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sabato 23 aprile 2016

CLARETTA PETACCI

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Clarice Petacci, conosciuta come Claretta o Clara (Roma, 28 febbraio 1912 – Giulino di Mezzegra, 28 aprile 1945), è famosa per essere stata amante di Benito Mussolini, da lei idolatrato fin dall'infanzia, e per tale motivo uccisa dai partigiani insieme a lui. Era sorella dell'attrice Miria di San Servolo (vero nome Maria Petacci).

Figlia di Giuseppina Persichetti (1888-1962) e del medico Francesco Saverio Petacci (1883-1970), direttore per alcuni anni di una clinica a Roma e introdotto negli ambienti vaticani in qualità di medico dei Sacri Palazzi apostolici. Per un periodo di vari anni ebbe anche una sua clinica personale, "La Clinica del Sole". Clara studiò con rendimenti alterni musica e fu allieva del violinista Corrado Archibugi, amico dei suoi genitori.

Il 24 aprile 1932 la Lancia Astura vaticana con a bordo oltre all'autista Saverio Coppola, Claretta Petacci, la sorella Myriam, la loro madre e il futuro marito di Claretta, Riccardo Federici, lungo la via del Mare che da Roma va al Lido di Ostia, viene sorpassata dalla rossa Alfa 6C 1750 Gran Turismo Zagato guidata da Benito Mussolini. La Petacci, che già da tempo inviava al duce numerose lettere di ammirazione, lo riconosce e trova il modo di attirare l'attenzione del duce, il quale accetta poi di scambiare qualche parola con lei. Da allora sempre più frequenti furono le "udienze" a Palazzo Venezia, che dopo una serie di colloqui confidenziali acquisirono il carattere di una vera e propria relazione.

Petacci, ormai sposata con il sottotenente dell'Aeronautica Militare Italiana Riccardo Federici (1904-1972), aveva in realtà già preso le distanze da quest'ultimo (dal quale si sarebbe separata ufficialmente nel 1936). All'epoca del suo incontro con Mussolini, Clara aveva vent'anni, trenta di meno del suo amante.

Mussolini era sposato dal 1915 con rito civile e dal 1925 con rito religioso con Rachele Guidi (detta "donna Rachele"), che aveva conosciuto già durante l'infanzia e alla quale era legato sin da prima del 1910. Gli erano inoltre state attribuite numerose amanti, tra le quali Ida Dalser (che gli diede il figlio Benito Albino Mussolini), e aveva da poco concluso una lunga ed importante relazione con Margherita Sarfatti.

Mussolini prese a frequentare la Petacci con regolarità, ricevendone le visite puntuali anche nel suo studio di Capo del governo a Palazzo Venezia. Clara rimase per molti anni fedele «all'amato "Ben"», come chiamava Mussolini anche nella corrispondenza, solo in parte pubblicata. Diversi gerarchi del fascismo, d'altra parte, reputavano la relazione tra il duce e la Petacci - per quanto ufficialmente inesistente e tollerata da donna Rachele - molto inappropriata, perché possibile fonte di scandalo e di accuse di corruzione al regime, suscitando altresì facezie ed amenità tra quanti ne erano informati.

Clara era appassionata di pittura. Ebbe il ruolo di compagna segreta di Mussolini, di cui condivise i momenti più bui e il destino finale, pare senza mai avanzare la pretesa che l'amante lasciasse per lei la moglie Rachele.

La vicinanza di Clara a Mussolini finì per innalzare il rango della sua famiglia, alimentando voci relative a favoritismi e possibili episodi di corruzione, dei quali veniva prevalentemente ritenuto responsabile (anche da ambienti legati alla gerarchia fascista) il fratello Marcello Petacci (Roma 1º maggio 1910 - Dongo 28 aprile 1945).

Verso la fine del 1939 i Petacci si trasferirono dalla residenza medio-borghese di via Lazzaro Spallanzani (confinante con villa Torlonia) nella splendida villa "Camilluccia" (sita sulle pendici di Monte Mario, allora ai margini della città), progettata dagli architetti italiani Vincenzo Monaco e Amedeo Luccichenti, e che rappresentava un notevole esempio del Razionalismo italiano.

La grande casa era divisa in 32 locali distribuiti su due piani sovrastati da una terrazza. Nel sottosuolo, come nella residenza del duce di Villa Torlonia, era ricavato un rifugio antiaereo, mentre nell'ampio parco erano presenti anche una piscina, un campo da tennis, un giardino fiorito, curato da Clara, un orto e un pollaio, curati dalla madre. L'accesso al complesso era sorvegliato da una guardiola per il portiere ed una per la guardia presidenziale assegnata alla proprietà.

Nell'ala destra del piano terreno (probabilmente per ragioni di sicurezza dovute alla necessaria vicinanza con il rifugio) era posizionata l'alcova di Claretta e Benito. Composta da una camera con pareti e soffitto ricoperte da specchi ed arredata con mobili rosa, era servita da una stanza da bagno rivestita in marmo nero e dotata di grande vasca mosaicata, posta a filo del pavimento, che voleva imitare le vasche termali romane.

All'indirizzo della residenza Petacci (via della Camilluccia 355/357) erano inviate numerose lettere che richiedevano i buoni uffici di Clara per petizioni rivolte a Mussolini.

Dopo la caduta del fascismo la villa fu confiscata con l'accusa che fosse stata acquistata da Mussolini con fondi sottratti al bilancio dello Stato. La famiglia riuscì ad opporsi a tale provvedimento di esproprio e successivamente ottenne la restituzione della villa, dimostrando l'accusa come infondata.

Più tardi la villa fu venduta, e finì in stato di abbandono, fino ad essere definitivamente demolita per far posto ad un complesso di edifici che oggi ospitano le ambasciate dell'Iraq presso l'Italia e la Santa Sede.

Travolta dagli eventi della seconda guerra mondiale, Clara Petacci fu arrestata il 25 luglio 1943, alla caduta del regime fascista, per essere poi liberata l'8 settembre, quando venne annunciata la firma dell'armistizio di Cassibile. Tutta la famiglia abbandonò Roma e si trasferì nel Nord Italia controllato ancora dalle forze tedesche, e dove poi si instaurò la Repubblica di Salò. Clara si trasferì in una villa a Gardone, non lontano dalla residenza di Mussolini e dalla sede del governo repubblicano a Salò.

In questo periodo ebbe un fitto rapporto epistolare con Mussolini e nonostante il parere contrario del Duce conservò tutte le missive: in una di queste, chiese che al processo di Verona Galeazzo Ciano fosse condannato a morte in quanto "traditore, vile, sudicio, interessato e falso", esprimendo quindi una posizione durissima (valevole anche per Edda Mussolini, "sua degna compare") che venne definita dallo storico Emilio Gentile di "rigore nazista".

Trasferitisi a Milano a seguito dell'abbandono della riviera gardesana da parte del duce, poco dopo la metà di aprile del 1945, il 23 aprile i Petacci - salvo Clara e il fratello Marcello, che rimasero nel capoluogo lombardo - si misero in salvo in aereo, giungendo a Barcellona dopo un avventuroso volo durato quattro ore. Il 25 aprile, sia Clara sia Marcello si allontanarono da Milano assieme alla lunga colonna di gerarchi fascisti in fuga verso Como, Marcello tentando di riparare in Svizzera con false credenziali da diplomatico spagnolo. Il 27 aprile 1945, durante l'estremo tentativo di Mussolini di sottrarsi alla cattura, Clara fu bloccata a Dongo da una formazione della 52ª Brigata Garibaldi partigiana, che intercettò la colonna di automezzi tedeschi con i quali il duce viaggiava. Taluni affermano che le sia stata offerta una via di scampo, da lei ricusata decisamente. Avrebbe potuto fuggire in Spagna con i suoi familiari in aereo (Miriam Petacci: "Chi ama è perduto").

Il giorno seguente, 28 aprile, dopo il trasferimento a Bonzanigo di Mezzegra, sul lago di Como, Mussolini e la Petacci furono uccisi, secondo la versione diffusa a Giulino di Mezzegra, sebbene su Clara non pendesse alcuna condanna. La versione ufficiale, e anche alcune versioni alternative, affermano che venne uccisa perché si oppose all'esecuzione di Mussolini, frapponendosi tra il duce e l'esecutore, oppure perché testimone scomoda.

Nella stessa giornata anche il fratello di Clara, Marcello Petacci, fu ucciso a Dongo dai partigiani, insieme ad altre quindici persone che accompagnavano la fuga di Mussolini.

Il giorno successivo, il 29 aprile, a Piazzale Loreto (Milano), i corpi di Benito Mussolini e Claretta Petacci furono esposti (assieme a quelli delle persone fucilate a Dongo il giorno prima e Achille Starace, che venne ucciso in Piazzale Loreto poco prima), appesi per i piedi alla pensilina del distributore di carburanti Esso, dopo essere stati oltraggiati dalla folla. Il luogo venne scelto per vendicare simbolicamente la strage di quindici partigiani e antifascisti, messi a morte per rappresaglia in quello stesso luogo il 10 agosto 1944.

Non appena comprese che c'era l'intenzione di appendere per i piedi anche il cadavere della Petacci alla pensilina, don Pollarolo, cappellano dei partigiani, prese l'iniziativa di chiedere a una donna presente tra la folla, la sarta Rosa Fascì, una spilla da balia per fissare la gonna indossata dal corpo di Clara. Tale soluzione si rivelò però inefficace e così intervennero i pompieri, sopraggiunti con gli idranti a sedare l'ira della folla, a provvedere a mantenere ferma la gonna con una corda.

Dopo essere stata sepolta in un primo tempo al Cimitero Maggiore di Milano, sotto il nome fittizio di Rita Colfosco, nel 1959, con autorizzazione del ministro dell'interno Fernando Tambroni, è stata inumata nella tomba di famiglia al Cimitero Comunale Monumentale Campo Verano di Roma.

Incredibilmente, Rachele Mussolini viene a sapere di Claretta Petacci, amante fissa di suo marito, soltanto dopo il crollo del regime, il 25 luglio 1943: a ben otto anni dall'inizio della relazione. E solo perché i giornali cominciano a scriverne. Nei suoi diari Claretta mostra sempre rispetto per la moglie del dittatore. Il quale, peraltro, non la illude: lui è sposato, il divorzio non esiste, e mai lei oltrepasserà il rango di amante. La famiglia è sacra.
Mussolini si preoccupa del gossip: «No, non possiamo mostrarci insieme per via del pettegolezzo. Ce n'è già molto in giro, ti devi togliere dalla mente che noi si possa andare in pubblico o fuori di qui (palazzo Venezia), per qualche tempo. Bisogna essere prudenti», dice a Claretta il primo gennaio 1939.

E il 17 aprile, quando lei vorrebbe partecipare al ricevimento per la conquista dell'Albania, Benito glielo vieta: «Non ci faccio venire mia moglie, e ci porto l'amante? Sono cose che offendono, non si possono fare, abbi pazienza. No, la Sarfatti una volta che venne le voltai le spalle». In febbraio Mussolini preannuncia a Claretta: «Andrò qualche giorno al Terminillo con mia moglie e i bambini.
All'Anna (la figlia poliomelitica di nove anni) fa molto bene sciare. Tu potrai dormire all'albergo Quattro Stagioni, civedremo da lontano. Mia moglie è molto allegra e tranquilla, speriamo bene». Poi però cambia idea. Il 19 febbraio Claretta scrive: «È stanco e fiacco, facciamo l'amore senza eccessivo entusiasmo. Mi dice che partirà domani mattina alle 11 con la moglie per il Terminillo: "Guarda di non venire, sarà uno scandalo...".
Vede che sto per piangere, allora mi chiede: "Ma proprio mi ami tanto da non resistere?"». La Petacci gli risponde che lo seguirà lo stesso. Allora Mussolini si arrabbia: «Ci sarà qualche anima buona che lo farà sapere a mia moglie. Desidero farmi vedere molto con lei, appunto per sviare un po' di chiacchiere. Tutta Rieti sarà piena del tuo arrivo, tutto il Terminillo, gli alberghi.
E diranno "Mussolini è venuto ad un albergo con la moglie, e all'altro c'è l'amante". Se questo conviene al mio prestigio, al mio nome, al nostro amore, a te, a me, al nostro avvenire, e la tua sensibilità non ti consiglia il sacrificio, fai come vuoi. Ma te ne pentirai». Si pente invece Benito, due giorni dopo.



Telefona alle otto e venti del mattino dal Terminillo a Claretta, rimasta a Roma: «Mia moglie questa notte è stata malissimo, non ha fatto che vomitare dalle quattro. Abbiamo chiamato il dottore a Rieti, che non ha capito nulla».
Alle cinque del pomeriggio altra telefonata di Mussolini, da Roma: «Siamo dovuti tornare. Sta male, molto. Il vomito continuava e la soffocava, che pena. Non ho mai dormito. Il dottore ha detto che non si assumeva la responsabilità se rimaneva fuori, che venisse subito a Roma. Ma ce n'è voluto per convincerla. Piangeva, voleva restare. Non è stata un'impresa facile metterla in macchina e farle fare il viaggio.
Non ti dico questa notte lassù nella neve, soli senza una medicina, senza una farmacia. Volevano l'atropina, non si trovava, non so se c'era. E lei che si torceva. A un certo punto mi dice: "Non credevo che fosse così difficile morire. Ti raccomando i bambini, curali, non li abbandonare". Mi sono messo a piangere anch'io. Non sapevo più che fare, avevo paura. Io poi non lo capisco il male, mi spaventa. Non posso veder soffrire».

Mussolini utilizza Rachele come informatrice, perché il viso della riservatissima moglie è ignoto alla maggioranza degli italiani. Il 10 settembre 1939, per esempio, la signora Mussolini torna in incognito a Roma con il treno da Forlì: «Pessimo viaggio », racconta poi il duce a Claretta, «dieci ore quasi sempre in piedi perché ha ceduto il posto a donne incinte, ed era pienissimo.
A ogni stazione il treno si fermava per caricare soldati. E tutti dicevano: "Per il Duce andiamo pure a farci ammazzare, ma per Hitler neanche se ci manda il Padreterno". Nessuno l'ha riconosciuta, e lei stava a sentire».
Confermata, insomma, la giustezza della decisione presa dal duce dieci giorni prima: non entrare in guerra a fianco della Germania. A volte Mussolini si lamenta: «Mia moglie è diventata una donna difficile. Baccaglia per ogni nonnulla con le donne, fa un gran baccano per niente.
E poi non risponde,mugugna.Insomma, è veramente difficile viverci insieme» (2 luglio 1939). E in settembre: «Mia moglie è molto nervosa, come una che vive lontana dal marito. Era talmente acida, sì, infatti l'ho placata. In fondo dopo quaranta giorni si aspettava che le dessi questa soddisfazione.
Ma puoi immaginare con quale entusiasmo. Bisogna che un po' ci sappia fare, è già molto stanca. E poi è una donna che ha qualcosa che le rode». Benito parla apertamente con Claretta di quando va a letto con la moglie. Lo fa per placare l'ossessiva gelosia dell'amante, che lo sospetta (e a ragione) di tradirlo con altre. Allora utilizza Rachele come "male minore", accettabile dalla Petacci:
«Mia moglie è partita. Stamane alle otto ho pagato la tassa... È venuta lei, sai come sono queste cose, partiva... Così rimarrà fuori più a lungo. Sono di quelle cose meccaniche». (10 aprile 1939). E ancora: «Ieri sera ho pagato il tributo, ma anche questa finirà perché non c'è più corrispettivo, è una cosa assolutamente senza sapore. Non devi essere inquieta, non do importanza a queste tasse che pago.
Sono un contribuente. Sì, a me dispiacerebbe se lo facessi tu, hai ragione. Ma è necessario quando si devono evitare tragedie, scene, cose spiacevoli ». Il 20 settembre Claretta scrive: «Facciamo l'amore. Fiacco, sento che è stato con un'altra. "No, non sono stato con mia moglie. Non è accogliente, è poco gentile, nervosa e sgarbata, come tutte le donne di 50 anni che vorrebbero averne 40, quelle di 40 trenta, e quelle di 30 venti"».

Il 13 luglio 1937 squilla il telefono, e risponde Claretta Petacci. Al telefono è un furioso Benito Mussolini: "So tutto, di voi non ne voglio più sapere". E lei risponde: "Non so di che parlate". Ne segue un diluvio di improperi, rivolti dal Duce alla Petacci. Lei scoppia in lacrime, dunque annota sul suo diario: "Il mondo crolla su di me. Io muoio...". Una relazione segreta con Luciano Antonetti, latin lover d'antan nonché ex militare dannunziano. Un tradimento le cui prove non erano emerse fino ad oggi. Nella vicenda si è imbattuto Giuseppe Pardini, professore di Storia contemporanea, che ha lavorato sulle carte di Renzo De Felice. Lo studioso ha ritrovato preziosi documenti, dei quali erano state effettuate delle fotocopie dal biografo ufficiale di Mussolini. Stando ai documenti, il tradimento di Claretta è stato scoperto da Enzo Attioli, un noto fiduciario della polizia politica, al quale fu affidato il compito di sorvegliarla. Una notte clandestina col seduttore Antonetti, scoperta proprio da Attioli, e immediatamente riferita a Mussolini.



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IL FASCISMO

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« Il Fascismo è una grande mobilitazione di forze materiali e morali. Che cosa si propone? Lo diciamo senza false modestie: governare la Nazione. Con quale programma? Col programma necessario ad assicurare la grandezza morale e materiale del popolo italiano. Parliamo schietto: Non importa se il nostro programma concreto, non è antitetico ed è piuttosto convergente con quello dei socialisti, per tutto ciò che riguarda la riorganizzazione tecnica, amministrativa e politica del nostro Paese. Noi agitiamo dei valori morali e tradizionali che il socialismo trascura o disprezza, ma soprattutto lo spirito fascista rifugge da tutto ciò che è ipoteca arbitraria sul misterioso futuro. »
(Benito Mussolini, 19 agosto 1921 - Diario della Volontà)

Il termine fascismo deriva da Fasci di combattimento fondati nel 1919 da Benito Mussolini, origine etimologica dalla parola fascio (in lingua latina: fascis). Il riferimento era ai fasci usati dagli antichi littori come simbolo del potere legittimo, e poi passati ai movimenti popolari e rivoluzionari come simbolo di unione dei cittadini (per tale motivo, il fascio è tutt'oggi presente nei simboli e panoplie nazionali americani e francesi). L'ascia presente nel fascio simboleggiava il supremo potere di ius vitae necisque, diritto di vita o di morte, esercitato solo dalle massime magistrature romane, mentre le verghe erano simbolo dell'ordinaria potestà sanzionatoria, e materialmente usate dai littori per infliggere la pena (non capitale) della verberatio (fustigazione).

Il richiamo ai fasci va inoltre letto come un esempio dell'innegabile fascino che il mito di Roma esercitava sul fascismo, il quale di fatto tentò una restaurazione degli antichi fasti imperiali romani, e giustificò la sua politica espansionistica alla luce di una missione civilizzatrice del popolo italiano, erede di Roma.

Nell'ambito storiografico italiano il termine "fascismo" è usato soprattutto in riferimento al regime di governo e all'ideologia promossi e attuati da Benito Mussolini tra il 23 marzo 1919 e il 28 aprile 1945. Tale posizione è sostenuta anche da numerosi storici di formazione non-angloamericana.

Alcuni storici ritengono improprio l'utilizzo del termine "fascista" in riferimento alla Germania nazionalsocialista e ai regimi autoritari formatisi in Europa negli anni trenta e quaranta, considerati derivazioni del caso nazista più che di quello fascista (se si eccettuano il Portogallo di António de Oliveira Salazar, la Grecia di Ioannis Metaxas e il cosiddetto Austrofascismo, che tuttavia presentano somiglianze più che altro superficiali col fascismo italiano) o casi a sé stanti (come per la Spagna di Francisco Franco, il cui movimento e regime sono definiti Franchismo per distinguerli da fascismo e nazismo).

In tal senso, anche il termine "nazifascismo" è considerato scorretto da chi sostiene la specificità del fascismo italiano, perché non consentirebbe di cogliere le differenze avutesi tra i due movimenti. Questi studiosi contestano l'utilizzo del medesimo termine in riferimento a regimi autoritari post-bellici, uso che peraltro risulta essere effettuato in modo incoerente e, talora, con funzione di mero insulto (il termine "fascista" è usato, in tale accezione impropria, col significato astoriografico di "inumano, crudele, oppressivo"): in tal modo "fascista" è stato utilizzato tanto per indicare spregiativamente regimi quali quello di Augusto Pinochet in Cile (privo di una reale base ideologica), nonché regimi di segno ideologico opposto (quali quello comunista cinese e russo) oppure la democrazia americana.
Nei paesi anglofoni il termine Fascism viene usato:
per definire propriamente il regime fascista italiano;
per definire i regimi autoritari di destra sorti a imitazione del fascismo italiano (nazismo e franchismo);
per definire generalmente regimi nei quali lo stato sia asservito a interessi di gruppi privati;
per indicare i movimenti simpatizzanti per il fascismo sorti nel Regno Unito (British Union of Fascists) e negli Stati Uniti (Legione d'argento d'America);
genericamente ogni regime di tipo militarista, conservatore o reazionario, con accezione spregiativa;
sempre con accezione di epiteto, come sinonimo di "prepotente":
per definire i partiti politici italiani che si ispirano al partito fascista e spesso vedono o hanno visto tra le proprie file personaggi legati al partito fascista (sui giornali anglofoni sia il MSI sia AN sono chiamati "fascist party").
Nel corso della seconda guerra mondiale, la propaganda alleata tendeva a utilizzare indistintamente il termine fascist per definire tutti i paesi dell'Asse.

