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giovedì 22 settembre 2016

LE SOLDATESSE

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Francesca Scanagatta è un personaggio singolare dell'Ottocento italiano. La vita di Francesca, fino a quel momento del tutto normale, cambiò radicalmente quando si ammalò uno dei fratelli che avrebbe dovuto frequentare l'Accademia Militare Teresiana di Wiener Neustadt. Francesca, che amava i poemi eroici e leggendari e si entusiasmava alle vicende delle amazzoni, si travestì allora da uomo e seguì al suo posto del fratello i corsi dell'Accademia, dal 16 febbraio 1794 al 16 gennaio 1797, combattendo poi nelle guerre napoleoniche in Germania e in Italia. Fu decorata e promossa.
Nel 1800 fu scoperta e congedata, ma ottenne una pensione. Poi si sposò e dal matrimonio nacquero quattro figli. Diventata nonna e bisnonna si sarà certamente augurata prima di chiudere gli occhi nel 1864 all’età di ottantotto anni, che le sue discendenti potessero un giorno vestire una divisa senza più menzogne e sotterfugi.

Le donne italiane con le stellette hanno dimostrato di essere più predisposte a svolgere attività particolarmente delicate quali, ad esempio, il sostegno alle vittime di violenza sessuale, il lavoro nelle prigioni femminili, l'addestramento delle donne cadetto nelle accademie di polizia. Oltre a questo valore aggiunto, le donne militari impegnate nelle missioni di pace costituiscono anche un modello per le donne che vivono in lontane comunità.
L'esempio delle donne peacekeeper è fonte di ispirazione ed incoraggiamento per donne e ragazze appartenenti a società spesso controllate da uomini, dimostrando loro che è possibile, per il genere femminile diventare protagoniste delle loro esistenze.
Mentre in Europa il velo è fonte di polemica e di battaglie legali, in altri paesi può essere un mezzo per favorire la comunicazione e il dialogo tra appartenenti a culture diverse. Una donna soldato italiana ha infatti capito che per una "straniera" in cerca di un contatto verso la comunità, indossare il velo poteva essere il mezzo per abbattere la barriera delle differenze e muovere un primo passo verso l'integrazione nella comunità.
E' quanto si è verificato ad Herat, in Afghanistan, nella zona di controllo dell'esercito italiano, dove la tenente degli Alpini Silvia Guberti ha scelto di mettere il velo per facilitare il suo lavoro a contatto con le donne del luogo. Guberti è a capo di un team che porta avanti azioni rivolte alle donne afgane, insieme alla caporalmaggiore Laura Fortunato e ad un'interprete afgana.

Il primo esempio di "donne soldato" risale al 1992: lo realizzò l'Esercito nella caserma dei 'Lancieri di Montebello', dove fu consentito a 29 ragazze di svolgere per 36 ore le normali attività di addestramento. Con il superamento di un percorso di guerra, con tanto di filo spinato e lotta nel fango, le 29 rappresentanti del gentil sesso fecero da spartiacque per tutte coloro che in futuro avrebbero portato un tocco di rosa nelle caserme. Ma bisogna aspettare sette anni (arrivando ultimi a livello europeo) perché il disegno di legge presentato dall'onorevole Valdo Spini ed altri venisse approvato, a larghissima maggioranza, il 29 settembre 1999. La parità non è stata inizialmente completa: c'era una regola che differenziava nettamente il servizio volontario femminile da quello maschile: le donne non potevano andare in prima linea.

Il Parlamento dava così il via libera all'ingresso delle donne nelle Forze armate a partire dall'anno 2000. La legge n. 380 del 20 ottobre 1999 ha delegato il Governo a predisporre uno o più decreti per disciplinare l'istituzione del servizio militare volontario femminile. I decreti sono stati tre, uno dei quali riguardanti l'altezza: non meno di 1 metro e 61 (1 e 65 per i carabinieri e i piloti).
Ecco i tratti fondamentali della legge sopra citata:
-assicurare la realizzazione del principio delle pari opportunità uomo-donna, nel reclutamento del personale militare, nell'accesso ai diversi gradi, qualifiche, specializzazioni ed incarichi del personale delle Forze armate e del Corpo della Guardia di finanza;
-applicare al personale militare femminile e maschile la normativa vigente per il personale dipendente delle pubbliche amministrazioni in materia di maternità e paternità e di pari opportunità uomo-donna, tenendo conto dello status del personale militare.

Oggi le donne soldato in Italia sono circa 11000; esse rappresentano ancora una minima parte rispetto ai loro colleghi, al contrario di altri paesi Europei dove i numeri crescono ampiamente. Inoltre anche se sulla carta questo non accade, come dimostrano alcune testimonianze, l’ avanzamento di carriera per le donne trova notevoli ostacoli. Infatti la lotta delle donne per far valere i propri diritti all’interno dell’ esercito non può dirsi ancora conclusa. Visivamente le donne in divisa hanno ancora un impatto molto forte; per molti l'espressione "donna soldato" costituisce ancora una contraddizione, ma certo non per le reclute che ogni anno scelgono di intraprendere questa carriera. Per le soldatesse, questa è ancora una fase di affermazione della personalità, in cui agiscono con molta più determinazione perché sentono di dover dimostrare di valere almeno quanto gli uomini. È una battaglia personale. Nelle donne nasce infatti il desiderio di non sentirsi differenti: «Qui non siamo né uomini, né donne: siamo soldati» rivela una volontaria, come se l'essere un soldato diventasse un valore che supera la distinzione sessuale.
Amara è la lettera inviata ad un settimanale da un’altra volontaria dell’esercito: “… quando decidi di arruolarti, a vent’anni, credi fermamente in ciò che fai, vivi per quel tricolore che porti sulla spalla, rinunci alla tua famiglia, agli amici … lo fai volentieri perché hai voglia di dare, come soldato e come persona ... e’ subito difficile gestire i rapporti con un mondo da sempre maschile … Passano gli anni e ti senti di dover dimostrare a questi uomini di essere più di loro, perché per essere giudicata al pari di un uomo, devi fare una stessa cosa ma dieci volte meglio…”. Afferma con delusione ma con orgoglio che anche la partecipazione alle missioni all’estero non è semplice “… se per un uomo partire è scontato, ogni donna viene scelta … nel primo elenco manca il tuo nome. Combatti per ottenere un posto … anche se l’ultimo arrivato ha già il suo posto. Dopo tutto sono solo una donna, no?”.

Le donne soldato, purtroppo, sono ancora spesso vittime di infondati pregiudizi da parte degli uomini, alcuni sostengono che la donna sia fisicamente inferiore all'uomo, che non sia portata per fare il soldato, che non abbia quella cattiveria che serve al soldato, che l'uomo non può prendere ordini da una donna soldato, che l'esercito è stato fin dai tempi antichi esclusiva maschile.
La recente regolarizzazione delle donne soldato dell’ultimo scorcio del XX secolo arriva in realtà come riconoscimento istituzionale di una figura, quella della donna guerriera, che è sempre esistita e che si è tramandata nei secoli passando sotto silenzio, emergendo di tanto in tanto nella figura di qualche eroina ancora oggi commemorata. Le sue tracce ricorrono anche a partire dalla leggenda delle Amazzoni, le famose guerriere di cui per primi ci diedero testimonianza gli antichi Greci. Inoltre le donne, che adorano il proprio mestiere e la divisa che indossano, dimostrano ogni giorno di essere professionali, competenti, preparate e soprattutto determinate e coraggiose, quanto gli uomini. Per capire quanto queste discriminazioni siano terribili basterebbe guardare tutto ciò dagli occhi di queste donne che, stringendo i denti, non curanti dei preconcetti di molti colleghi, sono pronte a combattere per difendere la patria e a lottare con forza per i propri diritti.

Secondo la legge una donna ha il pieno diritto di avere figli e di dedicarsi alla carriera militare. Nella realtà però, la questione non è cosi semplice a causa dei molti ostacoli che mamme soldato sono costrette a sopportare.

