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sabato 23 aprile 2016

CLARETTA PETACCI

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Clarice Petacci, conosciuta come Claretta o Clara (Roma, 28 febbraio 1912 – Giulino di Mezzegra, 28 aprile 1945), è famosa per essere stata amante di Benito Mussolini, da lei idolatrato fin dall'infanzia, e per tale motivo uccisa dai partigiani insieme a lui. Era sorella dell'attrice Miria di San Servolo (vero nome Maria Petacci).

Figlia di Giuseppina Persichetti (1888-1962) e del medico Francesco Saverio Petacci (1883-1970), direttore per alcuni anni di una clinica a Roma e introdotto negli ambienti vaticani in qualità di medico dei Sacri Palazzi apostolici. Per un periodo di vari anni ebbe anche una sua clinica personale, "La Clinica del Sole". Clara studiò con rendimenti alterni musica e fu allieva del violinista Corrado Archibugi, amico dei suoi genitori.

Il 24 aprile 1932 la Lancia Astura vaticana con a bordo oltre all'autista Saverio Coppola, Claretta Petacci, la sorella Myriam, la loro madre e il futuro marito di Claretta, Riccardo Federici, lungo la via del Mare che da Roma va al Lido di Ostia, viene sorpassata dalla rossa Alfa 6C 1750 Gran Turismo Zagato guidata da Benito Mussolini. La Petacci, che già da tempo inviava al duce numerose lettere di ammirazione, lo riconosce e trova il modo di attirare l'attenzione del duce, il quale accetta poi di scambiare qualche parola con lei. Da allora sempre più frequenti furono le "udienze" a Palazzo Venezia, che dopo una serie di colloqui confidenziali acquisirono il carattere di una vera e propria relazione.

Petacci, ormai sposata con il sottotenente dell'Aeronautica Militare Italiana Riccardo Federici (1904-1972), aveva in realtà già preso le distanze da quest'ultimo (dal quale si sarebbe separata ufficialmente nel 1936). All'epoca del suo incontro con Mussolini, Clara aveva vent'anni, trenta di meno del suo amante.

Mussolini era sposato dal 1915 con rito civile e dal 1925 con rito religioso con Rachele Guidi (detta "donna Rachele"), che aveva conosciuto già durante l'infanzia e alla quale era legato sin da prima del 1910. Gli erano inoltre state attribuite numerose amanti, tra le quali Ida Dalser (che gli diede il figlio Benito Albino Mussolini), e aveva da poco concluso una lunga ed importante relazione con Margherita Sarfatti.

Mussolini prese a frequentare la Petacci con regolarità, ricevendone le visite puntuali anche nel suo studio di Capo del governo a Palazzo Venezia. Clara rimase per molti anni fedele «all'amato "Ben"», come chiamava Mussolini anche nella corrispondenza, solo in parte pubblicata. Diversi gerarchi del fascismo, d'altra parte, reputavano la relazione tra il duce e la Petacci - per quanto ufficialmente inesistente e tollerata da donna Rachele - molto inappropriata, perché possibile fonte di scandalo e di accuse di corruzione al regime, suscitando altresì facezie ed amenità tra quanti ne erano informati.

Clara era appassionata di pittura. Ebbe il ruolo di compagna segreta di Mussolini, di cui condivise i momenti più bui e il destino finale, pare senza mai avanzare la pretesa che l'amante lasciasse per lei la moglie Rachele.

La vicinanza di Clara a Mussolini finì per innalzare il rango della sua famiglia, alimentando voci relative a favoritismi e possibili episodi di corruzione, dei quali veniva prevalentemente ritenuto responsabile (anche da ambienti legati alla gerarchia fascista) il fratello Marcello Petacci (Roma 1º maggio 1910 - Dongo 28 aprile 1945).

Verso la fine del 1939 i Petacci si trasferirono dalla residenza medio-borghese di via Lazzaro Spallanzani (confinante con villa Torlonia) nella splendida villa "Camilluccia" (sita sulle pendici di Monte Mario, allora ai margini della città), progettata dagli architetti italiani Vincenzo Monaco e Amedeo Luccichenti, e che rappresentava un notevole esempio del Razionalismo italiano.

La grande casa era divisa in 32 locali distribuiti su due piani sovrastati da una terrazza. Nel sottosuolo, come nella residenza del duce di Villa Torlonia, era ricavato un rifugio antiaereo, mentre nell'ampio parco erano presenti anche una piscina, un campo da tennis, un giardino fiorito, curato da Clara, un orto e un pollaio, curati dalla madre. L'accesso al complesso era sorvegliato da una guardiola per il portiere ed una per la guardia presidenziale assegnata alla proprietà.

Nell'ala destra del piano terreno (probabilmente per ragioni di sicurezza dovute alla necessaria vicinanza con il rifugio) era posizionata l'alcova di Claretta e Benito. Composta da una camera con pareti e soffitto ricoperte da specchi ed arredata con mobili rosa, era servita da una stanza da bagno rivestita in marmo nero e dotata di grande vasca mosaicata, posta a filo del pavimento, che voleva imitare le vasche termali romane.

All'indirizzo della residenza Petacci (via della Camilluccia 355/357) erano inviate numerose lettere che richiedevano i buoni uffici di Clara per petizioni rivolte a Mussolini.

Dopo la caduta del fascismo la villa fu confiscata con l'accusa che fosse stata acquistata da Mussolini con fondi sottratti al bilancio dello Stato. La famiglia riuscì ad opporsi a tale provvedimento di esproprio e successivamente ottenne la restituzione della villa, dimostrando l'accusa come infondata.

Più tardi la villa fu venduta, e finì in stato di abbandono, fino ad essere definitivamente demolita per far posto ad un complesso di edifici che oggi ospitano le ambasciate dell'Iraq presso l'Italia e la Santa Sede.

Travolta dagli eventi della seconda guerra mondiale, Clara Petacci fu arrestata il 25 luglio 1943, alla caduta del regime fascista, per essere poi liberata l'8 settembre, quando venne annunciata la firma dell'armistizio di Cassibile. Tutta la famiglia abbandonò Roma e si trasferì nel Nord Italia controllato ancora dalle forze tedesche, e dove poi si instaurò la Repubblica di Salò. Clara si trasferì in una villa a Gardone, non lontano dalla residenza di Mussolini e dalla sede del governo repubblicano a Salò.

In questo periodo ebbe un fitto rapporto epistolare con Mussolini e nonostante il parere contrario del Duce conservò tutte le missive: in una di queste, chiese che al processo di Verona Galeazzo Ciano fosse condannato a morte in quanto "traditore, vile, sudicio, interessato e falso", esprimendo quindi una posizione durissima (valevole anche per Edda Mussolini, "sua degna compare") che venne definita dallo storico Emilio Gentile di "rigore nazista".

Trasferitisi a Milano a seguito dell'abbandono della riviera gardesana da parte del duce, poco dopo la metà di aprile del 1945, il 23 aprile i Petacci - salvo Clara e il fratello Marcello, che rimasero nel capoluogo lombardo - si misero in salvo in aereo, giungendo a Barcellona dopo un avventuroso volo durato quattro ore. Il 25 aprile, sia Clara sia Marcello si allontanarono da Milano assieme alla lunga colonna di gerarchi fascisti in fuga verso Como, Marcello tentando di riparare in Svizzera con false credenziali da diplomatico spagnolo. Il 27 aprile 1945, durante l'estremo tentativo di Mussolini di sottrarsi alla cattura, Clara fu bloccata a Dongo da una formazione della 52ª Brigata Garibaldi partigiana, che intercettò la colonna di automezzi tedeschi con i quali il duce viaggiava. Taluni affermano che le sia stata offerta una via di scampo, da lei ricusata decisamente. Avrebbe potuto fuggire in Spagna con i suoi familiari in aereo (Miriam Petacci: "Chi ama è perduto").

Il giorno seguente, 28 aprile, dopo il trasferimento a Bonzanigo di Mezzegra, sul lago di Como, Mussolini e la Petacci furono uccisi, secondo la versione diffusa a Giulino di Mezzegra, sebbene su Clara non pendesse alcuna condanna. La versione ufficiale, e anche alcune versioni alternative, affermano che venne uccisa perché si oppose all'esecuzione di Mussolini, frapponendosi tra il duce e l'esecutore, oppure perché testimone scomoda.

Nella stessa giornata anche il fratello di Clara, Marcello Petacci, fu ucciso a Dongo dai partigiani, insieme ad altre quindici persone che accompagnavano la fuga di Mussolini.

Il giorno successivo, il 29 aprile, a Piazzale Loreto (Milano), i corpi di Benito Mussolini e Claretta Petacci furono esposti (assieme a quelli delle persone fucilate a Dongo il giorno prima e Achille Starace, che venne ucciso in Piazzale Loreto poco prima), appesi per i piedi alla pensilina del distributore di carburanti Esso, dopo essere stati oltraggiati dalla folla. Il luogo venne scelto per vendicare simbolicamente la strage di quindici partigiani e antifascisti, messi a morte per rappresaglia in quello stesso luogo il 10 agosto 1944.

Non appena comprese che c'era l'intenzione di appendere per i piedi anche il cadavere della Petacci alla pensilina, don Pollarolo, cappellano dei partigiani, prese l'iniziativa di chiedere a una donna presente tra la folla, la sarta Rosa Fascì, una spilla da balia per fissare la gonna indossata dal corpo di Clara. Tale soluzione si rivelò però inefficace e così intervennero i pompieri, sopraggiunti con gli idranti a sedare l'ira della folla, a provvedere a mantenere ferma la gonna con una corda.

Dopo essere stata sepolta in un primo tempo al Cimitero Maggiore di Milano, sotto il nome fittizio di Rita Colfosco, nel 1959, con autorizzazione del ministro dell'interno Fernando Tambroni, è stata inumata nella tomba di famiglia al Cimitero Comunale Monumentale Campo Verano di Roma.

Incredibilmente, Rachele Mussolini viene a sapere di Claretta Petacci, amante fissa di suo marito, soltanto dopo il crollo del regime, il 25 luglio 1943: a ben otto anni dall'inizio della relazione. E solo perché i giornali cominciano a scriverne. Nei suoi diari Claretta mostra sempre rispetto per la moglie del dittatore. Il quale, peraltro, non la illude: lui è sposato, il divorzio non esiste, e mai lei oltrepasserà il rango di amante. La famiglia è sacra.
Mussolini si preoccupa del gossip: «No, non possiamo mostrarci insieme per via del pettegolezzo. Ce n'è già molto in giro, ti devi togliere dalla mente che noi si possa andare in pubblico o fuori di qui (palazzo Venezia), per qualche tempo. Bisogna essere prudenti», dice a Claretta il primo gennaio 1939.