L'intellettuale Noam Chomsky parla di regimi "sub-fascisti" per indicare regimi militari sostenuti dalla CIA e dal Pentagono quali quello di Augusto Pinochet in Cile o altri dittatori del Sud America che utilizzando sistemi violenti e anti democratici (tortura, negazione dei diritti civili, repressione con la violenza di ogni forma di opposizione, uccisione di civili innocenti) hanno garantito agli Stati Uniti il controllo commerciale del mercato dei paesi sud americani e il saccheggio sistematico delle risorse di questi paesi. Questa interpretazione è contestata in ambito accademico classico, poiché secondo Renzo De Felice "in sede scientifica nessuno ha più dubbi sul fatto che tali regimi non debbano essere annoverati fra quelli fascisti, ma considerati classici regimi conservatori e autoritari", mentre viene considerata da politologi, come Paul H. Lewis, che vedono il possibile riconoscimento di un movimento autoritario e dittatoriale, di stampo fascista almeno per quanto riguarda le dittature di Mussolini, Franco, Salazar, Stroessner, Pinochet e altri dittatori minori che hanno governato in Sud America.

A sinistra, il termine "fascista" è talvolta usato per indicare qualsiasi regime autoritario di destra, specie quelli alleati dell'Asse durante la seconda guerra mondiale, come il regime militarista giapponese o il franchismo spagnolo, o più spesso i loro seguaci. Per alcuni anni, Stalin e la III Internazionale definirono i socialdemocratici come "socialfascisti" (una posizione abbandonata nel 1935).

Dal punto di vista di molte scuole interpretative marxiste, tuttavia, il fascismo vero e proprio è quello dell'Italia e della Germania: un "regime reazionario di massa" secondo la definizione di Palmiro Togliatti, accettata anche dal trotskismo internazionale e in qualche modo vicina alla definizione gramsciana di "rivoluzione passiva". In questo senso, non vengono fatte distinzioni di rilievo fra il regime hitleriano e quello di Mussolini, che vengono invece fatte rispetto a dittature prive di una base di mobilitazione di massa (come quella portoghese di Salazar o quella cilena di Pinochet). Il caso spagnolo è ambiguo, perché se pure esisteva un forte movimento fascista dal lato franchista, Franco non ne faceva parte e anzi si adoperò affinché venissero "riassorbite" in un generico "movimento nazionale" le forze che più apertamente si ispiravano a Hitler o a Mussolini (come la falange spagnola).

In generale, il termine è tuttora usato presso l'area culturale marxista o post-marxista come epiteto dispregiativo nei confronti della destra e in generale degli avversari politici. Un caso recente è stato quello del presidente venezuelano Chávez, che ha descritto il primo ministro spagnolo Aznar come "un fascista".

All'interno della vasta critica storica sul fascismo, è possibile individuare varie interpretazioni, tra le quali:
quella di Mussolini (scritta con Gioacchino Volpe), che nell'Enciclopedia Italiana alla voce relativa scrisse "il fascismo fu ed è azione";
quella liberale di Benedetto Croce, che considera il fascismo come una "parentesi" della storia italiana, una "malattia morale" a seguito della grande guerra;
quella democratico-radicale di Gaetano Salvemini e del Partito d'Azione, che considera il fascismo come un prodotto logico, inevitabile, degli antichi mali d'Italia;
quella di tradizione marxista, che considera il fascismo come un prodotto della società capitalista e della reazione della grande borghesia contro il proletariato attraverso la mobilitazione di masse piccolo-borghesi e sottoproletarie (il "regime reazionario di massa" descritto dai comunisti italiani in clandestinità);
quella revisionista di Renzo De Felice, che intende rivedere il giudizio storico tradizionale sul fascismo, proponendo un'analisi molto complessa e articolata che sottolinea, fra l'altro, il consenso raggiunto dal regime fascista, soprattutto fra il 1929 e il 1936, nella società italiana. La definizione di tale interpretazione come "revisionismo", tuttavia, è essenzialmente limitata all'ambito culturale italiano, essendo il termine revisionismo riferibile in genere ad ambiti più vasti e differenziati in sede di dibattito storico internazionale.
Il fascismo definiva sé stesso un sistema politico "totalitario". Nella concezione fascista dello Stato, l'individuo ha libertà e gode di diritti solo quando è pienamente inserito all'interno del corpo sociale gerarchicamente ordinato dello Stato (il cosiddetto Stato etico).

Nelle successive analisi degli storici (a partire dallo studio di Hannah Arendt del 1951) si sono sviluppate sostanzialmente due linee interpretative riguardo al carattere del regime fascista: una promossa inizialmente da Hannah Arendt e sviluppata successivamente da diversi autori, fra cui Renzo De Felice, che lo considera come prettamente "autoritario". e uno che lo considera "totalitario" (ma senza alcuna accezione apprezzativa) e che ha in nell'allievo di De Felice Emilio Gentile uno dei massimi sostenitori.

L'interpretazione autoritaria si basa in gran parte sull'idea, proposta da Hannah Arendt, di considerare il terrore come "la vera essenza" della forma totalitaria di governo; in tal senso, il regime fascista non può considerarsi "prettamente" totalitario in quanto mancò, a differenza di altri regimi quale quello nazista e quello stalinista, uno "sterminio di massa" e un uso costante del "terrore di massa" (cosa che peraltro veniva perpetrata tramite il meccanismo di azione detto Squadrismo)

Mancò inoltre, un completo controllo della comunicazione e dell'informazione.

Inoltre, sempre secondo questa interpretazione, lo stato autoritario ha limiti prevedibili all'esercizio del potere, ovvero è possibile "vivere tranquilli" e non incorrere nella vendetta dello Stato se si seguono alcune regole di comportamento, e non si fa opera di militanza e propaganda politica, mentre nello stato totalitario i limiti all'esercizio del potere sono mal definiti e incerti.

Infine, a sostegno di questa tesi, vi è anche il fatto che il fascismo (a differenza di nazismo e comunismo sovietico) fu obbligato a convivere (spesso anche trovando un comune accordo) con i poteri della Monarchia e della Santa Sede, i quali, nonostante una progressiva erosione delle proprie prerogative, mantennero la propria autonomia (spesso più formale che sostanziale).

Il concetto di "totalitarismo imperfetto", coniato dallo storico Giovanni Sabbatucci, riconosce nel fascismo una chiara matrice e una volontà totalitaria, resa però inane dalla presenza di altri poteri (Chiesa e Monarchia), dal suo eccessivo gradualismo e dalla politica mussoliniana di lasciare sempre qualche "valvola di sfogo" a personaggi afascisti o fascisti non "ortodossi" (come ad es. il caso di Nicola Bombacci).

Sono assenti o solo embrionali nel totalitarismo fascista i seguenti attributi caratteristici del caso nazista:
la supremazia del partito rispetto allo Stato;
i campi di sterminio di massa (Vernichtungslager);
un'ideologia sterminazionista nei confronti di nemici "di razza".
Mentre rispetto alla dittatura sovietica vi è una sostanziale differenza in termini di estensione ed efficacia della repressione del dissenso.

Attributi del totalitarismo fascista:
monopolio dei mezzi di comunicazione;
presenza di un'ideologia organica, propagandata con i mezzi di comunicazione di massa, cui l'individuo è tenuto ad aderire fideisticamente;
presenza di un partito unico, portatore di questa ideologia, che esercita un'autorità assoluta sotto la guida di un capo e di un ristretto numero di persone;
abbattimento di ogni forza antagonista;
ricorso sistematico alla mobilitazione delle masse, mediante il partito, l'uso della stampa, della radio, del cinema e delle grandi manifestazioni scenografiche;
controllo e repressione di tutte le opposizioni (in particolare quella comunista);
presenza di una polizia politica segreta (OVRA) che controlla l'effettiva "fascistizzazione" degli individui;
sacralizzazione della politica e del capo;
programma di costruzione di un "uomo nuovo";
affermazione del dirigismo politico in ambito economico.
Quando in Italia il partito fascista giunse al potere, nel resto dell'Europa (comprese Francia e Regno Unito) e del mondo non si guardò a esso con sfavore, soprattutto per il suo impegno come argine al bolscevismo sovietico e l'eversione. In seguito, durante il periodo di massimo splendore del regime, fra 1925 e 1935, il miglioramento dell'immagine dell'Italia nel mondo portò perfino diverse personalità del pensiero democratico (fra cui Winston Churchill e il Mahatma Gandhi) a esprimere simpatia per Mussolini e il suo regime. D'altro canto l'esperienza fascista non mancò di provocare in Europa (e non solo) movimenti fascisti e filofascisti di emulazione, per lo più ideologica e di immagine.

Nella maggioranza di questi casi, infatti, la somiglianza col fascismo italiano è solo epidermica, legata a certi stilemi (saluto romano, colore scuro delle camicie, manifestazioni di massa etc.), al culto del capo e della violenza, e a un feroce anticomunismo. In altri casi si verificarono anche "gemellaggi" con la dottrina sociale, filosofica e politica vera e propria.

Il più famoso dei movimenti para-fascisti fu il NSDAP (Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei-partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori) di Adolf Hitler.

Nel resto d'Europa furono molti i movimenti fascisti e filofascisti che si svilupparono e, soprattutto nell'Europa orientale, salirono anche al potere.

Movimento fondato in Italia da Mussolini il 23 marzo 1919 a Milano e sistema politico che ne conseguì con la conquista del potere nel 1922. Ispirato a un'ideologia antiborghese, ostile alle istituzioni liberali e parlamentari, il fascismo si proponeva obiettivi legati alla tradizione del sindacalismo rivoluzionario, al futurismo, al nazionalismo e all'imperialismo. Nel linguaggio contemporaneo il termine fascismo ha finito per acquistare un valore polemico e spregiativo, che va al di là del suo significato storico-politico. In modo spesso equivoco e pretestuoso, col termine fascismo si suole definire non solo ogni atteggiamento reazionario, conservatore e imperialista, ma squalificare qualunque avversario, col risultato di trasformare un vocabolo, riferito a una precisa esperienza storica, in un'ipotetica e fuorviante categoria sociologica.

Benché non costituisca un fenomeno esclusivamente italiano, il fascismo ha avuto origine nel nostro Paese come reazione e conseguenza della grave crisi politica ed economica seguita alla prima guerra mondiale. La classe dirigente, erede dello Stato liberale post-risorgimentale, aveva voluto spingere l'Italia nel conflitto, senza prevedere le gravissime perdite umane e materiali che ne sarebbero derivate. Così, dopo la fine vittoriosa, anziché godere i frutti della guerra, si era trovata improvvisamente costretta a dover fronteggiare una situazione difficilissima di tensioni e contrasti interni, dove gli interessi dei gruppi economico-sociali privilegiati si scontravano con le nuove aspirazioni della maggioranza della popolazione, fino allora tenuta ai margini della vita dello Stato. Questo processo di maturazione civile e politica dei ceti più poveri e incolti aveva ricevuto una notevole spinta a contatto col dramma dell'esperienza bellica, ma il ritorno alla normalità non aveva offerto a milioni di reduci la meritata ricompensa dopo i lunghi anni di pericoli e sofferenze in trincea. Anzi, insieme al dissesto delle finanze pubbliche, che i responsabili al governo non riuscivano a sanare, l'aumento dei prezzi e il diffondersi della disoccupazione alimentavano l'inquietante spirale delle agitazioni popolari. In questo sconvolgimento sociale, dove l'inefficienza economica stimolò il rafforzamento dei partiti di massa, con una forte crescita dei socialisti, soprattutto fra gli operai, e un'affermazione del Partito Popolare fra i cattolici dell'ambiente contadino, nacque e si andò affermando il movimento fascista.

Già nel 1915 Mussolini, leader del fascismo, aveva fondato i Fasci d'azione rivoluzionaria, con scopi puramente interventistici, risposta immediata e risoluta al neutralismo socialista che lo aveva costretto ad abbandonare il partito dove aveva fino ad allora militato. Sull'eco degli stessi principi, conclamanti la lotta per la lotta, la gioia liberatrice e fecondatrice dell'azione, Mussolini fondò a Milano il 23 marzo 1919 i Fasci italiani di combattimento. Fu questa la prima cellula di un movimento che si trasformò in Partito Nazionale Fascista e che conquistò il potere. Alla riunione di piazza San Sepolcro a Milano parteciparono un centinaio di persone (questi primi fascisti furono chiamati sansepolcristi), tra cui: Ferruccio Vecchi, Michele Bianchi, Mario Giampaoli, Mario Carli, Filippo Tommaso Marinetti. Il movimento aveva un programma vago ed era alla ricerca di un'ideologia. Tentava di fondere i motivi nazionalistici, cari soprattutto agli ex combattenti, con la polemica contro l'inefficienza del parlamentarismo, che trovava facili consensi anche negli ambienti piccolo-borghesi. “Noi ci permettiamo di essere aristocratici e democratici, conservatori e progressisti, reazionari e rivoluzionari, legalisti e illegalisti, a seconda delle circostanze di tempo, di luogo e di ambiente”, dichiarò Mussolini, il quale, oltre a interpretare gli ideali patriottici della piccola borghesia, capì che la debolezza della classe dirigente, incapace di stabilizzare la situazione economica e sociale, si poteva vincere solo conquistando i favori dei gruppi dominanti del padronato industriale e dei proprietari terrieri, sempre più intolleranti verso le manifestazioni popolari e pronti ad appoggiare chiunque fosse disposto a usare la mano forte. Così, nel giro di pochi mesi la propaganda fascista conquistò terreno e, senza far segreto di una volontà autoritaria, dichiaratamente antidemocratica, cercò di sfruttare il malcontento e di incanalare la spinta reazionaria delle forze borghesi e conservatrici, già deluse per la “vittoria mutilata” a Versailles e atterrite dalla volontà di ascesa delle classi popolari, che sembravano voler scuotere e schiacciare il tradizionale assetto gerarchico della società italiana. Inoltre, insieme al crescente squilibrio fra Nord e Sud, esasperato dai contrasti interni fra ceti padronali e proletariato operaio e contadino, il passaggio dalla vecchia economia agricolo-artigianale alla grande industria capitalistica (specie nel triangolo Milano-Torino-Genova) tendeva ad accrescere il peso dei più forti gruppi imprenditoriali, ma nello stesso tempo portava alla ribalta il proletariato operaio, sminuendo il ruolo che i ceti medi avevano continuato a svolgere dal periodo post-risorgimentale fino agli anni giolittiani del primo Novecento. Il fascismo, nella misura in cui rifiutava ogni piattaforma di lotta fra le classi e faceva appello al principio della superiore unità nazionale, intesa come un mitico organismo vivente cui dovevano essere subordinati tutti gli interessi particolaristici, parve inizialmente fornire un'efficace alternativa tanto alla debolezza di una classe politica dilaniata da insanabili contrasti interni, che mettevano capo a continue crisi di governo, quanto alle velleità massimalistiche del sovversivismo rosso, che si scontrava con le opposte cautele delle centrali sindacali, ancora fiduciose di spingere la borghesia sulla via delle riforme. Ma proprio l'esaltazione di un ipotetico primato nazionale, da raggiungere non più nel segno della politica liberale, che aveva caratterizzato tutto il periodo del Risorgimento e la storia postunitaria, si esprimeva attraverso un esplicito rifiuto degli ideali democratici. Una vigorosa difesa della “diseguaglianza irrimediabile e feconda e benefica degli uomini” accentuò il ricorso ai metodi della violenza fisica, con l'intervento delle squadre d'azione, che si diffusero alla prima sconfitta politica accusata dal movimento nelle elezioni del 16 novembre 1919: il fascismo riuscì infatti a presentarsi solo a Milano dove ottenne 4795 voti (1064 a Mussolini). Certamente il movimento mussoliniano pagò anche l'errore di avere appoggiato l'impresa dannunziana di Fiume (12 settembre 1919) che non trovò eco in un'Italia stanca di imprese belliche e velleitarie. Intanto i Fasci furono subito costituiti anche a Genova, Bergamo, Verona, Treviso, Napoli, Pavia, Brescia, Cremona, Trieste, Parma, Bologna, Roma. L'infiltrazione nella zona industriale e agraria era avvenuta, la presenza nella capitale assicurata. L'alta industria aveva trovato nel fascismo la forza da opporre alle rivendicazioni operaie, agli scioperi, alle durezze della lotta sociale che raggiunse il vertice con l'occupazione delle fabbriche nel 1920, mentre nella Valle Padana e nell'Italia meridionale, dove dominava la grande proprietà fondiaria e il bracciantato soffriva delle peggiori condizioni di sottoccupazione e dove i contadini alla testa di organismi sindacali avevano tentato l'occupazione delle terre, il fascismo divenne lo strumento della reazione e sviluppò massicci attacchi contro gli avversari, con spedizioni punitive, incendi, devastazioni, assassini, soprattutto nei confronti dei socialisti e dei cattolici-popolari. Giolitti, reputando che il fascismo sarebbe stato un fenomeno transitorio, consentì alla sua strumentalizzazione per spegnere la carica rivoluzionaria dei socialisti, nel presupposto che la lotta contro rossi e bianchi avrebbe smorzato la carica dei neri per il conseguito ideale della lotta per la lotta.



Il movimento fascista, divenuto partito (novembre 1921), cercò di darsi una dottrina e, poiché il “grande momento” per i socialisti era passato, Mussolini, prima di puntare decisamente al potere, tentò la politica delle alleanze. Entrò, per le elezioni del 1921, nei blocchi nazionali giolittiani, ottenne un primo successo mandando alla camera 35 deputati e cercò l'alleanza con i socialisti e i popolari. Era l'equivoco di una grande coalizione che portò al patto di pacificazione con i socialisti (agosto dello stesso anno) ma che non convinse i fascisti intransigenti e rappresentò una parentesi brevissima, perché pochi mesi dopo riprendevano scontri, lotte, violenze e il fascismo nuovamente autonomo, se così può dirsi, si appoggiava ai liberali, convinti o fiduciosi che il movimento di Mussolini avrebbe restituito a molti il senso dello Stato. E infatti Mussolini espose nella sua Dottrina del fascismo una concezione dello Stato che sembrava riallacciarsi al pensiero risorgimentale, nutrito di concetti idealistici hegeliani (accolti del resto dallo stesso Croce che non intuì subito la minaccia del fascismo, sperando di vedervi soltanto forze nuove capaci di un loro apporto risoluto e vivificante); ma in realtà il fascismo pretende di costruire uno Stato che accoglie in sé ogni individualità per annullarla nella concezione di una propria priorità assoluta volta solo ad affermare il primato del dominio e della forza. E lo Stato fascista accoglie in sé il cittadino solo in quanto parte di un tutto e riconoscerà la sua libertà nella libertà dello Stato, contro la concezione risorgimentale e liberale che nello Stato vede l'organo supremo per garantire la libertà individuale. L'assolutismo dello Stato diventa facilmente assolutismo di guida, unicità di potere, volontà di uno. Di conseguenza, il drastico annullamento della volontà individuale significherà esaltazione mistica del sacrificio, subordinazione assoluta alla volontà del capo per il bene della patria. Il fallimento dello sciopero legalitario dell'agosto 1922, la dimostrazione fascista di saper intervenire contro ogni tentativo di sovversione aprirono senz'altro al fascismo la via del potere.

La marcia su Roma (28 ottobre 1922) non fu tuttavia la conquista del potere, ma il cammino verso il potere e, mentre socialisti e comunisti si schierarono subito all'opposizione, molti rappresentanti della vecchia classe politica liberale, non diversamente da una parte dei popolari, si illusero di poter controllare l'ascesa del fascismo al potere, incanalandolo nell'ambito della vita democratico-parlamentare. Il primo governo di Mussolini, formato da fascisti, da liberali, da popolari e da indipendenti, poté così ottenere una larga maggioranza alla Camera (306 voti a favore e 116 contrari). Ma la speranza di una rapida normalizzazione non si realizzò, mentre lo svuotamento delle istituzioni parlamentari e l'avvio a uno Stato dittatoriale cominciarono subito con l'inquadramento delle camicie nere nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, vero esercito di partito messo direttamente agli ordini del capo del governo e con la creazione del Gran Consiglio del fascismo (11-14 gennaio 1923), destinato nel 1928 a diventare l'organo supremo che avrebbe coordinato e integrato tutte le attività del regime. Inoltre, la riforma elettorale del 1924, con la legge Acerbo (sistema maggioritario con fortissimi vantaggi per la lista di maggioranza relativa) che riduceva la rappresentanza delle forze di opposizione, non solo non mise a tacere le intimidazioni fasciste ma accentuò le violenze e i brogli elettorali, che il deputato socialista Matteotti denunciò alla Camera, anche se l'atto coraggioso gli costò la vita a opera di alcuni sicari fascisti (10 giugno 1924). Nonostante lo sdegno dell'opinione pubblica e la reazione degli altri partiti che abbandonarono il Parlamento su iniziativa di Amendola (opposizione dell'Aventino), Mussolini col discorso del 3 gennaio 1925 diede una svolta decisiva al regime dittatoriale. Con quel discorso il fascismo mostrò il suo vero volto.