Per una donna è più facile ordinare una guerra che combatterla in prima persona. Nel 1982, durante la guerra delle Falklands, al numero 11 di Downing Street, c'era la signora di ferro, Margaret Thatcher, a comandare l'offensiva contro gli argentini. A battersi in prima fila sotto la bandiera di Sua Maestà per riconquistare l'arcipelago, però, donne non ce n'erano. Anche trent'anni dopo, oggi che le Forze Armate dei Paesi occidentali hanno aperto i ranghi al sesso femminile, per una donna sembra quasi più facile arrivare a posizioni di potere che andare al fronte. Basta guardare all'Europa: hanno affidato a una donna il ministero della Difesa Italia, Germania, Norvegia, Olanda, Albania, Montenegro. Ma in combattimento, no. Sembra quasi una logica da film bellico di terza categoria: dove fischiano le pallottole non è posto per signore. Persino i libri di storia confermano il pregiudizio: le eroine capaci di affrontare la morte senza paura non mancano, ma per molte di loro l'unica strada percorribile è quella di fingersi uomini.
Luogo comune o pregiudizio puro e semplice che sia, resta ancora consolidato al giorno d'oggi. L'altra metà delle stellette deve farsi largo a fatica, con il doppio dello sforzo. Arriva a comandare brigate, a pilotare navi o cacciabombardieri, a strappare l'ingresso nelle Forze speciali, ma in Occidente resta spesso accolta con un filo di condiscendenza dai commilitoni più tradizionalisti. Per limitare l'accesso delle donne alle posizioni più rischiose, cioè alle occasioni di combattimento, viene spesso citato il timore che i soldati maschi siano distratti dai loro compiti perché istintivamente sono portati a proteggere le colleghe. Apparentemente, all'origine di questa vicenda sembra esserci una citazione di Edward Luttwak, ripresa ampiamente dai circoli conservatori americani e basata, sostiene lo storico militare, sulle esperienze riferite dai militari israeliani durante la Guerra arabo-israeliana del 1948. In realtà questo comportamento incoerente non è mai stato evidenziato da esperimenti scientifici. E questo vale anche per gli altri luoghi comuni, come il presunto crollo psicologico degli uomini se vedono una donna ferita o uccisa.



Ma ci sono Paesi dove questi pregiudizi non vengono considerati, dove cioè le soldatesse rivestono anche ruoli di combattimento. Spesso il via libera alle donne arriva da motivazioni strategiche, cioè in Paesi che hanno estremo bisogno di militari per motivi storici e politici: Eritrea, Corea del Nord, la stessa Israele. Ma va sottolineato che il ruolo femminile è ancora più significativo nelle situazioni di scontro asimmetrico o non convenzionale. In altre parole, se gli eserciti delle nazioni sviluppate seguono regole rigide, evitando alle soldatesse l'impegno nelle situazione rischiose, gli schieramenti guerriglieri e le formazioni terroriste non si fanno troppi problemi. La tendenza era emersa già durante la guerra del Vietnam, per poi diventare comune nelle guerriglie moderne. Persino quando sono coinvolte fazioni che fanno riferimento alla religione islamica, il tradizionale ruolo subalterno della donna viene spesso dimenticato in favore dell'efficacia bellica. Le notizie degli ultimi mesi lo confermano: servono guerrieri per difendere Siria e Iraq, o almeno le province curde. E le donne peshmerga rispondono all'appello. Anche dall'altra parte, cioè fra le file del sedicente Stato islamico, ci sono combattenti con il velo. Insomma, se si tratta di apertura alle soldatesse, anche l'orda di Abubakr al Baghdadi appare più moderna delle Forze armate d'Occidente.

Le donne soldato soffrirebbero di disturbi mentali più del doppio dei loro colleghi maschi, anche se gli ufficiali tenderebbero a tenere nascosti problemi come lo stress post traumatico (definito PTSD) rispetto a coloro che hanno gradi inferiori. E a dirlo è un report del Dasa, il servizio di consulenza e analisi analitica del ministero della Difesa inglese, secondo il quale negli ultimi tre mesi del 2009 si sarebbero registrati 821 nuovi casi di disturbi psicologici accertati all’interno delle Forze Armate britanniche, con una crescita di 476 casi rispetto ai dati dell’ultimo quadrimestre e un’incidenza del 4 per 1000, che non si discosta molto dal 3,7 del periodo luglio-settembre 2009.

Un’analisi separata ha, poi, permesso di stabilire che le donne che lamentano tali tipi di disturbi, che vanno dalla depressione all’abuso di alcool e droga, sono oltre il doppio degli uomini, come conferma la percentuale di 7,6 per 1000 rispetto al 3,6 dei maschietti. Ma non è tutto. Sebbene il Dasa inviti alla cautela per il risultato dell’indagine e le inevitabili implicazioni che ne potrebbero derivare, è anche emerso che la percentuale relativa agli ufficiali che soffrirebbero di problemi di natura psicologica è sensibilmente più bassa rispetto a quella delle truppe (2,1 per 1000 contro 4,3), mentre i dati relativi all’esercito e alla RAF sono decisamente più alti di quelli della Marina (rispettivamente, 4,2 per 1000 e 4,4 per 1000 contro 2,7).

Ma l’eventuale impiego in zone di guerra non sembrerebbe avere troppa incidenza sui dati finali: stando, infatti, alla ricerca, comparando il personale che è stato inviato in Iraq e/o Afghanistan con quello che non si è mai mosso, non ci sarebbero differenze evidenti nel numero complessivo di disturbi mentali, mentre la percentuale di persone affette da PTSD sarebbe maggiore fra coloro che sono stati impiegati al fronte, sebbene tale disturbo resti ancora piuttosto limitato, visto che avrebbe colpito appena 44 persone nei tre mesi analizzati. A detta del Ministero della Difesa, sarebbero stati compiuti notevoli passi in avanti nel trattamento delle malattie mentali nelle truppe, fra cui l’introduzione di un sistema che insegna ai militari come individuare i segnali di stress ed angoscia nei loro commilitoni, così da spingerli a parlare apertamente dei loro problemi con gli esperti ed essere, quindi, aiutati. Sempre secondo i dati, il numero dei suicidi sembrerebbe essere in calo, sebbene i coroner abbiano ancora 19 verdetti di morte in sospeso: in pratica, i decessi archiviati come suicidi o verdetti aperti fra il 2000 e il 2009 sarebbero stati 163, per un totale di 737 dal 1984, di cui 19 donne. «C’è stata una chiara diminuzione nel numero dei suicidi nelle Forze Armate negli ultimi anni – ha spiegato un portavoce del Ministero della Difesa al "Times" – e ciò sta ad indicare che abbiamo fatto significativi progressi nella gestione dei suicidi e dei casi di autolesionismo e nell’individuazione e cura delle persone a rischio». A detta della "Combat Stress", l’associazione che aiuta i veterani di guerra con problemi psicologici, un soldato, uomo o donna che sia, ci mette all'incirca 14 anni per cercare assistenza nel risolvere i disturbi di natura mentale, tanto che ogni anno la charity riceve oltre 1000 richieste di aiuto e, ad ora, sono più di 4300 i militari di entrambi i sessi in cura presso la struttura.



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sabato 19 marzo 2016

GLI ZINGARI

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La parola italiana zingaro deriva dal greco medievale tsínganoi, tribù dell'Anatolia. Non è escluso che l'etimo originario sia indo-ario, atzigan. Un'opinione diffusa all'inizio del XX secolo ne faceva risalire l'origine allo stanziamento in Mesopotamia di popolazioni sire, etiopi e nubiane, in seguito alle vittorie dell'imperatore Costantino V, che si sarebbero chiamate Athingan, in seguito disperse dalle invasioni turche.

Zingaro e zingano sono da alcuni autori fatti risalire a Athínganoi, "intoccabili", nome di gruppi eretici stanziati nelle regioni anatoliche di Frigia e Licaonia; essa avrebbe avuto connotazione, secondo molti, negativa (dato che trattasi dello stesso nome dell'infima "casta-non casta" indiana, i paria, da cui proverrebbero, per esempio, i necrofori).

Altri ritengono invece che la connotazione del significato fosse positiva, portando a sostegno di ciò un documento del 1387 di Nauplia, in Grecia, dove i veneziani confermarono i privilegi agli zingari concessi a loro dai bizantini. Privilegi che ritroviamo per questi popoli in diversi documenti per un centinaio di anni in diversi luoghi dell'Europa.
Intorno al XVI secolo il termine avrebbe assunto la connotazione - negativa - che troviamo ancora oggi.