E il 17 aprile, quando lei vorrebbe partecipare al ricevimento per la conquista dell'Albania, Benito glielo vieta: «Non ci faccio venire mia moglie, e ci porto l'amante? Sono cose che offendono, non si possono fare, abbi pazienza. No, la Sarfatti una volta che venne le voltai le spalle». In febbraio Mussolini preannuncia a Claretta: «Andrò qualche giorno al Terminillo con mia moglie e i bambini.
All'Anna (la figlia poliomelitica di nove anni) fa molto bene sciare. Tu potrai dormire all'albergo Quattro Stagioni, civedremo da lontano. Mia moglie è molto allegra e tranquilla, speriamo bene». Poi però cambia idea. Il 19 febbraio Claretta scrive: «È stanco e fiacco, facciamo l'amore senza eccessivo entusiasmo. Mi dice che partirà domani mattina alle 11 con la moglie per il Terminillo: "Guarda di non venire, sarà uno scandalo...".
Vede che sto per piangere, allora mi chiede: "Ma proprio mi ami tanto da non resistere?"». La Petacci gli risponde che lo seguirà lo stesso. Allora Mussolini si arrabbia: «Ci sarà qualche anima buona che lo farà sapere a mia moglie. Desidero farmi vedere molto con lei, appunto per sviare un po' di chiacchiere. Tutta Rieti sarà piena del tuo arrivo, tutto il Terminillo, gli alberghi.
E diranno "Mussolini è venuto ad un albergo con la moglie, e all'altro c'è l'amante". Se questo conviene al mio prestigio, al mio nome, al nostro amore, a te, a me, al nostro avvenire, e la tua sensibilità non ti consiglia il sacrificio, fai come vuoi. Ma te ne pentirai». Si pente invece Benito, due giorni dopo.



Telefona alle otto e venti del mattino dal Terminillo a Claretta, rimasta a Roma: «Mia moglie questa notte è stata malissimo, non ha fatto che vomitare dalle quattro. Abbiamo chiamato il dottore a Rieti, che non ha capito nulla».
Alle cinque del pomeriggio altra telefonata di Mussolini, da Roma: «Siamo dovuti tornare. Sta male, molto. Il vomito continuava e la soffocava, che pena. Non ho mai dormito. Il dottore ha detto che non si assumeva la responsabilità se rimaneva fuori, che venisse subito a Roma. Ma ce n'è voluto per convincerla. Piangeva, voleva restare. Non è stata un'impresa facile metterla in macchina e farle fare il viaggio.
Non ti dico questa notte lassù nella neve, soli senza una medicina, senza una farmacia. Volevano l'atropina, non si trovava, non so se c'era. E lei che si torceva. A un certo punto mi dice: "Non credevo che fosse così difficile morire. Ti raccomando i bambini, curali, non li abbandonare". Mi sono messo a piangere anch'io. Non sapevo più che fare, avevo paura. Io poi non lo capisco il male, mi spaventa. Non posso veder soffrire».

Mussolini utilizza Rachele come informatrice, perché il viso della riservatissima moglie è ignoto alla maggioranza degli italiani. Il 10 settembre 1939, per esempio, la signora Mussolini torna in incognito a Roma con il treno da Forlì: «Pessimo viaggio », racconta poi il duce a Claretta, «dieci ore quasi sempre in piedi perché ha ceduto il posto a donne incinte, ed era pienissimo.
A ogni stazione il treno si fermava per caricare soldati. E tutti dicevano: "Per il Duce andiamo pure a farci ammazzare, ma per Hitler neanche se ci manda il Padreterno". Nessuno l'ha riconosciuta, e lei stava a sentire».
Confermata, insomma, la giustezza della decisione presa dal duce dieci giorni prima: non entrare in guerra a fianco della Germania. A volte Mussolini si lamenta: «Mia moglie è diventata una donna difficile. Baccaglia per ogni nonnulla con le donne, fa un gran baccano per niente.
E poi non risponde,mugugna.Insomma, è veramente difficile viverci insieme» (2 luglio 1939). E in settembre: «Mia moglie è molto nervosa, come una che vive lontana dal marito. Era talmente acida, sì, infatti l'ho placata. In fondo dopo quaranta giorni si aspettava che le dessi questa soddisfazione.
Ma puoi immaginare con quale entusiasmo. Bisogna che un po' ci sappia fare, è già molto stanca. E poi è una donna che ha qualcosa che le rode». Benito parla apertamente con Claretta di quando va a letto con la moglie. Lo fa per placare l'ossessiva gelosia dell'amante, che lo sospetta (e a ragione) di tradirlo con altre. Allora utilizza Rachele come "male minore", accettabile dalla Petacci:
«Mia moglie è partita. Stamane alle otto ho pagato la tassa... È venuta lei, sai come sono queste cose, partiva... Così rimarrà fuori più a lungo. Sono di quelle cose meccaniche». (10 aprile 1939). E ancora: «Ieri sera ho pagato il tributo, ma anche questa finirà perché non c'è più corrispettivo, è una cosa assolutamente senza sapore. Non devi essere inquieta, non do importanza a queste tasse che pago.
Sono un contribuente. Sì, a me dispiacerebbe se lo facessi tu, hai ragione. Ma è necessario quando si devono evitare tragedie, scene, cose spiacevoli ». Il 20 settembre Claretta scrive: «Facciamo l'amore. Fiacco, sento che è stato con un'altra. "No, non sono stato con mia moglie. Non è accogliente, è poco gentile, nervosa e sgarbata, come tutte le donne di 50 anni che vorrebbero averne 40, quelle di 40 trenta, e quelle di 30 venti"».

Il 13 luglio 1937 squilla il telefono, e risponde Claretta Petacci. Al telefono è un furioso Benito Mussolini: "So tutto, di voi non ne voglio più sapere". E lei risponde: "Non so di che parlate". Ne segue un diluvio di improperi, rivolti dal Duce alla Petacci. Lei scoppia in lacrime, dunque annota sul suo diario: "Il mondo crolla su di me. Io muoio...". Una relazione segreta con Luciano Antonetti, latin lover d'antan nonché ex militare dannunziano. Un tradimento le cui prove non erano emerse fino ad oggi. Nella vicenda si è imbattuto Giuseppe Pardini, professore di Storia contemporanea, che ha lavorato sulle carte di Renzo De Felice. Lo studioso ha ritrovato preziosi documenti, dei quali erano state effettuate delle fotocopie dal biografo ufficiale di Mussolini. Stando ai documenti, il tradimento di Claretta è stato scoperto da Enzo Attioli, un noto fiduciario della polizia politica, al quale fu affidato il compito di sorvegliarla. Una notte clandestina col seduttore Antonetti, scoperta proprio da Attioli, e immediatamente riferita a Mussolini.



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IL FASCISMO

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« Il Fascismo è una grande mobilitazione di forze materiali e morali. Che cosa si propone? Lo diciamo senza false modestie: governare la Nazione. Con quale programma? Col programma necessario ad assicurare la grandezza morale e materiale del popolo italiano. Parliamo schietto: Non importa se il nostro programma concreto, non è antitetico ed è piuttosto convergente con quello dei socialisti, per tutto ciò che riguarda la riorganizzazione tecnica, amministrativa e politica del nostro Paese. Noi agitiamo dei valori morali e tradizionali che il socialismo trascura o disprezza, ma soprattutto lo spirito fascista rifugge da tutto ciò che è ipoteca arbitraria sul misterioso futuro. »
(Benito Mussolini, 19 agosto 1921 - Diario della Volontà)

Il termine fascismo deriva da Fasci di combattimento fondati nel 1919 da Benito Mussolini, origine etimologica dalla parola fascio (in lingua latina: fascis). Il riferimento era ai fasci usati dagli antichi littori come simbolo del potere legittimo, e poi passati ai movimenti popolari e rivoluzionari come simbolo di unione dei cittadini (per tale motivo, il fascio è tutt'oggi presente nei simboli e panoplie nazionali americani e francesi). L'ascia presente nel fascio simboleggiava il supremo potere di ius vitae necisque, diritto di vita o di morte, esercitato solo dalle massime magistrature romane, mentre le verghe erano simbolo dell'ordinaria potestà sanzionatoria, e materialmente usate dai littori per infliggere la pena (non capitale) della verberatio (fustigazione).

Il richiamo ai fasci va inoltre letto come un esempio dell'innegabile fascino che il mito di Roma esercitava sul fascismo, il quale di fatto tentò una restaurazione degli antichi fasti imperiali romani, e giustificò la sua politica espansionistica alla luce di una missione civilizzatrice del popolo italiano, erede di Roma.

Nell'ambito storiografico italiano il termine "fascismo" è usato soprattutto in riferimento al regime di governo e all'ideologia promossi e attuati da Benito Mussolini tra il 23 marzo 1919 e il 28 aprile 1945. Tale posizione è sostenuta anche da numerosi storici di formazione non-angloamericana.

Alcuni storici ritengono improprio l'utilizzo del termine "fascista" in riferimento alla Germania nazionalsocialista e ai regimi autoritari formatisi in Europa negli anni trenta e quaranta, considerati derivazioni del caso nazista più che di quello fascista (se si eccettuano il Portogallo di António de Oliveira Salazar, la Grecia di Ioannis Metaxas e il cosiddetto Austrofascismo, che tuttavia presentano somiglianze più che altro superficiali col fascismo italiano) o casi a sé stanti (come per la Spagna di Francisco Franco, il cui movimento e regime sono definiti Franchismo per distinguerli da fascismo e nazismo).

In tal senso, anche il termine "nazifascismo" è considerato scorretto da chi sostiene la specificità del fascismo italiano, perché non consentirebbe di cogliere le differenze avutesi tra i due movimenti. Questi studiosi contestano l'utilizzo del medesimo termine in riferimento a regimi autoritari post-bellici, uso che peraltro risulta essere effettuato in modo incoerente e, talora, con funzione di mero insulto (il termine "fascista" è usato, in tale accezione impropria, col significato astoriografico di "inumano, crudele, oppressivo"): in tal modo "fascista" è stato utilizzato tanto per indicare spregiativamente regimi quali quello di Augusto Pinochet in Cile (privo di una reale base ideologica), nonché regimi di segno ideologico opposto (quali quello comunista cinese e russo) oppure la democrazia americana.
Nei paesi anglofoni il termine Fascism viene usato:
per definire propriamente il regime fascista italiano;
per definire i regimi autoritari di destra sorti a imitazione del fascismo italiano (nazismo e franchismo);
per definire generalmente regimi nei quali lo stato sia asservito a interessi di gruppi privati;
per indicare i movimenti simpatizzanti per il fascismo sorti nel Regno Unito (British Union of Fascists) e negli Stati Uniti (Legione d'argento d'America);
genericamente ogni regime di tipo militarista, conservatore o reazionario, con accezione spregiativa;
sempre con accezione di epiteto, come sinonimo di "prepotente":
per definire i partiti politici italiani che si ispirano al partito fascista e spesso vedono o hanno visto tra le proprie file personaggi legati al partito fascista (sui giornali anglofoni sia il MSI sia AN sono chiamati "fascist party").
Nel corso della seconda guerra mondiale, la propaganda alleata tendeva a utilizzare indistintamente il termine fascist per definire tutti i paesi dell'Asse.

L'intellettuale Noam Chomsky parla di regimi "sub-fascisti" per indicare regimi militari sostenuti dalla CIA e dal Pentagono quali quello di Augusto Pinochet in Cile o altri dittatori del Sud America che utilizzando sistemi violenti e anti democratici (tortura, negazione dei diritti civili, repressione con la violenza di ogni forma di opposizione, uccisione di civili innocenti) hanno garantito agli Stati Uniti il controllo commerciale del mercato dei paesi sud americani e il saccheggio sistematico delle risorse di questi paesi. Questa interpretazione è contestata in ambito accademico classico, poiché secondo Renzo De Felice "in sede scientifica nessuno ha più dubbi sul fatto che tali regimi non debbano essere annoverati fra quelli fascisti, ma considerati classici regimi conservatori e autoritari", mentre viene considerata da politologi, come Paul H. Lewis, che vedono il possibile riconoscimento di un movimento autoritario e dittatoriale, di stampo fascista almeno per quanto riguarda le dittature di Mussolini, Franco, Salazar, Stroessner, Pinochet e altri dittatori minori che hanno governato in Sud America.

