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martedì 14 marzo 2017

PONTI CHE CROLLANO

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Due viadotti e due cavalcavia crollati negli ultimi due anni: i primi due nel 2014 su altrettanti strade statali in Sicilia - uno addirittura inaugurato due giorni prima -, il terzo a fine ottobre sulla superstrada Milano-Lecco, con un morto, l'ultimo a Camerano di Ancona sull'autostrada A14, con due vittime.

Tra il 2008 e il 2016 i pedaggi sono aumentati di circa il 25%, a fronte di un crescita dell'inflazione nello stesso periodo inferiore al 10%. Secondo un recente studio della Banca d'Italia, ogni chilometro di autostrada a pedaggio rende mediamente ai concessionari oltre 1,1 milioni di euro l'anno. Di questi, 300 mila euro vanno allo Stato e 850 mila alle società di gestione. Il contratto di concessione con Autostrade per l'Italia è stato stipulato nel 2007 ed è valido sino al 2038. Dal 2008 al 2015 la società ha incassato ai caselli 27,3 miliardi di euro, realizzando 6,3 miliardi di utile netto contro i 3,5 miliardi previsti dal piano finanziario della convenzione. Stesso discorso per il gruppo Sias, con aumenti percentuali record della redditività.

Di converso, gli investimenti per le manutenzioni, l'ammodernamento e le nuove opere sono diminuiti nello stesso periodo del 40%. Sia perché dal 2008, complice la crisi economica e finanziaria dell'Italia, si è progressivamente ampliato il divario tra gli investimenti programmati e quelli effettivamente realizzati, sia perché le convenzioni prevedono che i concessionari debbano reinvestire fino al 75% degli introiti solo se il traffico sulle autostrade che gestiscono è aumentato più del previsto rispetto ai piani di sviluppo. Così, dal momento che molti degli investimenti previsti per le nuove opere sono rimasti sulla carta e che il traffico su gran parte della rete autostradale non è aumentato, il surplus dei pedaggi è finito quasi tutto nelle tasche degli azionisti delle società lasciandoci una rete autostradale sempre più obsoleta e meno sicura.



Nell’Italia di oggi manca una politica delle infrastrutture. Nel senso che, se alcune opere vengono realizzate, la loro qualità si rivela poi quanto meno discutibile, mentre l’incuria nella manutenzione peggiora la condizione di strade, ponti, trasporto locale e così via. Così, si citano con una punta di orgoglio i risultati raggiunti nella creazione dei collegamenti ferroviari ad alta velocità, ma si trascura di garantire alle linee regionali (proprio quelle che utilizzano ogni giorno milioni di pendolari) un grado di efficienza e di qualità minimamente accettabile. Sembra che ogni volta il nostro Paese riveli la propria insufficienza di fronte a ciò che, nel mondo odierno e soprattutto fuori dei nostri confini, viene considerato uno standard decente di civiltà.

Eppure, nella nostra storia ci sono testimonianze indubitabili della nostra capacità di realizzare infrastrutture. Non è il caso di chiamare in causa le strade e gli acquedotti dei nostri antenati romani di due millenni fa; basta ricordarsi dell’Italia che nel periodo del boom seppe costruire in tempi rapidi, con efficienza e buona qualità di esecuzione, l’Autostrada del Sole.

Questioni che ci riportano continuamente a un nucleo di fondo, quella della inefficacia del nostro sistema amministrativo. Di solito, la nostra attenzione viene catturata dal quadro politico che condiziona il funzionamento amministrativo e tendiamo a focalizzare il nostro interesse sui fenomeni più degenerativi, a cominciare da quello della corruzione. Posto che il rapporto tra politica e amministrazione costituisce uno dei più delicati, bisognerebbe cominciare a scavare nelle ragioni che hanno prodotto il degrado della vita amministrativa all’origine delle tante manifestazioni di malfunzionamento dell’apparato pubblico e delle opere che da esso dipendono. Probabilmente, la strada giusta è quella che conduce a responsabilizzare l’amministrazione, restituendo ad essa la dignità e l’autonomia che l’invadenza della politica in tutti i versanti della vita collettiva le ha sottratto.
Guardando ancora alla storia, viene da pensare che se un uomo come Giovanni Giolitti, un secolo fa, fu così efficace nell’indirizzare lo sviluppo del Paese fu forse perché era giunto alla politica relativamente tardi. Prima di entrare in parlamento era stato segretario generale della Corte dei conti: seppe governare bene perché conosceva bene il modo d’essere della pubblica amministrazione e quindi si sapeva rapportare ad essa, considerandone l’autonomia e valorizzando le qualità professionali della burocrazia.

Ma se l'Italia vanta di essere il Paese dove ancora si possono osservare le meraviglie architettoniche di romani, bisogna chiedersi perché viadotti moderni e ponteggi ultra-ingegneristici collassino su se stessi così spesso.