Spesso, per indicare le etnie romaní, vengono usati anche altri nomi meno precisi: ad esempio, in italiano zingari e gitani.

La parola gitano alimentava la leggenda di una loro provenienza dall'Antico Egitto e il mito degli zingari discendenti dal figlio di Abramo e della sua schiava Agar, sulla scorta del fatto che Ismaele, nella Bibbia, viene considerato "colui che camminava con Dio" (Gen. 21,20).

Piero Colacicchi sostiene che nomade, riferito ai Rom, è un termine ottocentesco, usato non tanto per indicare lo stile di vita di questi quanto piuttosto con intento discriminatorio verso coloro che ritenevano "uomini inferiori" poiché pigri, vagabondi, caratterialmente instabili, in contrapposizione a quello dell'uomo eletto, amante della patria, posato e seguace della morale.

Rom sta ad indicare una precisa etnia di popolazione romaní, ed è il termine con il quale il non-zingaro, oggi, intende indicare, erroneamente, tutti i gruppi di popolazioni romaní; questi, Kalé, Sinti e Rom ritengono, da parte loro, che il termine "zingaro" sia offensivo.

La popolazione romaní è suddivisa nei seguenti gruppi etnici:

Rom (principalmente presenti in Europa centro e sud-orientale ed in Italia meridionale)
Sinti (presenti in Germania, Austria, Francia, Paesi Bassi, Danimarca ed Italia settentrionale), i Manouches in Francia
Kalé (presenti principalmente in Spagna ed in Portogallo)
Romanichals (principalmente presenti nel Regno Unito)
Romanisæl (principalmente presenti in Svezia ed in Norvegia)
Ciascuno di questi gruppi contiene al proprio interno ulteriori suddivisioni.

Pare ormai approvata la teoria che vede il popolo zingaro provenire dal sub-continente indiano per via delle similitudini linguistiche, le caratteristiche somatiche e grazie anche a documenti antichissimi che ne testimoniano la presenza. Ad esempio, la parola "rom" deriva dal termine in sanscrito (un'antica lingua indiana) "domba" che significa "uomo libero"; oppure il termine "sinto" deriva da "Sindh", il nome del fiume Indro, il più lungo del Pakistan.

Bisogna però specificare che, essendo un popolo storicamente portato all'emigrazione, non possiamo parlare di una vera e propria patria d'origine, ma più che altro di luoghi in cui hanno soggiornato per un periodo storico più o meno lungo. Dalla regione indo-pakistana, nell'XI secolo gli zingari si sono spostati seguendo l'Indro, il Tigri, l'Eufrate, il Danubio, l'Elba, il Reno e il Rodano. Le cause di questi spostamenti di massa rimangono sconosciute, anche perché, altro fattore di non poco conto, le testimonianze su questo popolo si trasmettono per via orale ed è dunque molto facile che la realtà dei fatti diventi leggenda, o peggio, pura finzione. Tuttavia, gli studiosi sono concordi nell'attribuire la causa di questa emigrazione alle devastanti invasioni del re afghano Mahmud di Ghazna. Giunti prima in Iran e poi in Persia, gli zingari raggiunsero l'Armenia e il Caucaso meridionale, zone di influenza bizantina. Da lì a poco arrivarono in Turchia per giungere nei Balcani, dove si stabilirono definitivamente. È probabilmente da attribuirsi a questa lunga permanenza la credenza popolare che vede gli zingari provenire dai Paesi balcanici. Nei Balcani, gli zingari cominciarono a praticare mestieri che ancora oggi fanno: fabbri, maniscalchi, ferrai, esperti nella lavorazione del metallo, costruttori di armi, ma divennero anche ricercatori d'oro in Transilvania, o importanti musicisti in Ungheria, dove entrarono letteralmente a far parte del folklore locale, soprattutto per i brani eseguiti con il violino.

Tra il XIV e il XV secolo, gli zingari giunsero in Europa occidentale e, in seguito alla battaglia del Kosovo del 1392, dove l'impero ottomano sconfisse l'esercito serbo-cristiano sancendo l'influenza islamica nel territorio, i gitani raggiunsero anche l'Italia seguendo i profughi croati, kosovari, albanesi e greci. Viaggiavano in gruppo, spesso spacciandosi per gente facoltosa proveniente dall'Egitto. Una falsità che però è entrata talmente tanto nell'immaginario collettivo che ancora oggi gli zingari vengono chiamati in Spagna "gitanos" (dal latino "aegyptanus", derivazione di "Aegyptus", cioè "Egitto"), o nel Regno Unito "gypsies".

La convivenza con gli europei fu drammatica. A causa del loro abbigliamento bizzarro, della lingua incomprensibile, del loro vivere di elemosina e per le pratiche di chiaroveggenza, spesso scambiata per stregoneria, le autorità locali emanarono una serie di decreti che penalizzavano e discriminavano la popolazione. In Germania, per esempio, la pena di morte, normalmente riservata agli uomini, venne estesa anche alle donne zingare, oppure, nel 1500, ci fu un provvedimento imperiale che garantiva l'impunità a chiunque avesse ucciso uno di loro. Non andò meglio in Moldavia o in Valacchia, dove divennero servi della gleba. In Spagna, nel 1492 furono condannati all'esilio assieme ai mori e agli ebrei. In Ungheria furono accusati di cannibalismo. In Italia, il primo decreto di espulsione fu emanato a Milano nel 1512 perché accusati di portare la peste.  Insomma, il ripudio e l'odio nei confronti di questa popolazione hanno origini antiche.

Le persecuzioni ebbero fine intorno al XVIII secolo, quando i sovrani illuminati piuttosto che condannarli a morte o all'esilio, cercarono di integrarli con la popolazione del luogo. Questo però significava spogliarli delle loro tradizioni e delle loro usanze. Ad esempio, in Ungheria e Transilvania, dove ormai vivevano da secoli in base alla loro cultura, furono obbligati ad abbandonare la loro lingua per esprimersi esclusivamente nella lingua nazionale. Inoltre, dovevano rinunciare alla loro vita nomade per stabilirsi in appartamenti, esercitare mestieri comuni, non mendicare, andare in chiesa e vestirsi come la popolazione locale. In cambio, il governo distribuiva case, mezzi agricoli e bestiame. L'iniziativa ovviamente fallì.

Abbandonata questa finta filantropia, i diversi Paesi divennero via via più liberali nei loro confronti, tant'è che in Romania, tra il 1855 e il 1856, vennero liberati dalla schiavitù. Da lì in poi, cominciò un'altra ondata migratoria che coinvolse non solo l'Europa, ma anche l'America, Brasile e Argentina in primis.

Tuttavia, dato lo storico odio nei loro confronti, era inevitabile che finissero nel mirino dei nazisti. Circa 500mila morirono in quello che gli zingari chiamano "barò porrajmos", che in lingua romanì significa "il grande genocidio". Considerati non solo come una razza inferiore, ma anche come degli "asociali", i gitani erano talmente discriminati tra i discriminati che ad Auschwitz vivevano in baracche a loro riservate.

Il regime nazista attuò il genocidio della popolazione romaní, uccidendo 250.000 zingari nei campi di sterminio. Altri 250.000 morirono appena catturati oppure durante il trasferimento verso i lager. I Rom ricordano questa tragedia con il termine romaní Porajmos ("devastazione"), analogo a quello con cui si ricorda il più noto sterminio nazista del popolo ebraico, la Shoah ("sterminio") . Dal 2015, il 2 agosto è nell'Unione europea la giornata internazionale per il ricordo del genocidio delle popolazioni romanì.