A sinistra, il termine "fascista" è talvolta usato per indicare qualsiasi regime autoritario di destra, specie quelli alleati dell'Asse durante la seconda guerra mondiale, come il regime militarista giapponese o il franchismo spagnolo, o più spesso i loro seguaci. Per alcuni anni, Stalin e la III Internazionale definirono i socialdemocratici come "socialfascisti" (una posizione abbandonata nel 1935).

Dal punto di vista di molte scuole interpretative marxiste, tuttavia, il fascismo vero e proprio è quello dell'Italia e della Germania: un "regime reazionario di massa" secondo la definizione di Palmiro Togliatti, accettata anche dal trotskismo internazionale e in qualche modo vicina alla definizione gramsciana di "rivoluzione passiva". In questo senso, non vengono fatte distinzioni di rilievo fra il regime hitleriano e quello di Mussolini, che vengono invece fatte rispetto a dittature prive di una base di mobilitazione di massa (come quella portoghese di Salazar o quella cilena di Pinochet). Il caso spagnolo è ambiguo, perché se pure esisteva un forte movimento fascista dal lato franchista, Franco non ne faceva parte e anzi si adoperò affinché venissero "riassorbite" in un generico "movimento nazionale" le forze che più apertamente si ispiravano a Hitler o a Mussolini (come la falange spagnola).

In generale, il termine è tuttora usato presso l'area culturale marxista o post-marxista come epiteto dispregiativo nei confronti della destra e in generale degli avversari politici. Un caso recente è stato quello del presidente venezuelano Chávez, che ha descritto il primo ministro spagnolo Aznar come "un fascista".

All'interno della vasta critica storica sul fascismo, è possibile individuare varie interpretazioni, tra le quali:
quella di Mussolini (scritta con Gioacchino Volpe), che nell'Enciclopedia Italiana alla voce relativa scrisse "il fascismo fu ed è azione";
quella liberale di Benedetto Croce, che considera il fascismo come una "parentesi" della storia italiana, una "malattia morale" a seguito della grande guerra;
quella democratico-radicale di Gaetano Salvemini e del Partito d'Azione, che considera il fascismo come un prodotto logico, inevitabile, degli antichi mali d'Italia;
quella di tradizione marxista, che considera il fascismo come un prodotto della società capitalista e della reazione della grande borghesia contro il proletariato attraverso la mobilitazione di masse piccolo-borghesi e sottoproletarie (il "regime reazionario di massa" descritto dai comunisti italiani in clandestinità);
quella revisionista di Renzo De Felice, che intende rivedere il giudizio storico tradizionale sul fascismo, proponendo un'analisi molto complessa e articolata che sottolinea, fra l'altro, il consenso raggiunto dal regime fascista, soprattutto fra il 1929 e il 1936, nella società italiana. La definizione di tale interpretazione come "revisionismo", tuttavia, è essenzialmente limitata all'ambito culturale italiano, essendo il termine revisionismo riferibile in genere ad ambiti più vasti e differenziati in sede di dibattito storico internazionale.
Il fascismo definiva sé stesso un sistema politico "totalitario". Nella concezione fascista dello Stato, l'individuo ha libertà e gode di diritti solo quando è pienamente inserito all'interno del corpo sociale gerarchicamente ordinato dello Stato (il cosiddetto Stato etico).

Nelle successive analisi degli storici (a partire dallo studio di Hannah Arendt del 1951) si sono sviluppate sostanzialmente due linee interpretative riguardo al carattere del regime fascista: una promossa inizialmente da Hannah Arendt e sviluppata successivamente da diversi autori, fra cui Renzo De Felice, che lo considera come prettamente "autoritario". e uno che lo considera "totalitario" (ma senza alcuna accezione apprezzativa) e che ha in nell'allievo di De Felice Emilio Gentile uno dei massimi sostenitori.

L'interpretazione autoritaria si basa in gran parte sull'idea, proposta da Hannah Arendt, di considerare il terrore come "la vera essenza" della forma totalitaria di governo; in tal senso, il regime fascista non può considerarsi "prettamente" totalitario in quanto mancò, a differenza di altri regimi quale quello nazista e quello stalinista, uno "sterminio di massa" e un uso costante del "terrore di massa" (cosa che peraltro veniva perpetrata tramite il meccanismo di azione detto Squadrismo)

Mancò inoltre, un completo controllo della comunicazione e dell'informazione.

Inoltre, sempre secondo questa interpretazione, lo stato autoritario ha limiti prevedibili all'esercizio del potere, ovvero è possibile "vivere tranquilli" e non incorrere nella vendetta dello Stato se si seguono alcune regole di comportamento, e non si fa opera di militanza e propaganda politica, mentre nello stato totalitario i limiti all'esercizio del potere sono mal definiti e incerti.

Infine, a sostegno di questa tesi, vi è anche il fatto che il fascismo (a differenza di nazismo e comunismo sovietico) fu obbligato a convivere (spesso anche trovando un comune accordo) con i poteri della Monarchia e della Santa Sede, i quali, nonostante una progressiva erosione delle proprie prerogative, mantennero la propria autonomia (spesso più formale che sostanziale).

Il concetto di "totalitarismo imperfetto", coniato dallo storico Giovanni Sabbatucci, riconosce nel fascismo una chiara matrice e una volontà totalitaria, resa però inane dalla presenza di altri poteri (Chiesa e Monarchia), dal suo eccessivo gradualismo e dalla politica mussoliniana di lasciare sempre qualche "valvola di sfogo" a personaggi afascisti o fascisti non "ortodossi" (come ad es. il caso di Nicola Bombacci).

Sono assenti o solo embrionali nel totalitarismo fascista i seguenti attributi caratteristici del caso nazista:
la supremazia del partito rispetto allo Stato;
i campi di sterminio di massa (Vernichtungslager);
un'ideologia sterminazionista nei confronti di nemici "di razza".
Mentre rispetto alla dittatura sovietica vi è una sostanziale differenza in termini di estensione ed efficacia della repressione del dissenso.

Attributi del totalitarismo fascista:
monopolio dei mezzi di comunicazione;
presenza di un'ideologia organica, propagandata con i mezzi di comunicazione di massa, cui l'individuo è tenuto ad aderire fideisticamente;
presenza di un partito unico, portatore di questa ideologia, che esercita un'autorità assoluta sotto la guida di un capo e di un ristretto numero di persone;
abbattimento di ogni forza antagonista;
ricorso sistematico alla mobilitazione delle masse, mediante il partito, l'uso della stampa, della radio, del cinema e delle grandi manifestazioni scenografiche;
controllo e repressione di tutte le opposizioni (in particolare quella comunista);
presenza di una polizia politica segreta (OVRA) che controlla l'effettiva "fascistizzazione" degli individui;
sacralizzazione della politica e del capo;
programma di costruzione di un "uomo nuovo";
affermazione del dirigismo politico in ambito economico.
Quando in Italia il partito fascista giunse al potere, nel resto dell'Europa (comprese Francia e Regno Unito) e del mondo non si guardò a esso con sfavore, soprattutto per il suo impegno come argine al bolscevismo sovietico e l'eversione. In seguito, durante il periodo di massimo splendore del regime, fra 1925 e 1935, il miglioramento dell'immagine dell'Italia nel mondo portò perfino diverse personalità del pensiero democratico (fra cui Winston Churchill e il Mahatma Gandhi) a esprimere simpatia per Mussolini e il suo regime. D'altro canto l'esperienza fascista non mancò di provocare in Europa (e non solo) movimenti fascisti e filofascisti di emulazione, per lo più ideologica e di immagine.

Nella maggioranza di questi casi, infatti, la somiglianza col fascismo italiano è solo epidermica, legata a certi stilemi (saluto romano, colore scuro delle camicie, manifestazioni di massa etc.), al culto del capo e della violenza, e a un feroce anticomunismo. In altri casi si verificarono anche "gemellaggi" con la dottrina sociale, filosofica e politica vera e propria.

Il più famoso dei movimenti para-fascisti fu il NSDAP (Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei-partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori) di Adolf Hitler.

Nel resto d'Europa furono molti i movimenti fascisti e filofascisti che si svilupparono e, soprattutto nell'Europa orientale, salirono anche al potere.

Movimento fondato in Italia da Mussolini il 23 marzo 1919 a Milano e sistema politico che ne conseguì con la conquista del potere nel 1922. Ispirato a un'ideologia antiborghese, ostile alle istituzioni liberali e parlamentari, il fascismo si proponeva obiettivi legati alla tradizione del sindacalismo rivoluzionario, al futurismo, al nazionalismo e all'imperialismo. Nel linguaggio contemporaneo il termine fascismo ha finito per acquistare un valore polemico e spregiativo, che va al di là del suo significato storico-politico. In modo spesso equivoco e pretestuoso, col termine fascismo si suole definire non solo ogni atteggiamento reazionario, conservatore e imperialista, ma squalificare qualunque avversario, col risultato di trasformare un vocabolo, riferito a una precisa esperienza storica, in un'ipotetica e fuorviante categoria sociologica.

Benché non costituisca un fenomeno esclusivamente italiano, il fascismo ha avuto origine nel nostro Paese come reazione e conseguenza della grave crisi politica ed economica seguita alla prima guerra mondiale. La classe dirigente, erede dello Stato liberale post-risorgimentale, aveva voluto spingere l'Italia nel conflitto, senza prevedere le gravissime perdite umane e materiali che ne sarebbero derivate. Così, dopo la fine vittoriosa, anziché godere i frutti della guerra, si era trovata improvvisamente costretta a dover fronteggiare una situazione difficilissima di tensioni e contrasti interni, dove gli interessi dei gruppi economico-sociali privilegiati si scontravano con le nuove aspirazioni della maggioranza della popolazione, fino allora tenuta ai margini della vita dello Stato. Questo processo di maturazione civile e politica dei ceti più poveri e incolti aveva ricevuto una notevole spinta a contatto col dramma dell'esperienza bellica, ma il ritorno alla normalità non aveva offerto a milioni di reduci la meritata ricompensa dopo i lunghi anni di pericoli e sofferenze in trincea. Anzi, insieme al dissesto delle finanze pubbliche, che i responsabili al governo non riuscivano a sanare, l'aumento dei prezzi e il diffondersi della disoccupazione alimentavano l'inquietante spirale delle agitazioni popolari. In questo sconvolgimento sociale, dove l'inefficienza economica stimolò il rafforzamento dei partiti di massa, con una forte crescita dei socialisti, soprattutto fra gli operai, e un'affermazione del Partito Popolare fra i cattolici dell'ambiente contadino, nacque e si andò affermando il movimento fascista.

