmente i precedenti testi dell'Antico Testamento, giunge ad equiparare di fatto uomo e donna. Gesù non si faceva scrupolo di predicare alle donne come agli uomini, dei miracoli narrati nei Vangeli ne beneficiavano tanto le donne quanto gli uomini, esse erano protagoniste delle parabole al pari degli uomini, e infine Gesù appare dopo risorto alle donne prima che agli uomini. Nelle lettere di Paolo, che descrivono la vita della primordiale chiesa apostolica, le donne vengono in alcuni passi esplicitamente equiparate agli uomini (Gal3,28;1Cor11,11-12).

Non mancano però testi delle epistole paoline in cui riemerge una visione impregnata dell'Antico Testamento, in cui s'invitano le donne alla sottomissione all'uomo (1Cor11,7;Ef5,22), o ne limitano l'attività nelle varie chiese locali (1Tm2,12;1Cor14,34-35). Il tenore dei passi però non sarebbe così marcato da indurre a parlare di misoginia e l'esame del contesto storico e letterario dei passi 'misogini' ridimensiona maggiormente il tenore del discredito: in 1Tm Paolo si riferisce a un problema concreto che la comunità di Efeso aveva con alcune fedeli (1Tm5,13), mentre in 1Cor la richiesta di silenzio durante i momenti carismatici dedicati alla profezia richiama il fenomeno della libera profezia femminile, spesso in contrasto con l'insegnamento degli Apostoli e della guida dei vescovi, che evolverà in seguito nel montanismo. La chiesa, se in principio aveva nella propria gerarchia anche donne, nel ruolo di diacono, successivamente riserverà agli uomini l'ordinazione sacerdotale, regola tuttora in vigore nella chiesa cattolica, e abolito invece nelle varie chiese protestanti e riformate.



Con l'arrivo dei barbari Franchi e Longobardi in Italia, la condizione della donna peggiora. Essa è infatti un oggetto nelle mani del padre, finché questi non decida di venderla ad un uomo, anche se vi furono regine che tennero il potere di fatto, come in effetti accadeva a volte nelle tribù barbariche.

Il Cristianesimo medioevale impose la sottomissione della donna all'uomo, ma la considerò importante in quanto doveva crescere spiritualmente i figli.

Con l'inquisizione alcune donne vennero ritenute rappresentanti del Diavolo sulla Terra (le streghe), capaci di trarre in inganno l'uomo spingendolo al peccato in qualsiasi modo.

Tuttavia, dopo il 1000, con l'avvento del dolce stil novo, la donna venne angelicata e considerata un tramite tra Dio e l'uomo. Tra le donne di potere vi fu la regina d'Italia e contessa Matilde di Canossa.

Alcuni filosofi illuministi avevano in precedenza preso posizione a favore dell'uguaglianza fra i sessi: fra essi d'Holbach, Condorcet, Voltaire.

Nelle insurrezioni le donne lottano a fianco degli uomini. Sono presenti il 14 luglio 1789 (presa della Bastiglia) e il 10 agosto del 1792 (assalto alle Tuileries). Nell'ottobre 1789 sono le prime a mobilitarsi e a marciare su Versailles, seguite nel pomeriggio dalla guardia nazionale. Quando la guerra porta gli uomini al fronte sono loro a sostituirli nelle fabbriche e nei laboratori con un salario minimo e inferiore a quello dei maschi. Non possono votare né essere elette, sono totalmente escluse dalla vita politica e dalle assemblee. Ma le donne non si arrendono e chiedono di essere arruolate nell'esercito per difendere la propria patria. L'assemblea legislativa, a cui si sono rivolte, gli ride in faccia, segno che, naturalmente,fa capire che non possono. Ma centinaia e centinaia di donne riescono a partire e a marciare verso il fronte. La girondina Olympe de Gouges fu una militante per i diritti femminili, ghigliottinata per aver difeso la regina Maria Antonietta e attaccato i giacobini di Robespierre.