Oggi gli zingari in Europa si aggirano intorno ai 10-12 milioni. In Paesi come Romania, Slovacchia, Turchia, Bulgaria e Serbia raggiungono il 5 per cento della popolazione. Tuttavia, è Bucarest ad ospitare il maggior numero di gitani in Europa. I dati sugli zingari in Italia sono piuttosto confusi, tra chi parla persino di 200mila e chi di appena 80mila. Circa l'80 per cento di loro ha la cittadinanza italiana e appena il 20 per cento sarebbe straniero e proveniente per lo più dai Balcani. I due più grandi ceppi si dividono in rom e sinti. I primi si sono insediati soprattutto nell'Italia centro-meridionale, mentre i secondi nel Nord. I sinti storicamente esercitano il mestiere di giostrai (per esempio, Moira Orfei e la sua famiglia sono di origine sinti), ma dato che si tratta di un lavoro "in via di estinzione" si stanno reinventando rottamatori o venditori. Entrambi, sia sinti che rom, sono per lo più cattolici. Difatti, le popolazioni zingare tendono ad adottare la religione del luogo in cui vivono. Questo fa sì che in Italia, ben il 75 per cento di loro è cattolico, il 20 per cento musulmano e il 5 per cento raggruppa ortodossi, pentecostali e testimoni di Geova.

Si tratta di un popolo piuttosto giovane: circa la metà di loro non supera i 18 anni e appena il 3 per cento arriva a oltre i 60. Il tasso di natalità è alto (5-6 bambini a famiglia), così come lo è quello di mortalità. Il matrimonio, in genere, avviene in giovane età ed è regolato da usanze e tradizioni che variano in base all'etnia di appartenenza. Difatti, per i sinti avviene tramite la fuga, cioè i due ragazzi vivono per qualche giorno da alcuni parenti; mentre per i rom la famiglia dello sposo "compra" la sposa, cioè corrisponde una cifra in denaro alla famiglia della giovane come una sorta di risarcimento. Ad ogni modo i matrimoni non sono regolati da rigide norme sociali, tant'è che possono sposarsi anche persone appartenenti ad etnie diverse.

La lingua delle popolazioni gitane, al giorno d'oggi parlata unicamente dai Rom e dai Sinti, è il romaní, un idioma indoeuropeo facente parte del gruppo delle lingue indoarie.

Sebbene non esista uno schema generale della struttura sociale valido per tutte le etnie, si può affermare che fra gli zingari non esistano le classi sociali come si intendono comunemente. Le uniche distinzioni all'interno delle comunità sono quella tra i sessi (maschi - femmine) e quella basata sull'età (giovane - anziano).

Inoltre in primo luogo per lo zingaro conta la famiglia, e precisamente marito, moglie e figli. Al di là del nucleo famigliare vi è la famiglia estesa, che comprende i parenti, con i quali vengono sovente mantenuti i rapporti di convivenza nello stesso gruppo, comunanza di interessi e di affari. Poi esiste la kumpánia, cioè l'insieme di più famiglie estese non necessariamente unite da legami di parentela, ma tutte appartenenti allo stesso gruppo ed anche allo stesso sottogruppo o a sottogruppi affini.



La nascita e la morte sono considerati eventi impuri. Nella popolazione romaní l'ospedale, il medico, il prete ricordano la morte e pertanto i contatti con loro devono essere ridotti al minimo. La donna mestruata e la puerpera sono fonte di impurità e non possono fare vita pubblica o lavare i propri panni insieme a quelli degli altri. Nei rom "vla" (originari della Valacchia), presso i quali il concetto di impurità è più radicato, durante la gravidanza e per quaranta giorni successivi al parto alla neo-mamma non è consentito di svolgere alcuna attività (ad esempio cucinare). Al termine del periodo di purificazione, i vestiti indossati, il letto, i piatti, i bicchieri e gli altri oggetti adoperati dalla puerpera sono distrutti o bruciati.

Il culto dei morti è molto sentito ed è diffusa la convinzione che il morto, se non debitamente onorato, possa riapparire in forma di animale o di uomo per vendicarsi.

In Italia la popolazione romaní si divide in:
Rom italiani (con cittadinanza): circa 90.000, di cui:
Rom harvati: 7.000 giunti dalla Jugoslavia settentrionale dopo la seconda guerra mondiale. I khalderasha ne costituiscono un sottogruppo.
Rom lovari: 1.000, che si occupano principalmente dell'allevamento di cavalli (la parola viene dall'ungherese ló, che significa appunto cavallo).
Rom balcanici: 70.000
Rom jugoslavi: presenti principalmente in campi del Nord Italia. Meno del 10% dei minori frequenta le scuole pubbliche, bassissimo è il tasso d'impiego degli adulti.
Khorakhanè ("lettori del Corano"): caratterizzati dalla religione musulmana e provenienti da Kosovo e Bosnia ed Erzegovina, sono il gruppo più numeroso di rom stranieri presente nel Bresciano. La migrazione è avvenuta dalla seconda metà del 1991 fino all'estate del 1993, in concomitanza con l'aggravarsi della situazione bellica nella ex Jugoslavia
Dasikhané: caratterizzati dalla religione ortodossa, provenienti da Romania o Bulgaria.
Rom romeni: sono il gruppo in maggior crescita; hanno comunità a Milano, Roma, Napoli, Bologna, Bari, Pescara, Genova, ma si stanno espandendo nel resto d'Italia.
30.000 nel Sud Italia, distinguibili in:
Rom abruzzesi e molisani, giunti in Italia al seguito dei profughi arbëreshë dall'Albania dopo la battaglia di Kosovo Polje nel 1392, parlano romanì mescolato ai dialetti locali e praticano l'allevamento e il commercio di cavalli, oltre che, nel caso delle donne, la chiromanzia (romnìa). Diversi nuclei sono emigrati in vari centri del Lazio a partire dal Novecento
Rom napoletani (napulengre), ben integrati, fino agli anni settanta si occupavano principalmente della fabbricazione di attrezzi da pesca e di spettacoli ambulanti.
Rom cilentani: 800 residenti ad Eboli, con punte di elevata alfabetizzazione
Rom pugliesi, si dedicano in maggioranza all'agricoltura ed all'allevamento di cavalli (alcuni di loro gestiscono macellerie equine)
Rom calabresi: uno dei gruppi più poveri, con 1550 ancora residenti in abitazioni di fortuna
Camminanti siciliani
Sinti: 30.000, residenti principalmente in Nord e Centro Italia e un tempo occupati principalmente come giostrai, mestiere che però sta scomparendo e che li costringe a reinventarsi in nuovi mestieri, da rottamatori a venditori di bonsai.

A differenza di quanto si pensi, non tutti sono nomadi, anzi. Molti vivono in appartamenti e perfettamente integrati con la comunità locale, soprattutto da quando le loro storiche professioni, che li portavano a girovagare continuamente, stanno venendo meno. Ma il pregiudizio rimane, tant'è che nel rapporto sull'Italia della Commissione europea contro il Razzismo e l'Intolleranza (Ecri), Bruxelles ha invitato Roma ad abbandonare "il falso presupposto che rom e sinti siano nomadi" dato che, in base a tale idea, viene attuata "una politica di segregazione dal resto della società" con l'installazione dei "campi nomadi" nati per ospitare solo temporaneamente queste popolazioni e spesso sforniti dei servizi più basilari.

Ma non è solo l'Italia a guardare con disprezzo gli zingari. Anche negli altri Paesi i pregiudizi e la discriminazione persistono, sintomo che le credenze che si sono trascinate per secoli sono dure a morire.

Nel 2005 e nel 2006 il razzismo nei confronti delle popolazioni gitane è diventato oggetto di attenzione a livello europeo, con l'adozione di una risoluzione del Parlamento europeo, il primo testo ufficiale che parla di antiziganismo. Le conferenze internazionali OSCE/EU/CoE di Varsavia (ottobre 2005) e Bucarest (maggio 2006), hanno confermato il termine «anti-Gypsyism» a livello internazionale.  Dal 2008 l'Unione europea ha inaugurato una Strategia europea per i rom.


LEGGI ANCHE :  http://asiamicky.blogspot.it/2015/02/rom-popolo-dai-mille-colori.html



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sabato 5 marzo 2016

I GHETTI EBRAICI

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Quasi sempre, nella storia, gli ebrei sono stati vittime di pregiudizi, perseguitati e costretti a lasciare la propria terra per spostarsi alla ricerca, vana, di un po’ di tranquillità. Ma la persecuzione di gran lunga più grave appartiene alla storia recente: uno dei genocidi più terrificanti dell’umanità, quello che sterminò poco meno di sei milioni di ebrei, operato dal nazifascismo tra il 1940 e il 1945, durante il secondo conflitto mondiale.
Dopo essere stati oggetto di persecuzione e discriminazione per secoli e secoli, dopo aver visto i propri diritti calpestati dalla bolla Cum nimis absurdum di papa Paolo IV Carafa, nel 1555, e dopo essere stati costretti alla convivenza in quartieri separati chiamati ghetti, gli ebrei abitanti nel regno di Sardegna ottennero finalmente, nel 1848, l’eguaglianza dei diritti con gli altri cittadini per iniziativa del re Carlo Alberto di Savoia; sarebbero stati poi in molti a partecipare al processo di unificazione nazionale.