Tra il 1925 e il 1928 furono varate le leggi (cosiddette “fascistissime”) che consacrarono la nuova struttura e lo strapotere dello Stato. Croce e con lui Giolitti, Salandra, Orlando e altri dovettero arrendersi all'evidenza. Ogni speranza legalitaria o di riporto alla legalità del fascismo cadeva. Essa moriva con la soppressione della libertà di stampa, le persecuzioni contro gli antifascisti, col ripristino della pena di morte, l'istituzione di un tribunale speciale per reati politici, l'istituzione dell'OVRA polizia politica segreta, e con l'attribuzione al potere esecutivo di emanare norme di legge. I normali meccanismi dello Stato di diritto e i fondamenti della libertà politica e della sovranità popolare vennero sovvertiti, mentre a cominciare dal 1926 nelle amministrazioni comunali alla procedura elettiva del sindaco e del consiglio venne sostituita la nomina governativa del podestà e della consulta, così da sconvolgere l'intero ordinamento centrale e periferico nel processo di fascistizzazione dello Stato. Il Parlamento risultò svuotato di ogni prerogativa (legge sulla decadenza dei deputati comunisti e aventiniani, 1926) e le elezioni (1929) vennero ridotte a semplici plebisciti di approvazione di una lista unica di deputati designati dal Gran Consiglio. Il capo del governo, che era contemporaneamente duce del fascismo, prese a occupare il vertice della piramide politica, che simboleggiava l'ordinamento gerarchico del regime, e venne sottratto a qualunque controllo o sanzione, con l'obbligo di rispondere solo al sovrano. Con le elezioni plebiscitarie del 1929 Mussolini poté contare su una Camera tutta composta da fascisti, e il carattere totalitario del fascismo finì rapidamente per coinvolgere ogni settore della vita italiana.

In campo economico-sociale, per differenziarsi dal sistema liberale, che assicurava ampi margini all'iniziativa privata, e nello stesso tempo per respingere il modello collettivista, soprattutto di tipo sovietico, che imponeva una rigida pianificazione, la Carta del Lavoro tentò fin dal 1927 di dar vita a una moderna forma di corporativismo, sopprimendo ogni tipo di lotta di classe e creando le corporazioni che, previste alla dichiarazione VI della Carta del Lavoro, furono istituite alla fine del 1934; in esse i lavoratori e i datori di lavoro cercarono un'impossibile collaborazione, specialmente dopo che erano stati distrutti con la violenza gli organismi sindacali, erano state sciolte le Camere del Lavoro ed era stato vietato il diritto di sciopero. Nonostante i costanti richiami a un programma interclassista, diretto a raggiungere la piena pace sociale, proprio la fallita esperienza del sistema corporativo resta la testimonianza forse più caratterizzante dell'incapacità del fascismo di realizzare i suoi ambiziosi obiettivi di riforma, perché i pesanti compromessi che Mussolini dovette subire, pur di mantenere il comando, non solo dai vecchi centri di potere (la corona e l'esercito soprattutto) ma anche dai maggiori centri economici (prima gli agrari, poi i gruppi del grande capitale industriale e finanziario), avviarono al fallimento i programmi di costruire una società nuova. La pianificazione economica varata dal conte Volpi, industriale e finanziere, chiamato al Ministero delle Finanze nel 1925, fu causa di gravi difficoltà. Fissata la lira a quota 90, l'esportazione entrò in crisi. Per frenare l'importazione vennero sanciti pesanti dazi doganali. Si dovettero ridurre stipendi e paghe del 12%. Il protezionismo favorì le industrie monopolistiche ma portò altre alla crisi. I salari italiani, nel 1930, erano al penultimo posto in Europa, seguiti solo da quelli spagnoli. I salari dei contadini venivano sempre più compressi per consentire ai produttori di sopportare la concorrenza straniera favorita dall'alto corso della lira. Il fascismo aveva autorizzato i proprietari agrari, come gli industriali, a rifarsi sui lavoratori e pubblicamente elogiava il sacrificio accettato. Neppure il protezionismo, spinto all'estremo dell'autarchia, valse a suscitare lo sperato sviluppo economico nazionale, nonostante gli sforzi di risanamento dell'agricoltura attraverso la politica delle bonifiche (per esempio nell'Agro Pontino) e le campagne per la battaglia del grano (iniziata nel 1925), e gli ambiziosi programmi di lavori pubblici, che dal 1929 al 1934 cercarono di dare, anche attraverso la retorica urbanistica e architettonica, l'illusione di un nuovo primato, in grado di far rivivere, secondo l'immagine della propaganda fascista, i fasti e le glorie di Roma imperiale.

Anche in campo scolastico, l'istituto dell'Opera Nazionale Balilla (ONB) valse a monopolizzare, fin dalle prime classi elementari, il processo di formazione educativa dei giovani secondo il principio del credere, obbedire, combattere, che tendeva a fare di ogni cittadino essenzialmente un soldato, pronto a rispondere agli ordini e fedele esecutore delle direttive imposte dall'alto. Imbevuto di retorica, il fascismo creò una divisa per ogni italiano, dalla più tenera età fino alla maturità. Marciarono, sfilarono in ogni paese d'Italia, al grido di Viva il Duce!, figli della lupa, piccole italiane, balilla, avanguardisti, giovani fascisti e fasciste, fascisti, donne fasciste e massaie rurali, salutando romanamente, battendo il passo romano (o dell'oca). Nella scuola fascistizzata, l'insegnamento travisò la storia. I ragazzi vennero organizzati nella GIL (Gioventù Italiana del Littorio, nata nel 1937 dalla fusione dell'ONB con i Fasci giovanili di combattimento), gli studenti universitari nei GUF (Gruppi Universitari Fascisti). Scomparve l'uso del lei; si parlò solo col voi. Nacque la scuola di mistica fascista. L'obbedienza al fascismo divenne un obbligo per gli stessi professori universitari, ai quali venne imposto il giuramento come condizione per poter mantenere la cattedra.

Dopo aver costretto la maggioranza degli oppositori a patire carcere e violenze (Gramsci, Amendola, Rosselli, Gobetti, per citare soltanto alcuni dei nomi più noti), o a trovare asilo politico all'estero (fuoruscitismo), per meglio rafforzare la propria posizione interna il regime fascista aveva trovato un accordo con la Chiesa cattolica, chiudendo il lungo capitolo della cosiddetta questione romana e realizzando attraverso i Patti Lateranensi del 1929 la conciliazione fra lo Stato italiano e la Santa Sede, così da garantire a Mussolini l'appoggio delle più alte gerarchie ecclesiastiche. L'accordo non fu giudicato favorevolmente dai fascisti. Molti furono i malumori per il pesante riscatto imposto dalla Chiesa (750 milioni in contanti e un miliardo di consolidato), ma quest'ultima, che pur vedeva il cattolicesimo riconosciuto come religione di Stato, accettava il divieto per i cattolici di organizzarsi in partiti politici. Ciò non impedì all'Azione Cattolica di svolgere la propria attività presso i giovani al di fuori dello spirito fascista, tant'è vero che nel 1931 fu accusata esplicitamente di sottrarre uomini e giovani alla disciplina fascista. Sembrò la rottura, ma si giunse al compromesso e il fascismo mantenne l'appoggio della Chiesa e dell'alta borghesia, a conferma che, nonostante la tanto conclamata dottrina dello Stato etico assoluto, l'Italia altro non era se non un Paese conservatore e burocratico, chiuso a ogni progressismo e tutore degli antichi privilegi.

L'ascesa del fascismo culminò nel 1936 con la conquista dell'Etiopia, la proclamazione dell'impero e la vittoria sulle sanzioni economiche proclamate da cinquantadue Stati della Società delle Nazioni, che aveva condannato l'aggressione italiana in Africa. Furono sanzioni blande, cui non aderì la Germania, quasi le vecchie democrazie credessero al fascismo e al nazismo come ai necessari baluardi contro il comunismo e volessero compiacerli solo per controllarli. Il fascismo, tuttavia, non mirava solo al colonialismo, ma a fascistizzare l'Europa. L'asse Roma-Berlino ottobre 1936) e il contemporaneo intervento in Spagna rivelarono al mondo che gli Stati democratici nulla più potevano e dovevano concedere a un fascismo ormai pronto ad assimilare e a partecipare alla politica di espansione nazista. Il nazi-fascismo (così cominciò a essere noto) mirava ora ad annettere ogni terra dove vivessero in preponderanza tedeschi e italiani. Austria, Danzica, Sudeti per Hitler; Malta, Tunisi, Gibuti, Nizza, Canton Ticino per l'Italia. Tutte le concessioni che l'Europa democratica aveva fatto a Hitler e a Mussolini (Renania, 1936; Anschluss, 1938; Albania, 1939) furono dettate dalla speranza di salvare la pace, ma il nazi-fascismo rivelava intanto un altro aspetto della sua aberrante dottrina, il razzismo.

Seguendo l'esempio di Hitler, Mussolini promulgò le leggi razziali (1938-39), creando la prima vera grande scissione tra il Paese e il regime. L'Italia, fatalmente trascinata dalla politica nazista, si trovò coinvolta (1940), assolutamente impreparata, nella seconda guerra mondiale. Le disastrose campagne di guerra in Grecia, in Russia e in Africa settentrionale e lo sbarco delle truppe americane in Sicilia affrettarono la crisi del fascismo; il 25 luglio 1943, dopo il voto di sfiducia del Gran Consiglio, Mussolini fu costretto da Vittorio Emanuele III a lasciare il governo, subito assunto da Badoglio.

Lo smarrimento e il caos nati dall'armistizio dell'8 settembre 1943 consentirono, con l'appoggio dei Tedeschi, un rigurgito di potere fascista. Mussolini, liberato dalla prigionia sul Gran Sasso, ma ormai strumento di Hitler, fondò il 23 settembre 1943 la Repubblica Sociale Italiana, che estendeva la propria giurisdizione sulla parte dell'Italia centrosettentrionale occupata dai Tedeschi e aveva come programma il manifesto di Verona, elaborato dal congresso del Partito Fascista Repubblicano nel novembre 1943. Ma gli sforzi di rilanciare il fascismo, applicando alcune misure di socializzazione in campo economico, per richiamarsi alle antiche origini popolari del movimento, fallirono di fronte al dilagare della guerra, che dimostrava imminente la disfatta nazi-fascista, mentre i movimenti di resistenza partigiana si diffondevano soprattutto nel Nord. Nell'autunno-inverno 1944-45, con lo stabilizzarsi del fronte sulla linea gotica, alcuni provvedimenti, come la requisizione delle aziende e la distribuzione di viveri alla popolazione, furono l'ultimo, inutile sforzo per riguadagnare la solidarietà dell'opinione pubblica al fascismo (allora più noto col nome di Repubblica di Salò, dalla zona del lago di Garda sede dell'ultimo governo di Mussolini). Il 25 aprile 1945, mentre anche la Germania hitleriana era ormai incapace di sostenere la massiccia offensiva degli eserciti alleati (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e URSS), con la liberazione di Genova e di Milano il fascismo vedeva irrimediabilmente segnata la sua condanna a morte. Finiva così, con una disastrosa sconfitta, dopo un ventennio di errori e di orrori, quel movimento politico che fin dal suo primo manifestarsi venne avversato dai partiti democratici, ma che si affermò anche per le blandizie della borghesia, l'astensione della maggioranza e l'incomprensione di troppi intellettuali. Finito come regime politico, il fascismo sopravvive tenace come fenomeno degenerativo nel culto del nazionalismo, del militarismo e dell'ordine da conservare a dispetto della libertà di pensiero e di espressione.

Ragioni economiche, politiche, sociali analoghe a quelle che avevano favorito l'affermarsi del fascismo in Italia, contribuirono a diffonderlo in Europa, dove mise radici più o meno profonde in diversi Paesi, ispirato non solo dall'avversione al marxismo e al bolscevismo ma da una violenta polemica contro il sistema parlamentare, e da un'esaltazione dell'idea nazionalista, dei principi del corporativismo e addirittura del fanatismo razzista. La Spagna fu tra i primi Paesi ad accogliere il fascismo e a organizzarlo in partito attraverso l'opera di Caballero, di Ledesma Ramos, di Primo de Rivera e infine di Franco; ma per imporre al Paese il regime (1938) la Spagna ebbe necessità di ottenere l'aiuto dell'Italia e della Germania, dove il nazionalsocialismo era giunto al potere con Hitler nel 1933. Un regime fascista modellato secondo i principi del corporativismo venne creato anche in Portogallo da Salazar (1932), mentre più ristretti movimenti fascisti si affermavano in Belgio con il rexismo di Léon Degrelle e di J. Denis e in Austria con la Heimwehr, capeggiata da E. Rüdiger von Starhemberg, che dopo un primo putsch fallito nel 1931 giungeva al successo nel 1934, fondendosi coi cristiano-sociali e mettendo capo a un ibrido corporativismo che sarebbe finito due anni dopo. L'ideologia fascista ebbe una certa eco anche in Gran Bretagna con il British Fascism capeggiato da Lintorn-Orman e con la British Union of Fascists, diretta da O. Mosley. In Francia il fascismo prese aspetti particolari (Croix de feu, Fascisme, Cagoule, Parti Populaire Française, Faisceau), e i lineamenti ideologici trovarono gli spunti maggiori nelle tesi dell'Action Française. In Olanda con Joris Van Severen, in Norvegia con V. Quisling, in Cecoslovacchia con Josef Tiso si ebbero movimenti fascisti di non lungo respiro, mentre un peso più considerevole nella vita politica il fascismo lo ebbe in Romania con la costituzione (1930) della Guardia di Ferro di Codreanu e in Grecia con l'ascesa al potere (1936) di Metaxâs. Vano invece fu il primo tentativo di conquista del potere che il fascismo tentò in Ungheria con le Croci frecciate di Szálasi nel 1940, anche se poi riuscì momentaneamente nel 1944, quando però il Paese era alla vigilia della disfatta.

La Costituzione della Repubblica Italiana alla XII Disposizione transitoria stabilisce il divieto di ricostituzione del partito fascista. Con legge 20 giugno 1952, n. 645 sono state emanate norme positive che puniscono in concreto qualsiasi attività diretta alla restaurazione del disciolto Partito Nazionale Fascista, anche se simulato sotto diversa denominazione.

Nonostante il divieto di ricostituzione del disciolto Partito Nazionale Fascista, stabilito dalla Costituzione Repubblicana, movimenti fascisti sopravvissero anche dopo la guerra. In particolare il Movimento Sociale Italiano di Pino Romualdi e Giorgio Almirante, che fu accusato a più riprese di ricostituzione del disciolto partito fascista. Il senatore Giorgio Pisanò nel 1989 fonda e guida la corrente interna al MSI denominata Fascismo e Libertà. Nel luglio 1991 Fascismo e Libertà esce dal partito guidato da Gianfranco Fini. Giorgio Pisanò guida la frangia dei camerati irriducibili verso un nuovo progetto politico profondamente mussoliniano; così fonda e diviene Segretario Nazionale del Movimento Fascismo e Libertà (MFL). Successivamente, l'11 dicembre 1993 il Comitato Centrale "missino" approverà il nuovo Movimento Sociale Italiano-Alleanza Nazionale con l'astensione di 10 dirigenti legati all'ex-segretario e combattente della RSI Pino Rauti. Nel 1994 Movimento Sociale Italiano-Alleanza Nazionale sciolse i legami interni con gli esponenti del MSI più nostalgici, trasformandosi in Alleanza Nazionale (AN) durante il congresso di Fiuggi. Fu il momento nel quale il gruppo di dirigenti vicini a Pino Rauti, si staccò da AN, coadiuvando insieme ai membri del MFL di Giorgio Pisanò nel progetto di conservazione dello storico partito, fondando la Fiamma Tricolore quale nuovo soggetto politico. Alcuni mesi più tardi il leader e segretario del MFL lascia però la vita politica, complice l'aggravarsi del suo stato di salute che lo porterà alla scomparsa (17 ottobre 1997). Il Movimento Fascismo e Libertà minoritario all'interno del nuovo soggetto, non trovando spazio ne esce dopo una breve esperienza. Nel 2001 il MFL subisce la scissione di alcuni dirigenti che fondano Nuovo Ordine Nazionale. Relativamente di recente, il 7 maggio del 2004, Pino Rauti il promotore e fondatore della Fiamma Tricolore, dopo alcune vicende personali, ha lasciato anche questo movimento per fondare il Movimento Idea Sociale (MIS).

Nel 2009 il MFL distingue e difende le sue finalità ideologiche nelle posizioni più socialiste dell'originario fascismo rivoluzionario e della Repubblica Sociale Italiana, optando per una netta contrapposizione e rottura verso tutte le altre forze neofasciste che si riconoscono nella destra italiana e/o comunque riconducibili alla cosiddetta Area, denominandosi Movimento Fascismo e Libertà - Partito Socialista Nazionale.

Contemporaneamente Alessandra Mussolini, nipote del dittatore, lasciava AN in polemica col suo presidente Gianfranco Fini, che aveva preso le distanze dalle posizioni legate al fascismo e alla figura di Mussolini. La Mussolini fondò così un proprio partito (AS, Azione Sociale) che promosse l'alleanza denominata Alternativa Sociale che univa AS ad altri due movimenti neofascisti e nazionalisti: Forza Nuova, guidato da Roberto Fiore, e Fronte Sociale Nazionale, fondato da Adriano Tilgher.

Il Fascismo storico, così inteso dalla fondazione del Popolo d'Italia e l'inizio delle campagne interventiste nel 1914 al termine della Repubblica Sociale Italiana (RSI) nel 1945, fece ampio uso della simbologia classica dell'antica Roma: esempi ne furono il Fascio littorio, il Saluto romano, l'utilizzo della lettera "V" in luogo della "U" e l'aquila romana.

I movimenti neofascisti in un primo momento ripresero, modificandola leggermente, questa simbologia; mentre a partire dagli anni settanta, con la rivoluzione generazionale in atto si cominciò a fare uso della croce celtica e delle rune nordiche.

All'inizio degli anni Novanta, ma più diffusamente a cavallo tra i Novanta e i Duemila, ebbe luogo un ulteriore passaggio generazionale, principalmente sulla scia del DART (Divisione ARTistica) prima e della cultura non conforme e del circuito OSA/ONC poi. In questo periodo non si ripresero simboli del passato, ma si elaborarono immagini nuove provenienti dalle sezioni artistiche dei vari movimenti, spesso accordandosi con principi tradizionali e spirituali.

I fasces lictorii erano, nell'Antica Roma, l'arma portata dai littori, che consisteva in un fascio di bastoni di legno legati con strisce di cuoio, normalmente intorno ad un'ascia. Tale arma divenne in seguito un simbolo del potere e dell'autorità maggiore, l'imperium, ed assunse la tipica forma di fascio cilindrico di verghe di betulla bianca simboleggianti il potere di punire, legate assieme da nastri rossi di cuoio (latino: fasces), simboli di sovranità e unione, al quale talvolta era infissa un'ascia di bronzo, a rappresentare il potere di vita e di morte sui condannati romani. Il simbolo venne ripreso da vari movimenti politici ed entità statali a partire dalla fine del XVIII secolo (tra cui i fasci siciliani) e divenne infine l'emblema dei Fasci italiani di combattimento di Benito Mussolini nel 1919.

Il saluto romano è una forma di saluto che prevede il braccio destro teso in avanti verso l'alto, con la mano tesa aperta. Inizialmente fu usato dai legionari fiumani, successivamente fu imposto dal regime attraverso una campagna promossa da Achille Starace.

L'aquila, altro antico simbolo romano, venne ripreso dal regime e usato in molte costruzioni, riprodotto sul retro della lira e sulla bandiera da guerra della Repubblica Sociale Italiana.

La V maiuscola rappresentava sia l'alleanza tripartita tra Italia, Germania e Giappone, sia l'iniziale della parola "vittoria". I tre vertici della lettera corrispondevano al Giappone (a destra), alla Germania (a sinistra), e all'Italia (al centro).

La croce celtica è oggi uno dei più noti e diffusi simboli neofascisti, in quanto venne usata prima dal Parti Populaire Français, un partito fascista creato in Francia negli anni trenta e nel dopoguerra da diversi gruppi neofascisti e di estrema destra in tutta Europa.



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lunedì 5 ottobre 2015

SE C'ERA IL DUCE......

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In questi ultimi tempi spesso si sente dire : " se c'era il Duce...." ma cosa ha fatto di così strabiliante?

Se non c’era il Duce col cavolo che prendevi la pensione, visto che l’INPS la inventò lui!
Il primo sistema pensionistico in Italia a tutela dello stato di sopraggiunta invalidità sul lavoro o nel caso di impossibilità al lavoro per vecchiaia venne costituito nel 1898 quando venne introdotta la CNP, Cassa Nazionale di Previdenza nella quale venivano iscritti i lavoratori di alcune categorie e definitivamente dal 1919 quando l’ente divenne CNAS (Cassa Nazionale per le Assicurazioni Sociali) prevedendo l’iscrizione obbligatoria per tutti i lavoratori.