Nel 1793 le repubblicane di Parigi chiedono che a tutte le donne sia fatto obbligo di portare la coccarda simbolo della rivoluzione e diritto alla cittadinanza. La convenzione approva, ma gli uomini hanno paura che poi chiedano anche il berretto frigio e le armi. Inoltre gli uomini trovano insopportabile che gli stessi diritti possono essere estesi anche alle donne e pensano che debbano ritornare alle faccende domestiche e non immischiarsi nella guerra.

Nell'Ottocento si diffusero anche le prime istanze femministe e di suffragio a livello europeo e negli Stati Uniti: si pronuciarono e lottarono per l'eguaglianza William Godwin e sua moglie Mary Wollstonecraft, quest'ultima dando inizio al movimento femminista. Il suffragio femminile fu sostenuto anche da John Stuart Mill, nel periodo della sua elezione come deputato alla Camera dei comuni. Anche il movimento marxista e socialista ebbe un ruolo importante nell'emancipazione femminile.

Le donne ebbero parte importante nel risorgimento italiano, ricordiamo numerose patriote: Cristina Trivulzio di Belgiojoso, Anita Garibaldi, Rosalia Montmasson (una dei Mille), Giuditta Bellerio Sidoli (amica di Giuseppe Mazzini).

La condizione delle donne nell'era vittoriana, nonostante il fatto che il sovrano fosse una donna, è spesso vista come l'emblema della discrepanza notevole fra il potere e le ricchezze nazionali dell'Inghilterra e l'arretrata condizione sociale. Durante il regno della regina Vittoria, la vita delle donne divenne sempre più difficile a causa della diffusione dell'ideale della "donna angelo", condiviso dalla maggior parte della società. I diritti legali delle donne sposate erano simili a quelli dei figli: esse non potevano votare, citare qualcuno in giudizio né possedere alcuna proprietà.

Inoltre, le donne erano viste come esseri puri e puliti. A causa di questa visione, i loro corpi erano visti come templi che non dovevano essere adornati con gioielli né essere utilizzati per sforzi fisici o nella pratica sessuale. Il ruolo delle donne si riduceva a procreare ed occuparsi della casa. Non potevano esercitare una professione, a meno che non fosse quella di insegnante o di domestica, né era loro riconosciuto il diritto di avere propri conti correnti o libretti di risparmio. A dispetto della loro condizione di "angeli del focolare", venerate come sante, la loro condizione giuridica era spaventosamente misera.

L’assenza di molti uomini chiamati a combattere provocò delle conseguenze a livello economico e sociale. Durante la Grande Guerra i posti di operai e contadini furono lasciati vuoti e vennero coperti dalle donne che passarono da "Angeli del Focolare" a membri attivi dell’economia e della società. Questo processo, però, non fu indolore perché le donne furono obbligate a compiere gli stessi lavori degli uomini e esse presero anche il posto dei mariti nelle faccende domestiche maschili. A questo non corrispose una maggiore libertà poiché spesso nelle case rimanevano gli anziani, i quali continuavano ad esercitare un ruolo autoritario all’interno della famiglia.

Il primo traguardo importante è il conseguimento del diritto di voto per il quale si batterono le suffragette. In seguito ai conflitti mondiali le donne, che avevano rimpiazzato i molti uomini mandati al fronte sul lavoro, ottennero maggiori ruoli in società e possibilità lavorative fuori dalla famiglia.Inoltre iniziarono ad aprire esercizi commerciali autonomi.

Le donne si sono battute per sostenere cambiamenti nel campo del diritto, dal voto all'IVG, dal divorzio alle leggi in materia di violenza sessuale. Le conquiste femminili nel mondo occidentale si sono tradotte in maggiori diritti e in un divario meno ampio tra i sessi. Malgrado questo, nemmeno nel mondo occidentale è stata raggiunta un'effettiva parità. La violenza sulle donne è una piaga presente tutt'oggi anche nei paesi occidentali. In base ad un'indagine del Parlamento Europeo, "almeno il 20% delle donne europee ha subito violenza nelle relazioni familiari e questa è una delle principali cause di decesso per le donne.