Già nel 1915 Mussolini, leader del fascismo, aveva fondato i Fasci d'azione rivoluzionaria, con scopi puramente interventistici, risposta immediata e risoluta al neutralismo socialista che lo aveva costretto ad abbandonare il partito dove aveva fino ad allora militato. Sull'eco degli stessi principi, conclamanti la lotta per la lotta, la gioia liberatrice e fecondatrice dell'azione, Mussolini fondò a Milano il 23 marzo 1919 i Fasci italiani di combattimento. Fu questa la prima cellula di un movimento che si trasformò in Partito Nazionale Fascista e che conquistò il potere. Alla riunione di piazza San Sepolcro a Milano parteciparono un centinaio di persone (questi primi fascisti furono chiamati sansepolcristi), tra cui: Ferruccio Vecchi, Michele Bianchi, Mario Giampaoli, Mario Carli, Filippo Tommaso Marinetti. Il movimento aveva un programma vago ed era alla ricerca di un'ideologia. Tentava di fondere i motivi nazionalistici, cari soprattutto agli ex combattenti, con la polemica contro l'inefficienza del parlamentarismo, che trovava facili consensi anche negli ambienti piccolo-borghesi. “Noi ci permettiamo di essere aristocratici e democratici, conservatori e progressisti, reazionari e rivoluzionari, legalisti e illegalisti, a seconda delle circostanze di tempo, di luogo e di ambiente”, dichiarò Mussolini, il quale, oltre a interpretare gli ideali patriottici della piccola borghesia, capì che la debolezza della classe dirigente, incapace di stabilizzare la situazione economica e sociale, si poteva vincere solo conquistando i favori dei gruppi dominanti del padronato industriale e dei proprietari terrieri, sempre più intolleranti verso le manifestazioni popolari e pronti ad appoggiare chiunque fosse disposto a usare la mano forte. Così, nel giro di pochi mesi la propaganda fascista conquistò terreno e, senza far segreto di una volontà autoritaria, dichiaratamente antidemocratica, cercò di sfruttare il malcontento e di incanalare la spinta reazionaria delle forze borghesi e conservatrici, già deluse per la “vittoria mutilata” a Versailles e atterrite dalla volontà di ascesa delle classi popolari, che sembravano voler scuotere e schiacciare il tradizionale assetto gerarchico della società italiana. Inoltre, insieme al crescente squilibrio fra Nord e Sud, esasperato dai contrasti interni fra ceti padronali e proletariato operaio e contadino, il passaggio dalla vecchia economia agricolo-artigianale alla grande industria capitalistica (specie nel triangolo Milano-Torino-Genova) tendeva ad accrescere il peso dei più forti gruppi imprenditoriali, ma nello stesso tempo portava alla ribalta il proletariato operaio, sminuendo il ruolo che i ceti medi avevano continuato a svolgere dal periodo post-risorgimentale fino agli anni giolittiani del primo Novecento. Il fascismo, nella misura in cui rifiutava ogni piattaforma di lotta fra le classi e faceva appello al principio della superiore unità nazionale, intesa come un mitico organismo vivente cui dovevano essere subordinati tutti gli interessi particolaristici, parve inizialmente fornire un'efficace alternativa tanto alla debolezza di una classe politica dilaniata da insanabili contrasti interni, che mettevano capo a continue crisi di governo, quanto alle velleità massimalistiche del sovversivismo rosso, che si scontrava con le opposte cautele delle centrali sindacali, ancora fiduciose di spingere la borghesia sulla via delle riforme. Ma proprio l'esaltazione di un ipotetico primato nazionale, da raggiungere non più nel segno della politica liberale, che aveva caratterizzato tutto il periodo del Risorgimento e la storia postunitaria, si esprimeva attraverso un esplicito rifiuto degli ideali democratici. Una vigorosa difesa della “diseguaglianza irrimediabile e feconda e benefica degli uomini” accentuò il ricorso ai metodi della violenza fisica, con l'intervento delle squadre d'azione, che si diffusero alla prima sconfitta politica accusata dal movimento nelle elezioni del 16 novembre 1919: il fascismo riuscì infatti a presentarsi solo a Milano dove ottenne 4795 voti (1064 a Mussolini). Certamente il movimento mussoliniano pagò anche l'errore di avere appoggiato l'impresa dannunziana di Fiume (12 settembre 1919) che non trovò eco in un'Italia stanca di imprese belliche e velleitarie. Intanto i Fasci furono subito costituiti anche a Genova, Bergamo, Verona, Treviso, Napoli, Pavia, Brescia, Cremona, Trieste, Parma, Bologna, Roma. L'infiltrazione nella zona industriale e agraria era avvenuta, la presenza nella capitale assicurata. L'alta industria aveva trovato nel fascismo la forza da opporre alle rivendicazioni operaie, agli scioperi, alle durezze della lotta sociale che raggiunse il vertice con l'occupazione delle fabbriche nel 1920, mentre nella Valle Padana e nell'Italia meridionale, dove dominava la grande proprietà fondiaria e il bracciantato soffriva delle peggiori condizioni di sottoccupazione e dove i contadini alla testa di organismi sindacali avevano tentato l'occupazione delle terre, il fascismo divenne lo strumento della reazione e sviluppò massicci attacchi contro gli avversari, con spedizioni punitive, incendi, devastazioni, assassini, soprattutto nei confronti dei socialisti e dei cattolici-popolari. Giolitti, reputando che il fascismo sarebbe stato un fenomeno transitorio, consentì alla sua strumentalizzazione per spegnere la carica rivoluzionaria dei socialisti, nel presupposto che la lotta contro rossi e bianchi avrebbe smorzato la carica dei neri per il conseguito ideale della lotta per la lotta.



Il movimento fascista, divenuto partito (novembre 1921), cercò di darsi una dottrina e, poiché il “grande momento” per i socialisti era passato, Mussolini, prima di puntare decisamente al potere, tentò la politica delle alleanze. Entrò, per le elezioni del 1921, nei blocchi nazionali giolittiani, ottenne un primo successo mandando alla camera 35 deputati e cercò l'alleanza con i socialisti e i popolari. Era l'equivoco di una grande coalizione che portò al patto di pacificazione con i socialisti (agosto dello stesso anno) ma che non convinse i fascisti intransigenti e rappresentò una parentesi brevissima, perché pochi mesi dopo riprendevano scontri, lotte, violenze e il fascismo nuovamente autonomo, se così può dirsi, si appoggiava ai liberali, convinti o fiduciosi che il movimento di Mussolini avrebbe restituito a molti il senso dello Stato. E infatti Mussolini espose nella sua Dottrina del fascismo una concezione dello Stato che sembrava riallacciarsi al pensiero risorgimentale, nutrito di concetti idealistici hegeliani (accolti del resto dallo stesso Croce che non intuì subito la minaccia del fascismo, sperando di vedervi soltanto forze nuove capaci di un loro apporto risoluto e vivificante); ma in realtà il fascismo pretende di costruire uno Stato che accoglie in sé ogni individualità per annullarla nella concezione di una propria priorità assoluta volta solo ad affermare il primato del dominio e della forza. E lo Stato fascista accoglie in sé il cittadino solo in quanto parte di un tutto e riconoscerà la sua libertà nella libertà dello Stato, contro la concezione risorgimentale e liberale che nello Stato vede l'organo supremo per garantire la libertà individuale. L'assolutismo dello Stato diventa facilmente assolutismo di guida, unicità di potere, volontà di uno. Di conseguenza, il drastico annullamento della volontà individuale significherà esaltazione mistica del sacrificio, subordinazione assoluta alla volontà del capo per il bene della patria. Il fallimento dello sciopero legalitario dell'agosto 1922, la dimostrazione fascista di saper intervenire contro ogni tentativo di sovversione aprirono senz'altro al fascismo la via del potere.

La marcia su Roma (28 ottobre 1922) non fu tuttavia la conquista del potere, ma il cammino verso il potere e, mentre socialisti e comunisti si schierarono subito all'opposizione, molti rappresentanti della vecchia classe politica liberale, non diversamente da una parte dei popolari, si illusero di poter controllare l'ascesa del fascismo al potere, incanalandolo nell'ambito della vita democratico-parlamentare. Il primo governo di Mussolini, formato da fascisti, da liberali, da popolari e da indipendenti, poté così ottenere una larga maggioranza alla Camera (306 voti a favore e 116 contrari). Ma la speranza di una rapida normalizzazione non si realizzò, mentre lo svuotamento delle istituzioni parlamentari e l'avvio a uno Stato dittatoriale cominciarono subito con l'inquadramento delle camicie nere nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, vero esercito di partito messo direttamente agli ordini del capo del governo e con la creazione del Gran Consiglio del fascismo (11-14 gennaio 1923), destinato nel 1928 a diventare l'organo supremo che avrebbe coordinato e integrato tutte le attività del regime. Inoltre, la riforma elettorale del 1924, con la legge Acerbo (sistema maggioritario con fortissimi vantaggi per la lista di maggioranza relativa) che riduceva la rappresentanza delle forze di opposizione, non solo non mise a tacere le intimidazioni fasciste ma accentuò le violenze e i brogli elettorali, che il deputato socialista Matteotti denunciò alla Camera, anche se l'atto coraggioso gli costò la vita a opera di alcuni sicari fascisti (10 giugno 1924). Nonostante lo sdegno dell'opinione pubblica e la reazione degli altri partiti che abbandonarono il Parlamento su iniziativa di Amendola (opposizione dell'Aventino), Mussolini col discorso del 3 gennaio 1925 diede una svolta decisiva al regime dittatoriale. Con quel discorso il fascismo mostrò il suo vero volto.

Tra il 1925 e il 1928 furono varate le leggi (cosiddette “fascistissime”) che consacrarono la nuova struttura e lo strapotere dello Stato. Croce e con lui Giolitti, Salandra, Orlando e altri dovettero arrendersi all'evidenza. Ogni speranza legalitaria o di riporto alla legalità del fascismo cadeva. Essa moriva con la soppressione della libertà di stampa, le persecuzioni contro gli antifascisti, col ripristino della pena di morte, l'istituzione di un tribunale speciale per reati politici, l'istituzione dell'OVRA polizia politica segreta, e con l'attribuzione al potere esecutivo di emanare norme di legge. I normali meccanismi dello Stato di diritto e i fondamenti della libertà politica e della sovranità popolare vennero sovvertiti, mentre a cominciare dal 1926 nelle amministrazioni comunali alla procedura elettiva del sindaco e del consiglio venne sostituita la nomina governativa del podestà e della consulta, così da sconvolgere l'intero ordinamento centrale e periferico nel processo di fascistizzazione dello Stato. Il Parlamento risultò svuotato di ogni prerogativa (legge sulla decadenza dei deputati comunisti e aventiniani, 1926) e le elezioni (1929) vennero ridotte a semplici plebisciti di approvazione di una lista unica di deputati designati dal Gran Consiglio. Il capo del governo, che era contemporaneamente duce del fascismo, prese a occupare il vertice della piramide politica, che simboleggiava l'ordinamento gerarchico del regime, e venne sottratto a qualunque controllo o sanzione, con l'obbligo di rispondere solo al sovrano. Con le elezioni plebiscitarie del 1929 Mussolini poté contare su una Camera tutta composta da fascisti, e il carattere totalitario del fascismo finì rapidamente per coinvolgere ogni settore della vita italiana.