Se non c’era il Duce e ti ammalavi, peggio per te, non prendevi lo stipendio.
Con la legge 11 gennaio 1943 n.138 venne istituita la prima Cassa Mutua di Assistenza di Malattia che offriva tutele minime ai soli lavoratori dipendenti del pubblico impiego e nulla per gli altri. L’indennità di malattia è un dono della repubblica democratica visto che venne istituita con decreto legislativo del Capo provvisorio dello stato nr.435 del 13 maggio 1947 l’INAM, Istituto Nazionale per l’assicurazione contro le malattie, riformato nel 1968 che assisteva tutti i lavoratori, anche coloro che dipendevano da imprese private. E nel 1978, con Legge 23 dicembre 1978, nr. 883, veniva estesa, oltre che l’indennità retributiva in caso di malattia, anche il diritto all’assistenza medica con la costituzione del Servizio Sanitario Nazionale.

Il Duce ha inventato la Cassa Integrazione Guadagni per aiutare i lavoratori di aziende senza lavoro.
Nel 1939, tramite circolari interne, veniva prevista la possibilità, prevista senza un reale quadro normativo per poterla applicare, visto che allora era totalmente inutile. L’Italia, già coinvolta nelle guerre nelle colonie (Libia, Abissinia) si stava preparando all’entrata in guerra al fianco della Germania e l’industria (soprattutto quella bellica) era in gran fermento, motivo per cui non solo si lavorava a turni pesantissimi ma si assistette addirittura al primo esodo indotto di lavoratori dall’agricoltura all’industria. La Cassa Integrazione Guadagni, nella sua struttura è stata costituita solo il 12 agosto 1947 con DLPSC numero 869, misura finalizzata al sostegno dei lavoratori dipendenti da aziende che durante la guerra erano state colpite e non erano in grado di riprendere normalmente l’attività.

Quando c’era il Duce non vi era disoccupazione in Italia.
Vero, anche se in maniera discutibile. Unica precisazione da fare è che tale evento non era giustificato dal reale stato di benessere dell’economia ma da due eventi ben precisi: l’Italia stava preparando l’entrata in guerra e tutte le industrie (e l’artigianato) che direttamente o indirettamente fornivano l’esercito lavoravano a pieno regime. Per contro, l’accesso al lavoro era precluso a tutti coloro che non sottoscrivevano la tessera del Partito Nazionale Fascista, sanzione che era estesa anche ai datori di lavoro che eventualmente li impiegassero. Motivo per cui durante il fascismo assistemmo ai primi flussi migratori, di tutti coloro che per motivi politici non intesero allinearsi al regime ma avevano una famiglia da mantenere. Francia (prima dell’invasione nazista), USA, Argentina, Brasile e Africa le direttive principali dell’emigrazione Italiana: anche mio bisnonno da parte di padre fu costretto ad emigrare in Etiopia visto che nella Romagna nessuno intendeva rischiare dando lavoro a uno privo della tessera del partito. Gli extracomunitari attuali non esistevano visto che venivano direttamente sfruttati in loco nelle colonie, mentre i migranti erano i nostri poveri che non volevano tesserarsi al partito, motivo per cui in Italia, chi non lavorava per la guerra era indotto ad emigrare.



Se non c’era il Duce le grandi strade in Italia non venivano costruite.
Anche questo non è vero, visto che la necessità di realizzare infrastrutture in Italia fu un’idea di Giovanni Giolitti durante il suo quinto governo (15 giugno 1920/7 aprile 1921), avendo constatato l’impossibilità di uno sviluppo industriale in mancanza di solide strutture, sviluppo industriale dimostratosi necessario dal confronto con le altre grandi potenze che avevano partecipato al primo conflitto mondiale. Tale “rivoluzione” non potè essere attuata da Giovanni Giolitti, prima, e dal governo Bonomi che ne seguì solo per i sette mesi che resse a causa del boicottaggio e dell’ostruzionismo politico da parte del nascente fascismo, prima generico movimento popolare (1919) e poi soggetto in forma di partito dal 1921, con la costituzione del Partito Nazionale Fascista.

Quando c’era il Duce il popolo stava meglio!
Anche questa è un’affermazione discutibile. Infatti, a seguito delle sanzioni internazionali irrogate nel 1936 all’Italia a seguito dell’invasione dell’Etiopia, il 18 novembre di quell’anno venne indetto il “Giorno della fede” in cui gli italiani furono invitati, in teoria, a donare tutto il proprio oro alla Patria ricevendo, in cambio delle fedi nuziali (gli sposati) anelli in ferro con la scritta “ORO ALLA PATRIA – 18 NOV.XIV” che qualche anziano possiede ancora. Teoricamente perché, malgrado fosse fatto su invito volontario, chiunque venisse colto a possedere oro proprio anche in casa, veniva perseguito come traditore e nemico della patria dalle squadre del Fascio Littorio, ripassati (come si diceva allora) a manganello ed olio di ricino. E sempre per sostenere la guerra in Abissinia ed Eritrea prima, quella al fianco dei tedeschi poi, venne imposta l’autarchia: tutti i prodotti di importazione vennero soppressi come la maggior parte del grano utilizzato per la pasta e sostituito dall’”italico” riso, come ad esempio il caffè, sostituito dal “surrogato” fatto con cicoria tostata e il the, sostituito dal “coloniale” karkadè, misura che complessivamente peggiorò di molto la qualità della vita del popolo.
E il sequestro ai contadini della produzione agricola: agli agricoltori, come i miei parenti nell’alto forlivese, veniva imposta una elevata produzione agricola di cui solo una piccola parte veniva lasciata al contadino per il consumo personale e la vendita al mercato mentre una quantità esosa veniva “prelevata” dai fascisti locali “per il bene della patria”. E anche gli animali da carne.
Furono anni in cui calò l’allevamento dei maiali, animale ingombrante, oneroso da mantenere, visibile e quindi facilmente “prelevabile” in favore dell’allevamento del coniglio, più piccolo, più discreto e quindi più facilmente nascondibile; nel paese di Santa Sofia di Romagna (FC), tutta la collina della frazione di Camposonaldo, zona impervia da esplorare, divenne prima che territorio e base dei partigiani luogo di allevamento abusivo dei conigli, quelli che le famiglie contadine mangiavano la domenica e nei giorni di festa malgrado le disposizioni del regime.



Il Duce amava l’Italia.
«Mi serve qualche migliaio di morti per sedermi al tavolo delle trattative» enunciò il Duce il 26 maggio 1940 (fonte: L’Italia nella seconda guerra mondiale, Milano, Mondadori, 1946, p. 37): e così fu, visto che nella disastrosa “campagna di Russia”, solo per compiacere Hitler con una presenza italiana del tutto male equipaggiata e fornita nelle sue operazioni di guerra, persero la vita ufficialmente 114.520 militari sui 230.000 inviati al fronte, a cui aggiungere i dispersi, ovvero le persone che non risultavano morte in combattimento ma nemmeno rientrate in patria, che fonti UNIRR stimano in circa 60.000 gli italiani morti durante la prigionia in Russia. Il Duce amava talmente l’Italia da aver introdotto leggi razziali antisemite nel 1938 solo per compiacere l’alleato nazista, inutili perché in Italia gli ebrei, a differenza che in Germania, non avevano un’importanza rilevante in un sistema economico di cui la dittatura volesse provvedere all’esproprio. E i fascisti, soprattutto durante il periodo della Repubblica Sociale Italiana (o di Salò) collaborarono attivamente ai massacri di rappresaglia a seguito delle operazioni partigiane e alla deportazione nei lager di cittadini italiani.
In Italia inoltre il fascismo fu istitutore e gestore di “lager”: la bibliografia ufficiale stima 259 campi di prigionia, alcuni normali campi di detenzione, altri campi di smistamento in attesa della deportazione in Germania, altri ancora autentici campi di sterminio come la Risiera di San Sabba a Trieste, dove il tenore dei massacri era inferiore solo ai campi di Germania e Polonia.

Il Duce diede il voto alle donne.
Errato, perché le donne erano ammesse alle votazioni solo per piccoli referendum locali mentre erano escluse al voto per le elezioni politiche. La prima volta che le donne furono democraticamente ammesse al voto fu al referendum repubblica/monarchia del 1946.

I numeri del fascismo in Italia:
42 fucilati nel ventennio su sentenza del Tribunale Speciale.
28.000 anni complessivi di carcere e confino politico.
80.000 libici sradicati dal Gebel con le loro famiglie e condannati a morire di stenti nelle zone desertiche della Cirenaica.
700.000 abissini barbaramente uccisi nel corso della impresa Etiopica e nelle successive “operazioni di polizia”.
350.000 militari e ufficiali italiani caduti o dispersi nella Seconda Guerra mondiale.
45.000 deportati politici e razziali nei campi di sterminio, 15.000 dei quali non fecero più ritorno.
640.000 internati militari nei lager tedeschi di cui 40.000 deceduti ed i 600.000 e più prigionieri di guerra italiani che languirono per anni rinchiusi tra i reticolati, in tutte le parti del mondo.
110.000 caduti nella Lotta di Liberazione in Italia e all’estero.
Migliaia di civili sepolti vivi tra le macerie dei bombardamenti delle città.
Innumerevoli combattenti degli eserciti avversari ed i civili che morirono per le aggressioni fasciste.

Il programma politico, economico e sociale alla base degli atti di governo di Mussolini è antitetico a quello liberale: Mussolini voleva costruire una società corporativa, mentre il liberalismo economico, figlio dell’Ottocento, è una teoria del conflitto (ma un conflitto visto in positivo, al contrario del marxismo che invece ne propugna il superamento per via rivoluzionaria). Per questa ragione un liberale affermerebbe che pensioni, agro pontino e mille altri atti di governo concreto mussoliniano erano inseriti in una visione globale antitetica a quella, appunto, liberale: e pertanto erano ottime idee sprecate sull’altare di un progetto totalmente errato, liberticida, da respingere qui e per sempre.




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sabato 13 giugno 2015

LA TORRE DELLA VITTORIA A BRESCIA

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In Italia il grattacielo nacque durante il ventennio fascista, sulla scia dell'influenza internazionale esercitata dalla Scuola di Chicago, la madre di questo genere architettonico. I contatti tra progettisti europei e statunitensi sul tema "skyscraper" toccarono l’apice in occasione del concorso per la Chicago Tribune Tower nel 1922, a cui parteciparono da Loos a Gropius e Meyer, dai Taut all’italiano
Marcello Piacentini. E’ quest’ultimo l’artefice, non privo di contraddizioni, della nascita del grattacielo in Italia.
L’architetto del novecentismo di regime, dapprima ostile verso l’elevazione in altezza degli edifici, per ragioni storiche ed estetiche, ripiegò in un secondo tempo sulla necessità di variare le altezze del costruito, non disdegnando le "torri" con argomenti diametralmente opposti a quelli iniziali. E’ così che sorse, tra il 1928 e il ‘32, nell’ambito dei risanamenti urbanistici voluti dal regime nei centri
storici delle città medio-piccole del nord Italia, il Torrione (guai associarlo all'America, meglio allinearlo alla tradizione costruttiva italica della torre civica) di piazza della Vittoria a Brescia, di 13 piani, il primo grattacielo d'Italia. Il Novissimo Melzi del 1960 lo incluse nell’elenco degli edifici più alti del mondo, col nome "Casa Alta", attribuendogli 60 m di altezza.
L'Illustrazione Italiana, rivista settimanale degli avvenimenti e personaggi contemporanei sopra la storia del giorno, la vita pubblica e sociale, scienze, belle arti, geografia e viaggi, teatri, musica, mode, ecc. indicò nel 1932, il Torrione di Brescia, come il più alto edificio in cemento armato d’Europa.
E' interessante sottolineare almeno due aspetti di questa "importazione tipologica": per la gioia degli appassionati di numerologia, si ha il medesimo numero di piani, 13, del primo grattacielo americano (e mondiale); c'è un filo diretto che lega la storia del grattacielo, tipicamente americana, con la storia del grattacielo in Italia e in Europa, nel suo esordio bresciano.
Marcello Piacentini, adattò per la nuova piazza di Brescia il progetto di grattacielo (ma il regime impose di definirlo “edificio multipiano”, torre o “torrione”) con cui l'architetto nel ’22 aveva partecipato, con esito negativo, al noto concorso americano per la Chicago Tribune Tower. Con i medesimi presupposti realizzò poi, nel 1940, il grattacielo Piacentini di Genova.
Il Torrione di piazza Vittoria, con struttura in cemento armato, alto 57 metri, aveva un ristorante panoramico all’ultimo piano (poi studio dell’architetto Fedrigolli) raggiungibile per mezzo di un modernissimo ascensore elettrico. Nell’aspetto ricalca il gusto eclettico dei primi grattacieli nord-americani, con archi e rivestimento in mattoni a vista, scostandosi dal candore della bicromia marmorea degli altri edifici della piazza. Sul basamento porticato campeggiava un bassorilievo di Arturo Martini, oggi perduto.
Le cronache del giorno dell'inaugurazione narrano, con un filo di retorica, che il duce Benito Mussolini sfidò il nuovissimo ascensore elettrico: scelse le scale e salì a piedi i 13 piani del grattacielo, giungendo per primo alla terrazza panoramica, senza che i molti inseguitori riuscissero a tenergli il passo…
Fino al 1954 è rimasto il grattacielo più alto d'Italia e, fino al 1952, l'edificio in cemento armato più alto d'Europa.



LEGGI ANCHE : http://asiamicky.blogspot.it/2015/06/visitando-brescia.html







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domenica 24 maggio 2015

LE CITTA' DELLA PIANURA PADANA : LEGNANO

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Altra città importante della pianura padana dell' Altomilanese è Legnano personalmente a me cara perchè è la città natale dei miei nonni e sopratutto perchè è una bellissima città.Vorrei farvela conoscere partendo dalla sua storia molto ricca di avvenimenti importanti.

Legnano è situata lungo il corso della valle Olona, a sud delle Prealpi Varesine. Il suolo è principalmente composto da ciottoli, ghiaia, sabbia e argilla. Un tempo era coperto da un sottile strato di humus poco adatto alla crescita di boschi e successivamente alla coltivazione agricola, così da essere in gran parte groana.

Il territorio ha una superficie di 17,72 km² ed è distribuito su un suolo che ha un'altitudine compresa tra i 192 m ed i 227 m s.l.m..

Legnano è attraversata dal fiume Olona, che taglia in due parti quasi uguali il territorio comunale. Per la stragrande maggioranza è incanalato in argini in cemento o pietra, costruiti per minimizzare le esondazioni. Un tempo una cospicua parte dell'alveo era ricoperta da una struttura in cemento (per la maggior parte in corrispondenza delle aree degli ex cotonifici Cantoni e Dell'Acqua). L'Olona, prima della costruzione di argini e canali scolmatori, è stato un fiume che ha flagellato con frequenti esondazioni le aree che attraversa. Grazie alla costruzione di questi ultimi, gli allagamenti sono diventati eventi rari. L'ultima esondazione che ha fatto danni ingenti alla città si è verificata il 13 settembre 1995, mentre l'ultima in ordine cronologico è avvenuta nel luglio 2014.

Nel passato esistevano deviazioni del corso del fiume: naturali, come l'Olonella, ed artificiali, come i canali e le rogge scavate dai contadini. Questi ultimi erano necessari per raggiungere i terreni più lontani dall'Olona. L'estrazione delle acque dal fiume e più in genere le attività connesse allo sfruttamento dell'Olona furono regolate durante i secoli da contratti e regolamenti.

È stato uno dei fiumi più inquinati d'Italia, anche se la qualità delle acque sta gradualmente migliorando. In seguito al miglioramento dello stato d'inquinamento delle acque si è provveduto a scoprire il fiume.

Il toponimo "Legnano" ha origini almeno medioevali. Questo appellativo è un aggettivo prediale e quindi è formato da una prima parte che deriva dal nome del proprietario dei terreni legati alla località e da un suffisso che definisce questa appartenenza. Nel caso di Legnano, il nome di tale possidente terriero era Laenius, a cui venne aggiunto il suffisso –anum. Questo suffisso sta a significare che la latinizzazione del territorio era completamente avvenuta. In altri casi, dove l'influenza celtica era presente in maniera maggiore, il suffisso aggiunto corrispondeva ad –acum.
Questa proprietà terriera era più estesa dell'attuale Legnano e doveva avere le caratteristiche di un latifondo. I nomi dei comuni limitrofi hanno un'origine più recente e quindi l'antica Laenianum si estendeva ragionevolmente su un territorio piuttosto vasto. Non si conosce però il periodo di fondazione di questa primigenia comunità: secondo alcune ipotesi le origini dell'antica Laenianum potrebbero risalire a prima della nascita di Cristo.
La storia della città di Legnano, in provincia di Milano, nell'Altomilanese, inizia con la comparsa, nel III millennio a.C., dei primi insediamenti umani sull'odierno territorio comunale. Il primo documento ufficiale che cita l'abitato di Legnano è invece datato 23 ottobre 789 e si riferisce ad una vendita di terreni.

Grazie ad una storica battaglia, Legnano è l'unica città, oltre a Roma, ad essere citata nell'inno nazionale italiano " Dall'Alpi a Sicilia dovunque è Legnano . Ogni anno i legnanesi ricordano questa battaglia con il Palio delle contrade.

Legnano è inserita in un contesto produttivo molto avanzato, che la colloca in una delle zone più sviluppate ed industrializzate d'Italia.

Fin dai tempi più antichi, gli abitanti di Legnano vissero principalmente lontano dall'Olona, su terreni più alti che sicuramente non sarebbero stati colpiti dalle piene del fiume. I più rilevanti ritrovamenti archeologici, dalla preistoria fino alla dominazione romana, sono stati scoperti lungo i margini della valle dell'Olona, e si riferiscono ad inumazioni.

I reperti preistorici più antichi trovati a Legnano sono delle ossa di bos primigenius risalenti alla glaciazione Würm. Portate alla luce in località Costa San Giorgio, sono conservate al museo civico Sutermeister.

Per quanto riguarda invece la presenza dell'uomo, il più antico reperto trovato nel Legnanese risale ad un periodo compreso tra il 3400 a.C. ed il 2200 a. C. ed è venuto alla luce tra il 1926 ed il 1928 nei pressi del confine tra Castellanza e Legnano grazie agli scavi effettuati da Guido Sutermeister. Si tratta di un piccolo frammento di un vaso campaniforme realizzato nell'età del rame e collegabile alla cultura di Remedello. È stato trovato durante i lavori di costruzione della strada statale 527 Bustese in località "Paradiso" a Castellanza tra altre suppellettili di età romana, ed è conservato presso il museo civico Sutermeister. I rapporti che queste popolazioni insediate lungo le rive dell'Olona con quelle di Remedello sono però sconosciute. Molto probabilmente il territorio corrispondente alla moderna Legnano era già abitato in precedenza. Tali popolazioni, che provenivano presumibilmente dalla Lagozza di Besnate o dalle altre comunità palafitticole presenti sulle rive dei laghi varesini, migrarono a sud in seguito ad un forte incremento demografico.

Si collocano invece ottocento anni dopo il frammento collegato alla cultura di Remedello i reperti archeologici appartenenti cosiddetta cultura di Canegrate. Durante i primi scavi, furono individuate 200 tombe riconducibili all'età del bronzo recente e risalenti al XIII secolo a.C. Questa cultura si è sviluppata a partire dall'età del bronzo recente, fino ad arrivare all'età del ferro. Il ritrovamento di questi suppellettili a Canegrate non esclude che le popolazioni appartenenti a questa cultura preistorica fossero insediate anche sul territorio della Legnano moderna.

I reperti archeologici successivi, che si riferiscono a due punte di lancia in bronzo trovate sempre a Legnano, sono invece databili tra il IX e l'VIII secolo a.C. (prima età del ferro) e sono legate alla cultura di Golasecca arcaica. Sono state rinvenute a Legnarello, quartiere di Legnano, negli ultimi anni del XIX secolo. Lungo l'Olona sono state scoperte anche suppellettili che appartengono sempre alla cultura di Golasecca e che risalgono al VI-V secolo a.C.. Sono stati trovati in via Calatafimi nel 1925 e nel 1937. Durante le due campagne di scavo, sono state scoperte due necropoli all'interno delle quali erano presenti, oltre che le urne cinerarie, degli oggetti di uso comune.