La risposta è nel calcestruzzo che è stato inventato a metà del XIX secolo e ancora non sappiamo quanto a lungo possa durare. Un secolo e mezzo non basta per essere certi che sia un materiale eterno, come gli inventori fecero credere. I ponti moderni sono costruiti in calcestruzzo armato, una miscela di cemento, acqua, sabbia e ghiaia che viene 'armata' con sbarre di ferro e acciaio. A indebolirlo sono l’azione dell’acqua e dei sali corrosivi che possono aggredire l’armatura di ferro e comprometterne la resistenza alla trazione, principale motivo per cui è stata inventata l’armatura. Spesso i costruttori italiani riducono la sezione dei tondini in ferro e inseriscono quelli lisci anziché "costati". Inoltre usano sabbia di mare al posto di quella di fiume, anche se la salinità della prima corrode i tondini già indeboliti dalla sezione ridotta. E così, aggiungendoci una lunga sequela di errori umani, i ponti italiani crollano.



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lunedì 5 ottobre 2015

SE C'ERA IL DUCE......

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In questi ultimi tempi spesso si sente dire : " se c'era il Duce...." ma cosa ha fatto di così strabiliante?

Se non c’era il Duce col cavolo che prendevi la pensione, visto che l’INPS la inventò lui!
Il primo sistema pensionistico in Italia a tutela dello stato di sopraggiunta invalidità sul lavoro o nel caso di impossibilità al lavoro per vecchiaia venne costituito nel 1898 quando venne introdotta la CNP, Cassa Nazionale di Previdenza nella quale venivano iscritti i lavoratori di alcune categorie e definitivamente dal 1919 quando l’ente divenne CNAS (Cassa Nazionale per le Assicurazioni Sociali) prevedendo l’iscrizione obbligatoria per tutti i lavoratori.

Se non c’era il Duce e ti ammalavi, peggio per te, non prendevi lo stipendio.
Con la legge 11 gennaio 1943 n.138 venne istituita la prima Cassa Mutua di Assistenza di Malattia che offriva tutele minime ai soli lavoratori dipendenti del pubblico impiego e nulla per gli altri. L’indennità di malattia è un dono della repubblica democratica visto che venne istituita con decreto legislativo del Capo provvisorio dello stato nr.435 del 13 maggio 1947 l’INAM, Istituto Nazionale per l’assicurazione contro le malattie, riformato nel 1968 che assisteva tutti i lavoratori, anche coloro che dipendevano da imprese private. E nel 1978, con Legge 23 dicembre 1978, nr. 883, veniva estesa, oltre che l’indennità retributiva in caso di malattia, anche il diritto all’assistenza medica con la costituzione del Servizio Sanitario Nazionale.

Il Duce ha inventato la Cassa Integrazione Guadagni per aiutare i lavoratori di aziende senza lavoro.
Nel 1939, tramite circolari interne, veniva prevista la possibilità, prevista senza un reale quadro normativo per poterla applicare, visto che allora era totalmente inutile. L’Italia, già coinvolta nelle guerre nelle colonie (Libia, Abissinia) si stava preparando all’entrata in guerra al fianco della Germania e l’industria (soprattutto quella bellica) era in gran fermento, motivo per cui non solo si lavorava a turni pesantissimi ma si assistette addirittura al primo esodo indotto di lavoratori dall’agricoltura all’industria. La Cassa Integrazione Guadagni, nella sua struttura è stata costituita solo il 12 agosto 1947 con DLPSC numero 869, misura finalizzata al sostegno dei lavoratori dipendenti da aziende che durante la guerra erano state colpite e non erano in grado di riprendere normalmente l’attività.

Quando c’era il Duce non vi era disoccupazione in Italia.
Vero, anche se in maniera discutibile. Unica precisazione da fare è che tale evento non era giustificato dal reale stato di benessere dell’economia ma da due eventi ben precisi: l’Italia stava preparando l’entrata in guerra e tutte le industrie (e l’artigianato) che direttamente o indirettamente fornivano l’esercito lavoravano a pieno regime. Per contro, l’accesso al lavoro era precluso a tutti coloro che non sottoscrivevano la tessera del Partito Nazionale Fascista, sanzione che era estesa anche ai datori di lavoro che eventualmente li impiegassero. Motivo per cui durante il fascismo assistemmo ai primi flussi migratori, di tutti coloro che per motivi politici non intesero allinearsi al regime ma avevano una famiglia da mantenere. Francia (prima dell’invasione nazista), USA, Argentina, Brasile e Africa le direttive principali dell’emigrazione Italiana: anche mio bisnonno da parte di padre fu costretto ad emigrare in Etiopia visto che nella Romagna nessuno intendeva rischiare dando lavoro a uno privo della tessera del partito. Gli extracomunitari attuali non esistevano visto che venivano direttamente sfruttati in loco nelle colonie, mentre i migranti erano i nostri poveri che non volevano tesserarsi al partito, motivo per cui in Italia, chi non lavorava per la guerra era indotto ad emigrare.