Il ghetto è un'area nella quale persone considerate (o che si considerano) di un determinato retroterra etnico, o unite da una determinata cultura o religione, vivono in gruppo, volontariamente o forzosamente, in un regime di reclusione più o meno stretto. In realtà il termine nasce per indicare il quartiere ebraico, quella zona della città in cui gli ebrei erano anticamente confinati ad abitare, e completamente rinchiusi durante la notte. Modernamente è chiamato ghetto anche la parte malfamata della città

Il termine ghetto deriva dall'omonimo quartiere di Venezia del XIV secolo. Prima che venisse designato come parte della città riservata agli ebrei (essi infatti risiedevano anteriormente nel Sestiere della Giudecca), era una fonderia di ferro: il nome del quartiere deriva dal veneziano geto, pronunziato ghèto dai locali ebrei Aschenaziti di origine tedesca, inteso come getto, cioè la gettata (colata) di metallo fuso.

Il nome era stato prima utilizzato nella cittadina di Antrodoco (provincia di Rieti) nella seconda metà del XIII secolo e stava ad indicare la parte più alta della cittadina; essa fu la prima parte della cittadina ad essere edificata proprio da una famiglia ebrea, da cui il termine Ghetto.

Dall'esempio del Ghetto di Venezia il nome venne trasferito ai vari quartieri ebraici. In Castiglia erano chiamati Judería e nei paesi catalani call. Vale la pena di notare che il quartiere ebraico di Venezia (il Ghetto), era una parte ricca della città, abitata da mercanti e prestatori di denaro. Ai non ebrei non era permesso di vivere nel Ghetto di Venezia e i suoi cancelli venivano chiusi di notte. A differenza della vicina Mantova, dove più di 2.000 ebrei venivano rinchiusi la sera nel ghetto, Vespasiano I Gonzaga a Sabbioneta dette rifugio alla popolazione di religione ebraica, non ghettizzandola.

Nel Medioevo non c'era obbligo, per gli Ebrei, di risiedere nel ghetto. Preferibilmente vivevano in quartieri chiamati Giudecca. La differenza tra Giudecca e Ghetto era che la prima era una residenza preferenziale, legata a motivi di sicurezza e salvaguardia culturale, il secondo invece un domicilio coatto.

In vari luoghi, inoltre, come ad esempio a Forlì, potevano possedere terreni e fabbricati. Col Cinquecento, la possibilità si restrinse ai soli fabbricati. Solo successivamente, dunque, ghetto andò a indicare un quartiere povero.

La comunità ebraica, pur rappresentando una percentuale molto piccola della popolazione italiana, è stata ininterrottamente presente nella nostra penisola da circa 2200 anni. Nell’antica Roma, all’incirca nel 4 a. C., su un totale di 800 mila persone si stimava che ci fossero 40 mila ebrei:

molto tempo prima della distruzione del tempio di Gerusalemme a opera di Tito nel 70 d. C., molto tempo prima che i successori di Pietro facessero di Roma la città santa del cristianesimo, una colonia ebraica si era insediata sulle rive del Tevere. Infatti lo storico Giuseppe ricorda che almeno ottomila ebrei vi vivevano la Sinagoga precedette il Vaticano”.

E, se ci spingiamo un millennio più avanti, ci accorgiamo che su un numero molto incrementato di abitanti (circa 10 milioni negli spazi italiani), c’erano soltanto diecimila ebrei in più. Questo numero era destinato a crescere grazie all’arrivo degli ebrei espulsi espulsi dalla Spagna in seguito al provvedimento messo in atto da Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia nel 1492 (la cosiddetta “Cacciata dei Marrani”).

In Italia, gli ebrei sono sempre vissuti in gruppi con riti e tradizioni diversi, a seconda della loro provenienza e delle loro origini: italiani, sefarditi (provenienti dalla Spagna) e ashkenaziti (di provenienza tedesca), ai quali, dopo la seconda guerra mondiale e la Shoah, e durante tutti gli anni ’50, si sono aggiunti altri ebrei di origine persiana, libanese, egiziana e libica.

Proprio negli anni successivi a quelli della deportazione e dello sterminio, la comunità ebraica è andata consolidandosi: oggi nel nostro paese sono presenti circa 30 mila ebrei disseminati in 21 comunità riconosciute dallo Stato italiano.

Tuttavia, con la salita al potere del fascismo, si raggiunse un livello insopportabile:gli ebrei non potevano sapere che cosa sarebbe accaduto, ma già con il concordato del 1929 con il Vaticano l’unica religione di stato diventava il cattolicesimo.

Fu con l’avvicinarsi della guerra, nel 1938, che furono presi i primi provvedimenti legislativi antisemiti: il fascismo promulgò le leggi razziali, che escludevano gli ebrei dall’esercizio delle professioni, dalla scuola e dalle università e limitavano ogni diritto di proprietà:

come emerge chiaramente da una lettera del camerata A.G. di Roma apparsa  ne “La difesa della razza”, essi fanno, secondo l’ideale fascista, “praticamente parte dell’esercito nemico!” L’ebreo “è un soldato nemico che noi ospitiamo e che, lungi dal rinchiuderlo nei pur confortevoli (troppo!) nostri campi di concentramento, lasciamo a piede libero, senza sorveglianza, colmandolo di sorrisi, di attenzioni, di gentilezze, offrendogli spesso complicità immonde”.

Al termine della seconda guerra mondiale, gli ebrei in Italia erano 21.000, mentre prima del conflitto erano circa 50.000: in molti erano emigrati, ma più di ottomila erano stati deportati nei campi di concentramento nazisti; di questi, soltanto pochissimi furono i superstiti.

Le persecuzioni cessarono, ma è soltanto con la legge d’Intesa (in ottemperanza agli articoli 8 e 19 della costituzione italiana) firmata nel febbraio del 1987 tra lo Stato italiano e l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, che gli ebrei si vedono i loro diritti pienamente riconosciuti:

art 8: “Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze.

Art 19: “Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purchè non si tratti di riti contrari al buon costume.