La condizione femminile in Italia comincia a migliorare verso la metà del XX secolo, quando, secondo alcune fonti, il movimento delle suffragette ottenne il suffragio femminile. Quest'ultimo venne infatti riconosciuto solo nel 1945 con un decreto di Umberto di Savoia, ultimo re d'Italia, anche in riconoscimento della lotta sostenuta da molte donne durante la guerra. Nel dopoguerra, all'Assemblea Costituente vennero elette 21 donne. La spinta femminile per l'emancipazione diminuì con il raggiungimento del diritto al voto, nel 1946 per poi rafforzarsi a partire dagli anni sessanta.

Si rafforza il movimento femminista che rivendicò gli stessi diritti degli uomini nella famiglia, nel lavoro e nella società. La Costituzione italiana del 1948 garantiva pari diritti in ogni campo (le donne hanno pari dignità sociale e uguali diritti rispetto al genere maschile, secondo l'articolo tre della Costituzione). Questo venne tradotto in legge effettiva solo con la riforma del diritto di famiglia del 1975, e l'apertura degli anni '90 al servizio militare femminile, l'ultima categoria rimasta (con l'eccezione del diritto canonico che è però un diritto fra privati interno alla chiesa) ad essere esclusivamente maschile, fino all'introduzione della nuova norma.

Ancora oggi però il World Economic Forum con un'indagine chiamata Global Gender Gap Index, rivela che nel 2010, su 128 Paesi, l'Italia si trova al 74º posto per uguaglianza di genere. L'indagine è oggetto di critiche in quanto è volta a rilevare i soli ambiti nei quali le donne sono sotto la parità. A sostegno di tale tesi si riporta che nello stesso documento è evidenziato che qualora, in un determinato ambito, sia rilevata una disparità a favore della donna e dunque a svantaggio dell'uomo il giudizio attribuito sarà "parità perfetta" e non sarà rilevata pertanto la disuguaglianza inversa donna-uomo. Tale metodologia rende, per molti, tale documento utile a valutare solo quei paesi nei quali le disparità uomo-donna sono molto elevate e presenti in tutti gli ambiti (escludendo dunque l'Italia).

Lo svantaggio femminile nella scuola secondaria di secondo grado, che storicamente caratterizzava il sistema scolastico italiano, è stato colmato agli inizi degli anni Ottanta. Da quel momento in poi le ragazze hanno sorpassato i ragazzi sia per tasso di partecipazione (il 93 per cento, contro il 91,5 degli studenti maschi nell'a.s. 2010/2011), sia soprattutto per percentuale di conseguimento del diploma: tra i diciannovenni nell'a.s. 2009/2010 il 78,4 per cento delle ragazze ha conseguito il diploma contro il 69,5 per cento dei ragazzi.

Anche nel proseguimento degli studi universitari le donne ormai sorpassano gli uomini: nel 2004 su 100 laureati con il vecchio ordinamento 59 erano donne, mentre per i corsi triennali le donne rappresentavano il quasi il 57 per cento. Inoltre i voti finali sono mediamente più alti per le donne. Attualmente le donne hanno maggiore accesso, e agevolazioni nel mondo del lavoro alla fine del percorso di studi (laurea). Inoltre, le giovani donne che decidono di essere single raggiungono posizioni dirigenziali in percentuale pari ai colleghi uomini nelle medesime condizioni.

Dal punto di vista universitario e del mondo del lavoro le giovani italiane sono ormai più istruite degli uomini, anche se scelgono spesso percorsi di studio meno remunerativi nel mercato del lavoro: scelgono infatti percorsi umanistici, artistici e sanitari piuttosto che altri (soprattutto ingegneristici).