Se non c’era il Duce le grandi strade in Italia non venivano costruite.
Anche questo non è vero, visto che la necessità di realizzare infrastrutture in Italia fu un’idea di Giovanni Giolitti durante il suo quinto governo (15 giugno 1920/7 aprile 1921), avendo constatato l’impossibilità di uno sviluppo industriale in mancanza di solide strutture, sviluppo industriale dimostratosi necessario dal confronto con le altre grandi potenze che avevano partecipato al primo conflitto mondiale. Tale “rivoluzione” non potè essere attuata da Giovanni Giolitti, prima, e dal governo Bonomi che ne seguì solo per i sette mesi che resse a causa del boicottaggio e dell’ostruzionismo politico da parte del nascente fascismo, prima generico movimento popolare (1919) e poi soggetto in forma di partito dal 1921, con la costituzione del Partito Nazionale Fascista.

Quando c’era il Duce il popolo stava meglio!
Anche questa è un’affermazione discutibile. Infatti, a seguito delle sanzioni internazionali irrogate nel 1936 all’Italia a seguito dell’invasione dell’Etiopia, il 18 novembre di quell’anno venne indetto il “Giorno della fede” in cui gli italiani furono invitati, in teoria, a donare tutto il proprio oro alla Patria ricevendo, in cambio delle fedi nuziali (gli sposati) anelli in ferro con la scritta “ORO ALLA PATRIA – 18 NOV.XIV” che qualche anziano possiede ancora. Teoricamente perché, malgrado fosse fatto su invito volontario, chiunque venisse colto a possedere oro proprio anche in casa, veniva perseguito come traditore e nemico della patria dalle squadre del Fascio Littorio, ripassati (come si diceva allora) a manganello ed olio di ricino. E sempre per sostenere la guerra in Abissinia ed Eritrea prima, quella al fianco dei tedeschi poi, venne imposta l’autarchia: tutti i prodotti di importazione vennero soppressi come la maggior parte del grano utilizzato per la pasta e sostituito dall’”italico” riso, come ad esempio il caffè, sostituito dal “surrogato” fatto con cicoria tostata e il the, sostituito dal “coloniale” karkadè, misura che complessivamente peggiorò di molto la qualità della vita del popolo.
E il sequestro ai contadini della produzione agricola: agli agricoltori, come i miei parenti nell’alto forlivese, veniva imposta una elevata produzione agricola di cui solo una piccola parte veniva lasciata al contadino per il consumo personale e la vendita al mercato mentre una quantità esosa veniva “prelevata” dai fascisti locali “per il bene della patria”. E anche gli animali da carne.
Furono anni in cui calò l’allevamento dei maiali, animale ingombrante, oneroso da mantenere, visibile e quindi facilmente “prelevabile” in favore dell’allevamento del coniglio, più piccolo, più discreto e quindi più facilmente nascondibile; nel paese di Santa Sofia di Romagna (FC), tutta la collina della frazione di Camposonaldo, zona impervia da esplorare, divenne prima che territorio e base dei partigiani luogo di allevamento abusivo dei conigli, quelli che le famiglie contadine mangiavano la domenica e nei giorni di festa malgrado le disposizioni del regime.



Il Duce amava l’Italia.
«Mi serve qualche migliaio di morti per sedermi al tavolo delle trattative» enunciò il Duce il 26 maggio 1940 (fonte: L’Italia nella seconda guerra mondiale, Milano, Mondadori, 1946, p. 37): e così fu, visto che nella disastrosa “campagna di Russia”, solo per compiacere Hitler con una presenza italiana del tutto male equipaggiata e fornita nelle sue operazioni di guerra, persero la vita ufficialmente 114.520 militari sui 230.000 inviati al fronte, a cui aggiungere i dispersi, ovvero le persone che non risultavano morte in combattimento ma nemmeno rientrate in patria, che fonti UNIRR stimano in circa 60.000 gli italiani morti durante la prigionia in Russia. Il Duce amava talmente l’Italia da aver introdotto leggi razziali antisemite nel 1938 solo per compiacere l’alleato nazista, inutili perché in Italia gli ebrei, a differenza che in Germania, non avevano un’importanza rilevante in un sistema economico di cui la dittatura volesse provvedere all’esproprio. E i fascisti, soprattutto durante il periodo della Repubblica Sociale Italiana (o di Salò) collaborarono attivamente ai massacri di rappresaglia a seguito delle operazioni partigiane e alla deportazione nei lager di cittadini italiani.
In Italia inoltre il fascismo fu istitutore e gestore di “lager”: la bibliografia ufficiale stima 259 campi di prigionia, alcuni normali campi di detenzione, altri campi di smistamento in attesa della deportazione in Germania, altri ancora autentici campi di sterminio come la Risiera di San Sabba a Trieste, dove il tenore dei massacri era inferiore solo ai campi di Germania e Polonia.

Il Duce diede il voto alle donne.
Errato, perché le donne erano ammesse alle votazioni solo per piccoli referendum locali mentre erano escluse al voto per le elezioni politiche. La prima volta che le donne furono democraticamente ammesse al voto fu al referendum repubblica/monarchia del 1946.