Nel Legnanese non sono stati trovati reperti collegati agli Etruschi ed ai Veneti. Da un sito in corso Sempione, sono stati poi portati alla luce dei bronzi risalenti alla dominazione celtica che sono databili tra il IV ed il I secolo a.C. e che sono collegati alla cultura di La Tène. Altri scavi effettuati a Legnano hanno portato alla luce monete ed altri oggetti collegati alla dominazione celtica. Anche dopo la conquista romana della pianura padana, e fino alla completa romanizzazione della zona, i ritrovamenti archeologici continuarono ancora ad essere caratterizzati da tratti celtici, che si sommarono a quelli romani. I Celti non si limitarono a lasciare traccia solo nell'archeologia. L'influenza linguistica che ebbero i Celti sulle parlate locali fu infatti importante, tanto che ancora oggi il dialetto legnanese è classificato come "gallo-italico". I ritrovamenti archeologici si fecero poi molteplici dal II secolo a.C., cioè in un periodo in cui la conquista militare romana era già stata completata. Da ciò si può dedurre che la media valle Olona fosse all'epoca una rilevante via di comunicazione.
In epoca romana, gli abitanti del Legnanese facevano parte di un'unica comunità e non erano organizzati in divisioni amministrative. La tipologia dei ritrovamenti di epoca romana scoperti in altre zone del Legnanese fa pensare che i cittadini meno abbienti stessero a Legnano, mentre quelli più ricchi risiedessero, per esempio, sul territorio della moderna Parabiago. In quest'ultima località è stata infatti ritrovato un reperto particolarmente prezioso, la cosiddetta patera di Parabiago. Dalla tipologia dei reperti trovati si può dedurre che all'epoca i cittadini romani residenti nel Legnanese conducessero un'esistenza serena ed industriosa.

I Romani non perseguirono un'assimilazione forzata ma consentirono agli abitanti del Legnanese di continuare a professare la loro religione, utilizzare la loro lingua e mantenere le proprie tradizioni. La romanizzazione avvenne quindi per gradi.

Con l'avvento del cristianesimo i residenti tornarono a seppellire i morti tramite inumazione. Questo tipo di sepoltura, che si ritrova nei reperti preistorici più antichi trovati nel Legnanese, venne abbandonata con la cultura di Canegrate, il cui corredo è infatti composto da urne cinerarie.

Con la crisi dell'Impero romano, anche il Legnanese conobbe una fase di decadenza sociale ed economica. Tale ipotesi è suffragata dalla minore ricchezza dei reperti collegati al tardo Impero.

I più importanti reperti romani sono stati invece scoperti nel 1925 da Guido Sutermeister in una necropoli in via Novara. Si tratta di monete, piatti, coppe, bicchieri, balsamari, specchi, utensili in ferro trovati in un centinaio di tombe. La datazione di questi suppellettili fu eseguita grazie alle monete, che si riferivano ad un periodo di tempo corrispondente ai regni di Augusto e Caligola. Altre tombe risalenti allo stesso periodo furono trovate nel 1985 in via Micca e nel 1991 durante i restauri della chiesa di Sant'Ambrogio. Degno di nota è anche uno scavo effettuato nel quartiere "costa San Giorgio", dove è stato trovato materiale databile tra il I ed il IV secolo. Tale corredo era formato da anfore e monete. Durante numerose campagne di scavo effettuate nel XIX e nel XX secolo, sono stati trovati molte altre suppellettili di epoca romana. In questi scavi, che sono equamente distribuiti sul territorio comunale, sono venuti alla luce resti murari di abitazioni, tubazioni in cotto, embrici, laterizi, necropoli, oggetti di uso comune in ceramica, metallo e vetro, monete, resti di are e di cippi votivi. Molti di questi reperti sono esposti al museo civico Sutermeister.

Sono stati poi scoperti anche oggetti di tarda età romana: più precisamente monete, ciottoli, coltelli, rasoi e fibbie che si riferiscono ai regni di Licinio e Costantino. Durante altri scavi effettuati tra il XIX secolo ed il XX secolo, oltre alle monete, sono venute alla luce anche diverse necropoli del medesimo periodo storico.


Con le invasioni barbariche i territori un tempo appartenenti all'Impero romano conobbero un fase di involuzione sociale ed economica ed il Legnanese non fu un'eccezione. Tra le popolazioni barbariche che invasero l'Italia settentrionale, furono i Longobardi quelli che lasciarono, nel Legnanese, l'impronta più importante. Ad esempio, il toponimo di Olgiate Olona (in dialetto Ulgià) deriva dal termine longobardo auia, che significa "prato verde". L'influsso dei longobardi ebbe conseguenze anche nella lingua parlata. Ad esempio, il termine dialettale legnanese schirpa, che era in uso fino al XIX secolo e che indicava la dote della sposa, è di origine longobarda.

Nel Medioevo Legnano era al confine tra i Contadi del Seprio (capoluogo Castelseprio) e della Burgaria (probabilmente sotto Parabiago), due contee dipendenti dalla Marca di Lombardia (suddivisione territoriale derivante dai Longobardi e dai Franchi). Durante l'Impero Carolingio, Carlomagno mantenne pressoché inalterata la struttura amministrativa del Regno Longobardo, rimpiazzando i duchi longobardi con i conti, che erano invece di origine franca. Nello specifico, la fortificazione di Castelseprio, fondata dai Longobardi, fu messa a capo del Contado del Seprio. Legnano, perlomeno in origine, gravitava intorno al Seprio.

In epoca medioevale Legnano era divisa in due parti, l'abitato principale, che era ubicato sulla riva destra dell'Olona e che corrisponde all'attuale centro della città (la cosiddetta Contrada Granda, in dialetto legnanese), ed un borgo più piccolo, Legnanello (o Legnarello), sulla riva sinistra del fiume (da cui è derivato il nome della contrada di Legnarello). All'epoca le due comunità conducevano una vita autonoma, ed erano collegate da uno o due ponti al massimo. I terreni compresi tra i due abitati erano attraversati dall'Olonella (una diramazione naturale del fiume) e dal corso principale dell'Olona. Tali terreni erano liberi ed erano conosciuti come "Braida Arcivescovile". La Braida Arcivescovile restò libera da costruzioni fino al XX secolo perché era spesso allagata dalle acque dell'Olona. L'Olonella si staccava dal fiume prima di Legnano e, dopo essere passata dietro al borgo principale vicino all'attuale basilica di San Magno, rientrava nell'Olona. L'Olonella è stata poi interrata a cavallo tra il XIX secolo e il XX secolo. La Legnarello dell'epoca era costituita da poche case che erano situate lungo una strada parallela al corso principale dell'Olona (l'attuale corso Sempione), mentre il borgo principale era formato da un agglomerato di abitazioni che si sviluppava intorno ad una piazza (l'attuale piazza San Magno).

Il primo documento che riguarda Legnano cita il quartiere di Legnanello. Questo atto documentato si riferisce ad una permuta di terreni tra Pietro I Oldrati, Arcivescovo di Milano, ed il monastero di Sant'Ambrogio di Milano. Tale testimonianza scritta, che è datata 23 ottobre 789, è compresa nel Codice Diplomatico Longobardo al numero LIV. All'interno di essa si può leggere: " curtem proprietatis nostre in Leunianello ". Sembra che il rione esistesse già nel 687, quando ebbe inizio la celebrazione religiosa della benedizione delle candele (la "Candelora"), che fu introdotta da Papa Sergio I e che si officiava ogni 2 febbraio. Non è un caso che il documento che cita Legnarello fosse collegato ai monaci di Sant'Ambrogio. Durante il Medioevo le città erano il riferimento dei contadini, e questi agricoltori, in caso di pericolo, trovavano protezione all'interno dei monasteri cittadini. Quelli legnanesi avevano come riferimento il monastero di Sant'Ambrogio di Milano. È infatti di questo periodo la rifioritura dei centri cittadini dopo le invasioni barbariche.

Con la costruzione dei primi edifici cristiani, si iniziò a seppellire i morti nei pressi dei templi. Più precisamente i nobili erano inumati all'interno del perimetro delle chiese, mentre i defunti del popolo erano sepolti in fosse comuni al di fuori degli edifici. Nel Medioevo i templi legnanesi che erano maggiormente interessati al fenomeno erano la chiesa di San Martino, la chiesa di Sant'Ambrogio e soprattutto la chiesa di San Salvatore, cioè l'edificio religioso che si trovava dove ora sorge la basilica di San Magno ed a cui la comunità legnanese faceva riferimento prima della costruzione della Basilica. Tale cimitero era ubicato quindi nell'odierna piazza San Magno, e continuò ad essere adoperato anche dopo la costruzione della Basilica. Successivamente fu realizzata una grande stanza sotterranea dove venivano inumati i defunti che era conosciuta come "il foppone" e che venne utilizzata fino al 1808.

L'agglomerato urbano principale di Legnano si sviluppò poi con una pianta con forma allungata lungo una strada che costituiva anche la via di comunicazione principale con la zona circostante. Questa strada percorreva l'abitato da nord a sud. Tale via di comunicazione proveniva dalla valle dell'Olona e attraversava Castellanza, Legnano, la costa di San Giorgio (odierno quartiere di Legnano) continuando verso Milano. Nei punti in cui questa strada entrava e usciva da Legnano furono costruite due porte di cui una, conosciuta come "porta di sotto", è stata demolita nel 1818. Era situata a sud dell'abitato, nell'attuale corso Magenta, che all'epoca si chiamava via Porta di Sotto, poco più avanti dell'ingresso dell'odierno Palazzo Leone da Perego. Sul lato contrapposto, a nord, era situata una "porta di sopra" della quale, però, non ci sono giunte testimonianze, dato che fu probabilmente abbattuta in tempi più remoti. La "porta di sopra" si presentava come un'apertura ad arco al di sopra del quale era stato ricavato un passaggio coperto. Questo passaggio coperto collegava il complesso architettonico formato da Palazzo Leone da Perego e dall'adiacente Palazzo Visconti, a una costruzione situata dall'altra parte di corso Magenta. Nei pressi della "porta di sotto" esisteva all'epoca un importante palazzo anteriore al XIII secolo. Fu forse costruito su un precedente edificio altomedievale che era servito ai legnanesi come difesa contro le incursioni degli Ungari. Il castello dei Cotta, questo il suo nome, passò all'omonima famiglia, che lo fortificò in un vero e proprio castello e che in seguito gli diede il nome. La porta di sotto, prima della demolizione del castello dei Cotta, collegava quest'ultimo a Palazzo Visconti. Legnano in questo periodo era circondato da un fossato non molto profondo ma allagabile che prendeva l'acqua da una derivazione dell'Olonella e che aveva origine all'altezza dell'attuale piazza 4 novembre. Descrivendo un largo perimetro, riconfluiva nel corso principale del fiume tra le attuali vie Corridoni e Ratti. All'interno di questa prima opera di difesa, esisteva un muraglione che per un tratto correva parallelo al fossato. Di queste fortificazioni si sono trovati i resti durante degli scavi, avvenuti nel 1951 per la costruzione del teatro Galleria, e più a nord, nei pressi di corso Garibaldi. Le mura furono probabilmente realizzate da Ottone Visconti nel 1277, mentre il fossato venne scavato nel 1257 durante il soggiorno di Leone da Perego.

Nel Medioevo la chiesa principale di Legnano era quella di San Salvatore, che era dedicata a Gesù Cristo. Di questo tempio non si conosce molto. Era presente almeno dal XIII secolo e fu in seguito sostituito dalla basilica di San Magno, che venne edificata sulla stessa area. L'unica parte dell'antica chiesa che non fu abbattuta fu il campanile. In seguito tale torre campanaria crollò e fu sostituita nel XVIII secolo dall'odierno campanile. Alla sua base sono ancora visibili, sul lato destro della basilica di San Magno (dietro l'odierna torre campanaria ed incorporati nella costruzione), i resti dell'antica torre campanaria. Come è riportato su due elenchi di chiese compilati nel 1304 e nel 1389, a Legnano esistevano, oltre a San Salvatore, altri edifici dedicati al culto religioso. Erano presenti la chiesa di Sant'Agnese (che sorgeva nell'area ora occupata dalla sede principale della Banca di Legnano e che venne demolita nel periodo di costruzione della basilica di San Magno), la chiesa di San Martino (che venne eretta nello stesso luogo dell'attuale) e la chiesa di Santa Maria del Priorato, alla quale era annesso il convento degli Umiliati. Nell'elenco del 1389 è presente anche una chiesa dedicata a Sant'Ambrogio che era situata nello stesso luogo di quella attuale. Fin dal Medioevo il borgo era ricco di mulini ad acqua. Il più antico scritto giunto sino a noi nel quale si menziona un mulino sull'Olona è del 1043. Questo impianto molinatorio, che era di proprietà di Pietro Vismara, si trovava tra Castegnate e la località Gabinella a Legnano.

Nel Medioevo Legnano fu teatro di una famosa battaglia. In diverse campagne militari prima del celebre scontro, l'imperatore tedesco Federico I (detto "il Barbarossa") ambiva ad affermare il suo dominio sui Comuni dell'Italia settentrionale. Questi ultimi superarono le loro rivalità unendosi nella Lega Lombarda, ovvero in un'alleanza militare presieduta da Papa Alessandro III. Il 29 maggio 1176 l'esercito dell'imperatore del Sacro Romano Impero fu duramente sconfitto nei pressi di Legnano da queste truppe lombarde. Oggi è difficile stabilire con precisione dove è stata combattuta la celebre battaglia. Una delle cronache dello scontro, gli Annali di Colonia, contiene un'informazione che indica dove probabilmente fosse il Carroccio. Per non far fuggire nessun soldato, i Lombardi aut vincere aut mori parati, grandi fossa suum exercitum circumdederunt, ossia "collocarono il proprio esercito all'interno di una grande fossa". Ciò potrebbe significare che la famosa battaglia potrebbe essere stata combattuta sul rione di San Martino oppure in prossimità del quartiere legnanese della costa San Giorgio, e quindi su un territorio ora appartenente anche al Comune di San Giorgio su Legnano, non essendo in altra parte del Legnanese individuabile un'altra fossa con queste caratteristiche. La chiesa di San Martino domina infatti un ripido pendio che digrada verso l'Olona. Il Carroccio venne posizionato sul bordo di un ripido pendio fiancheggiante l'Olona, così che la cavalleria imperiale, il cui arrivo era previsto da Castellanza lungo il corso del fiume, sarebbe stata obbligata ad assalire il centro dell'esercito della Lega Lombarda risalendo la scarpata. Il Barbarossa sarebbe stato quindi obbligato ad assalire l'esercito comunale in una situazione di svantaggio, dato che avrebbe dovuto attaccare dal basso risalendo tale avvallamento. Questa scelta si rivelò poi sbagliata. Il Barbarossa arrivò infatti da Borsano, cioè dalla parte opposta, obbligando le truppe comunali a resistere intorno al Carroccio, dato che avevano la strada di fuga sbarrata dall'Olona. Un altro documento che ci fornisce indicazioni sul luogo della battaglia è la "Vita di Alessandro III", che è stata redatta dal cardinale Bosone. In questo testo si indicano i toponimi, evidentemente storpiati dai copisti, di Barrano e Brixiano, che potrebbero indicare Legnano o Borsano, oppure Busto Arsizio e Borsano. Nel citato documento è però indicata con precisione la distanza tra il luogo della battaglia e Milano, 15 miglia, che è la distanza precisa tra Legnano ed il capoluogo lombardo. La scelta di collocare il Carroccio a Legnano non fu fortuita. In questo periodo storico, e fino al XVI secolo, la posizione di Legnano era strategica perché rappresentava, per chi proveniva da nord, il passaggio di accesso al contado milanese e quindi a Milano. Per tale funzione strategica, Legnano, a partire dall'XI secolo, iniziò a legarsi sempre più con Milano sebbene appartenesse formalmente al Seprio. Questo ruolo acuì gli attriti con Busto Arsizio, che invece continuò ad essere legata al Contado citato. Il Seprio fu poi annesso al Ducato di Milano nel 1395. Il legame tra Milano e la città del Carroccio non fu solo militare, ma anche economico. Infatti, Legnano e gli altri contadi che gravitavano intorno al capoluogo meneghino, fornivano a Milano anche derrate alimentari. Milano influenzò anche il dialetto legnanese, che iniziò a differenziarsi dal dialetto bustocco. Infatti, grazie ai frequenti contatti tra le due città, il dialetto milanese iniziò a "contaminare" l'idioma parlato a Legnano. Nonostante questa tendenza, il dialetto legnanese continuò però a conservare nei secoli una certa diversità rispetto alla parlata meneghina. In questo periodo sempre più famiglie nobiliari milanesi iniziarono a soggiornare a Legnano in vari periodi dell'anno e ad acquistare immobili nella città del Carroccio. In questo modo, a Legnano, cominciò a formarsi una ricca classe nobiliare. Da queste casate, nei secoli successivi, avranno origine molte personalità che segneranno la vita politica e culturale di Legnano.

A Legnano soggiornò anche Leone da Perego, vescovo di Milano dal 1241 al 1257. Visse nel palazzo omonimo, dove morì il 14 ottobre 1257. In un primo momento fu sepolto nella chiesa di Sant'Ambrogio, poi la salma scomparve. Come conseguenza della battaglia di Legnano, i Comuni lombardi medioevali si affrancarono dal potere imperiale e la loro popolazione ottenne la possibilità di eleggere i consoli. I precedenza, il governo delle città era detenuto dal Vescovo, dai nobili e dall'alta borghesia. Ciò comportò la nascita, a Milano, di una situazione di instabilità politica e quindi Leone da Perego, che era tra i maggiori fautori del ritorno della supremazia arcivescovile sul governo della città, fu obbligato ad abbandonare a più riprese la città meneghina. L'arcivescovo scelse spesso Legnano come sua dimora per la funzione strategica della città del Carroccio: Legnano era infatti una delle città fortificate più vicine a Milano e da essa Leone da Perego poteva controllare gli avvenimenti politici del capoluogo meneghino. Il ruolo di Leone da Perego fu poi assunto da Ottone Visconti, che diventò arcivescovo di Milano nel 1262. La lotta ora non si svolgeva più tra le classi sociali meneghine, ma tra i Torriani ed i Visconti, che si contendevano il primato su Milano. Legnano fu infatti uno dei teatri di questi scontri che videro, alla fine, la vittoria dei Visconti. I Torriani, prima di essere sconfitti e di scomparire dalla scena politica, acquistarono a Legnano un convento che sorgeva a sud della città su un'isola del fiume Olona e lo fortificarono. Nacque così il moderno castello visconteo. Dopo la sua fortificazione, il castello visconteo acquisì il ruolo di baluardo difensivo del contado milanese sostituendo in tale funzione il maniero dei Cotta. Legnano, dato che conservò la sua funzione strategica anche nel XIV secolo, continuò ad essere teatro delle vicende politiche collegate a Milano.

Dal 1270 visse a Legnano Bonvesin de la Riva, il maggiore poeta e scrittore lombardo del XIII secolo. Nato a Milano, abitò presso il convento di Santa Caterina nella contrada Sant'Erasmo, dove scrisse una delle sue opere più note, il De quinquaginta curialitatibus ad mensam, un manuale di buone maniere da tenera a tavola. Il primo verso di tale opera recita: «Fra Bonvesin Dra Riva ke sta in borgo Legnan». Con questa rima, Legnano fa il suo esordio nella letteratura italiana. Riguardo a Legnano, il grande poeta scrisse anche «Fra tutte le città della Lombardia è lodata come la rosa o il giglio fra i fiori, come il cedro nel Libano, come il leone fra i quadrupedi, come l'aquila fra gli uccelli, sì da apparire come il sole tra i corpi celesti, per la fertilità del suolo e la disponibilità dei beni occorrenti agli uomini». A Legnano Bonvesin de la Riva praticava l'insegnamento e sovvenzionò la costruzione dell'ospedale di Sant'Erasmo. Fu uno scrittore prolifico, soprattutto in volgare milanese, di cui ci rimangono diciotto opere. Della sua produzione in latino ce ne restano invece solo tre.

Già nel Medioevo Legnano non era considerato un villaggio, bensì un borgo, cioè un paese fornito di una fortificazione e di un mercato. Dopo l'epoca medioevale, in una data impossibile da definire a causa dell'assenza di documenti che ne testimonino l'avvenimento, il mercato di Legnano fu chiuso.

Durante il Quattrocento Legnano fu dominata da diverse famiglie nobiliari che nel secolo successivo avrebbero costituito i cosiddetti "Comunetti", cioè delle divisioni amministrative la cui funzione era quella di governare le varie parti in cui era suddiviso il territorio di Legnano. Nonostante la presenza di queste famiglie, Legnano non fu mai una vera e propria Signoria tant'è che il borgo legnanese, a differenza di molte comunità vicine, non fu mai oggetto di infeudazione. Tra le famiglie nobiliari legnanesi più importanti nel Quattrocento spicca quella dei Lampugnani. Il loro capofamiglia, Oldrado Lampugnani, era un nobile di origine milanese che diventò segretario e generale dell'esercito di Filippo Maria Visconti. Durante la lotta tra i Visconti e gli Sforza per il predominio su Milano, Oldrado Lampugnani si barcamenò tra le due famiglie nobiliari citate. I servigi resi gli procurarono importanti possedimenti fondiari. A Legnano, in particolare, scelse come residenza il castello già di proprietà dei Torriani, che rafforzò con la costruzione di nuove fortificazioni. Nel 1448 Legnano fu protagonista di una fase degli scontri tra i Visconti e gli Sforza: parte dell'esercito di Francesco Sforza si accampò a Legnano dopo aver conquistato Abbiategrasso. Grazie al sostegno di Oldrado Lampugnani, queste truppe espugnarono poi Busto Arsizio.