Queste forme di "giudeofobia" si manifestarono solo in piccola parte durante il Medioevo poichè la separazione degli ebrei dai non ebrei era improponibile da parte della chiesa che voleva garantire la libertà di culto al popolo giudaico in quanto testimone vivente del messaggio divino. Un'alta esigenza era di vitale importanza per la società medioevale: gli ebrei erano abili operatori economici e quindi risultava estremamente dannoso privare la collettività di quei servizi fiscali necessari effettuati per la maggior parte dal popolo ebreo. Se queste esigenze non potevano essere compromesse allora si fece ricorso ad altri mezzi: gli ebrei dovevano portare un segno di riconoscimento, non si potevano sposare o avere relazioni sessuali con i cristiani e addirittura gli venne impedito di frequentare gli stessi luoghi pubblici, gli ebrei dovevano restare rinchiusi durante i giorni della Settimana Santa, e così via.
Le prescrizioni contro gli ebrei aumentarono significativamente sia nel mondo cristiano che in quello islamico trasformando in obbligo la loro libera scelta di installarsi in un determinato quartiere. Anche se la segregazione degli ebrei avveniva sotto costrizione, nel Medioevo non si verificò mai una vera e propria ghettizzazione, infatti la clausura non era controllata dall'esterno e alcuni vivevano ancora in quartieri popolati perlopiù da cristiani e conservando i propri luoghi di culto.
Certamente la pressione della Chiesa per una più accurata separazione tra Ebrei e Cristiani andava accentuandosi, il passo decisivo fu compiuto con il concilio di Breslavia (1266) che, a Gniezno, istituì il primo quartiere fisicamente separato per gli ebrei. Comunque le richieste dei pontefici per la clausura obbligatoria non vennero soddisfatte ovunque, ma là dove non arrivava la Chiesa i "ghetti" venivano istituiti dai poteri civili sotto la spinta delle masse popolari o sollecitati dal clero locale.
Ormai le segregazioni coatte di ebrei si assomigliavano sempre più a quelle che sarebbero state realizzate nel sedicesimo secolo. In Spagna già dal duecento iniziarono a sorgere quartieri ebraici distinti: nel 1243 Giacomo di Aragona ordinò agli ebrei di Terragona di concentrarsi in un unico quartiere. Di lì a poco in tutta la penisola iberica si accentuarono le persecuzioni, le prime espulsioni di massa fino ad arrivare ad una vera e propria "ghettizzazione" che fu promulgata nel 1480 da Ferdinando il Cattolico e Isabella. Dodici anni più tardi gli ebrei furono espulsi dalla Spagna o costretti a convertirsi. Come in Spagna anche gli ebrei tedeschi e francesi seguirono la stessa sorte evitando, però, l'espulsione.
Nei paesi arabi, al contrario di quelli europei, non si era quasi mai sostenuto l'esigenza di separare gli "infedeli" sebbene esistessero "quartieri ebraici" (così definiti solo perché la maggioranza della popolazione che vi risiedeva era costituita da ebrei), venivano chiamati "shara" in Tunisia e Algeria e "mahallat Yahud" in Persia. Questi non erano circondati da mura e non escludevano la mescolanza di ebrei con il resto della popolazione. Solo nella prima metà del 1400 comparvero nei paesi arabi i veri e propri ghetti, ma si trattava comunque di casi isolati (Marrakesh, Mekness, Fez e alcune città dello Yemen).
Il nome ghetto fu "coniato" a Venezia nel 1515 quando gravi tensioni interne avevano condotto i veneziani a porsi il problema dell'eccessiva presenza ebraica in città. dato che era sconveniente ricorrere all'espulsione, si pensò di creare un quartiere ebraico come era avvenuto nelle colonie dell'Egeo. Naturalmente l'opposizione degli ebrei fu vana e, per la paura di un'espulsione di massa, accettarono di essere raccolti in un'area a loro destinata: il quartiere di Cannaregio. Il ghetto di Venezia conobbe un incredibile aumento della popolazione che portò la popolazione ad effettuare notevoli ampliamenti, qui non c'erano solo gli ebrei ma tutti coloro che non erano accettati dalla società perchè giudicati pericolosi o diversi.
Durante tutto il seicento la pressione della Chiesa sugli stati italiani per l'adesione al programma di segregazione del popolo ebraico si fece sempre più inevitabile per mantenere la propria autonomia, le proprie tradizioni religiose, cosicchè vennero realizzati numerosi nuovi ghetti su tutto il territorio italiano: a Ferrara, Urbino,Padova, Verona. I casi più in vista furono Mantova, Modena, Reggio e Livorno, dove la popolazione ebraica era molto più numerosa che in tutte le altre città italiane.
A Mantova Clemente ottavo impose l'istituzione di un nuovo ghetto al duca Vincenzo primo che si decise ad aprire trattative con gli ebrei. Questi ultimi non si opposero poichè lo videro come uno strumento di protezione ma dovettero provvedere a tutte le spese per la sistemazione del ghetto.
A Modena e a Reggio i ghetti furono meno opprimenti infatti i mercanti vennero autorizzati a tenere alcune botteghe fuori del perimetro e ci furono progressivi adeguamenti dello spazio man mano che la popolazione aumentava.
A differenza di tutte le città citate fino ad adesso Livorno presenta un'eccezione, infatti i Granduchi di Toscana concessero ospitalità a tutti gli stranieri (Ebrei compresi) al fine di trasformare Livorno in un importante centro commerciale. Non si assistette, quindi alla fondazione di un nuovo ghetto ma semplicemente ad un libero insediamento.
In quasi tutti gli stati italiani i ghetti non si limitarono alle grandi città ma vennero fondati anche nelle minuscole localita' di confine, nei piccoli borghi e nei centri agricoli. Il ghetto divenne in Italia l'unico scenario della vita quotidiana della grande maggioranza degli Ebrei.
Un caso isolato è quello del Piemonte. Quello di Torino fu il primo vero ghetto dello stato di Savoia, già dal Quattrocento c'erano state iniziative di segregazione degli ebrei in Piemonte e il vescovo di Alessandria tentò di far istituire il ghetto nella sua città ma solo a Torino nel 1621 si arrivò alla realizzazione. Sotto la reggenza di Maria Giovanna Battista di Nemours, moglie del defunto Carlo Emanuele secondo, scelse come area di insediamento l'Ospedale di Carità, un'istituzione già destinata alla segregazione di poveri e malati. Con la nascita del Regno di Sardegna Amedeo II estese l'obbligo di risiedere nei ghetti a tutti i sudditi ebrei.
Ancora una volta gli ebrei non si opposero alla loro segregazione, intimoriti dall'ostilità cristiana.
La segregazione degli ebrei nei ghetti ebbe perlopiù una funzione protettrice, per questo non si verificarono quasi mai resistenze violente, infatti l'istituzione dei "recinti" non era legata a ragioni ideali bensì a ragioni pratiche. Il ghetto godeva di ampia autonomia e si autogovernava attraverso leggi religiose.
Anche se nei ghetti vigevano leggi ferree che assicuravano un'esistenza tranquilla e pacifica ai suoi abitanti, non mancavano di certo pericoli che potevano mettere a rischio l'intera comunità. Questi rischi provenivano sopratutto dall'esterno. Alla fine del settecento, in Italia, si era diffusa la convinzione che gli ebrei stessero dalla parte della "rivoluzione" e questo indusse le masse popolari ad aggredire i ghetti e a massacrarne gli abitanti, ma questo accadde anche perchè alcuni ghetti vennero aperti senza gradualità e quindi senza che le autorità avessero ancora preso le contromisure necessarie per un pacifico reinserimento degli ebrei nella società che ormai da secoli era abituata a tenerli fisicamente separati.
L'altro grave problema riguardava le condizione di degrado in cui vivevano gli abitanti del ghetto, infatti l'intrico delle abitazioni esponeva gli ebrei ad una maggior propagazione delle epidemie, senza pensare poi a quello che poteva accadere in caso di inondazioni, terremoti, incendi e più in generale tutte le calamità naturali.
Solo nell'ottocento si arrivò alla cancellazione dei ghetti, già durante il settecento le concessioni si erano moltiplicate e poi in molte città la clausura venne abolita, ma questo accadde solo nell'Europa occidentale, perchè in quella orientale, e soprattutto in Germania, la dottrina antisemita assunse i toni più virulenti.
Tra la fine dell'ottocento e gli inizi del novecento in Germania la diversità dell'ebreo fu avvertita come diversità nazionale, il che portò il paese ospitante a sospettare di infedeltà al popolo tedesco. Ciò accadde soprattutto dopo la sconfitta della prima guerra mondiale e le drammatiche vicende della repubblica di Weimar.
La popolazione ebraica fu colpita da una serie di limitazioni crescenti e dall'odio di una nazione che si preparava ad una dittatura in nome del mito della razza ariana.
Con l'invasione della Polonia, i nazisti si trovarono di fronte ad una popolazione ebraica di gran lunga più numerosa che in occidente, i provvedimenti di discriminazione apparvero irrealizzabili e per questo si passò alla segregazione coatta degli ebrei all'interno di una serie di quartieri cittadini. Queste zone vennero chiamate ghetti e all'inizio non ci furono resistenze da parte degli ebrei, anche perchè era ancora inimmaginabile il folle progetto di Hitler (la soluzione finale ).
Nel ghetto nazista gli ebrei erano visti come prigionieri (come negli Shtetl dell'ottocento ) e perdevano qualsiasi diritto.
L'occupazione tedesca della Polonia implicò la costruzione di numerosi ghetti, con il consenso del popolo polacco, qualsiasi forma di resistenza venne schiacciata con la violenza.
Nel giro di un anno i ghetti vennero sigillati e l'operazione proseguì anche quando i nazisti optarono per l'eliminazione fisica di tutti gli ebrei (e di tutti quelli considerati un "pericolo" per la stabilità del regime ), si iniziò con le fucilazioni di massa per poi passare alle camere a gas.
Dalla fine del 1941 iniziarono le evacuazioni forzate, gli ebrei venivano prelevati dai ghetti per essere portati verso nuove terre di insediamento o verso campi di lavoro che in realtà erano campi di sterminio. Quindi il ghetto non era più uno strumento per segregare gli ebrei, come era stato ad esempio in Italia, bensì una trappola per illuderli e condurli al massacro senza opposizione.
Molte rivolte si scatenarono contro i nazisti e tra queste la più conosciuta è certamente quella del ghetto di Varsavia, dove è stato ritrovato un archivio clandestino costituito da un gruppo di storici che vivevano in questo ghetto.
La vita nel ghetto di Varsavia era disumana, dai tedeschi dipendeva tutto, anche le razioni di cibo o la possibilità di lavoro. La popolazione era decimata dalla fame e dalle epidemie e nonostante tutto c'era chi trattava affari con i tedeschi e collaborava nelle spietate repressioni. Nei ghetti tradizionali la vita si svolgeva pienamente attorno alla religione, diversamente a Varsavia si era creata una fiorente attività politica e culturale. Le varie organizzazioni politiche trovarono un accordo nella rivolta contro i nazisti, poichè presero coscienza di quello che stava succedendo e lo scopo delle evacuazioni forzate. Si venne così a formare un ampio fronte antinazista che condusse in accordo con la resistenza polacca per convincere gli ebrei di quello che i tedeschi avevano in mente, per fare arrivare in Occidente le prove di quanto stava accadendo e per fornirsi di armi in vista di uno scontro violento.
Il primo scontro armato avvenne il 18 gennaio 1943 ma la vera rivolta esplose il 19 aprile dello stesso anno quando ormai tutti gli abitanti avevano preso coscienza di quello che li aspettava. La rivolta durò diversi giorni fino a che i tedeschi non si decisero a distruggere il ghetto e a deportare tutti gli abitanti. Dopo alcuni mesi dalla distruzione i piccoli gruppi di resistenti sopravvissuti continuavano a combattere fino alla morte o alla loro cattura.