In campo economico-sociale, per differenziarsi dal sistema liberale, che assicurava ampi margini all'iniziativa privata, e nello stesso tempo per respingere il modello collettivista, soprattutto di tipo sovietico, che imponeva una rigida pianificazione, la Carta del Lavoro tentò fin dal 1927 di dar vita a una moderna forma di corporativismo, sopprimendo ogni tipo di lotta di classe e creando le corporazioni che, previste alla dichiarazione VI della Carta del Lavoro, furono istituite alla fine del 1934; in esse i lavoratori e i datori di lavoro cercarono un'impossibile collaborazione, specialmente dopo che erano stati distrutti con la violenza gli organismi sindacali, erano state sciolte le Camere del Lavoro ed era stato vietato il diritto di sciopero. Nonostante i costanti richiami a un programma interclassista, diretto a raggiungere la piena pace sociale, proprio la fallita esperienza del sistema corporativo resta la testimonianza forse più caratterizzante dell'incapacità del fascismo di realizzare i suoi ambiziosi obiettivi di riforma, perché i pesanti compromessi che Mussolini dovette subire, pur di mantenere il comando, non solo dai vecchi centri di potere (la corona e l'esercito soprattutto) ma anche dai maggiori centri economici (prima gli agrari, poi i gruppi del grande capitale industriale e finanziario), avviarono al fallimento i programmi di costruire una società nuova. La pianificazione economica varata dal conte Volpi, industriale e finanziere, chiamato al Ministero delle Finanze nel 1925, fu causa di gravi difficoltà. Fissata la lira a quota 90, l'esportazione entrò in crisi. Per frenare l'importazione vennero sanciti pesanti dazi doganali. Si dovettero ridurre stipendi e paghe del 12%. Il protezionismo favorì le industrie monopolistiche ma portò altre alla crisi. I salari italiani, nel 1930, erano al penultimo posto in Europa, seguiti solo da quelli spagnoli. I salari dei contadini venivano sempre più compressi per consentire ai produttori di sopportare la concorrenza straniera favorita dall'alto corso della lira. Il fascismo aveva autorizzato i proprietari agrari, come gli industriali, a rifarsi sui lavoratori e pubblicamente elogiava il sacrificio accettato. Neppure il protezionismo, spinto all'estremo dell'autarchia, valse a suscitare lo sperato sviluppo economico nazionale, nonostante gli sforzi di risanamento dell'agricoltura attraverso la politica delle bonifiche (per esempio nell'Agro Pontino) e le campagne per la battaglia del grano (iniziata nel 1925), e gli ambiziosi programmi di lavori pubblici, che dal 1929 al 1934 cercarono di dare, anche attraverso la retorica urbanistica e architettonica, l'illusione di un nuovo primato, in grado di far rivivere, secondo l'immagine della propaganda fascista, i fasti e le glorie di Roma imperiale.

Anche in campo scolastico, l'istituto dell'Opera Nazionale Balilla (ONB) valse a monopolizzare, fin dalle prime classi elementari, il processo di formazione educativa dei giovani secondo il principio del credere, obbedire, combattere, che tendeva a fare di ogni cittadino essenzialmente un soldato, pronto a rispondere agli ordini e fedele esecutore delle direttive imposte dall'alto. Imbevuto di retorica, il fascismo creò una divisa per ogni italiano, dalla più tenera età fino alla maturità. Marciarono, sfilarono in ogni paese d'Italia, al grido di Viva il Duce!, figli della lupa, piccole italiane, balilla, avanguardisti, giovani fascisti e fasciste, fascisti, donne fasciste e massaie rurali, salutando romanamente, battendo il passo romano (o dell'oca). Nella scuola fascistizzata, l'insegnamento travisò la storia. I ragazzi vennero organizzati nella GIL (Gioventù Italiana del Littorio, nata nel 1937 dalla fusione dell'ONB con i Fasci giovanili di combattimento), gli studenti universitari nei GUF (Gruppi Universitari Fascisti). Scomparve l'uso del lei; si parlò solo col voi. Nacque la scuola di mistica fascista. L'obbedienza al fascismo divenne un obbligo per gli stessi professori universitari, ai quali venne imposto il giuramento come condizione per poter mantenere la cattedra.

Dopo aver costretto la maggioranza degli oppositori a patire carcere e violenze (Gramsci, Amendola, Rosselli, Gobetti, per citare soltanto alcuni dei nomi più noti), o a trovare asilo politico all'estero (fuoruscitismo), per meglio rafforzare la propria posizione interna il regime fascista aveva trovato un accordo con la Chiesa cattolica, chiudendo il lungo capitolo della cosiddetta questione romana e realizzando attraverso i Patti Lateranensi del 1929 la conciliazione fra lo Stato italiano e la Santa Sede, così da garantire a Mussolini l'appoggio delle più alte gerarchie ecclesiastiche. L'accordo non fu giudicato favorevolmente dai fascisti. Molti furono i malumori per il pesante riscatto imposto dalla Chiesa (750 milioni in contanti e un miliardo di consolidato), ma quest'ultima, che pur vedeva il cattolicesimo riconosciuto come religione di Stato, accettava il divieto per i cattolici di organizzarsi in partiti politici. Ciò non impedì all'Azione Cattolica di svolgere la propria attività presso i giovani al di fuori dello spirito fascista, tant'è vero che nel 1931 fu accusata esplicitamente di sottrarre uomini e giovani alla disciplina fascista. Sembrò la rottura, ma si giunse al compromesso e il fascismo mantenne l'appoggio della Chiesa e dell'alta borghesia, a conferma che, nonostante la tanto conclamata dottrina dello Stato etico assoluto, l'Italia altro non era se non un Paese conservatore e burocratico, chiuso a ogni progressismo e tutore degli antichi privilegi.

L'ascesa del fascismo culminò nel 1936 con la conquista dell'Etiopia, la proclamazione dell'impero e la vittoria sulle sanzioni economiche proclamate da cinquantadue Stati della Società delle Nazioni, che aveva condannato l'aggressione italiana in Africa. Furono sanzioni blande, cui non aderì la Germania, quasi le vecchie democrazie credessero al fascismo e al nazismo come ai necessari baluardi contro il comunismo e volessero compiacerli solo per controllarli. Il fascismo, tuttavia, non mirava solo al colonialismo, ma a fascistizzare l'Europa. L'asse Roma-Berlino ottobre 1936) e il contemporaneo intervento in Spagna rivelarono al mondo che gli Stati democratici nulla più potevano e dovevano concedere a un fascismo ormai pronto ad assimilare e a partecipare alla politica di espansione nazista. Il nazi-fascismo (così cominciò a essere noto) mirava ora ad annettere ogni terra dove vivessero in preponderanza tedeschi e italiani. Austria, Danzica, Sudeti per Hitler; Malta, Tunisi, Gibuti, Nizza, Canton Ticino per l'Italia. Tutte le concessioni che l'Europa democratica aveva fatto a Hitler e a Mussolini (Renania, 1936; Anschluss, 1938; Albania, 1939) furono dettate dalla speranza di salvare la pace, ma il nazi-fascismo rivelava intanto un altro aspetto della sua aberrante dottrina, il razzismo.

Seguendo l'esempio di Hitler, Mussolini promulgò le leggi razziali (1938-39), creando la prima vera grande scissione tra il Paese e il regime. L'Italia, fatalmente trascinata dalla politica nazista, si trovò coinvolta (1940), assolutamente impreparata, nella seconda guerra mondiale. Le disastrose campagne di guerra in Grecia, in Russia e in Africa settentrionale e lo sbarco delle truppe americane in Sicilia affrettarono la crisi del fascismo; il 25 luglio 1943, dopo il voto di sfiducia del Gran Consiglio, Mussolini fu costretto da Vittorio Emanuele III a lasciare il governo, subito assunto da Badoglio.

Lo smarrimento e il caos nati dall'armistizio dell'8 settembre 1943 consentirono, con l'appoggio dei Tedeschi, un rigurgito di potere fascista. Mussolini, liberato dalla prigionia sul Gran Sasso, ma ormai strumento di Hitler, fondò il 23 settembre 1943 la Repubblica Sociale Italiana, che estendeva la propria giurisdizione sulla parte dell'Italia centrosettentrionale occupata dai Tedeschi e aveva come programma il manifesto di Verona, elaborato dal congresso del Partito Fascista Repubblicano nel novembre 1943. Ma gli sforzi di rilanciare il fascismo, applicando alcune misure di socializzazione in campo economico, per richiamarsi alle antiche origini popolari del movimento, fallirono di fronte al dilagare della guerra, che dimostrava imminente la disfatta nazi-fascista, mentre i movimenti di resistenza partigiana si diffondevano soprattutto nel Nord. Nell'autunno-inverno 1944-45, con lo stabilizzarsi del fronte sulla linea gotica, alcuni provvedimenti, come la requisizione delle aziende e la distribuzione di viveri alla popolazione, furono l'ultimo, inutile sforzo per riguadagnare la solidarietà dell'opinione pubblica al fascismo (allora più noto col nome di Repubblica di Salò, dalla zona del lago di Garda sede dell'ultimo governo di Mussolini). Il 25 aprile 1945, mentre anche la Germania hitleriana era ormai incapace di sostenere la massiccia offensiva degli eserciti alleati (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e URSS), con la liberazione di Genova e di Milano il fascismo vedeva irrimediabilmente segnata la sua condanna a morte. Finiva così, con una disastrosa sconfitta, dopo un ventennio di errori e di orrori, quel movimento politico che fin dal suo primo manifestarsi venne avversato dai partiti democratici, ma che si affermò anche per le blandizie della borghesia, l'astensione della maggioranza e l'incomprensione di troppi intellettuali. Finito come regime politico, il fascismo sopravvive tenace come fenomeno degenerativo nel culto del nazionalismo, del militarismo e dell'ordine da conservare a dispetto della libertà di pensiero e di espressione.

Ragioni economiche, politiche, sociali analoghe a quelle che avevano favorito l'affermarsi del fascismo in Italia, contribuirono a diffonderlo in Europa, dove mise radici più o meno profonde in diversi Paesi, ispirato non solo dall'avversione al marxismo e al bolscevismo ma da una violenta polemica contro il sistema parlamentare, e da un'esaltazione dell'idea nazionalista, dei principi del corporativismo e addirittura del fanatismo razzista. La Spagna fu tra i primi Paesi ad accogliere il fascismo e a organizzarlo in partito attraverso l'opera di Caballero, di Ledesma Ramos, di Primo de Rivera e infine di Franco; ma per imporre al Paese il regime (1938) la Spagna ebbe necessità di ottenere l'aiuto dell'Italia e della Germania, dove il nazionalsocialismo era giunto al potere con Hitler nel 1933. Un regime fascista modellato secondo i principi del corporativismo venne creato anche in Portogallo da Salazar (1932), mentre più ristretti movimenti fascisti si affermavano in Belgio con il rexismo di Léon Degrelle e di J. Denis e in Austria con la Heimwehr, capeggiata da E. Rüdiger von Starhemberg, che dopo un primo putsch fallito nel 1931 giungeva al successo nel 1934, fondendosi coi cristiano-sociali e mettendo capo a un ibrido corporativismo che sarebbe finito due anni dopo. L'ideologia fascista ebbe una certa eco anche in Gran Bretagna con il British Fascism capeggiato da Lintorn-Orman e con la British Union of Fascists, diretta da O. Mosley. In Francia il fascismo prese aspetti particolari (Croix de feu, Fascisme, Cagoule, Parti Populaire Française, Faisceau), e i lineamenti ideologici trovarono gli spunti maggiori nelle tesi dell'Action Française. In Olanda con Joris Van Severen, in Norvegia con V. Quisling, in Cecoslovacchia con Josef Tiso si ebbero movimenti fascisti di non lungo respiro, mentre un peso più considerevole nella vita politica il fascismo lo ebbe in Romania con la costituzione (1930) della Guardia di Ferro di Codreanu e in Grecia con l'ascesa al potere (1936) di Metaxâs. Vano invece fu il primo tentativo di conquista del potere che il fascismo tentò in Ungheria con le Croci frecciate di Szálasi nel 1940, anche se poi riuscì momentaneamente nel 1944, quando però il Paese era alla vigilia della disfatta.