Nel corso del Quattrocento, oltre al castello visconteo ed a palazzo Leone da Perego, Legnano si arricchì di molte abitazioni nobiliari. Una di esse si trovava a Legnanello tra al moderna strada statale del Sempione (anticamente conosciuta come "strada magna") e l'Olona, all'incirca presso l'attuale largo Franco Tosi. Era un edificio spazioso e circondato da giardino, con un ingresso su una strada che digradava verso il fiume. Apparteneva a Oldrado Lampugnani ed è stato demolito nel 1927. Il Comune di Legnano lo fece poi ricostruire in corso Garibaldi destinandolo a museo civico della città. Un'altra casa nobiliare, appartenente al ramo della famiglia Lampugnani a cui appartenevano i pittori Francesco e Giovanni Battista, si trovava fino al 1970 in corso Garibaldi vicino alla la chiesa di San Domenico. Si trattava di una costruzione decorata in parte da affreschi che erano opera dei pittori citati e che sono andati quasi completamente perduti (solo qualche piccola parte è conservata da collezionisti privati). Dietro di essa si trovava un giardino che si estendeva fino all'Olonella. Di pregio erano anche le finestre ogivali contornate da cornici in cotto. Un'altra importante famiglia, quella dei conti Vismara, possedeva una grande casa nobiliare con ambienti affrescati, finestre ogivali al primo piano, un vasto giardino ed una casa per i contadini. Era un edificio distribuito su due piani con annesso monastero dedicato a Santa Chiara, che sorgeva a destra del complesso e che divenne poi pellegrosario. L'edificio, demolito nel 1934, era ubicato all'incirca tra gli attuali corso Italia e largo Seprio. Gli affreschi furono asportati prima della demolizione grazie all'interessamento di Guido Sutermeister e vennero esposti al museo civico della città; essi rappresentano l'unica testimonianza artistica della Legnano quattrocentesca. Successivo fu il palazzo Corio, in corso Sempione, che era un edificio con pareti interne ed esterne affrescate. Possedeva un cortile con dei portici arricchiti da colonnati. Fu demolito tra il 1968 ed il 1971. L'unica struttura civile giunta sino a noi della Legnano quattrocentesca è un piccolo edificio di corso Garibaldi, anch'esso all'altezza della chiesa di San Domenico, che ora è inglobato in un cortile. È conosciuta come Torre Colombera ed è arricchita dai resti di pregevoli affreschi.

Un'altra caratteristica che contraddistingueva la Legnano del XV secolo erano i conventi. Nel borgo, infatti, si trovavano tre importanti monasteri, di cui due maschili; di questi ultimi, uno era il convento di Sant'Angelo, mentre l'altro ospitava una comunità di frati in una struttura annessa all'antica chiesa di Santa Maria del Priorato ed era conosciuto come convento degli Umiliati. Il terzo monastero era quello,  di Santa Chiara. Il convento di Sant'Angelo e quello di Santa Chiara furono fondati dalla famiglia Vismara. Il primo, costruito intorno al 1469, sorgeva sull'area occupate dalle odierne scuole Mazzini ed è stato demolito nel 1967. Fu di proprietà dell'ordine dei frati minori, era contornato da 37 pertiche di terreno, ed era attraversato da un ruscello privato derivante dall'Olona che forniva l'acqua per le necessità del monastero. Il convento di Santa Chiara, fondato nel 1492 su un terreno accanto alla villa dei Vismara, si trovava, come già accennato, tra gli attuali corso Italia e largo Seprio. Si trattava di un monastero di Clarisse e fu abbattuto nel 1934 insieme alla villa. Il convento degli Umiliati invece era annesso, come già accennato, alla chiesa di Santa Maria del Priorato; le prime notizie relative a questo complesso sono datate 1398. Entrambi gli edifici sono stati demoliti nel 1953 per la costruzione della Galleria della città.

Il 20 giugno 1499 i legnanesi chiesero al Duca di Milano che il loro mercato, chiuso in data imprecisata, fosse riaperto, ma la richiesta non ebbe seguito perché il Duca era nel frattempo coinvolto in una impegnativa guerra contro i francesi.

Il Cinquecento si aprì con un avvenimento molto importante per la storia di Legnano. Nel 1504 iniziarono i lavori di costruzione della basilica di San Magno.

L'attività principale su cui si basava l'economia di Legnano era l'agricoltura. Gli agricoltori legnanesi coltivano principalmente i cereali (miglio e frumento), la vite ed il gelso, che è alla base dell'allevamento dei bachi da seta. Queste ultime due coltivazioni scomparvero dal legnanese tra il XIX ed il XX secolo a causa di una crisi agricola che avvenne alla fine del primo secolo citato e per alcune malattie che colpirono queste coltivazioni.

Durante il Cinquecento Legnano fu dominata da diverse famiglie nobiliari. Le principali furono i Lampugnani, i Vismara, i Visconti, i Crivelli, i Maino ed i Caimi. All'epoca Legnano era suddivisa in nove "Comunetti", ovvero in divisioni amministrative la cui funzione era quella di amministrare le varie parti in cui era suddiviso il territorio di Legnano. Essi erano il "comune Vismara", il "comune delle Monache", il "comune di Camillo Prata", il "comune Visconti", il "comune Morosinetto" ed il "Comunetto". Ognuno degli Enti sopraccennati era governato dai proprietari terrieri più abbienti, che corrispondevano alle famiglie nobiliari citate. Esse concorrevano alla nomina di un Sindaco. Quest'ultimo, che era il rappresentante della comunità, era assistito nel governo del proprio Comune da due deputati e da un cursore. Fino alle riforme amministrative di Maria Teresa d'Austria a Legnano fu comune il contrasto tra i possidenti terrieri, che erano di origine nobiliare, ed i contadini che lavoravano le loro proprietà.

Lo slancio religioso dopo la Controriforma sostenne offerte per la costruzione dei già citati conventi e di chiese. Oltre ai Vismara, anche le altre famiglie nobiliari facevano a gara per accattivarsi il favore degli arcivescovi milanesi legando il proprio nome a opere di carità oppure a opere a beneficio della comunità. In questo contesto religioso, il 7 agosto 1584, San Carlo Borromeo decise di spostare la prepositura da Parabiago a Legnano. È di questo secolo la più antica scuola pubblica a Legnano, che venne fondata presso la chiesa di Sant'Ambrogio nel 1570 per volere di Carlo Borromeo.

Nel 1594 la popolazione legnanese, decimata dalle epidemie di peste del 1529, del 1540 e del 1576, ammontava a circa 2.500 abitanti, che erano distribuiti in 221 case. Le famiglie erano 470. Il numero medio di componenti delle famiglie era di cinque, mentre l'età media della popolazione era di 27 anni.

Nel Seicento le vicende di Legnano seguirono quelle del Ducato di Milano, che passò sotto il dominio spagnolo. La struttura amministrativa dei Comunetti fu confermata anche dai nuovi dominatori. Per limitare le lagnanze dei contadini nei confronti della nobiltà che amministrava i vari comuni, il governo spagnolo riformò in parte questo sistema amministrativo. Ad esempio, fissò delle regole di eleggibilità per i Sindaci, stabilì che gli amministratori dovessero rendere conto al governo del lavoro compito e limitarono le risorse che i contadini avrebbero dovuto fornire all'amministrazione legnanese. Quest'ultima rispondeva al contado del Seprio, che era governato da un capitano o vicario che risiedeva a Gallarate e che sovrintendeva, tra l'altro, alla giustizia e alla polizia, rispondendo direttamente all'amministrazione centrale di Milano.

La popolazione legnanese, secondo un censimento del 1620, ammontava a 2.948 abitanti suddivisi in 474 famiglie. In tale rilevazione statistica furono censiti anche le attività produttive, l'uso dei terreni e le dimensioni del borgo (che ammontavano a 22.994 pertiche milanesi). In base anche ad altre rilevazioni effettuate in questo secolo, la Legnano del XVI secolo appariva come una comunità basata su un'agricoltura che si fondava sulla fertilità dei terreni. Tale ricchezza attirò spesso gli eserciti di passaggio, che si accamparono nei pressi di Legnano depredando e danneggiando le colture. A servizio degli agricoltori legnanesi, lungo il fiume Olona, erano presenti sette mulini ad acqua. Nel 1627 i legnanesi chiesero nuovamente, questa volta al governo spagnolo, l'apertura di «...un pubblico mercato in ciascun giorno di giovedì...». All'istanza si opposero Busto Arsizio, Gallarate e Saronno perché preoccupate di un'eventuale concorrenza, e quindi la richiesta rimase un'altra volta inevasa. In questo contesto dal 1610 al 1650 fu costruito il Santuario della Madonna delle Grazie. Tale edificio religioso fu innalzato per celebrare un miracolo occorso a due ragazzi sordomuti.

Legnano, come già accennato, non fu mai infeudata e non venne mai retta da un podestà. Il 17 settembre 1649 i legnanesi, in seguito a calamità naturali che compromisero l'economia locale ed a causa del progetto del governo spagnolo che prevedeva l'infeudazione delle terre del Ducato di Milano, furono costretti a pagare una forte somma di denaro per conservare le loro proprietà. Grazie al versamento di 6.680 lire, Legnano rimase infatti sotto la sovranità diretta del Duca di Milano senza intermediari. I feudi di età spagnola erano però totalmente differenti da quelli dell'età medioevale. Questi ultimi, infatti, presupponevano l'esistenza di un feudatario, dotato di ampi poteri e di cospicue proprietà terriere, che rispondeva direttamente al sovrano e che aveva importanti poteri militari; per questo dimorava principalmente all'interno del suo feudo. I feudatari del governo spagnolo del XVII secolo avevano invece una funzione più che altro formale e i paesi infeudati non soggiacevano ad alcun aggravio collegato all'infeudazione. Il feudatario di epoca spagnola era rappresentato da un podestà feudale, la cui funzione era affine a quella dei consoli. Il feudo, però, forniva alle famiglie titolari un grande vantaggio: la possibilità di ottenere titoli nobiliari. Infatti, all'epoca era consentito diventare feudatari senza titoli nobiliari, ma non era permesso il contrario.

Il Seicento fu anche caratterizzato dalla progressiva perdita di importanza strategica di Legnano, che perse gradualmente i contatti con Milano trasformandosi in un semplice centro agricolo. Tale declassamento pose fine all'epoca d'oro dei palazzi signorili legnanesi costruiti nel XV secolo. Queste ville cambiarono di proprietà con il passare del tempo, divenendo poi residenze di contadini, i quali non si curarono di conservare gli ambienti di pregio cagionando quindi la decadenza degli edifici. Durante il dominio spagnolo sul Ducato di Milano, Legnano fu scelta come residenza da molti nobili iberici. Legnarello, in particolare, diventò un vero e proprio quartiere gentilizio abitato da aristocratici spagnoli.

Nel 1706 gli austriaci subentrarono agli spagnoli come dominatori del Ducato di Milano. L'ente locale primario dell'amministrazione austriaca era la "Comunità". La Comunità a sua volta poteva essere suddivisa in più " Comuni". Se il borgo era di dimensioni modeste, il Comune era solo uno. Viceversa, se la Comunità aveva grandi dimensioni, essa era composta da più Comuni. Legnano, nello specifico, era suddivisa in nove Comuni: il "Comune Dominante", il "Comune Trotti", il "Comune Lampugnani", il "Comune Morosino grande", il "Comune Morosinetto", il "Comune Visconti", il "Comune delle Monache", il "Comune Vismara" ed il "Comune Personale". Questo tipo di suddivisione territoriale fu ereditata dall'organizzazione che era già in atto all'epoca della dominazione spagnola. La Comunità era retta dagli estimati, ovvero dai cittadini detentori di beni immobili, che erano riuniti in un "Convocato". Il Convocato eleggeva un "Esecutivo" di tre membri. Questi ultimi designavano poi i Sindaci (cioè coloro che erano a capo dei Comuni) e gli esattori. La Comunità di Legnano rispondeva poi al vicario del Seprio.

Con la dominazione austriaca furono organizzati alcuni censimenti per raccogliere dati sui vari borghi che costituivano l'impero. Grazie ad essi, vennero determinati il profilo anagrafico e quello economico delle singole comunità. Per quanto riguarda Legnano, nel 1723 fu registrata una superficie totale di 26.422,13 pertiche. In questo censimento vennero anche determinati gli usi dei terreni con la misura precisa delle superfici. La rilevazione statistica fu poi ripetuta nel 1749. Da quest'ultima si evinceva che il numero di abitanti fosse di 2.120. Nel 1760 l'amministrazione austriaca riformò il sistema fiscale. Grazie a tale riforma, i proprietari terrieri ora pagavano le tasse in funzione del rendimento dei loro fondi, che era calcolato al momento del versamento degli oboli e che quindi poteva variare con il tempo. Dal 1770 al 1784 la popolazione di Legnano passò dai 2.256 ai 2.525 abitanti.

L'economia della Legnano settecentesca era prettamente agricola con colture intensive. Nel 1772 erano ben diciotto i mulini sull'Olona che impiegavano la forza motrice del fiume per far muovere le macine. Alcuni di essi sono raffigurati nel distico di Giuseppe Bossi nella basilica di San Magno. Nei secoli successivi furono gradualmente abbandonati e gli ultimi sette vennero demoliti tra il XIX ed il XX secolo dalle grandi industrie cotoniere legnanesi per venire sostituiti da impianti più moderni che sfruttavano la forza motrice del fiume con maggior efficienza. Le colture erano irrigate dalle acque dell'Olona grazie alle acque prelevate e distribuite dalle ramificazioni e dalle molteplici rogge originate dal fiume. Oltre alla coltura di cereali, l'economia legnanese si basava anche sull'artigianato e sull'allevamento del bestiame. I legnanesi, che abitavano in cortili o case di ringhiera, facevano parte di gruppi che discendevano da diverse famiglie patriarcali. Essi erano sottoposti a mezzadria, o "colonia lombarda", sotto la supervisione del patriarca (in legnanese, il ragiò), e lavoravano dei terreni coltivati che si sviluppavano dal centro città alle case coloniche di periferia. I rilievi soprastanti l'Olona erano coltivati a frutteti e vigneti. I territori lungo le rogge originate dal fiume, le zone ai lati dei viottoli ed i terreni al centro delle case coloniche erano destinati alla coltivazione di gelsi, che erano alla base della produzione della seta. I bassi redditi che erano offerti dall'economia agricola incoraggiavano ad integrare l'attività dei campi con altre mansioni alle quali si avvicendavano, durante la giornata, le donne. Alla sera gli agricoltori legnanesi diventavano infatti filatori e tessitori di seta, di cotone, di lana, oppure tintori. Le stoffe erano tinte in calderoni di rame con il colorante stemperato in acqua bollente. Dopo che i tessuti avevano assimilato il colorante, venivano sciacquati nelle acque dell'Olona, in corrispondenza del quale erano montate strutture di legno adeguate. Queste attività furono la premessa per la nascita dell'industria. Nel 1795, dopo le molte richieste effettuate nei secoli precedenti, il mercato cittadino fu riaperto. Di questo periodo è anche l'apertura del pellegrosario. Fu inaugurato il 29 maggio 1784 all'interno del già citato monastero di Santa Chiara per contrastare la pellagra, malattia che era diventata comune nel Settecento a causa delle sempre più marcata diffusione del mais tra le colture.

Dopo una disposizione dell'imperatore Giuseppe II emanata nel 1786 che vietava l'uso delle fosse comuni, la comunità legnanesi fu obbligata a dotarsi di un nuovo cimitero posto fuori dal centro abitato che sostituisse il già citato "foppone" di origine medioevale. Questo nuovo camposanto ebbe una superficie iniziale di 3.000 m², successivamente aumentati a 5.500 m², e si trovava nell'area ora occupata dalle scuole Bonvesin della Riva, vicino al Santuario della Madonna delle Grazie. Tra il 1808 ed il 1898 accolse le spoglie di 21.896 legnanesi.

Fino alla prima metà del XVIII secolo l'istruzione fu praticata da privati, principalmente religiosi, che la esercitavano su un'esigua minoranza di legnanesi senza dipendere dall'autorità comunale. Era comunque un'istruzione che forniva solamente i rudimenti del sapere. Infatti, chi avesse voluto approfondire le proprie conoscenze era obbligato a rivolgersi a centri più grandi di Legnano. La situazione iniziò a mutare nella seconda metà del XVIII secolo con un editto imperiale emanato durante la dominazione austriaca e datato 31 ottobre 1787, che imponeva l'apertura di scuole gratuite in Lombardia. A Legnano però esisteva già, prima di questo editto, una scuola gratuita sorta grazie ad un lascito testamentario del canonico Paolo Gerolamo Monti, datato 15 settembre 1749. Fu organizzata presso la Collegiata di San Magno, ma poteva accogliere solo poche decine di scolari legnanesi.

Anche negli anni della dominazione napoleonica Legnano mantenne il ruolo di importante borgo agricolo. Ancora nell'Ottocento, Legnano era formata da due centri abitati distinti. Come già accennato, si formarono nel Medioevo e uno di essi era ubicato lungo l'Olonella e corrispondeva all'attuale centro della città (la cosiddetta Contrada Granda in dialetto legnanese), mentre l'altro sulle rive del corso principale del fiume, Legnanello. Aiutato dall'abbondanza dei raccolti agricoli, fin dal Medioevo il borgo si avvantaggiò anche dei traffici commerciali grazie alle vie di comunicazione che lo attraversavano. Fu però Napoleone a costruire la strada del Sempione, che collegava Milano a Parigi attraversando le Alpi (Passo del Sempione) sul tragitto Rho-Legnano-Gallarate-Arona. Questa importante via di comunicazione aiutò notevolmente ad incrementare la rilevanza strategica di Legnano, seconda stazione di posta da Milano. "Passàa a Legnàn e Castelànza se va drizz in Frànza”", ("Passando da Legnano e Castellanza si va direttamente in Francia") diceva infatti un modo di dire dialettale dell'epoca. Ancora nell'Ottocento la natura era relativamente selvaggia. Fino alla prima metà di questo secolo nei boschi legnanesi erano infatti ancora presenti i lupi.

Napoleone attraversò Legnano il giorno precedente alla sua incoronazione a Re d'Italia (1805). L'evento è documentato da una circolare del Prefetto del Dipartimento d'Olona destinata alle amministrazioni comunali. Con essa erano fissate le prescrizioni e le modalità dell'accoglimento del sovrano francese. Di questa epoca (1806) è anche la realizzazione del canale artificiale Cavo Diotti, scavato per irrorare le coltivazioni non raggiungibili dall'Olona. All'epoca l'Amministrazione comunale di Legnano, che era governata dai grandi proprietari terrieri e dai borghesi più ricchi, era spesso costretta ad intervenire per prescrivere regolamenti in materia di agricoltura, pascoli e per la gestione dei terreni, oltre che per risolvere le accese dispute tra gli agricoltori ed i mugnai, specialmente nei periodi di magra dell'Olona. Gli agricoltori, per essere protetti, si associarono al consorzio del fiume Olona, cioè all'Ente che venne fondato nel 1606 e che possedeva già i diritti sulle rogge. Dopo aver pagato 8.000 scudi al Governo napoleonico, nel 1818 il consorzio ottenne i diritti demaniali sull'Olona.

Come riporta un documento del governo napoleonico, nel giugno del 1805 la popolazione di Legnano raggiunse i 2.784 abitanti. L'atto era accluso ad un decreto che concedeva a Legnano un moderno organo amministrativo nella forma di un Consiglio comunale e di una Municipalità. Il primo era costituito da 15 membri scelti dal Prefetto, mentre la seconda era costituita da un Podestà e da quattro o sei "savi". In questo periodo Legnano era capoluogo del IV Cantone, che faceva parte nel IV Distretto di Gallarate, il quale apparteneva a sua volta al Dipartimento d'Olona, che invece aveva sede a Milano. Il Cantone con a capo Legnano racchiudeva un territorio con una popolazione complessiva di 12.727 abitanti, che erano distribuiti in 17 comuni.

Alla fine del dominio napoleonico la Lombardia fu annessa all'Impero austriaco. Sotto il dominio di Vienna, le amministrazioni locali furono riorganizzate. Il 12 febbraio 1816, con decreto imperiale di Maria Teresa d'Austria, entrò in vigore la nuova organizzazione territoriale della Lombardia. Legnano smise di essere capoluogo e fu unita al XV Distretto di Busto Arsizio.

Anche Legnano fu attraversata dai fermenti risorgimentali che coinvolsero l'Italia dalla metà del XIX secolo. Durante la prima guerra di indipendenza fu indetto anche a Legnano un referendum per l'annessione al Regno di Sardegna, ed il suo risultato fu una schiacciante vittoria a favore dell'annessione, anche se tutto ciò non ebbe seguito a causa della successiva sconfitta di Carlo Alberto di Savoia. Tra i legnanesi che ebbero un ruolo di primo piano nel risorgimento ci furono Saule Banfi ed Ester Cuttica. Quest'ultima ebbe rapporti diretti anche con Giuseppe Mazzini. Nelle guerre risorgimentali che seguirono, diversi legnanesi parteciparono alle battaglie inquadrati nell'esercito sardo-piemontese. Legnano ebbe un caduto nella battaglia di San Fermo (Luigi Fazzini) ed annoverò almeno otto cittadini che parteciparono alle guerre di liberazione. Una divisa di un garibaldino fu in seguito scoperta in una vecchia casa di Legnano, ed è ora tra gli oggetti conservati nel Museo civico Sutermeister. Del soldato che la indossò non è noto, però, il nome. L'11 novembre 1859 la Lombardia fu annessa al Regno di Sardegna in seguito alla seconda guerra di indipendenza.