I numeri del fascismo in Italia:
42 fucilati nel ventennio su sentenza del Tribunale Speciale.
28.000 anni complessivi di carcere e confino politico.
80.000 libici sradicati dal Gebel con le loro famiglie e condannati a morire di stenti nelle zone desertiche della Cirenaica.
700.000 abissini barbaramente uccisi nel corso della impresa Etiopica e nelle successive “operazioni di polizia”.
350.000 militari e ufficiali italiani caduti o dispersi nella Seconda Guerra mondiale.
45.000 deportati politici e razziali nei campi di sterminio, 15.000 dei quali non fecero più ritorno.
640.000 internati militari nei lager tedeschi di cui 40.000 deceduti ed i 600.000 e più prigionieri di guerra italiani che languirono per anni rinchiusi tra i reticolati, in tutte le parti del mondo.
110.000 caduti nella Lotta di Liberazione in Italia e all’estero.
Migliaia di civili sepolti vivi tra le macerie dei bombardamenti delle città.
Innumerevoli combattenti degli eserciti avversari ed i civili che morirono per le aggressioni fasciste.

Il programma politico, economico e sociale alla base degli atti di governo di Mussolini è antitetico a quello liberale: Mussolini voleva costruire una società corporativa, mentre il liberalismo economico, figlio dell’Ottocento, è una teoria del conflitto (ma un conflitto visto in positivo, al contrario del marxismo che invece ne propugna il superamento per via rivoluzionaria). Per questa ragione un liberale affermerebbe che pensioni, agro pontino e mille altri atti di governo concreto mussoliniano erano inseriti in una visione globale antitetica a quella, appunto, liberale: e pertanto erano ottime idee sprecate sull’altare di un progetto totalmente errato, liberticida, da respingere qui e per sempre.




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mercoledì 18 marzo 2015

GLI SCOMPARSI MADONNARI

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L'arte, come indicato da varie descrizioni che si trovano in testi e lettere, fu presente in tutta l'Europa fin dal XVI secolo. Dato il materiale impiegato, dopo qualche giorno il disegno sbiadisce fino a che con la prima pioggia svanisce. Questo è anche il motivo per cui solo di recente è stato possibile iniziare ad averne una documentazione visiva.
La tradizione dei madonnari nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale si stava perdendo. Lo scarno numero di questi artisti era diminuito fino a quando alcuni di loro cercarono un posto dove riunirsi per dare luogo ad un evento annuale. Uno dei primi incontri avvenne nel 1972, grazie al contributo del comune di Curtatone, il 15 agosto sul sagrato del Santuario della Beata Vergine delle Grazie a Grazie, nei pressi di Mantova; erano in 10. Da più di vent'anni nella località dove si tiene l'Incontro Nazionale dei Madonnari, è sorta l'"Associazione Madonnari d'Italia" con una trentina di aderenti.
La riscoperta di quest'arte antica nel corso degli anni successivi ha visto nascere altre manifestazioni sia in Italia che all'estero. Pur conservando lo spirito tradizionale, a questi semplici artisti si sono aggiunti anche pittori qualificati, artisti di varie tendenze e semplici appassionati che, con produzioni a volte discutibili, elaborano madonne e altri temi sacri. Non di rado, questi artisti sono molto abili nella loro tecnica, decisamente particolare e inusuale, riuscendo a creare delle vere opere d'arte, anche se effimere.

I madonnari sono artisti di strada, così chiamati dalle immagini, soprattutto sacre e principalmente Madonne, che sono soliti disegnare per strada.

Il termine è di probabile origine centro-italiana.

Il madonnaro è un artista ambulante nomade che si sposta da un paese all'altro in occasione di sagre e feste popolari. Esegue i suoi disegni con gesso, gessetti o altro materiale povero, su strade, marciapiedi, cemento, selciato di centri urbani e che trae il proprio sostentamento grazie alle offerte del pubblico quali oboli o elemosine.

Madonnari patrimonio immateriale dell’umanità: il riconoscimento Unesco sarà chiesto per tutelare un’arte antica e una tradizione di cultura popolare che ha in Italia le sue radici, e alle Grazie la consacrazione con il concorso che prese il via nel 1973, ma che ormai viene copiata e amata un po’ in tutto il mondo. Tanto che in California un importante concorso di artisti americani viene definito “italian street painters” ovvero street painters al modo dei madonnari. Ma proprio quel concorso californiano, amatissimo dai madonnari statunitensi e che ha dato impulso all’economia locale, a un certo punto si è interrotto per qualche anno poichè i promotori , invecchiati, si erano stancati. Sembrava impossibile agli artisti, che pure non si scoraggiano se la pioggia cancella già la prima notte il duro lavoro di venti ore. «Può succedere!» commentano. Ma perdere un’occasione per disegnare, stare gomito a gomito, ritrovarsi fra persone che si sentono vive e realizzate se esprimono qualcosa che hanno dentro - pensieri e immagini - quello no, pesa molto più del maltempo. I madonnari vogliono disegnare sulla strada per la gente, anche quella che non va alle mostre.Si mettono a nudo, e non è facile. C’è chi passa e dice: che brutto! Altri: è meraviglioso!.