Il tasso di disoccupazione femminile in Italia è più elevato di quello maschile. Il tasso di occupazione femminile è nettamente inferiore a quello maschile, risultando occupate nel 2010 solo circa 46 donne su 100, contro una percentuale del 67% degli uomini. Nel Mezzogiorno le differenze sono più accentuate e l'occupazione delle donne arriva a appena a superare il 30%. Il tasso di inattività è, di contro, molto alto, arrivando a sfiorare la metà di tutta la popolazione femminile in età lavorativa. Tra le principali cause di questo fenomeno va citata l'indisponibilità per motivi familiari, motivazione che è quasi inesistente per la popolazione maschile. Ad esempio il 15% delle donne dichiara di aver abbandonato il posto di lavoro a causa della nascita di un figlio. Spesso si tratta di una scelta imposta, infatti in oltre la metà dei casi sono state licenziate o messe in condizione di lasciare il lavoro perché in gravidanza.

Tutta questa inattività non si traduce però in un maggiore tempo libero per le donne. Al contrario, il tempo delle donne italiane è impiegato nel sopportare in maniera preponderante i carichi di lavoro familiari, molto più che in tutto il resto d'Europa. Gli uomini italiani risultano i meno attivi del continente nel lavoro familiare, dedicando a tali attività appena 1 h 35 min della propria giornata. Per lavoro familiare si intende sia le attività domestiche (cucinare, pulire la casa, fare il bucato etc.), sia le attività di cura dei bambini e degli adulti conviventi. Si stima che il 76,2 per cento del lavoro familiare delle coppie sia ancora a carico delle donne. Considerando i tempi di lavoro totale, cioè la somma del tempo dedicato al lavoro retribuito e di quello dedicato al lavoro familiare, le donne lavorano sempre più dei loro partner. Una donna con una occupazione tra 25 e 44 anni senza figli lavora giornalmente 53 min in più del suo partner; se però ci sono i figli la differenza aumenta ad 1 h 02 min più del partner. Persino le madri non occupate lavorano più dei loro partner (8 h 15 m contro 7 h 48 m). Una conseguenza di questa disparità è che le lavoratrici italiane dormono meno che in tutti gli altri paesi europei e hanno poco tempo da dedicare allo svago.

I dati dimostrano che le lavoratrici donne sembrano orientate a lavori meno usuranti e meno pericolosi rispetto agli uomini. Il tasso di mortalità sul lavoro è di circa 11 punti per milione; quello maschile si attesta a circa 86 unità per milione. Inoltre le donne occupate che lavorano la sera sono il 16% contro il 25% dei loro colleghi uomini. Le donne occupare che lavorano la notte sono solo il 7% contro il 14% dei loro colleghi uomini.

Nella pubblica amministrazione italiana le lavoratrici donne sono poco più della metà del totale, grazie alla preponderanza femminile tra gli insegnanti soprattutto nella scuola di base. In tale settore si nota tuttavia una netta prevalenza maschile nelle qualifiche più elevate: ogni 100 dirigenti generali si contano solo 11 donne.

Le retribuzioni degli uomini in Italia sono superiori mediamente a quelle delle donne: nel 2004 ad esempio il monte salari maschile (reddito complessivamente percepito dagli uomini italiani) era superiore di circa il 7% rispetto a quello femminile, mentre nel 2010 questo divario è arrivato al 20%. Questo si verifica perché l'occupazione femminile è concentrata su lavori a più bassa retribuzione e perché a parità di mansioni gli stipendi maschili sono, seppur leggermente (del 2%), superiori. Le donne inoltre hanno minori possibilità di beneficiare delle voci salariali accessorie, quali gli incentivi o lo straordinario.