Il 17 marzo 1861, con la proclamazione a Re d'Italia di Vittorio Emanuele II di Savoia, anche Legnano entrò a far parte del moderno Stato italiano. In questo contesto, la popolazione di Legnano crebbe fino ai 4.536 abitanti del 1840 ed ai 6.349 del 1861. Il 16 giugno 1862, da un balcone di un edificio non più esistente che era ubicato nell'odierno corso Garibaldi nel luogo dove si trova la sede centrale della Banca di Legnano, Giuseppe Garibaldi esortò i legnanesi alla costruzione di un monumento a ricordo della famosa battaglia del 29 maggio 1176. I legnanesi seguirono l'esortazione di Garibaldi, ed innalzarono un primo monumento nel 1876 in occasione settecentesimo anniversario della battaglia. Questa statua, che venne realizzata da Egidio Pozzi, fu poi sostituita da quella attuale, che è invece opera di Enrico Butti. Una lapide posizionata sul retro dell'edificio della Banca di Legnano in corso Garibaldi ricorda questo avvenimento. In questo contesto, il 20 dicembre 1860, fu inaugurata la stazione ferroviaria di Legnano, che era a servizio della linea Milano-Gallarate.

Il primo intervento dell'Amministrazione comunale legnanese riguardo alla pubblica istruzione è dell'inizio del XIX secolo, quando il governo cittadino affidò a due maestri la gestione di due classi di scolari, una maschile ed una femminile. È però solamente dal 1832 che furono allestiti dei locali ad uso esclusivo della scuola; precedentemente infatti le lezioni si tenevano in ambienti di fortuna. In un documento del 1848 è riportato che il numero di studenti iscritti a questa scuola, la cui ubicazione era nell'attuale via Verdi, fosse di 470 per la classe maschile e 475 per quella femminile. Nel 1852 suddetta scuola fu trasferita nell'odierno corso Magenta. Di questi anni è la fondazione dell'istituto privato Barbara Melzi (1854), con l'allestimento della scuola materna e della scuola elementare. Di rilevanza storica è l'edificio che ospita questo istituto, appartenuto all'omonima famiglia nobiliare. Un forte impulso alla pubblica istruzione si ebbe con la promulgazione della legge Casati (1859), in seguito della quale il Comune di Legnano affittò dal marchese Cornaggia uno stabile da adibire a sede scolastica permanente. Nel 1896 l'Amministrazione comunale di Legnano acquistò il convento di Sant'Angelo convertendolo in scuole elementari (le odierne Mazzini), che vennero poi riedificate nel 1967.

L'industrializzazione di Legnano è avvenuta tra il 1820 e il 1880. Ciò che ebbe un peso determinante nella genesi di questo processo fu la tradizione di artigianato e quella di manifattura domestica che erano presenti nel tessuto produttivo legnanese dell'epoca. Tali attività erano praticate per integrare il lavoro nei campi. Infatti, già nel 1807, su un documento inviato dal Comune al governo napoleonico era segnalato che a Legnano esistessero molte filature artigianali sia di seta che di cotone. Il processo di industrializzazione che portò alla graduale trasformazione dell'economia dell'Altomilanese fu accelerato da due calamità naturali che misero in crisi l'agricoltura locale: la crittogamia, malattia che colpì la vite, e la nosematosi, epidemia che danneggiò i bozzoli dei bachi da seta. Per la prima infezione, comparsa tra il 1851 e il 1852, il risultato in Lombardia fu la rapida caduta della quantità di vino prodotta. Gli ettolitri di vino prodotti passarono da 1.520.000 nel 1838 a 550.000 nel 1852. Il colpo definitivo alla produzione vinicola venne da altre due malattie della vite che, tra il 1879 e il 1890, colpirono la pianta: la peronospora e la fillossera. In seguito a queste epidemie, le coltivazioni vinicole nell'Altomilanese scomparvero definitivamente e i contadini concentrarono gli sforzi nella produzione di cereali e nell'allevamento di bachi da seta. Prima della scomparsa della vite a Legnano era celebre il "Vino dei colli di Sant'Erasmo", che si produceva nell'omonimo rione.

Poco dopo la diffusione della malattia della vite comparve un'infezione del baco da seta, la nosematosi. Fu chiamata anche pebrina perché rivelata da piccole macchie scure che ricoprivano il corpo del baco. Oltre a questo, nella seconda parte del XIX secolo l'Europa fu investita da una crisi agricola che coinvolse le coltivazioni a cereali. Ciò era dovuto alla diffusione, sui mercati, di granaglie americane a prezzi competitivi. Infatti, vaste zone del Middle West statunitense furono destinate alle coltivazioni. Inoltre, grazie all'avanzamento tecnologico, avvenne un deciso calo dei costi di trasporto via mare. L'effetto fu una profonda crisi che colpì le coltivazioni di cereali in Europa. Questa congiuntura toccò il suo apice negli anni ottanta del XIX secolo e caratterizzò l'agricoltura del Vecchio Continente fino all'inizio del XX secolo. Tale avvenimento diede un'ulteriore spinta verso l'industrializzazione dell'Altomilanese, dato che mise in crisi anche il comparto più importante dell'agricoltura della zona dopo la scomparsa dei vigneti e la crisi dell'allevamento dei bachi, la coltivazione di cereali. Questi avvenimenti accelerarono quindi il processo di trasformazione della società, che si rivolse verso l'industria.

La prima fase di industrializzazione di Legnano, che avvenne nella parte iniziale del XIX secolo e che era caratterizzata da un sistema produttivo pre-capitalistico, fu poi seguita da una modernizzazione dei processi di produzione. Ciò diede inizio, nella seconda metà del secolo, alla seconda fase della rivoluzione industriale di Legnano, che portò alla nascita di vere e proprie fabbriche tessili e meccaniche. Le prime attività industriali che gradualmente si formarono furono le filature, che trassero origine dalle attività artigianali nate nei primi decenni del XIX secolo. Alcune di esse crebbero notevolmente fino ad essere annoverati tra i principali cotonifici lombardi. Nel 1878 la prima tariffa doganale italiana portò ad un certo protezionismo, specialmente nei confronti dei filati e dei tessuti di uso comune. Questo mise l'industria cotoniera italiana nelle condizioni di sopportare meglio la concorrenza di quella inglese. Ciò trovò successivamente riscontro nella grande espansione raggiunta dall'industria tessile italiana, che ebbe il suo culmine dal 1890 al 1906.

Tra le industrie legnanesi, la principale, per organizzazione e tecnologia, era il Cotonificio Cantoni. Questo primato è menzionato su un documento del 1876, che descrive la situazione industriale dell'epoca. Infatti, tra industrie tessili legnanesi, solo la Cantoni univa la filatura alla tessitura, comprendendo anche un notevole numero di telai meccanici azionati, oltre che dalla forza idraulica originata dall'Olona, anche dall'energia prodotta dalle macchine a vapore. La necessità di sfruttare un'energia indipendente dal fiume era sempre più sentita, soprattutto per annullare gli effetti negativi del ridotto utilizzo degli impianti durante i periodi di magra del fiume. La costruzione di impianti più efficienti per lo sfruttamento delle acque portarono alla scomparsa delle ruote idrauliche e quindi dei mulini legnanesi lungo il fiume. Gli ultimi sette sono stati demoliti tra il XIX ed il XX secolo.

Le macchine utilizzate nell'industria tessile, sempre più efficienti e quindi complesse, comportavano la necessità di disporre dell'attrezzatura per la manutenzione. Inoltre c'era il bisogno di riparazioni rapide. Di conseguenza, negli ultimi decenni del XIX secolo, nacquero le prime industrie meccaniche legnanesi, che costruivano e riparavano macchinari tessili. Successivamente, nel campo meccanico, si aggiunse una produzione più ampia. Nel 1876 Eugenio Cantoni assunse l'ingegnere Franco Tosi, appena rientrato da un periodo di tirocinio in Germania, quale direttore della sua azienda. Franco Tosi fondò poi nel 1882 l'omonima industria meccanica. La prima macchina a vapore uscita dagli stabilimenti Franco Tosi fu destinata al Cotonificio Cantoni di Castellanza.

Tra le più grandi aziende operanti a Legnano tra il XIX ed il XX secolo ci furono i cotonifici Bernocchi, Dell'Acqua e De Angeli-Frua. Il primo fu fondato nel 1898 da Antonio Bernocchi, che fu anche sindaco di Legnano e che venne nominato senatore del regno nel 1929. Bernocchi contribuì anche alla costruzione dell'edificio sede dalla Triennale a Milano. Lo stabilimento si trovava tra corso Sempione e corso Garibaldi. La seconda fabbrica citata, fondata da Carlo Dell'Acqua, deputato per tre legislature, sorgeva sull'isolato ora occupato dalla caserma della Polizia, dal Tribunale, da un parco pubblico e da parcheggi. Dello stabilimento sono ancora esistenti due ponti sull'Olona che collegavano le due parti dell'industria divise dal fiume. Del cotonificio De Angeli-Frua, le uniche parti ancora esistenti sono invece la portineria dello stabilimento, sita tra Corso Italia e via De Gasperi, ed un edificio in via Fratelli Cairoli. Questi industriali elargirono contributi per la costruzione dell'ospedale e degli istituti superiori legnanesi. Ultima grande fabbrica tessile a essere impiantata in città fu la Manifattura di Legnano, che sorse nel 1903. Nel legnanese nacquero poi molti altri piccoli stabilimenti tessili e diverse officine meccaniche. Uno degli aspetti dello sviluppo industriale del legnanese fu anche la nascita, specialmente nel campo della fonderia e della meccanica, di piccole industrie fondate da ex-dipendenti delle grandi aziende che erano divenuti a loro volta imprenditori. Nel 1908 Andrea Pensotti, già caporeparto della Franco Tosi, costituì prima una fonderia e poi un'officina meccanica. Esse erano ubicate vicino della ferrovia. La fabbrica si concentrò nella fabbricazione di caldaie che erano esportate anche all'estero. Tale fabbrica diventò il quarto sito produttivo di Legnano.

Tra il 1885 ed il 1915 ci fu la completa trasformazione industriale dell'antico borgo agricolo, che fu accompagnata da un forte incremento demografico. La popolazione di Legnano passò infatti dai 7.041 abitanti del 1885 ai 28.757 del 1915. Lo sviluppo industriale portò ad una nuova crisi agricola della zona. Molti contadini iniziarono infatti a lavorare nelle fabbriche abbandonando l'agricoltura. Durante l'industrializzazione di Legnano ci fu un largo impiego della manodopera infantile. Nel XIX secolo fu un fenomeno comune in molti paesi europei, in particolare dell'Inghilterra. In questo contesto, all'inizio degli anni ottanta del XIX secolo furono organizzati nelle fabbriche legnanesi i primi scioperi e nacquero le prime società operaie.

Di questo periodo è l'apertura delle prime filiali bancarie e la nascita degli istituti di credito legnanesi. Nel luglio 1875 fu inaugurata la succursale legnanese della Cariplo, mentre l'11 giugno 1887 venne fondata la Banca di Legnano, che apri il suo primo sportello il 16 gennaio 1888. Nel 1923 nacque invece il "Credito Legnanese", che fu assorbito nel 1975 dal Banco Lariano.

A cavallo dei due secoli ci fu un forte sviluppo industriale e commerciale. Per questa espansione furono molto importanti le infrastrutture per il trasporto di persone e di merci. Lungo corso Sempione fu anche costruita la tratta legnanese della tranvia Milano-Gallarate, che collegava Legnano con il capoluogo lombardo. Fu soppressa nella seconda metà del XX secolo.

Nel 1882 ci fu una disastrosa esondazione dell'Olona: per le coraggiose e filantropiche azioni dei suoi abitanti, come si può leggere nella motivazione dell'onorificenza, a Legnano fu conferita la medaglia d'oro al valor civile. Fino al 1898 la sola parrocchia presente a Legnano era quella di San Magno. In seguito nacquero quelle del Santo Redentore (1898), San Domenico (1907) e Santi Martiri (1911), Santa Teresa del Bambin Gesù (1964), San Paolo (1970) e San Pietro (1973).

A causa dell'incremento di popolazione di fine XIX secolo, l'Amministrazione comunale di Legnano decise di costruire un nuovo cimitero, poiché quello inaugurato nel 1808 non poteva più essere ingrandito per via delle strade e delle abitazioni che sorgevano intorno. L'odierno cimitero monumentale fu inaugurato il 24 luglio 1898, ed aveva una inizialmente superficie di 18.942 m². Fu poi ampliato nel 1907 fino ad una superficie di 50.000 m².

Nel 1903 fu costruito il primo padiglione dell'Ospedale civile, mentre nel 1908 fu inaugurata la prima piscina coperta di Legnano. Essa possedeva anche una palestra per la ginnastica. L'edificio, esistente tuttora, ora ospita la Croce Rossa Italiana e il corpo bandistico. Dal 1908 al 1909 fu invece costruito palazzo Malinverni, che venne destinato a municipio. Nel 1915, alla vigilia dell'entrata dell'Italia nella prima guerra mondiale, Legnano aveva 28.757 abitanti. Dall'inizio del XX secolo Legnano fu infatti oggetto di un forte incremento demografico che era dovuto all'immigrazione. Questo fenomeno fu determinato dallo sviluppo dell'industria.

Lo sviluppo più importante della pubblica istruzione a Legnano si ebbe però nel XX secolo, con la fondazione della stragrande maggioranza dei plessi scolastici che sono giunti sino a noi, cioè le scuole elementari, le scuole medie e gli istituti superiori. Del 1904 è la Scuola Tecnica comunale, diventata nel 1963 "Scuola media Franco Tosi". Della prima parte di questo secolo fu la fondazione di istituti tecnici e professionali che si rivolgevano alle future maestranze delle aziende locali. In questa epoca a Legnano era infatti presente la necessità di formare da un punto di vista professionale i futuri operai specializzati ed i futuri impiegati tecnici e commerciali. Furono quindi fondati l'Istituto tecnico commerciale "Carlo Dell'Acqua" (1917-1918) e l'Istituto professionale "Antonio Bernocchi" (1917). A quest'ultimo si aggiunse poi, nel 1959, l'Istituto tecnico industriale, sempre intitolato a Bernocchi. Nel 1943 fu invece fondato il Liceo scientifico, seguito nel 1960 da quello classico con ginnasio.

Nel 1915 l'Italia dichiarò guerra agli Imperi Centrali, entrando così nel primo conflitto mondiale. Le conseguenze dell'entrata in guerra si rifletterono anche su Legnano. Molti soldati legnanesi perirono sui campi di battaglia. I patimenti e le rinunce per la popolazione civile si acutizzarono con il passare dei mesi e degli anni. Durante la prima guerra mondiale i grandi complessi industriali della città erano in difficoltà per il blocco delle materie prime, che prima del conflitto provenivano dalla Germania e dalla Gran Bretagna. Durante la guerra le industrie di Legnano convertirono i loro impianti anche per la produzione di forniture belliche. La Franco Tosi, in particolare, contribuì ad attrezzare i reparti di artiglieria dell'Esercito. Due calamità naturali, nel 1917, peggiorarono ulteriormente la situazione causata dalla guerra: l'epidemia di spagnola, che falcidiò la popolazione, ed una devastante alluvione dell'Olona che ruppe gli argini invadendo il centro abitato.

Al termine della prima guerra mondiale, nel 1918, anche Legnano fu coinvolta da profonde tensioni sociali. Erano una conseguenza del conflitto e sfociarono, a livello nazionale, nel biennio rosso prima e nel fascismo poi. I primi gruppi legnanesi che si ispiravano a quest'ultimo movimento politico si costituirono dal 1920. Sul fronte economico, negli anni successivi, l'industria legnanese riprese la crescita sostenuta che l'aveva caratterizzata fino allo scoppio del conflitto. Questo rapido sviluppo fu rallentato, ma non fermato, dalla guerra. Negli anni del dopoguerra furono realizzate, dai proprietari dei grandi complessi industriali legnanesi, scuole e case operaie. L'Amministrazione comunale estese invece le reti dell'acquedotto e del gas. In questi anni ci fu anche un'espansione urbanistica ed una trasformazione radicale del centro cittadino che comportarono, tra l'altro, anche la demolizione di alcuni importanti edifici storici. Oltre a quelli già accennati nei paragrafi precedenti, furono anche demoliti l'Ospizio di Sant'Erasmo (che fu poi ricostruito) e due antichi ponti sull'Olona.

A partire dal 1920 si costituirono, anche a Legnano, i primi gruppi fascisti. La prima visita ufficiale di Benito Mussolini nella città è datata 1921. All'epoca si recò come membro del Partito Nazionale Fascista, dato che non era ancora Presidenti del Consiglio dei ministri. Il primo contatto tra il futuro Duce e Legnano fu però anteriore. Nel 1901, infatti, fece richiesta al Sindaco per un posto di maestro elementare in qualità di supplente. La domanda non fu però accolta. Dopo la visita del 1921, il 5 ottobre 1924 tornò a Legnano in veste di Capo di governo per la consegna del decreto di conferimento del titolo di città e per l'inaugurazione delle scuole "Antonio Bernocchi". Visitò anche l'omonimo cotonificio. Benito Mussolini visitò nuovamente a Legnano il 4 ottobre 1934. Parlò in piazza San Magno da un palco posizionato su una turbina della Franco Tosi, e fece un discorso ufficiale davanti qualche migliaio di persone. Nell'occasione visitò il cotonificio Dell'Acqua.

Il 20 settembre 1923 fu inaugurato, presente Vittorio Emanuele III, il primo tratto dell'autostrada dei Laghi che congiungeva, perlomeno inizialmente, Milano a Gallarate. Tale infrastruttura aveva un'uscita anche a Legnano. Fu la prima autostrada realizzata al mondo, e venne concepita dall'ingegnere Piero Puricelli. Per l'epoca fu un'opera avveniristica, soprattutto tenendo presente il fatto che il numero di veicoli a motore circolanti in Italia nel 1924 non superava i 40 000 esemplari. Circa la metà di essi si trovava in Lombardia. Il mezzo di trasporto più diffuso era infatti la bicicletta. Sempre nel campo di queste ultime, è di questo periodo la nascita del marchio "Legnano". Il 15 agosto 1924, come già accennato, a Legnano fu riconosciuta l'elevazione del Comune a Città. Il titolo venne assegnato con Regio Decreto da Re Vittorio Emanuele III di Savoia.

In base ad un censimento del 1927, la popolazione di Legnano era di circa 30 000 abitanti, con 677 attività industriali o artigianali. La forza lavorativa era invece costituita da 9.926 addetti negli stabilimenti tessili, 4.056 lavoratori nelle fabbriche meccaniche, 1.762 addetti nel commercio, nel credito, nelle assicurazioni ed in altri servizi, e 287 impiegati nei trasporti e comunicazioni. In questo periodo, le industrie tessili e meccaniche locali iniziarono ad imporsi in campo nazionale. Durante gli anni del regime guidato da Benito Mussolini, l'economia italiana si trasformò da liberale a corporativa. Anche dopo questo radicale cambiamento il sistema economico legnanese proseguì la crescita. Negli anni trenta i cotonifici Cantoni e Bernocchi si ampliarono più volte. Nel 1920 fu costituita la "Federazione Industriali Legnanesi", che ebbe il suo momento di massimo sviluppo nel 1924 (in precedenza gli imprenditori della città facevano capo alla "Federazione Industriali Altomilanese"). L'associazione fu poi abolita con una legge il 3 aprile 1926. Questa norma, infatti, eliminava le Federazioni locali, facendole confluire in unioni provinciali.

Nel 1927 fu soppressa la carica di Sindaco con l'istituzione del Podestà, di nomina governativa. Il Podestà era affiancato da una consulta municipale, nominata dal prefetto. La dittatura fascista eliminò anche la Giunta ed il Consiglio comunale. Nel ventennio fascista furono realizzate molte opere pubbliche tra cui il completamento dell'ospedale e le ricostruzioni dell'Ospizio di Sant'Erasmo e di Palazzo Lampugnani. Oltre a quelli citati, furono anche realizzati gli edifici delle istituzioni del Partito fascista, come la Casa del Balilla in viale Milano e la Casa del Littorio (l'attuale "Palazzo Italia" in largo Tosi, oggi sede del comando della Polizia di Stato). Fu ingrandito il cimitero monumentale e venne allargato corso Sempione. Il 19 giugno 1923 fu inaugurato il sanatorio "Regina Elena" in via Colli di Sant'Erasmo, che esiste tuttora. Oggi è sede di un Centro socio-educativo per disabili e di istituzioni assistenziali.