C’è chi dei gessetti sull’asfalto ha fatto la propria ragione di vita (e di lavoro), e chi vi dedica i fine settimana. La passione è la stessa, anche se un’esistenza completamente libertaria non è da tutti. Sta comunque tornando a contagiare molti giovani.

«Voi sporcate!» li offendono alcuni vigili. Con un passaporto mondiale dell’Usceo per i madonnari sarebbe più semplice ottenere il semplice diritto di disegnare per terra, rispettando regole di buon senso e rispetto, ma superando pregiudizi e chiusure immotivate.

"Il vicesindaco ci lasci in piazza Duomo. Nelle altre piazze della città non possiamo sopravvivere". Presidio dei madonnari e ritrattisti davanti a palazzo Marino "contro la decisione del Comune di spostarci dalla nostra piazza Duomo per dividerci per la città". Una quindicina, fra madonnari e ritrattisti, si sono riuniti in piazza della Scala con pastelli, cavalletti e tele.
"Da qualche mese il Comune ha deciso di fare 'ripulisti' di noi in piazza Duomo - spiega il rappresentante dei ritrattisti italiani e stranieri' - negandoci l'autorizzazione a continuare la nostra attività sotto la Madonnina. Siamo in 25, e il permesso a stare in piazza Duomo è stato concesso solo a due. Tutti gli altri, siamo stati sparpagliati per Milano, in zone in cui è impossibile per noi sopravvivere con il nostro lavoro. E c'è pure chi ha fatto domanda a maggio e ha avuto risposta che riceverà il permesso nel 2009: fa il madonnaro da una vita, da 45, 50 anni, come può campare?".

Di 800 euro l'anno il costo per il permesso: "Per noi è una cifra non irrilevante - spiegano - e chiediamo al vicesindaco che ci lasci dove siamo sempre stati, e ci permetta di vivere continuando a fare i ritratti".


LEGGI ANCHE : http://asiamicky.blogspot.it/2015/02/milano-citta-dell-expo-conosciamola.html



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sabato 21 febbraio 2015

I NAVIGLI



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I Navigli sono un sistema di canali irrigui e navigabili, con baricentro Milano, che metteva in comunicazione il lago Maggiore, quello di Como e il basso Ticino aprendo al capoluogo lombardo le vie della Svizzera e dell'Europa nordoccidentale, dei Grigioni e dell'Europa nordorientale e, infine, quella del Po verso il mare. Col regime regolare delle acque dei navigli si irrigarono e resero produttive vastissime aree, collegandosi con l'opera di bonifica iniziata dai monaci delle abbazie a sud della città già nel X secolo. La costruzione dell'intero sistema è durata dal XII al XIX secolo. La Cerchia dei Navigli, o fossa interna, rappresentava la "cerniera" cittadina che consentiva il funzionamento del sistema nel suo complesso.

I navigli che fanno parte del sistema dei Navigli milanesi sono:

Naviglio Grande
Naviglio Pavese
Naviglio Martesana
Naviglio di Paderno
Naviglio di Bereguardo

Alla storia del sistema come l'intendiamo oggi, c'è una doverosa premessa, perché la deviazione di corsi d'acqua e lo scavo di canali artificiali iniziò a Milano assai prima. La città sorge al centro della fascia delle risorgive tra Ticino e Adda in un'area ricchissima d'acque che defluiscono tutte a sudest. È fondata, secondo Tito Livio, da Belloveso, principe dei Biturgi, durante il regno di Tarquinio Prisco, nel 590 a.C. in un luogo pianeggiante e asciutto adatto alle grandi adunate di preghiera (medelhen, santuario): gli unici corsi d'acqua riferibili all'area dei pochi ritrovamenti archeologici del periodo sono il Nirone, che ha le sue sorgenti nella parte nordorientale dell'attuale città (piazzale Firenze) e il Rile de Crosa o Mollia che raccoglieva alcune rogge provenienti da nord.

Nel 222 a.C. i Romani conquistano Milano e la città si allarga accrescendo il proprio fabbisogno idrico. Il Seveso è il fiume che transita più vicino alle mura e ancora in epoca repubblicana viene in parte deviato verso la città. Per scaricare le sue acque esauste viene costruito il primo canale artificiale milanese, la Vettabbia che sfocia nel Lambro a Melegnano.

Giunto grosso modo all'altezza dell'attuale via Larga, a causa di una depressione naturale, il Seveso formava un ampio bacino (ne sarebbero tra l'altro testimoni antichi toponimi come via Poslaghetto e via Pantano): qui vi sarebbe stato il "porto di Milano" in comunicazione, tramite la Vettabbia appunto, con il Lambro, il Po e quindi il mare. Di questo collegamento fa menzione nell'XI secolo Landolfo Seniore nella sua Historia Mediolanensis, mentre una "patente" di Liutprando re dei Longobardi 690-740 parla di un porto tra Lambro e Po. Ancora a favore della tesi, due ritrovamenti, uno in piazza Fontana e l'altro in via Larga, di un lungo manufatto romano (un pavimento litico su palafitte) che appare come una banchina portuale. Il materiale, costituito da lastre in serizzo di due metri e mezzo e pali di rovere, è conservato al Civico Museo di Storia naturale. Da ultima, una considerazione sulla deviazione dell'Olona dal suo alveo naturale fino alla confluenza con la Vettabia che pare del tutto superflua se non fatta per arricchire la portata di quest'ultima a favore della sua navigabilità.