La speranza di vita alla nascita femminile è di 5,6 anni superiore a quella maschile. Le donne, inoltre, sono meno esposte ad omicidi ed aggressioni rispetto agli uomini: i decessi per tali ragioni ai danni di persone del genere femminile rappresentano circa un quarto del totale.

In materia di diritto di famiglia svariate sentenze della magistratura italiana, tutelano la figura femminile in maniera più marcata, affermando il principio di “non bilateralità” tra i coniugi in materia di procreazione. In particolare il tribunale di Monza afferma che “non può … attribuirsi alle scelte attinenti alla maternità una qualsivoglia valenza ‘bilaterale'”.

Sempre in materia di diritto di famiglia si registra che il 71% delle richieste di divorzio è presentata dal genere femminile. Inoltre, in caso di divorzio, l'assegnazione della casa dove la famiglia viveva (in assenza di figli ed indipendentemente della proprietà della stessa) è attribuita alle donne nel 57% dei casi e solo nel 21% ai loro ex-mariti.

Sul totale delle persone che hanno svolto attività gratuita per un partito politico nel corso del 2005, circa un quarto sono donne. Il numero di parlamentari donne in Italia è coerente con tale tasso di partecipazione alla vita politica.

Nel Parlamento italiano le donne rappresentano meno del 20% del totale (18,69% al Senato e 21,43% alla Camera nella XVI Legislatura) con un risultato peggiore rispetto ad esempio alla composizione del Parlamento europeo, nel quale le donne rappresentano circa il 35%.

Oggi possiamo affermare che nei Paesi occidentali i diritti delle donne sono legalmente riconosciuti e le leggi italiane sono tra le più avanzate d'Europa, soprattutto quelle per la tutela della maternità e sulle pari opportunità. Nonostante le leggi, molti ostacoli si frappongono ancora tra le donne e la carriera: infatti sono pochissime quelle che occupano posti di vertice nelle aziende e nei partiti politici, continuando la loro giornata ad essere la somma di due fatiche, quella domestica e quella extradomestica. Occorre realizzare quelle strutture sociali che consentirebbero di conciliare il lavoro fuori casa con la vita domestica, e particolarmente efficace potrebbe risultare la legge sul lavoro part-time.
Se però allarghiamo lo sguardo al mondo intero, il quadro è per varie ragioni sconfortante; il genere femminile, che costituisce poco più della metà dell'umanità e svolge i due terzi circa del lavoro globale, non possiede che un decimo della ricchezza, è rappresentato minimamente nei parlamenti, subisce forti discriminazioni. La piaga della violenza sessuale esiste in tutti i continenti, nei paesi industrializzati come in quelli in via di sviluppo e non conosce differenze sociali o culturali; secondo l'OMS almeno una donna su cinque nel corso della vita subisce abusi fisici o sessuali.
In paesi come la Cina e l'India, dove nascere donna è spesso considerata una disgrazia, migliaia di neonate vengono lasciate morire per cure inadeguate o per abbandono.
Nei paesi del terzo mondo la violenza sulle donne è una normale componente del tessuto culturale e non viene identificata come tale neppure dalle sue vittime.
Anche la povertà miete vittime in primo luogo tra le donne; in Nepal circa 10 mila ragazze ogni anno vengono vendute dalle famiglie per essere avviate alla prostituzione e nell'Asia sudorientale sono oltre mezzo milione le bambine costrette a tale attività.
Un problema specifico di alcune culture africane è invece quello della mutilazione genitale, ancora ampiamente praticata ed effettuata in condizioni sanitarie abominevoli, senza anestesia e soprattutto su bambine anche in tenerissima età. Gli effetti sulla salute sono devastanti e colpiscono le donne in ogni momento della loro vita sessuale e riproduttiva. Sarebbero 130 milioni le donne che hanno subito questa mutilazione e i flussi migratori stanno facendo arrivare il problema anche nei paesi occidentali.
Un altro fattore di disuguaglianza è quello derivante da motivi religiosi, presente soprattutto nei paesi di religione islamica, dove le donne sono vittime di pesanti discriminazioni. Diffusi in alcuni paesi musulmani, i gruppi integralisti si propongono di trasformare la società secondo le regole del Corano e di imporle come legge dello Stato. In Algeria alle donne è imposto di portare l'hidjab, il velo, e di vivere ai margini della società; in Iran, in Afghanistan è imposto il burka e alle donne è preclusa l'istruzione.