La Costituzione della Repubblica Italiana alla XII Disposizione transitoria stabilisce il divieto di ricostituzione del partito fascista. Con legge 20 giugno 1952, n. 645 sono state emanate norme positive che puniscono in concreto qualsiasi attività diretta alla restaurazione del disciolto Partito Nazionale Fascista, anche se simulato sotto diversa denominazione.

Nonostante il divieto di ricostituzione del disciolto Partito Nazionale Fascista, stabilito dalla Costituzione Repubblicana, movimenti fascisti sopravvissero anche dopo la guerra. In particolare il Movimento Sociale Italiano di Pino Romualdi e Giorgio Almirante, che fu accusato a più riprese di ricostituzione del disciolto partito fascista. Il senatore Giorgio Pisanò nel 1989 fonda e guida la corrente interna al MSI denominata Fascismo e Libertà. Nel luglio 1991 Fascismo e Libertà esce dal partito guidato da Gianfranco Fini. Giorgio Pisanò guida la frangia dei camerati irriducibili verso un nuovo progetto politico profondamente mussoliniano; così fonda e diviene Segretario Nazionale del Movimento Fascismo e Libertà (MFL). Successivamente, l'11 dicembre 1993 il Comitato Centrale "missino" approverà il nuovo Movimento Sociale Italiano-Alleanza Nazionale con l'astensione di 10 dirigenti legati all'ex-segretario e combattente della RSI Pino Rauti. Nel 1994 Movimento Sociale Italiano-Alleanza Nazionale sciolse i legami interni con gli esponenti del MSI più nostalgici, trasformandosi in Alleanza Nazionale (AN) durante il congresso di Fiuggi. Fu il momento nel quale il gruppo di dirigenti vicini a Pino Rauti, si staccò da AN, coadiuvando insieme ai membri del MFL di Giorgio Pisanò nel progetto di conservazione dello storico partito, fondando la Fiamma Tricolore quale nuovo soggetto politico. Alcuni mesi più tardi il leader e segretario del MFL lascia però la vita politica, complice l'aggravarsi del suo stato di salute che lo porterà alla scomparsa (17 ottobre 1997). Il Movimento Fascismo e Libertà minoritario all'interno del nuovo soggetto, non trovando spazio ne esce dopo una breve esperienza. Nel 2001 il MFL subisce la scissione di alcuni dirigenti che fondano Nuovo Ordine Nazionale. Relativamente di recente, il 7 maggio del 2004, Pino Rauti il promotore e fondatore della Fiamma Tricolore, dopo alcune vicende personali, ha lasciato anche questo movimento per fondare il Movimento Idea Sociale (MIS).

Nel 2009 il MFL distingue e difende le sue finalità ideologiche nelle posizioni più socialiste dell'originario fascismo rivoluzionario e della Repubblica Sociale Italiana, optando per una netta contrapposizione e rottura verso tutte le altre forze neofasciste che si riconoscono nella destra italiana e/o comunque riconducibili alla cosiddetta Area, denominandosi Movimento Fascismo e Libertà - Partito Socialista Nazionale.

Contemporaneamente Alessandra Mussolini, nipote del dittatore, lasciava AN in polemica col suo presidente Gianfranco Fini, che aveva preso le distanze dalle posizioni legate al fascismo e alla figura di Mussolini. La Mussolini fondò così un proprio partito (AS, Azione Sociale) che promosse l'alleanza denominata Alternativa Sociale che univa AS ad altri due movimenti neofascisti e nazionalisti: Forza Nuova, guidato da Roberto Fiore, e Fronte Sociale Nazionale, fondato da Adriano Tilgher.

Il Fascismo storico, così inteso dalla fondazione del Popolo d'Italia e l'inizio delle campagne interventiste nel 1914 al termine della Repubblica Sociale Italiana (RSI) nel 1945, fece ampio uso della simbologia classica dell'antica Roma: esempi ne furono il Fascio littorio, il Saluto romano, l'utilizzo della lettera "V" in luogo della "U" e l'aquila romana.

I movimenti neofascisti in un primo momento ripresero, modificandola leggermente, questa simbologia; mentre a partire dagli anni settanta, con la rivoluzione generazionale in atto si cominciò a fare uso della croce celtica e delle rune nordiche.

All'inizio degli anni Novanta, ma più diffusamente a cavallo tra i Novanta e i Duemila, ebbe luogo un ulteriore passaggio generazionale, principalmente sulla scia del DART (Divisione ARTistica) prima e della cultura non conforme e del circuito OSA/ONC poi. In questo periodo non si ripresero simboli del passato, ma si elaborarono immagini nuove provenienti dalle sezioni artistiche dei vari movimenti, spesso accordandosi con principi tradizionali e spirituali.

I fasces lictorii erano, nell'Antica Roma, l'arma portata dai littori, che consisteva in un fascio di bastoni di legno legati con strisce di cuoio, normalmente intorno ad un'ascia. Tale arma divenne in seguito un simbolo del potere e dell'autorità maggiore, l'imperium, ed assunse la tipica forma di fascio cilindrico di verghe di betulla bianca simboleggianti il potere di punire, legate assieme da nastri rossi di cuoio (latino: fasces), simboli di sovranità e unione, al quale talvolta era infissa un'ascia di bronzo, a rappresentare il potere di vita e di morte sui condannati romani. Il simbolo venne ripreso da vari movimenti politici ed entità statali a partire dalla fine del XVIII secolo (tra cui i fasci siciliani) e divenne infine l'emblema dei Fasci italiani di combattimento di Benito Mussolini nel 1919.

Il saluto romano è una forma di saluto che prevede il braccio destro teso in avanti verso l'alto, con la mano tesa aperta. Inizialmente fu usato dai legionari fiumani, successivamente fu imposto dal regime attraverso una campagna promossa da Achille Starace.

L'aquila, altro antico simbolo romano, venne ripreso dal regime e usato in molte costruzioni, riprodotto sul retro della lira e sulla bandiera da guerra della Repubblica Sociale Italiana.

La V maiuscola rappresentava sia l'alleanza tripartita tra Italia, Germania e Giappone, sia l'iniziale della parola "vittoria". I tre vertici della lettera corrispondevano al Giappone (a destra), alla Germania (a sinistra), e all'Italia (al centro).

La croce celtica è oggi uno dei più noti e diffusi simboli neofascisti, in quanto venne usata prima dal Parti Populaire Français, un partito fascista creato in Francia negli anni trenta e nel dopoguerra da diversi gruppi neofascisti e di estrema destra in tutta Europa.



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sabato 5 marzo 2016

I GHETTI EBRAICI

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Quasi sempre, nella storia, gli ebrei sono stati vittime di pregiudizi, perseguitati e costretti a lasciare la propria terra per spostarsi alla ricerca, vana, di un po’ di tranquillità. Ma la persecuzione di gran lunga più grave appartiene alla storia recente: uno dei genocidi più terrificanti dell’umanità, quello che sterminò poco meno di sei milioni di ebrei, operato dal nazifascismo tra il 1940 e il 1945, durante il secondo conflitto mondiale.
Dopo essere stati oggetto di persecuzione e discriminazione per secoli e secoli, dopo aver visto i propri diritti calpestati dalla bolla Cum nimis absurdum di papa Paolo IV Carafa, nel 1555, e dopo essere stati costretti alla convivenza in quartieri separati chiamati ghetti, gli ebrei abitanti nel regno di Sardegna ottennero finalmente, nel 1848, l’eguaglianza dei diritti con gli altri cittadini per iniziativa del re Carlo Alberto di Savoia; sarebbero stati poi in molti a partecipare al processo di unificazione nazionale.

Il ghetto è un'area nella quale persone considerate (o che si considerano) di un determinato retroterra etnico, o unite da una determinata cultura o religione, vivono in gruppo, volontariamente o forzosamente, in un regime di reclusione più o meno stretto. In realtà il termine nasce per indicare il quartiere ebraico, quella zona della città in cui gli ebrei erano anticamente confinati ad abitare, e completamente rinchiusi durante la notte. Modernamente è chiamato ghetto anche la parte malfamata della città

Il termine ghetto deriva dall'omonimo quartiere di Venezia del XIV secolo. Prima che venisse designato come parte della città riservata agli ebrei (essi infatti risiedevano anteriormente nel Sestiere della Giudecca), era una fonderia di ferro: il nome del quartiere deriva dal veneziano geto, pronunziato ghèto dai locali ebrei Aschenaziti di origine tedesca, inteso come getto, cioè la gettata (colata) di metallo fuso.

Il nome era stato prima utilizzato nella cittadina di Antrodoco (provincia di Rieti) nella seconda metà del XIII secolo e stava ad indicare la parte più alta della cittadina; essa fu la prima parte della cittadina ad essere edificata proprio da una famiglia ebrea, da cui il termine Ghetto.

Dall'esempio del Ghetto di Venezia il nome venne trasferito ai vari quartieri ebraici. In Castiglia erano chiamati Judería e nei paesi catalani call. Vale la pena di notare che il quartiere ebraico di Venezia (il Ghetto), era una parte ricca della città, abitata da mercanti e prestatori di denaro. Ai non ebrei non era permesso di vivere nel Ghetto di Venezia e i suoi cancelli venivano chiusi di notte. A differenza della vicina Mantova, dove più di 2.000 ebrei venivano rinchiusi la sera nel ghetto, Vespasiano I Gonzaga a Sabbioneta dette rifugio alla popolazione di religione ebraica, non ghettizzandola.

Nel Medioevo non c'era obbligo, per gli Ebrei, di risiedere nel ghetto. Preferibilmente vivevano in quartieri chiamati Giudecca. La differenza tra Giudecca e Ghetto era che la prima era una residenza preferenziale, legata a motivi di sicurezza e salvaguardia culturale, il secondo invece un domicilio coatto.

In vari luoghi, inoltre, come ad esempio a Forlì, potevano possedere terreni e fabbricati. Col Cinquecento, la possibilità si restrinse ai soli fabbricati. Solo successivamente, dunque, ghetto andò a indicare un quartiere povero.

La comunità ebraica, pur rappresentando una percentuale molto piccola della popolazione italiana, è stata ininterrottamente presente nella nostra penisola da circa 2200 anni. Nell’antica Roma, all’incirca nel 4 a. C., su un totale di 800 mila persone si stimava che ci fossero 40 mila ebrei:

molto tempo prima della distruzione del tempio di Gerusalemme a opera di Tito nel 70 d. C., molto tempo prima che i successori di Pietro facessero di Roma la città santa del cristianesimo, una colonia ebraica si era insediata sulle rive del Tevere. Infatti lo storico Giuseppe ricorda che almeno ottomila ebrei vi vivevano la Sinagoga precedette il Vaticano”.

E, se ci spingiamo un millennio più avanti, ci accorgiamo che su un numero molto incrementato di abitanti (circa 10 milioni negli spazi italiani), c’erano soltanto diecimila ebrei in più. Questo numero era destinato a crescere grazie all’arrivo degli ebrei espulsi espulsi dalla Spagna in seguito al provvedimento messo in atto da Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia nel 1492 (la cosiddetta “Cacciata dei Marrani”).