Tutta la storia iniziò nel 1152, quando Guglielmo da Guintellino, un ingegnere militare genovese al servizio di Milano, fece costruire un canale difensivo da Abbiategrasso a Landriano, sul Lambro. La lunga contesa tra Milano e il Barbarossa era agli inizi e Pavia era alleata dell'imperatore e il canale doveva proteggere Milano proprio dalle incursioni dei pavesi. È tra il 1156 e il 1158 che lo stesso Guglielmo da Guintellino fa erigere i bastioni della città e dal fossato da cui si era estratta la terra per innalzarli, si crea la fossa che sarà allagata e che diventerà, dopo più di due secoli, navigabile e che sarà "interna" solo dopo la costruzione delle Mura spagnole nel XVI secolo. Distrutta nel 1158 ad opera del Barbarossa fu prontamente ricostruita per essere nuovamente distrutta quattro anni dopo sempre dal Barbarossa. Il tracciato del fossato ricostruito nel 1167 corrisponde alle attuali vie Fatebenefratelli, Senato, San Damiano, Visconti di Modrone, Francesco Sforza, Santa Sofia, Molino delle Armi, De Amicis, Carducci, Piazza Castello e via Pontaccio. Nel 1171 venne costruita una chiusa fra P.ta Ticinese e la Pusterla di S. Eufemia per regolare l'acqua nella fossa e controllarne il deflusso nella Vettabbia

Con le invasioni barbariche le strutture idrauliche caddero in disuso e gran parte dei territori tra Milano e Pavia si ricoprirono di boschi, acque stagnanti e terre incolte. Nella prima metà del XII secolo era già cominciata la paziente opera di bonifica da parte dei monaci cistercensi che riattivarono l'irrigazione, recuperando le strutture romane come la Vettabbia, e successivamente rettificarono il Ticinello, il fossato di frontiera che i milanesi avevano derivato dal Ticino per difendersi da Pavia. Qualche decennio più tardi, si affiancarono i Benedettini e gli Umiliati, un movimento religioso con aderenti chierici e laici, seguitissimo a Milano, che diffuse rigidi costumi e un'indefessa vita di lavoro e comunità che univano al recupero delle terre la trasformazione dei prodotti.

Stabilizzata la pace con l'impero, Milano accentua il suo dominio su un territorio sempre più vasto. Nel 1177  a Tornavento sul Ticino iniziano i lavori per la derivazione di un canale verso Milano: non più un'opera difensiva, ma una grande infrastruttura civile. Forse pensata per irrigare vaste estensioni di terra o forse già concepita come canale navigabile o per entrambe le cose: gli storici non hanno, su questo, un'opinione univoca.

All'inizio del XIII secolo vennero derivate anche le acque dell'Adda nel canale della Muzza per scopi irrigui. L'opera lunga e complessa, che non toccava minimamente gli interessi milanesi, risultò di grande importanza per Lodi e il Lodigiano. In questa epoca si diffuse fra i proprietari residenti in pianura la consuetudine di lasciar scorrere nei propri terreni le "altrui acque" utilizzandole anche per far muovere le ruote idrauliche (mulini, torcitoi e altri opifici). Oltre alle funzioni irrigue in questo periodo sul Naviglio Grande si intensificarono quelle di navigazione, prima a tratti e poi sull'intero percorso: nel 1211 il canale (ora noto come Navigium de Gozano) era giunto a Milano, precisamente a Sant'Eustorgio vicino a porta Ticinese, e nel 1272, dopo i lavori ordinati da Beno de' Gozzadini, reso completamente navigabile.

Risale al 1386 la posa della prima pietra del Duomo al quale Gian Galeazzo Visconti aveva destinato i marmi ricavati dalle cave di Candoglia sul Toce, quasi al suo sbocco nel Lago Maggiore. La pietra e gli altri materiali da costruzione giungevano a Milano per via d'acqua, ma ancora lontani dalla destinazione. Si scavò un approdo (laghetto di Santo Stefano) il più vicino possibile al cantiere, lungo la fossa resa navigabile e a questa si collegò il naviglio. Si poneva però il problema del superamento del dislivello fra i due corsi d'acqua; si ricorse dapprima a un meccanismo complesso, lento e costoso che con la temporanea costruzione di una diga a valle dei barconi transitati, impedisse il regolare deflusso e alzasse il livello del bacino a monte, sospendendo nel frattempo ogni emissione d'acqua a scopi irrigui, suscitando problemi e rimostranze. Furono due ingegneri della Fabbrica del Duomo, Filippino degli Organi e Aristotele Fioravanti a risolvere il problema mettendo a punto una conca permanente, la prima al mondo. È la Conca di Viarenna, ma siamo già nel 1438. Nello frattempo (1359) fu costruito il Navigliaccio, aperto a spese pubbliche servì ad irrigare il parco del Castello di Pavia di Galeazzo II e un altro aqueducto portò le acque dell'Adda al castello di Porta Giovia a Milano per bagnare un altrettanto grandioso giardini.