Un'altra piaga che colpisce le donne in ogni parte del mondo è lo stupro: sconvolge sapere quanto sia diffuso in paesi ricchi e civili quali gli Usa e il Canada, ma ancor più sconvolgente è scoprire come per esempio in Pakistan, per avere giustizia, la donna debba presentare quattro testimoni maschi e non possa testimoniare lei stessa. Inoltre, se la vittima non riesce a dimostrare il reato viene incriminata per attività sessuali illecite, incarcerata, frustata pubblicamente; in Nigeria, per un fatto analogo, è stata condannata alla lapidazione Safja, per la quale si stanno mobilitando anche le donne italiane. La violenza sessuale è anche un'arma di guerra, solo da poco riconosciuta come tale dalle leggi internazionali. I conflitti con un forte connotato etnico, come quelli nei Balcani o in Africa centrale, vedono l'uso dello stupro come strumento bellico da parte di entrambi i contendenti.



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mercoledì 17 febbraio 2016

LA FESTA DEL GATTO

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La Festa Nazionale del Gatto ricorre il 17 febbraio ed è nata nel 1990. La giornalista gattofila Claudia Angeletti propose un referendum tra i lettori della rivista "Tuttogatto" per stabilire il giorno da dedicare a questi animali. La proposta vincitrice fu quella della signora Oriella Del Col che così motivò la sua idea nel proporre questa data che racchiude molteplici significati:

febbraio è il mese del segno zodiacale dell'Acquario, ossia degli spiriti liberi ed anticonformisti come quelli dei gatti che non amano sentirsi oppressi da troppe regole.
tra i detti popolari febbraio veniva definito “il mese dei gatti e delle streghe” collegando in tal modo gatti e magia
il numero 17, nella nostra tradizione è sempre stato ritenuto un numero portatore di sventura, stessa fama che, in tempi passati, è stata riservata al gatto
la sinistra fama del 17 è determinata dall'anagramma del numero romano che da XVII si trasforma in “VIXI” ovvero “sono vissuto”, di conseguenza “sono morto”. Non così per il gatto che, per leggenda, può affermare di essere vissuto vantando la possibilità di altre vite.
il 17 diventa quindi “1 vita per 7 volte”!
In varie città d'Italia si festeggia questa giornata con iniziative artistiche o di solidarietà a favore di questi animali.



Per i nostri felini spendiamo (e parecchio, considerato che per il cibo dei gatti, fra secco, umido e snacks, se ne vanno circa 992,2 milioni di euro l’anno, secondo i dati diffusi dalla società di ricerche di mercato Iri) ma se in cambio riceviamo, come riferisce la ricerca Gfk-Eurisko per il Rapporto Assalco-Zoomark 2015, “serenità e gioia” (43% delle risposte) e “allegria e divertimento” (36%), ne vale davvero la pena.

Film e libri ad argomento felino sono un ottimo modo per festeggiare: dalle storie di gatti in edicola con Oggi all’albo a fumetti Kill the Granny 2.0. Finché morte non li separi, di Francesca Mengozzi e Giovanni Marcora, la storia di un gatto castrato che, per riavere indietro i suoi attributi maschili, ha firmato un patto con Satana, al quale ha ceduto una delle sue vite. Ancora una volta, l’aura magica e un po’ diabolica del gatto è al suo posto.