Le caratteristiche dei ghetti hanno subito molte variazioni con il passare del tempo. In alcuni casi, il ghetto era un quartiere ebraico con una popolazione relativamente benestante (ad esempio il ghetto ebraico di Venezia). In altri casi i ghetti connotavano impoverimento (ad esempio quello di Roma).

Gli ebrei non potevano acquisire terreni al di fuori del ghetto, e spesso nemmeno in quello. Dovevano in ogni caso vivere confinati all'interno dei ghetti, quindi durante i periodi di crescita della popolazione le case, spesso ormai piene, dovevano essere rialzate sempre di più. I ghetti avevano quindi strade strette e case alte e affollate. Ma la cosa più terribile era che il recinto del ghetto (proprio così veniva spesso chiamato) era chiuso da una o più porte. Queste venivano chiuse al calar del sole, per essere riaperte solo all'alba. Durante le ore buie gli ebrei non potevano per nessuna ragione allontanarsi dal ghetto. Spesso i residenti necessitavano di un visto per poter uscire dai limiti del ghetto anche durante il giorno.

I residenti del ghetto avevano il loro sistema giudiziario indipendente, come se si trattasse di una vera e propria piccola città nella città.

Le caratteristiche dei ghetti hanno subìto notevoli variazioni nei secoli e anche in tempi relativamente brevi: poiché gli ebrei non potevano acquisire terreni al di fuori del ghetto durante i periodi di crescita demografica, i ghetti avevano strade anguste e case alte e affollate. Ogni abitante del ghetto rispettava le leggi di un ben preciso sistema giudiziario interno e, poiché spesso c’era bisogno di un visto per lasciare il ghetto, era raro che potesse passarne i confini, delimitati da mura sistematicamente chiuse la notte e durante le feste.

I quartieri separati per gli ebrei vennero poi aboliti, in un primo tempo durante la rivoluzione francese, poi, progressivamente, nel corso del secolo XIX. In Italia, l’ultimo ghetto ad essere demolito fu quello di Roma, nel 1870.

Tuttavia, con la seconda guerra mondiale i ghetti diventano di nuovo tristemente famosi: durante la guerra, i ghetti servirono come contenitori in un forzoso processo di concentramento della popolazione ebraica, che ne facilitava il controllo da parte dei nazisti. Gli abitanti dei ghetti dell’Europa Orientale, trasportati da varie regioni europee, privati di ogni diritto e sottoalimentati, venivano progressivamente deportati nei campi di sterminio durante l’olocausto.

Sicuramente più di uno storico ha sottolineato le condizioni di vita disperate dei ghetti. Significative sono le parole di Anna Foa: “la vita nel ghetto non doveva essere assolutamente facile e di sicuro la filosofia del quartiere ebraico era del tutto cambiata rispetto alla mentalità originaria”. O quelle di Renzo De Felice: ”la vita nel ghetto era difficile e degradante”. Questa degradazione emerge chiaramente dal suggestivo quadro che ci dà la storica italo-americana Susan Zuccotti:

in molte città gli ebrei potevano lavorare soltanto come ambulanti, straccivendoli, mercanti di oggetti di seconda mano e prestatori di denaro su pegno. Le donne, cui era vietato confezionare o vendere indumenti nuovi, rammendavano abiti vecchi che poi venivano venduti dagli uomini. La miseria era endemica. Gli alloggi poverissimi, il lezzo terribile  le costruzioni che venivano innalzate per sopperire alle necessità di dare alloggio a tutti, a volte crollavano e lasciavano molta gente per strada.

Gli ebrei del ghetto affrontavano i problemi organizzando associazioni assistenziali per ogni aspetto della vita quotidiana. C’erano società che aiutavano i poveri, fornivano dote alle ragazze, assistevano le partorienti e i malati, finanziavano i funerali, provvedevano agli orfani. Gli ebrei lottavano contro l’isolamento e la disperazione acquisendo un’istruzione.

In Italia gli ebrei pagavano tasse e tributi esosi, senza speranza di appello. La Polizia poteva entrare nelle case confiscare ogni suppellettile; punivano i cristiani che accendevano il fuoco del sabbath il sabato, accusandoli di lavorare illegalmente per gli ebrei.  Negli stati pontifici la polizia, dove il sistema del ghetto era più repressivo, perseguiva inoltre gli ebrei quando eludevano l’obbligo di assistere ai sermoni interminabili tenuti da preti zelanti  che spesso erano loro stessi convertiti e che avevano appunto lo scopo di sollecitare le conversioni.

Oltre ai grandi ghetti dei capoluoghi, nella nostra penisola, in molti piccoli paesi e nei centri di provincia ne esistevano di importanti per la loro cultura e storia. Ne è un esempio quello del paese di Alessano, centro più importante del Salento, nella parte più a sud della Puglia, terra che da sempre è crocevia di popoli, tradizioni ed etnie diverse: greci e arabi, ebrei e cattolici. E proprio nelle vie di questo borgo sorse, nell’epoca aragonese (soprattutto fra il XV e il XVI secolo), un ghetto, che da quel momento fu ininterrottamente abitato e, durante il secondo conflitto mondiale, fu quartiere di reclusione degli ebrei:

il ricordo della presenza ebraica ad Alessano rivive in un toponimo molto significativo: via Della Giudecca. Il piccolo quartiere appare periferico rispetto all’antico nucleo cittadino e quasi sua appendice, per cui la sua costruzione non dovrebbe essere anteriore al XV secolo. Questo periodo d’altronde, è nel suo insieme uno dei più felici del regno di Napoli, dove accorsero numerosi i profughi ebrei della Germania, della Provenza e della penisola Iberica.

Ma ciò che di particolare c’è riguardo a questo ghetto è il mistero che da sempre aleggia intorno ad esso: camminando per le sue strade e accostando gli edifici di pietra, si respira un’aria misteriosa e leggendaria, a partire dalla prima sinagoga, poi interrata chissà quando e da chi e mai scoperta e della quale si hanno informazioni confuse e fonti non certe.

Tradizioni millenarie, come quella ebraica, sono state compromesse e soppresse dal nazifascismo, e tutto nel giro di pochi anni.