L'anno della svolta decisiva fu il 1457. Dopo la caduta dei Visconti e la breve parentesi della Repubblica Ambrosiana, era duca Francesco Sforza. Fu lui ad ordinare la costruzione del Naviglio della Martesana (già decretata nel 1443 da Filippo Maria Visconti, ma mai intrapresa) e ad imprimere il passo giusto ai lavori per completare quello di Bereguardo (iniziato nel 1420). Il disegno era ambizioso, collegare l'Adda a Milano e, tramite la cerchia dei Navigli della città, l'Adda al Ticino: la Martesana fu il primo canale programmato in funzione della navigazione e dell'irrigazione progettato dall'architetto idraulico Bertola da Novate. Allo stesso architetto venne anche commissionata la direzione dei lavori di Bereguardo anch'esso studiato, oltre che per l'irrigazione delle campagne, per permettere la navigazione. Le difficoltà di superare il dislivello fra il terrazzo ed il fiume impedirono il completamento fino alla riva del Ticino.

In questo periodo di grandi realizzazioni idrauliche giunse a Milano Leonardo da Vinci. Non fu l'inventore delle conche, come qualcuno erroneamente ancora pretende, ma ne perfezionò la tecnica ed impiegò per primo, nella lettura e nello studio dei corsi d'acqua, la prospettiva a volo d'uccello.

Era duca di Milano Lodovico il Moro quando il collegamento tra Martesana e fossa interna fu realizzato nel 1496 e Leonardo era ancora a corte, ma non fece a tempo a elaborare progetti per realizzare un canale che superando le rapide dell'Adda consentisse il congiungimento diretto con il Lario. Li compilò e li consegnò nel 1518 a Francesco I che nel 1500, sconfitto il Moro, si era impadronito del ducato. Erano troppo arditi per l'epoca e ci vollero quasi due secoli per aprire il Naviglio di Paderno e più di due per collegare Milano a Pavia.

Per la realizzazione del Naviglio di Paderno, Francesco I donò alla città diecimila ducati. I tentativi furono numerosi e non riusciti: particolarmente drammatico quello dell'architetto, idraulico e pittore Giuseppe Meda, conclusosi con la morte del progettista (1591) che aveva immaginato una conca (il castello d'acqua) con un salto di ben 18 metri. Il Naviglio di Paderno sarà reso navigabile soltanto nel 1777 e quello Pavese nel 1819. Entrambi, per un capriccio della sorte, saranno inaugurati da viceré austriaci.

Si è detto della Muzza e va sottolineato come il canale nella sua secolare evoluzione sia stato protagonista prima nella bonifica di terre altrimenti paludose e non coltivabili e poi nella loro irrigazione: era un ramo morto dell'Adda ed è, ancora oggi, il canale con la maggiore portata sul territorio nazionale.

Il canale Villoresi, ultimo nato, ha cambiato e resa redditiva l'intera agricoltura dell'Alto Milanese e, da solo, irriga una superficie superiore a quella dei tre navigli milanesi messi assieme. Il suo incile alla diga del Panperduto a Somma Lombardo, sul Ticino, ha cambiato quello del Naviglio Grande che ora nasce praticamente dal canale industriale che esce com il Villoresi dal Panperduto e alimenta tre centrali idroelettriche e raffredda la centrale termoelettrica di Turbigo.

Il 3 marzo 1928 viene chiesto al Ministero dei Lavori Pubblici, con esito positivo, il permesso di copertura della cosiddetta "fossa interna", ossia del tratto di naviglio da Piazza San Marco fino a Porta Genova. La decisione era motivata da nuove necessità viabilistiche ed igieniche, date dagli scarichi abusivi degli immobili adiacenti nella fossa interna anziché nella rete fognaria. La copertura dei navigli negli anni avvenne tra il 1929 e il 1930, creando un anello di strade che ne prese il posto e che fu chiamato Cerchia dei Navigli, il quale, snodandosi dalla Stazione nord a piazza Castello, via Pontaccio, San Marco, via Fatebenefrarelli, piazza Cavour, via Senato, via San Damiano, via Visconti di Modrone, via Francesco Sforza, via Santa Sofia, via Molino delle Armi, via de Amicis e via Carducci per ritrovarsi a fianco della stazione Nord in piazza Cadorna, divenne la circonvallazione interna di Milano, benché già all'epoca venisse definito "cappio al collo", anziché "anello", per via del suo brevissimo raggio, che portava il traffico automobilistico in centro città. La spesa da parte del Comune per la copertura fu di oltre 27 milioni di Lire. Visconti di Modrone risparmiò sulle spese di miglioria, riducendole del 18%. In realtà, il percorso navigabile non coincideva in tutto e per tutto con quello stradale, ma aveva un tracciato che da porta Nuova, attraverso la conca delle Gabelle, quella di san Marco, il laghetto e la via omonima, raggiungeva all'inizio di Fatebenefratelli il canale che circumnavigava la città in senso orario (acque discendenti) fin a Via De Amicis: da qui, il naviglio del Vallone piegava all'esterno (ansa verso sinistra) e discendeva, attraverso la conca di Viarenna, fino alla darsena di porta Ticinese per raggiungere i navigli Grande e Pavese. Quest'ultimo tratto fu coperto qualche anno più tardi ed è proprio quello che oggi si vorrebbe riaprire come monumento vivente alla straordinaria epoca che la città ha vissuto grazie ai suoi navigli.