Secondo le stime dell'osservatorio europeo Euromonitor, del giugno 2014, i gatti in Italia sono circa 7,5 milioni, ovvero il 12% dei pet, gli animali da compagnia (che sono in tutto circa 60 milioni). Lo studio “Animali in città”, condotto da Legambiente nel 2015, ha permesso di rilevare che le città più 'gattare' d’Italia sono: Roma (4.415 colonie 'feline' censite e 55.725 gatti), Torino (1.424 colonie e 26mila gatti), Napoli (1.242 colonie e 12.008 gatti). Milano è quarta con 700 colonie e 7mila mici.

Esistono uffici specifici dentro le amministrazioni locali che si occupano, in collaborazione con le aziende sanitarie, di tutti gli animali da compagnia: provvedono a fornire informazioni e a monitorare le presenze sul territorio. Si chiamano Uda, Ufficio diritti degli animali. In alcune città, come Roma, è lo stesso sportello a fornire anche la “Cat Card”, un 'patentino' che autorizza le gattare, cioè le volontarie (sono soprattutto donne) che hanno un feeling così speciale con i felini da impegnarsi a curare e rifocillare regolarmente intere colonie. La card attesta che la loro attività si svolge in base alle normative in vigore sulla tutela dei diritti degli animali. Insomma, non ci si improvvisa.

Il giro d'affari mosso da questi 'nostri amici' è molto sostanzioso. In Italia il solo mercato dei prodotti per l’alimentazione degli animali da compagnia ha chiuso il 2014 con un giro d’affari di 1.830 milioni di euro. Solo per il cibo dei gatti, fra secco, umido e snacks, parliamo di 992,2 milioni di euro, secondo i dati diffusi dalla società di ricerche di mercato Iri. Per converso, tutti i pet incidono in senso positivo nella vita dell'uomo. In particolare cani e gatti portano serenità e gioia (43% delle risposte) e allegria e divertimento (36%), riferisce la ricerca Gfk-Eurisko per il Rapporto Assalco-Zoomark 
2015.





                           http://pulitiss.blogspot.it/2015/02/il-gatto-e-il-bimbo.html






                          http://popovina.blogspot.it/2015/09/il-gatto-nero.html
                          


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sabato 13 febbraio 2016

PROBLEMI ...DI DONNE

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Le donne crescono con il sogno di incontrare il principe azzurro....crescono giocando con le bambole vivendo una favola......ma non per tutte è così.
Ci sono bambine che vengono maltrattate dalle madri perchè a loro volta sono state picchiate da piccole e con delle regole troppo rigide che non tengono conto dell'avanzare del tempo.
Così si ritrovano maggiorenni e si prende il primo che ti fa un complimento, una carezza che non si ha mai avuto dalla  propria famiglia e ci si sposa pensando di raggiungere finalmente la felicità.
Purtroppo dietro all'agnello c'è sempre il lupo. Passa il tempo e ti accorgi che non è l'uomo perfetto anche se per te è un perfetto padre e marito c'è l'ombra della tossicodipendenza e dell'alcolismo. Pensi che lo cambierai...ma non è così.Spesso ti trascina nel baratro. cadi in depressione e ti levano quello che ai più caro al mondo: i tuoi figli.



Si parla tanto delle violenze fisiche ma di quelle psicologiche ben poco e sono quelle che fanno più male. Lavori e fai fatica ad andare avanti perchè il ruolo di mamma-lavoratrice è duro ma oltre a questo devi nascondere lo stipendio se vuoi mangiare tu e i tuoi figli perchè lui ti mangia tutto.Ti porta via tutto...soldi, felicità e  la tua vita....

Poi succede che si ammala ... un male invalidante ma non cede ....vuole annientarti e così si inventa che vede uomini entrare e uscire dalle finestre e che si nascondono sotto il letto o in qualche parte della casa. E tu sei sola perchè ti hanno abbandonata tutti e prendi ansiolitici per stare tranquilla....

In questo caso pensi solo a una cosa.....il sonno eterno...



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