Accanto a questi quartieri di veneranda memoria, nacquero, verso la metà del Ventennio fascista, anche i cosiddetti “campi di internamento civile”, nei quali vennero internati i perseguitati politici e, in seguito, gli ebrei. Ne è un esempio quello, divenuto piuttosto grande, di Civitella del Tronto, in provincia di Teramo, che sorge però ancora sulla riva marchigiana dell’omonimo fiume che segna il confine fra le due regioni.

“il campo di Civitella del Tronto, entrò in funzione nei primi giorni del 1940  e inizialmente gli internati alloggiarono nell’ex convento francescano di Santa Maria dei Lumi.

Le condizioni di vita, a parte l’umidità degli edifici, l’affollamento abitativo e la carenza di riscaldamento, non furono particolarmente dure. Tuttavia, gli internati a Civitella rimanevano poco poiché venivano subito diretti prima a Fossoli e poi smistati nei vari campi nazisti.”

Il campo di Civitella fu attivo fino al maggio del ‘44, con un continuo passaggio di uomini, soprattutto “sudditi nemici” .

Molti dei ghetti furono abbandonati dalla popolazione ebraica e caddero in una situazione di degrado e abbandono, altri rimasero il centro (non più coatto) della vita della comunità locale. A cavallo tra Ottocento e Novecento molti dei ghetti furono interessati dall'opera di risanamento di cui furono oggetto molti degli antichi centri storici delle città italiane. Alcuni ghetti furono totalmente demoliti (Firenze), in altri casi largamente rimaneggiati con demolizioni e sventramenti (Roma, Mantova). In altri casi il ghetto si è conservato pressoché integro (Venezia).

Oggi è in molti casi ancora possibile riconoscere l'area dei vecchi ghetti, il luogo dove erano collocate le porte, le abitazioni con i loro cortili e passaggi interni, le sinagoghe che di regola dovevano essere nascoste e prive di segni esteriori di riconoscimento. In anni recenti, i ghetti sono diventati una attrazione turistica e sforzi sono stati compiuti da alcune amministrazioni locali per preservarne le tracce rimaste e farne parte fruibile di itinerari turistici. La logica della preservazione della memoria e della conservazione di ambienti anche non monumentali ma di interesse storico sta sostituendosi alla politica dell'abbandono e dell'incuria che specie nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale ha causato perdite inestimabili al patrimonio storico, artistico e culturale italiano.



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domenica 1 novembre 2015

LE FAMIGLIE OMO

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Il tema della genitorialità omosessuale è di solito affidato a ideologie o visceralità di politici il più delle volte impreparati.

I figli di genitori omosessuali, nati da forme alternative di concepimento, sono a lungo desiderati e perseguiti, come è anche per le coppie eterosessuali che si rivolgono alla fecondazione assistita. Insomma ci sono modi diversi di diventare genitori. Se la sessualità non sempre coincide con la procreazione, non sempre il concepimento coincide con la genitorialità.

Qual è il «vero genitore»? Quello che mette a disposizione la propria biologia o quello che cresce il figlio fornendogli cure e sicurezza? A volte infatti le due opzioni non coincidono, vuoi perché molti genitori biologici non sono capaci di fornire cure e sicurezza, vuoi perché genitori non biologici (o coppie di genitori di cui uno solo è biologico) lo sono.

In Italia, secondo una ricerca del 2005 condotta da Arcigay con il patrocinio dell’Istituto Superiore di Sanità, il 17,7% dei gay e il 20,5% delle lesbiche con più di 40 anni ha almeno un figlio. Prendendo tutte le fasce d’età, sono genitori un gay o una lesbica su 20 mentre il 49% delle coppie omosessuali vorrebbe poter adottare un bambino.

Indicazioni numeriche si possono trarre da ricerche sociologiche realizzate nel 2001 e nel 2003. Secondo queste ricerche, il 3,4% dei gay è padre e il 5,4% delle lesbiche madre. I figli/e sono stati concepiti per il 76% dei casi in una relazione matrimoniale, nell'11% in una relazione eterosessuale e il rimanente 13% con un rapporto occasionale.

La ricerca «Modi di» realizzata nel 2005 ha rilevato che il 4,7% dei gay intervistati e il 4,5% delle lesbiche ha figli biologicamente propri, e un ulteriore 0,3% dei maschi e 0,4% delle femmine hanno figli non di sangue.



L'omogenitorialità e il rapporto tra la prole e il genitore non consanguineo non sono specificamente regolamentate dalla legislazione, malgrado le rivendicazioni in particolare dall'associazione Famiglie arcobaleno, che nel maggio 2008 ha promosso una proposta di legge sul tema e sula famiglia di fatto.

Ecco cosa risponde l’American Psychoanalytic Association a chi sostiene che avere genitori omosessuali è «contro l’interesse del bambino»: «È nell’interesse del bambino sviluppare un attaccamento verso genitori coinvolti, competenti, capaci di cure e di responsabilità educative. La valutazione di queste qualità genitoriali dovrebbe essere determinata senza pregiudizi rispetto all’orientamento sessuale». I soliti americani pragmatici e semplicistici? In Francia, cinquecento psicoanalisti hanno da poco firmato una petizione a favore del «matrimonio per tutti» e della possibilità di adozione per le persone omosessuali.

Posizioni analoghe sono sostenute dalle maggiori associazioni dei professionisti della salute mentale: dall’American Psychiatric Association alla British Psychological Society, dall’Academy of Pediatrics all’Associazione Italiana di Psicologia. Quest’ultima ricorda che «la ricerca psicologica ha messo in evidenza che ciò che è importante per il benessere dei bambini è la qualità dell’ambiente familiare», indipendentemente dal fatto che i genitori siano «conviventi, separati, risposati, single, dello stesso sesso».

Parole chiare, soprattutto se pensiamo a come viene esaltata aprioristicamente la genitorialità eterosessuale, dimenticando che può essere teatro di orrori (si pensi all’elevatissimo numero di abusi fisici e sessuali consumati nelle famiglie). Per essere buoni genitori non basta essere eterosessuali, così come essere omosessuali non significa essere cattivi genitori.

A volte si invocano ricerche di carattere generale, come quella sul generico stato di benessere dei minori e ragazzi in Inghilterra, condotta dal Economic and Social Research Council (ESRC) nella quale si evidenzia che i ragazzi che vivono con entrambi i genitori sono maggiormente felici di quelli che vivono in famiglie monogenitoriali, ma ciò, evidentemente, non niente a che vedere con l'omosessualità.

Un altro studio citato come critica all'omogenitorialità è quello pubblicato negli Stati Uniti dall'ente di ricerca Child Trends che ha dimostrato che i ragazzi che hanno vissuto con entrambi i genitori, hanno statisticamente meno problemi, sia a casa che a scuola, di quelli che hanno vissuto in famiglie di altro genere come quelle monoparentali.

Uno studio molto controverso è stato, per esempio, quello del sociologo Mark Regnerus, che fu poi interpretato da diverse associazioni fondamentaliste cristiane attribuendo all'omosessualità dei genitori il disagio psichico dei bambini da essi educati, quando invece ciò era dovuto all'instabilità famigliare tipica di figli di genitori divorziati (il fatto che uno dei genitori fosse omosessuale e che si fosse fidanzato con una persona dello stesso sesso non aveva alcuna rilevanza). Lo stesso Mark Regnerus ha poi ammesso che il suo studio era stato interpretato male.

Un'altra critica nasce dal fatto che in Italia le coppie che richiedono l'adozione sono molto maggiori rispetto al numero dei bambini adottabili e quindi le richieste andrebbero a congestionare un sistema già saturo.

Si critica il desiderio di genitorialità da parte di persone omosessuali contrapponendo l'argomento del "diritto" dei minori ad avere una "mamma" e un "papà" al "diritto alla genitorialità".

Secondo le organizzazioni per i diritti delle coppie omosessuali questo del "diritto" è un argomento viziato in quanto le ricerche accreditate presso la comunità scientifica evidenziano che i minori hanno bisogno di avere come genitori persone che si prendano cura di loro senza riserve ed in modo adeguato al di là del genere o sesso di appartenenza. Secondo le associazioni LGBT le coppie omosessuali non hanno più diritto di quelle eterosessuali di avere dei bambini in adozione, ma rivendicano il diritto di non essere escluse a priori solo in quanto omosessuali.



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