L'arco di cerchio mancante a completare l'intero percorso, in quanto non asservito alla navigazione, ebbe una storia diversa legata in qualche modo alle vicende del Castello Sforzesco (di porta Giovia), al suo fossato e alle molte trasformazioni che esso subì nei secoli. Fino a quando la fossa interna fu puramente difensiva, il fossato del castello ne era parte integrante. Da nord l'acqua scendeva per via Pontaccio e si incanalava con quella proveniente da rogge, fontanili e fonti che sgorgavano nell'area attorno all'attuale Arena che cingevano il castello arricchendosi con altre provenienti da nord ovest (l'attuale area di Musocco). Uscivano dal castello dal vertice meridionale e, attraverso la spianata dell'attuale piazza Cadorna (stazione Nord) si incanalavano per via Carducci. La storia racconta che lungo questo percorso si inoltrasse la "Magna", la reggia galleggiante di Filippo Maria, l'ultimo duca della dinastia dei Visconti, figlio cadetto di Gian Galeazzo. Aveva ereditato un regno e un esercito per la quasi contemporanea morte del fratello Giovanni Maria e del condottiero Facino Cane, di cui sposò la matura vedova: fu buon governante, ma superstizioso, crudele e terrorizzato dalle possibili congiure a suo danno e si spostava tra i castelli di Milano, Abbiategrasso Cusago e Pavia solo per via d'acqua, per affari di stato o semplicemente per raggiungere le sue amanti (numerose malgrado la salute malferma e un corpo che lo sosteneva a malapena). Dapprima su percorsi incerti per rogge e canali che discendevano fino al Naviglio Grande, poi dal 1445 attraverso la conca di Sant'Ambrogio, appositamente costruita nell'attuale via Carducci (ramo Vercellino), e la conca di Viarenna.

Il primo documento ufficiale a parlare di copertura dei navigli è stato il Piano Regolatore Generale di Milano (piano Beruto) approvato nel 1884: ci vollero quasi cinque decenni perché si avviassero i lavori che però, una volta partiti, marciarono speditamente. La città ne giovò in ammodernamento, ma cambiò completamente fisionomia e perse il suo volto di "città d'acqua". Da Luca Beltrami a Riccardo Bacchelli a Empio Malara, molti commentatori hanno sostenuto che il cambiamento e l'adeguamento alle esigenze di mobilità e di sviluppo si sarebbero potute ottenere senza stravolgere la personalità stessa della città. A intervalli di tempo si riparla di una possibile riapertura dei navigli, l'ultima proposta è avvenuta in occasione dei preparativi per l'Expo 2015. La mancanza di mezzi economici ha sempre bloccato lo sviluppo di ogni seria proposta di ripristino, anche parziale, delle vie d'acqua cittadine.


domenica 15 febbraio 2015

PIOVE!!!!!!

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 .



Pioverà? Non pioverà?
Farà brutto? Farà bello?
Dovrò uscire con l’ombrello?
Ma se uscissi con l’ombrelllo
lo so già farebbe bello.
Eppoi questo non è tutto.
Senza ombrello, ci scommetto,
muterebbe in tempo brutto.
Sole, pioggia, ma perchè
vi burlate ognor di me?

State a sentire che dice
la nuvoletta felice:
“Quando la pioggia mi scioglie
lustro le pietre e le foglie.
Per camminare sui tetti
mi metto gli zoccoletti.
Vado per orti e giardini
cantando come i bambini.

I goccioloni han voglia di cantare
rimbalzando, saltellando
delle strade fan fossette
delle scarpe fan barchette.

Cielo grigio. Tempo brutto.
Piove piove dappertutto.
Fan la doccia i fiorellini
nelle aiuole dei giardini
e nell’orto il seminato
beve l’acqua d’un sol fiato.
Io, se piove, non mi cruccio
vado a spasso col cappuccio.

Dopo la pioggia viene il sereno,
brilla in cielo l’arcobaleno:
è come un ponte imbandierato
e il sole vi passa, festeggiato.
E’ bello guardare a naso in su
le sue bandiere rosse e blu.
Però lo si vede, questo è il male,
soltanto dopo il temporale.
Non sarebbe più conveniente
il temporale non farlo per niente?
Un arcobaleno senza tempesta,
questa sì che sarebbe una festa.
Sarebbe una festa per tutta la terra,
fare la pace prima della guerra.

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