In Italia, gli ebrei sono sempre vissuti in gruppi con riti e tradizioni diversi, a seconda della loro provenienza e delle loro origini: italiani, sefarditi (provenienti dalla Spagna) e ashkenaziti (di provenienza tedesca), ai quali, dopo la seconda guerra mondiale e la Shoah, e durante tutti gli anni ’50, si sono aggiunti altri ebrei di origine persiana, libanese, egiziana e libica.

Proprio negli anni successivi a quelli della deportazione e dello sterminio, la comunità ebraica è andata consolidandosi: oggi nel nostro paese sono presenti circa 30 mila ebrei disseminati in 21 comunità riconosciute dallo Stato italiano.

Tuttavia, con la salita al potere del fascismo, si raggiunse un livello insopportabile:gli ebrei non potevano sapere che cosa sarebbe accaduto, ma già con il concordato del 1929 con il Vaticano l’unica religione di stato diventava il cattolicesimo.

Fu con l’avvicinarsi della guerra, nel 1938, che furono presi i primi provvedimenti legislativi antisemiti: il fascismo promulgò le leggi razziali, che escludevano gli ebrei dall’esercizio delle professioni, dalla scuola e dalle università e limitavano ogni diritto di proprietà:

come emerge chiaramente da una lettera del camerata A.G. di Roma apparsa  ne “La difesa della razza”, essi fanno, secondo l’ideale fascista, “praticamente parte dell’esercito nemico!” L’ebreo “è un soldato nemico che noi ospitiamo e che, lungi dal rinchiuderlo nei pur confortevoli (troppo!) nostri campi di concentramento, lasciamo a piede libero, senza sorveglianza, colmandolo di sorrisi, di attenzioni, di gentilezze, offrendogli spesso complicità immonde”.

Al termine della seconda guerra mondiale, gli ebrei in Italia erano 21.000, mentre prima del conflitto erano circa 50.000: in molti erano emigrati, ma più di ottomila erano stati deportati nei campi di concentramento nazisti; di questi, soltanto pochissimi furono i superstiti.

Le persecuzioni cessarono, ma è soltanto con la legge d’Intesa (in ottemperanza agli articoli 8 e 19 della costituzione italiana) firmata nel febbraio del 1987 tra lo Stato italiano e l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, che gli ebrei si vedono i loro diritti pienamente riconosciuti:

art 8: “Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze.

Art 19: “Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purchè non si tratti di riti contrari al buon costume.

Queste forme di "giudeofobia" si manifestarono solo in piccola parte durante il Medioevo poichè la separazione degli ebrei dai non ebrei era improponibile da parte della chiesa che voleva garantire la libertà di culto al popolo giudaico in quanto testimone vivente del messaggio divino. Un'alta esigenza era di vitale importanza per la società medioevale: gli ebrei erano abili operatori economici e quindi risultava estremamente dannoso privare la collettività di quei servizi fiscali necessari effettuati per la maggior parte dal popolo ebreo. Se queste esigenze non potevano essere compromesse allora si fece ricorso ad altri mezzi: gli ebrei dovevano portare un segno di riconoscimento, non si potevano sposare o avere relazioni sessuali con i cristiani e addirittura gli venne impedito di frequentare gli stessi luoghi pubblici, gli ebrei dovevano restare rinchiusi durante i giorni della Settimana Santa, e così via.
Le prescrizioni contro gli ebrei aumentarono significativamente sia nel mondo cristiano che in quello islamico trasformando in obbligo la loro libera scelta di installarsi in un determinato quartiere. Anche se la segregazione degli ebrei avveniva sotto costrizione, nel Medioevo non si verificò mai una vera e propria ghettizzazione, infatti la clausura non era controllata dall'esterno e alcuni vivevano ancora in quartieri popolati perlopiù da cristiani e conservando i propri luoghi di culto.
Certamente la pressione della Chiesa per una più accurata separazione tra Ebrei e Cristiani andava accentuandosi, il passo decisivo fu compiuto con il concilio di Breslavia (1266) che, a Gniezno, istituì il primo quartiere fisicamente separato per gli ebrei. Comunque le richieste dei pontefici per la clausura obbligatoria non vennero soddisfatte ovunque, ma là dove non arrivava la Chiesa i "ghetti" venivano istituiti dai poteri civili sotto la spinta delle masse popolari o sollecitati dal clero locale.
Ormai le segregazioni coatte di ebrei si assomigliavano sempre più a quelle che sarebbero state realizzate nel sedicesimo secolo. In Spagna già dal duecento iniziarono a sorgere quartieri ebraici distinti: nel 1243 Giacomo di Aragona ordinò agli ebrei di Terragona di concentrarsi in un unico quartiere. Di lì a poco in tutta la penisola iberica si accentuarono le persecuzioni, le prime espulsioni di massa fino ad arrivare ad una vera e propria "ghettizzazione" che fu promulgata nel 1480 da Ferdinando il Cattolico e Isabella. Dodici anni più tardi gli ebrei furono espulsi dalla Spagna o costretti a convertirsi. Come in Spagna anche gli ebrei tedeschi e francesi seguirono la stessa sorte evitando, però, l'espulsione.
Nei paesi arabi, al contrario di quelli europei, non si era quasi mai sostenuto l'esigenza di separare gli "infedeli" sebbene esistessero "quartieri ebraici" (così definiti solo perché la maggioranza della popolazione che vi risiedeva era costituita da ebrei), venivano chiamati "shara" in Tunisia e Algeria e "mahallat Yahud" in Persia. Questi non erano circondati da mura e non escludevano la mescolanza di ebrei con il resto della popolazione. Solo nella prima metà del 1400 comparvero nei paesi arabi i veri e propri ghetti, ma si trattava comunque di casi isolati (Marrakesh, Mekness, Fez e alcune città dello Yemen).
Il nome ghetto fu "coniato" a Venezia nel 1515 quando gravi tensioni interne avevano condotto i veneziani a porsi il problema dell'eccessiva presenza ebraica in città. dato che era sconveniente ricorrere all'espulsione, si pensò di creare un quartiere ebraico come era avvenuto nelle colonie dell'Egeo. Naturalmente l'opposizione degli ebrei fu vana e, per la paura di un'espulsione di massa, accettarono di essere raccolti in un'area a loro destinata: il quartiere di Cannaregio. Il ghetto di Venezia conobbe un incredibile aumento della popolazione che portò la popolazione ad effettuare notevoli ampliamenti, qui non c'erano solo gli ebrei ma tutti coloro che non erano accettati dalla società perchè giudicati pericolosi o diversi.
Durante tutto il seicento la pressione della Chiesa sugli stati italiani per l'adesione al programma di segregazione del popolo ebraico si fece sempre più inevitabile per mantenere la propria autonomia, le proprie tradizioni religiose, cosicchè vennero realizzati numerosi nuovi ghetti su tutto il territorio italiano: a Ferrara, Urbino,Padova, Verona. I casi più in vista furono Mantova, Modena, Reggio e Livorno, dove la popolazione ebraica era molto più numerosa che in tutte le altre città italiane.
A Mantova Clemente ottavo impose l'istituzione di un nuovo ghetto al duca Vincenzo primo che si decise ad aprire trattative con gli ebrei. Questi ultimi non si opposero poichè lo videro come uno strumento di protezione ma dovettero provvedere a tutte le spese per la sistemazione del ghetto.
A Modena e a Reggio i ghetti furono meno opprimenti infatti i mercanti vennero autorizzati a tenere alcune botteghe fuori del perimetro e ci furono progressivi adeguamenti dello spazio man mano che la popolazione aumentava.
A differenza di tutte le città citate fino ad adesso Livorno presenta un'eccezione, infatti i Granduchi di Toscana concessero ospitalità a tutti gli stranieri (Ebrei compresi) al fine di trasformare Livorno in un importante centro commerciale. Non si assistette, quindi alla fondazione di un nuovo ghetto ma semplicemente ad un libero insediamento.
In quasi tutti gli stati italiani i ghetti non si limitarono alle grandi città ma vennero fondati anche nelle minuscole localita' di confine, nei piccoli borghi e nei centri agricoli. Il ghetto divenne in Italia l'unico scenario della vita quotidiana della grande maggioranza degli Ebrei.
Un caso isolato è quello del Piemonte. Quello di Torino fu il primo vero ghetto dello stato di Savoia, già dal Quattrocento c'erano state iniziative di segregazione degli ebrei in Piemonte e il vescovo di Alessandria tentò di far istituire il ghetto nella sua città ma solo a Torino nel 1621 si arrivò alla realizzazione. Sotto la reggenza di Maria Giovanna Battista di Nemours, moglie del defunto Carlo Emanuele secondo, scelse come area di insediamento l'Ospedale di Carità, un'istituzione già destinata alla segregazione di poveri e malati. Con la nascita del Regno di Sardegna Amedeo II estese l'obbligo di risiedere nei ghetti a tutti i sudditi ebrei.
Ancora una volta gli ebrei non si opposero alla loro segregazione, intimoriti dall'ostilità cristiana.
La segregazione degli ebrei nei ghetti ebbe perlopiù una funzione protettrice, per questo non si verificarono quasi mai resistenze violente, infatti l'istituzione dei "recinti" non era legata a ragioni ideali bensì a ragioni pratiche. Il ghetto godeva di ampia autonomia e si autogovernava attraverso leggi religiose.
Anche se nei ghetti vigevano leggi ferree che assicuravano un'esistenza tranquilla e pacifica ai suoi abitanti, non mancavano di certo pericoli che potevano mettere a rischio l'intera comunità. Questi rischi provenivano sopratutto dall'esterno. Alla fine del settecento, in Italia, si era diffusa la convinzione che gli ebrei stessero dalla parte della "rivoluzione" e questo indusse le masse popolari ad aggredire i ghetti e a massacrarne gli abitanti, ma questo accadde anche perchè alcuni ghetti vennero aperti senza gradualità e quindi senza che le autorità avessero ancora preso le contromisure necessarie per un pacifico reinserimento degli ebrei nella società che ormai da secoli era abituata a tenerli fisicamente separati.
L'altro grave problema riguardava le condizione di degrado in cui vivevano gli abitanti del ghetto, infatti l'intrico delle abitazioni esponeva gli ebrei ad una maggior propagazione delle epidemie, senza pensare poi a quello che poteva accadere in caso di inondazioni, terremoti, incendi e più in generale tutte le calamità naturali.
Solo nell'ottocento si arrivò alla cancellazione dei ghetti, già durante il settecento le concessioni si erano moltiplicate e poi in molte città la clausura venne abolita, ma questo accadde solo nell'Europa occidentale, perchè in quella orientale, e soprattutto in Germania, la dottrina antisemita assunse i toni più virulenti.
Tra la fine dell'ottocento e gli inizi del novecento in Germania la diversità dell'ebreo fu avvertita come diversità nazionale, il che portò il paese ospitante a sospettare di infedeltà al popolo tedesco. Ciò accadde soprattutto dopo la sconfitta della prima guerra mondiale e le drammatiche vicende della repubblica di Weimar.
La popolazione ebraica fu colpita da una serie di limitazioni crescenti e dall'odio di una nazione che si preparava ad una dittatura in nome del mito della razza ariana.
Con l'invasione della Polonia, i nazisti si trovarono di fronte ad una popolazione ebraica di gran lunga più numerosa che in occidente, i provvedimenti di discriminazione apparvero irrealizzabili e per questo si passò alla segregazione coatta degli ebrei all'interno di una serie di quartieri cittadini. Queste zone vennero chiamate ghetti e all'inizio non ci furono resistenze da parte degli ebrei, anche perchè era ancora inimmaginabile il folle progetto di Hitler (la soluzione finale ).
Nel ghetto nazista gli ebrei erano visti come prigionieri (come negli Shtetl dell'ottocento ) e perdevano qualsiasi diritto.
L'occupazione tedesca della Polonia implicò la costruzione di numerosi ghetti, con il consenso del popolo polacco, qualsiasi forma di resistenza venne schiacciata con la violenza.
Nel giro di un anno i ghetti vennero sigillati e l'operazione proseguì anche quando i nazisti optarono per l'eliminazione fisica di tutti gli ebrei (e di tutti quelli considerati un "pericolo" per la stabilità del regime ), si iniziò con le fucilazioni di massa per poi passare alle camere a gas.
Dalla fine del 1941 iniziarono le evacuazioni forzate, gli ebrei venivano prelevati dai ghetti per essere portati verso nuove terre di insediamento o verso campi di lavoro che in realtà erano campi di sterminio. Quindi il ghetto non era più uno strumento per segregare gli ebrei, come era stato ad esempio in Italia, bensì una trappola per illuderli e condurli al massacro senza opposizione.
Molte rivolte si scatenarono contro i nazisti e tra queste la più conosciuta è certamente quella del ghetto di Varsavia, dove è stato ritrovato un archivio clandestino costituito da un gruppo di storici che vivevano in questo ghetto.
La vita nel ghetto di Varsavia era disumana, dai tedeschi dipendeva tutto, anche le razioni di cibo o la possibilità di lavoro. La popolazione era decimata dalla fame e dalle epidemie e nonostante tutto c'era chi trattava affari con i tedeschi e collaborava nelle spietate repressioni. Nei ghetti tradizionali la vita si svolgeva pienamente attorno alla religione, diversamente a Varsavia si era creata una fiorente attività politica e culturale. Le varie organizzazioni politiche trovarono un accordo nella rivolta contro i nazisti, poichè presero coscienza di quello che stava succedendo e lo scopo delle evacuazioni forzate. Si venne così a formare un ampio fronte antinazista che condusse in accordo con la resistenza polacca per convincere gli ebrei di quello che i tedeschi avevano in mente, per fare arrivare in Occidente le prove di quanto stava accadendo e per fornirsi di armi in vista di uno scontro violento.
Il primo scontro armato avvenne il 18 gennaio 1943 ma la vera rivolta esplose il 19 aprile dello stesso anno quando ormai tutti gli abitanti avevano preso coscienza di quello che li aspettava. La rivolta durò diversi giorni fino a che i tedeschi non si decisero a distruggere il ghetto e a deportare tutti gli abitanti. Dopo alcuni mesi dalla distruzione i piccoli gruppi di resistenti sopravvissuti continuavano a combattere fino alla morte o alla loro cattura.