Nel maggio 1935 venne organizzato il primo Palio di Legnano per ricordare la vittoria dei Comuni della Lega Lombarda contro Federico Barbarossa nella celebre battaglia del 29 maggio 1176. Il 16 dicembre 1937 Benito Mussolini diede ad una rappresentanza di industriali e lavoratori legnanesi invitati a Palazzo Venezia circa tre milioni di lire racimolati con una raccolta tra imprenditori e operai per l'erezione di una scuola all'aperto con colonia elioterapica e per la costruzione di una piscina. L'edificio che un tempo ospitava la colonia elioterapica esiste ancora ed oggi ed è la sede del Centro psico-sociale, che è una struttura sanitaria facente capo del reparto di psichiatria dell'ospedale di Legnano.

All'epoca la città aveva come giornale il settimanale La voce di Legnano. A questo organo di stampa è associato uno degli episodi di violenza dei fascisti che accaddero a Legnano nel ventennio. Il giornale infatti non si era schierato alla volontà dalle gerarchie e quindi la sua sede venne devastata. Il quotidiano varesino Cronaca Prealpina aveva già all'epoca una pagina dedicata agli eventi del Legnanese, così come il periodico "Luce", giornale cattolico vicino alla Curia.

Nel 1940 l'Italia entrò nel secondo conflitto mondiale e le vicende della guerra si ripercossero, di conseguenza, anche su Legnano. Molti soldati legnanesi morivano sul campo di guerra e gli effetti delle privazioni sui civili si acutizzarono con il passare dei mesi e degli anni. Le industrie di Legnano furono convertite per le commesse militari. Per esempio, negli stabilimenti Cantoni era stato allestito un reparto per la produzione di capi d'abbigliamento destinati alle forze armate. In tale fabbrica fu però tenuto attivo, quasi clandestinamente, un piccolo settore del taglio di velluti per conservare le maestranze specializzate e riprendere la produzione civile a guerra finita.

Nella notte tra il 13 ed il 14 agosto 1943 oltre 500 bombardieri britannici sorvolarono la Lombardia diretti a Milano; alcuni di essi, per errore, finirono su Legnano dove sganciarono delle bombe. A Legnarello questo bombardamento causò 27 morti, quasi tutti rimasti uccisi per strada mentre fuggivano verso il bosco. Alcuni ordigni caddero anche sul Cotonificio Cantoni (due bombe sono state rinvenute nel 2008).

La svolta decisiva della guerra fu l'armistizio dell'8 settembre 1943 tra l'Italia e gli alleati. Già il giorno successivo le autoblindo tedesche iniziarono a perlustrare ostilmente Legnano. Le industrie legnanesi, ora controllate dai nazisti, iniziarono a fornire al Terzo Reich i manufatti necessari per continuare la guerra.

Nell'ottobre del 1943 si organizzarono a Legnano, e nei Comuni vicini, le prime compagini armate costituite da soldati in fuga dopo l'8 settembre, da operai e da studenti, che entrarono a far parte della Resistenza. Nel contempo, cominciò nelle aziende del Legnanese il boicottaggio contro i tedeschi per evitare che i manufatti industriali fossero utilizzati dai nazisti per continuare la guerra. In seguito, a Legnano si costituirono le brigate partigiane "Carroccio" (collegata ad ambienti cattolici), "Garibaldi" (vicina ad istanze social-comuniste) ed altre brigate autonome, tra le quali ci furono la "Sicilia". La "Carroccio" e la "Garibaldi", che operarono insieme alle brigate partigiane dell'Alta Italia, seguivano le direttive del Comitato di Liberazione Nazionale.

In questo contesto avvenne uno dei più drammatici avvenimenti della Resistenza legnanese. Il 5 gennaio 1944 le SS attuarono un'azione di rappresaglia nello stabilimento della Franco Tosi. Furono prelevati sei operai di fede antifascista che erano parte del consiglio di fabbrica. Alla ribellione degli altri lavoratori, vennero arrestati 63 operai. Dopo interminabili interrogatori i tedeschi liberarono gli operai, ad esclusione di sette, che furono deportati nei lager nazisti. Rappresaglie simili furono eseguite anche in altre aziende come la "Metalmeccanica", la "Manifattura di Legnano" e la "Società Industrie Elettriche". Durante la guerra, nei lager nazisti, morirono complessivamente 11 lavoratori legnanesi. Nell'inverno del 1944 avvenne invece l'attentato al ristorante-albergo Mantegazza. Nella trattoria dell'esercizio pubblico, la sera del 4 novembre 1944, erano radunati dei militari fascisti e nazisti per una cena. Alcuni partigiani, facenti parte della brigata "Garibaldi" fecero scoppiare, su una delle finestre, un ordigno che fece cinque morti e venticinque feriti. L'attentato causò la forte reazione dei fascisti, che realizzarono diversi arresti e pestaggi. Nell'ottobre dello stesso anno fu catturato dai fascisti uno degli istitutori delle brigate "Garibaldi", Mauro Venegoni: gli squadristi gli ordinarono di confessare i nomi dei partigiani della sua brigata e al suo diniego lo torturarono, lo accecarono ed lo uccisero a Cassano Magnago. Per questo tragico episodio, a conflitto terminato, gli fu assegnata la medaglia d'oro al valore militare alla memoria e gli fu dedicata una via di Legnano.

Tra il 1944 ed il 1945 le brigate "Garibaldi" e "Carroccio" gettarono le basi, con il Comitato di Liberazione Nazionale, al progetto di ribellione nell'Altomilanese. Con i nazi-fascisti in rotta, il 24 aprile 1945, le brigate fecero le ultime rappresaglie contro le truppe in ritirata dall'Italia. In questo contesto, fu eliminata una stazione-radio tedesca ubicata a Canegrate che aveva la funzione di tenere le comunicazioni con un'armata corazzata tedesca. Tale armata, proveniente dal Piemonte, si stava dirigendo verso Busto Arsizio per raggiungere la Valtellina. La medesima notte la brigata "Carroccio" assalì la guarnigione tedesca che era di stanza nella caserma legnanese dell'esercito. Il 25 aprile 1945 furono occupate invece la caserma dei carabinieri (all'epoca si trovava in via dei Mille), la Casa del Fascio, la scuola Carducci e la piscina. Intanto, le formazioni della "Brigata Garibaldi" lottavano per fermare, lungo l'autostrada Milano-Laghi, delle colonne tedesche in ritirata. Le due brigate conquistarono in seguito, dopo un lungo scontro a fuoco, il municipio della città. Dopo il 27 aprile 1945, giorno in cui Legnano fu affrancata dai nazi-fascisti, ci furono episodi di vendetta contro gli esponenti del regime appena crollato. In totale, furono fucilati sedici legnanesi. Alcuni di essi appartenevano all'ex milizia repubblichina, mentre altri erano stati coinvolti in azioni fasciste. Le uccisioni furono eseguite in piazza San Magno, in piazza del Mercato, alla cascina Mazzafame ed al raccordo dell'autostrada Milano-Laghi a Castellanza. La salma di Benito Mussolini, giustiziato il 28 aprile 1945, attraversò la periferia di Legnano per giungere ad un convento di frati cappuccini a Cerro Maggiore, ai quali fu data in consegna momentaneamente prima di essere restituita alla moglie, Rachele Guidi.

Legnano figura tra le città decorate dopo la guerra. La città è stata infatti insignita della medaglia di bronzo al valor militare per i sacrifici delle sue popolazioni e per la sua attività nella lotta partigiana durante il secondo conflitto mondiale.

Dopo la guerra Legnano fu colpita, come il resto dell'Italia, dalla forte recessione economica che seguì il conflitto. Erano insufficienti gli alimenti fondamentali, il trasporto pubblico faceva difetto e le strade erano dissestate. Il 2 giugno del 1945 si riunì, per la prima volta dopo la dittatura fascista, la Giunta comunale, che venne guidata dal sindaco Anacleto Tenconi. La fase di ricostruzione dopo le distruzioni della guerra fu lunga e difficoltosa.

Regolarizzatasi anche la politica italiana, il sistema economico legnanese ricominciò a svilupparsi, tornando al tasso di crescita del periodo precedente alla seconda guerra mondiale. Durante la forte crescita economica dell'Italia durante il boom economico, Legnano raggiunse tra il 1951 e il 1961 il secondo più alto tasso, a livello nazionale, di impiegati nell'industria in relazione agli abitanti (65,2%), seconda solo a Sesto San Giovanni (67,14%). Tra le industrie tessili, nel 1951, la maggiore era il Cotonificio Cantoni con ben 3.465 occupati, seguita dalla De Angeli-Frua (1.504), dal Cotonificio Dell'Acqua (1.495), dalla tintoria Agosti (1.393), dalla Manifattura di Legnano (1.165), dalla tintoria Giulini & Ratti (972) e dal Cotonificio Bernocchi (851). Nel settore metalmeccanico predominava la Franco Tosi (più di 4.800 dipendenti, poi divenuti oltre 5.000), seguita dall'Ercole Comerio (454), dalla Mario Pensotti (387), dalla Bozzi (331), dalle Industrie Elettriche di Legnano (253), dalla fonderia SAFFES (246). Altre industrie di rilievo erano le Officine Fontana (ca. 200 occupati), il Calzaturificio di Legnano (145), la tintostamperia Mottana, la Mambretti e la Andrea Pensotti e la Fratelli Gianazza e Ranzi.

L'età d'oro dell'industria legnanese iniziò all'inizio del XX secolo e terminò negli anni sessanta dello stesso secolo. In seguito iniziò un periodo di crisi che portò alla chiusura di molte attività produttive. Chiusero la Stamperia De Angeli Frua (1953), la Tintoria Agosti (1969), i Cotonifici Dell'Acqua (1970) e Bernocchi (1971), la tintoria Giulini & Ratti (1974) ed il Cotonificio Cantoni (nel 1984 lo stabilimento sorto lungo l'Olona e nel 2004 la fabbrica del rione Olmina), le meccaniche Mario Pensotti (1989) ed Andrea Pensotti (1994), la Manifattura di Legnano e la tintostamperia Mottana (entrambe nel 2008). La crisi peggiorò progressivamente danneggiando l'economia, l'occupazione e il tessuto industriale. Le poche aziende che non chiusero furono coinvolte in un processo di ridimensionamento, come ad esempio la Franco Tosi. Il tasso di impiegati nell'industria in relazione agli abitanti nel 1981 calò a 29,6%. Con questa percentuale, Legnano scese il 141° a livello nazionale. Molte aree ex industriali (De Angeli Frua, Dell'Acqua, Cantoni, Pensotti, Agosti, Giulini & Ratti, Fontana, Comerio) vennero poi riconvertite al residenziale, spesso con la scomparsa delle testimonianze di archeologia industriale. L'economia legnanese virò quindi verso il settore terziario. Questi campi alternativi non portarono però a un tasso di sviluppo sufficiente a sopperire la scomparsa delle attività industriali. Nel contempo, iniziò però una fase di nascita di piccole aziende, che consentì a Legnano di rimanere inserita in un contesto produttivo molto avanzato, che la colloca ancora nel XXI secolo tra le zone più sviluppate ed industrializzate d'Italia.

In ambito sportivo, Legnano ha ospitato, dal 15 al 20 giugno 2012, la XXV edizione del campionato europeo di scherma. Le gare si sono svolte al PalaBorsani di Castellanza e al castello visconteo.

Persone legate a Legnano:
Giovanni Antonio Amadeo (Pavia, 1447 - Milano, 1522), scultore, ingegnere, architetto, intagliatore e ceramista. Autore della basilica di San Magno.
Bonvesin de la Riva (Milano, 1240 circa - 1315 circa), poeta e scrittore. Insegnò anche a Legnano.
Giovanni da Legnano (Legnano, 1320 - Bologna, 1383), giurista, diplomatico e docente universitario.
Oldrado Lampugnani (Pavia, 1400 - Milano, 1460), condottiero. Fu proprietario del castello visconteo di Legnano, che fortificò.
Leone da Perego (Legnano, 1257), arcivescovo di Milano.
Bernardino Luini (Dumenza, 1481 - Milano, 1583), pittore. La basilica di San Magno conserva un suo polittico.
Ercole Malatesta (Legnano, 1591), militare.
Roberto Visconti (Pogliano Milanese, - Milano, 1361), arcivescovo. Alcune fonti riportano che morì a Legnano.
Stefano Albertini (Legnano, 1959), doppiatore.
Paolo Alli (Legnano, 1950), politico.
Ettore Andenna (Milano, 1946), conduttore televisivo e politico. Fu uno dei conduttori più rappresentativi dell'emittente legnanese Antenna 3.
Tony Barlocco (San Vittore Olona, 1930 - Legnano, 1986), attore teatrale.
Antonio Bernocchi (Castellanza, 1859 - Milano, 1930), imprenditore. Fondatore dell'omonimo cotonificio, fu sindaco di Legnano e nel 1929 venne nominato Senatore del Regno.
Giacomo Biffi (Milano, 1928), cardinale. Ha retto la parrocchia legnanese dei Santi Martiri.
Laura Bignami (Legnano, 1969), politica
Roberto Biscardini (Legnano, 1947), politico.
Rodolfo Pietro Bollini (Legnano, 1923), politico.
Carlo Borsani (Legnano, 1917 - Milano, 1945), militare.
Emilio Bozzi, imprenditore. Fu l'artefice dei successi dell'azienda ciclistica Legnano.
Carla Candiani (Legnano, 1916 - 2005), attrice cinematografica.
Costanzo Cantoni (Gallarate, 1800 - Gallarate, 1877), imprenditore. Fondò a Legnano l'omonimo cotonificio.
Eugenio Cantoni (Gallarate, 1820 - Roma, 1887), imprenditore. Succedette al padre Costanzo alla guida del Cotonificio Cantoni.
Adriano Caprioli (Solbiate Olona, 1936), vescovo. È stato prevosto di Legnano.
Luigi Casero (Legnano, 1958), politico.
Marco Castellani (Legnano, 1978), bassista.
Ivan Catalano (Legnano, 1986), politico.
Antonio Ceriani (Legnano, 1932), aviatore e militare.
Antonella Clerici (Legnano, 1962), conduttrice televisiva.
Gioacchino Colombo, (Legnano, 1903 - Milano, 1987), progettista.
Carlo Crespi (Legnano, 1891 - Cuenca, 1982), religioso.
Giampiero Crespi (Carnago, 1918 - Legnano, 2013), aviatore e militare.
Carlo Dell'Acqua (Legnano, 1848 - Legnano, 1918), imprenditore e politico.
Filippo Destrieri (Legnano, 1951), musicista.
Domenico Dolce (Legnano, 1958), stilista e imprenditore. È uno dei due fondatori, a Legnano, della casa di moda "Dolce & Gabbana".
Gianfranco Ferré (Legnano, 1944 - Milano, 2007), stilista.
Finley, gruppo musicale rock.
Alessandro Fo (Legnano, 1955), poeta, latinista e docente.
Riccardo Formica (Trapani, 1896 - Milano, 1975), antifascista. Visse a Legnano.
Giuseppe Frua (Milano, 1855 - Milano, 1937), imprenditore. Operò anche a Legnano.
Stefano Gabbana (Milano, 1962), stilista e imprenditore. È uno dei due fondatori, a Legnano, della casa di moda "Dolce & Gabbana".
Mauro Gavinelli (Legnano, 1952 - Legnano, 2000), giornalista.
Piero Giunni (Villa Cortese, 1912 - Bondone, 2000), pittore. Ha vissuto a Legnano.
Luigi Krumm (Legnano, 1828 - 1899), imprenditore e politico.
Marcello Luigi Lazzati (Legnano, 1948), politico
Antonio Mancini (Manoppello, 1939), pittore e scultore. Vive a Legnano.
Giovanni Mari (Gorla Minore, 1920 - Legnano, 1987), imprenditore.
Augusto Marinoni (Legnano, 1911 - Legnano, 1997), lessicografo, latinista e storico.
Cinzia Massironi (Legnano, 1966), doppiatrice.
Marina Massironi (Legnano, 1963), attrice, comica e doppiatrice.
Gianni Mocchetti (Legnano, 1947 - Como, 2013), cantautore, chitarrista e bassista.
Franco Monaco (Legnano, 1951), politico e giornalista.
Felice Musazzi (Parabiago, 1921 - Legnano, 1989), attore e autore teatrale.
Francesco Paolo Neglia (Enna, 1874 - Intra, 1932), compositore, direttore d'orchestra e didatta. Fondò il Liceo Musicale "Verdi" di Legnano.
Max Pisu (Legnano, 1965), comico.
Antonio Provasio (Legnano, 1962), attore teatrale.
Piero Rolla (Legnano, 1938), paroliere, compositore e cantautore.
Felice Riva (Legnano, 1935), imprenditore.
Angiola Maria Romanini (Legnano, 1926 - Roma, 2002), storica dell'arte.
Sabrina Scampini (Legnano, 1976), giornalista.
Guido Sutermeister (Intra, 1884 - Legnano, 1964), archeologo e ingegnere.
Silvano Tagliagambe (Legnano, 1945), filosofo ed epistemologo
Giuseppe Tirinnanzi (Firenze, 1887 - Legnano, 1976), poeta e letterato.
Tognella, all'anagrafe Armando Russo (Legnano, 1938 - Milano, 1995), cabarettista.
Franco Tosi (Villa Cortese, 1850 - Legnano, 1898), imprenditore.
Eugenio Travaini (Parabiago, 1930 - Bolzano, 1994), medico e scrittore. Fondò a Legnano uno tra i primi centri di riabilitazione motoria in Italia.
Carlo Venegoni (Legnano, 1902 - Milano, 1983), politico e antifascista.
Mauro Venegoni (Legnano, 1903 - Busto Arsizio, 1944), antifascista.
Renzo Villa (Luino, 1941 - Varese, 2010), editore e conduttore televisivo. Fondatore assieme ad Enzo Tortora dell'emittente televisiva legnanese Antenna 3.
San Bernardino da Siena (1444).
San Carlo Borromeo (1570).
Giuseppe II Imperatore d'Austria (1785).
Napoleone Bonaparte (25 maggio 1805).
Giuseppe Garibaldi (16 giugno 1862).
Benito Mussolini (5 ottobre 1924 e 4 ottobre 1934).
Alessandro Belometti (Legnano, 1973), pilota motociclistico.
Cristian Bertani (Legnano, 1981), calciatore.
Angelo Cameroni (Legnano, 1891 - 1961), allenatore di rugby e calciatore.
Angelo Canavesi (Legnano, 1919), ex calciatore.
Giovanni Casale (Legnano, 1923 - 2006), calciatore.
Francesco Coco, (Paternò, 1977), calciatore. È cresciuto a Legnano.
Giovanni Colasante (Legnano, 1964), calciatore.
Franco Colombo (Legnano, 1917), calciatore.
Vinicio Colombo (Legnano, 1904 - Castellanza, 1956), calciatore.
Matteo Darmian (Legnano, 1989), calciatore.
Marco De Nicolo (Legnano, 1976), tiratore.
Camillo Ferrè (Legnano, 1908), calciatore.
Valerio Foglio (Legnano, 1985), calciatore.
Giovanni Fumarola (San Michele Salentino, 1964), allenatore ed ex giocatore di football americano. Ha vissuto a Legnano.
Massimo Gadda (Legnano, 1963), allenatore di calcio ed ex calciatore.
Attilio Gerola (Legnano, 1896), calciatore.
Carlo Gervasoni (Legnano, 1982), calciatore.
Danilo Goffi (Legnano, 1972), atleta.
Carla Guidi (Legnano, 1920), cestista.
Giovanni Guidi (Legnano, 1915), calciatore.
Graziano Landoni (Legnano, 1939), allenatore di calcio ed ex calciatore.
Luca Landonio (Legnano, 1966), calciatore.
Oscar Lesca (Alessandria, 1950), calciatore ed allenatore di calcio. È considerato come uno dei migliori giocatori dell'Associazione Calcio Legnano di tutti i tempi.
Pierino Luraghi (Legnano, 1910), calciatore.
Enzo Mustoni (Legnano, 1933 - Legnano, 2012), calciatore.
Elio Pagani (Legnano, 1904), calciatore.
Gian Emilio Piazza (Legnano, 1914 - Somma Lombardo, 1992), calciatore.
Luigi Pogliana (Legnano, 1945), calciatore.
Rocco Ranelli (Legnano, 1907 - Cremona, 2005), calciatore.
Ferruccio Ratti (Legnano, 1913), calciatore
Carlo Re Dionigi, (Legnano, 1921), calciatore.
Federico Righi (Legnano, 1951), calciatore.
Imre Rokken (1903 - Legnano, 1925), calciatore.
Angelo Rotondi (Legnano, 1907), calciatore.
Massimo Rovellini (Legnano, 1961), allenatore di calcio ed ex calciatore
Andrea Simontacchi (Legnano, 1901), calciatore.
Angelo Solbiati (Legnano, 1915), calciatore.
Giuseppe Tosi (Vercelli, 1900 - Legnano, 1981), calciatore.
Daniele Turcolin (Legnano, 1961), allenatore ed ex-giocatore di football americano.
Gianluigi Valleriani (Legnano, 1968), ex calciatore e allenatore di calcio.
Rufo Emiliano Verga (Legnano, 1969), calciatore.
Alberto Vivian (Legnano, 1944 - Novara, 1995), calciatore.




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