Le caratteristiche dei ghetti hanno subito molte variazioni con il passare del tempo. In alcuni casi, il ghetto era un quartiere ebraico con una popolazione relativamente benestante (ad esempio il ghetto ebraico di Venezia). In altri casi i ghetti connotavano impoverimento (ad esempio quello di Roma).

Gli ebrei non potevano acquisire terreni al di fuori del ghetto, e spesso nemmeno in quello. Dovevano in ogni caso vivere confinati all'interno dei ghetti, quindi durante i periodi di crescita della popolazione le case, spesso ormai piene, dovevano essere rialzate sempre di più. I ghetti avevano quindi strade strette e case alte e affollate. Ma la cosa più terribile era che il recinto del ghetto (proprio così veniva spesso chiamato) era chiuso da una o più porte. Queste venivano chiuse al calar del sole, per essere riaperte solo all'alba. Durante le ore buie gli ebrei non potevano per nessuna ragione allontanarsi dal ghetto. Spesso i residenti necessitavano di un visto per poter uscire dai limiti del ghetto anche durante il giorno.

I residenti del ghetto avevano il loro sistema giudiziario indipendente, come se si trattasse di una vera e propria piccola città nella città.

Le caratteristiche dei ghetti hanno subìto notevoli variazioni nei secoli e anche in tempi relativamente brevi: poiché gli ebrei non potevano acquisire terreni al di fuori del ghetto durante i periodi di crescita demografica, i ghetti avevano strade anguste e case alte e affollate. Ogni abitante del ghetto rispettava le leggi di un ben preciso sistema giudiziario interno e, poiché spesso c’era bisogno di un visto per lasciare il ghetto, era raro che potesse passarne i confini, delimitati da mura sistematicamente chiuse la notte e durante le feste.

I quartieri separati per gli ebrei vennero poi aboliti, in un primo tempo durante la rivoluzione francese, poi, progressivamente, nel corso del secolo XIX. In Italia, l’ultimo ghetto ad essere demolito fu quello di Roma, nel 1870.

Tuttavia, con la seconda guerra mondiale i ghetti diventano di nuovo tristemente famosi: durante la guerra, i ghetti servirono come contenitori in un forzoso processo di concentramento della popolazione ebraica, che ne facilitava il controllo da parte dei nazisti. Gli abitanti dei ghetti dell’Europa Orientale, trasportati da varie regioni europee, privati di ogni diritto e sottoalimentati, venivano progressivamente deportati nei campi di sterminio durante l’olocausto.

Sicuramente più di uno storico ha sottolineato le condizioni di vita disperate dei ghetti. Significative sono le parole di Anna Foa: “la vita nel ghetto non doveva essere assolutamente facile e di sicuro la filosofia del quartiere ebraico era del tutto cambiata rispetto alla mentalità originaria”. O quelle di Renzo De Felice: ”la vita nel ghetto era difficile e degradante”. Questa degradazione emerge chiaramente dal suggestivo quadro che ci dà la storica italo-americana Susan Zuccotti:

in molte città gli ebrei potevano lavorare soltanto come ambulanti, straccivendoli, mercanti di oggetti di seconda mano e prestatori di denaro su pegno. Le donne, cui era vietato confezionare o vendere indumenti nuovi, rammendavano abiti vecchi che poi venivano venduti dagli uomini. La miseria era endemica. Gli alloggi poverissimi, il lezzo terribile  le costruzioni che venivano innalzate per sopperire alle necessità di dare alloggio a tutti, a volte crollavano e lasciavano molta gente per strada.

Gli ebrei del ghetto affrontavano i problemi organizzando associazioni assistenziali per ogni aspetto della vita quotidiana. C’erano società che aiutavano i poveri, fornivano dote alle ragazze, assistevano le partorienti e i malati, finanziavano i funerali, provvedevano agli orfani. Gli ebrei lottavano contro l’isolamento e la disperazione acquisendo un’istruzione.

In Italia gli ebrei pagavano tasse e tributi esosi, senza speranza di appello. La Polizia poteva entrare nelle case confiscare ogni suppellettile; punivano i cristiani che accendevano il fuoco del sabbath il sabato, accusandoli di lavorare illegalmente per gli ebrei.  Negli stati pontifici la polizia, dove il sistema del ghetto era più repressivo, perseguiva inoltre gli ebrei quando eludevano l’obbligo di assistere ai sermoni interminabili tenuti da preti zelanti  che spesso erano loro stessi convertiti e che avevano appunto lo scopo di sollecitare le conversioni.

Oltre ai grandi ghetti dei capoluoghi, nella nostra penisola, in molti piccoli paesi e nei centri di provincia ne esistevano di importanti per la loro cultura e storia. Ne è un esempio quello del paese di Alessano, centro più importante del Salento, nella parte più a sud della Puglia, terra che da sempre è crocevia di popoli, tradizioni ed etnie diverse: greci e arabi, ebrei e cattolici. E proprio nelle vie di questo borgo sorse, nell’epoca aragonese (soprattutto fra il XV e il XVI secolo), un ghetto, che da quel momento fu ininterrottamente abitato e, durante il secondo conflitto mondiale, fu quartiere di reclusione degli ebrei:

il ricordo della presenza ebraica ad Alessano rivive in un toponimo molto significativo: via Della Giudecca. Il piccolo quartiere appare periferico rispetto all’antico nucleo cittadino e quasi sua appendice, per cui la sua costruzione non dovrebbe essere anteriore al XV secolo. Questo periodo d’altronde, è nel suo insieme uno dei più felici del regno di Napoli, dove accorsero numerosi i profughi ebrei della Germania, della Provenza e della penisola Iberica.

Ma ciò che di particolare c’è riguardo a questo ghetto è il mistero che da sempre aleggia intorno ad esso: camminando per le sue strade e accostando gli edifici di pietra, si respira un’aria misteriosa e leggendaria, a partire dalla prima sinagoga, poi interrata chissà quando e da chi e mai scoperta e della quale si hanno informazioni confuse e fonti non certe.

Tradizioni millenarie, come quella ebraica, sono state compromesse e soppresse dal nazifascismo, e tutto nel giro di pochi anni.

Accanto a questi quartieri di veneranda memoria, nacquero, verso la metà del Ventennio fascista, anche i cosiddetti “campi di internamento civile”, nei quali vennero internati i perseguitati politici e, in seguito, gli ebrei. Ne è un esempio quello, divenuto piuttosto grande, di Civitella del Tronto, in provincia di Teramo, che sorge però ancora sulla riva marchigiana dell’omonimo fiume che segna il confine fra le due regioni.

“il campo di Civitella del Tronto, entrò in funzione nei primi giorni del 1940  e inizialmente gli internati alloggiarono nell’ex convento francescano di Santa Maria dei Lumi.

Le condizioni di vita, a parte l’umidità degli edifici, l’affollamento abitativo e la carenza di riscaldamento, non furono particolarmente dure. Tuttavia, gli internati a Civitella rimanevano poco poiché venivano subito diretti prima a Fossoli e poi smistati nei vari campi nazisti.”

Il campo di Civitella fu attivo fino al maggio del ‘44, con un continuo passaggio di uomini, soprattutto “sudditi nemici” .

Molti dei ghetti furono abbandonati dalla popolazione ebraica e caddero in una situazione di degrado e abbandono, altri rimasero il centro (non più coatto) della vita della comunità locale. A cavallo tra Ottocento e Novecento molti dei ghetti furono interessati dall'opera di risanamento di cui furono oggetto molti degli antichi centri storici delle città italiane. Alcuni ghetti furono totalmente demoliti (Firenze), in altri casi largamente rimaneggiati con demolizioni e sventramenti (Roma, Mantova). In altri casi il ghetto si è conservato pressoché integro (Venezia).

Oggi è in molti casi ancora possibile riconoscere l'area dei vecchi ghetti, il luogo dove erano collocate le porte, le abitazioni con i loro cortili e passaggi interni, le sinagoghe che di regola dovevano essere nascoste e prive di segni esteriori di riconoscimento. In anni recenti, i ghetti sono diventati una attrazione turistica e sforzi sono stati compiuti da alcune amministrazioni locali per preservarne le tracce rimaste e farne parte fruibile di itinerari turistici. La logica della preservazione della memoria e della conservazione di ambienti anche non monumentali ma di interesse storico sta sostituendosi alla politica dell'abbandono e dell'incuria che specie nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale ha causato perdite inestimabili al patrimonio storico, artistico e culturale italiano.



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