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lunedì 17 ottobre 2016

INFANTICIDI

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L’uccisione di un bambino – e peggio ancora di un neonato – per mano di sua madre è un gesto così violento che è impossibile giustificarlo. Ma bisogna giustificarlo, oppure tentare di capirlo perché sia più facile prevenirlo.
E’ così frequente leggere nel giornale trafiletti che parlano di omicidi, incidenti, drammi della vita, e poi continuare per la propria strada dimentichi delle brevi righe appena lette.
Il malessere provocato dall’arrivo di un figlio non è un fenomeno raro. Abbiamo la capacità di fare qualcosa, di mostrarci creativi, di imporre non solo che le madri siano curate, ma che ci si prenda cura di loro.
Per nascere madre non basta mettere al mondo un figlio, è necessario che si metta in moto tutta una serie di processi. Una madre deve vivere la propria condizione con un senso di sicurezza e di fiducia, sentirsi parte di una storia familiare positiva, aver concepito il bambino in un contesto di attesa affettiva, in una speranza di progetto parentale.

La madre compie l’omicidio per sottrarlo ai mali del mondo, per salvarlo dalla sofferenza di esistere, per preservarlo da reali o presunte difformità. Impulsi irrazionali e convinzioni religiose possono confluire in uno stato depressivo in cui la sofferenza interiore, l’angoscia e il mal di vivere concorrono alla messa in atto di un gesto irreversibile, forse incubato e fantasmato da tempo.
Il fattore scatenante della dinamica omicidiaria non è necessariamente di carattere patologico o psicotico, anche se può essere ascritto a una malattia mentale pregressa.
Esistono, anche da parte degli studiosi del fenomeno, considerazioni di tipo biopsicosociale, che non ignorano gli aspetti biochimici ma anche di adattamento sociale.
Un cedimento nervoso, una malattia fisica, l’abuso di medicinali, l’insonnia cronica, la frustrazione esistenziale possono essere infine fra i detonatori di questo terribile atto privo di segni premonitori. Non di rado all’omicidio del bambino segue il suicidio della madre.

Il figlicidio a elevata componente psicotica si verifica quando il genitore uccide in preda a un raptus, ad allucinazioni imperative in forma di comando, sdoppiamento della personalità, turbe sociali, demonizzazione del figlio, depressione post-partum, scompensi ormonali, malinconia psichica, frustrazione individuale.
Si può inserire nella presente catalogazione lo stress; ovvero un insieme di fattori stressanti, nel quale confluiscono eventi dovuti anche a gravi perdite affettive – dal lutto alla separazione – capaci di giungere fino alla violenza domestica e all’omicidio.

La madre, normalmente avversa alla violenza sul figlio, può causarne la morte con un gesto impulsivo ma irrazionale, spesso conseguenti a pianti e urla del piccolo. In diversi episodi queste donne presentano un comportamento irritabile e impulsivo, o sono affette da disturbi della personalità definiti patologici, anche se non permanenti. Tale categoria complessa assume comportamenti alterati a causa dell’assunzione di droghe o alcool.
Alla morte di infanti e adolescenti può contribuire anche, come è stato osservato clinicamente, l’atteggiamento di madri ansiose e insicure che prodigano apparentemente cure affettuose ai figli ma in realtà li stanno uccidendo o, comunque, non consentono loro di vivere normalmente. Somministrare sostanze dannose ai figli, inventarne sintomi patologici esponendoli a esami e interventi pericolosi, rientra nella cosiddetta “Sindrome di Munchausen per procura”, studiata da Asher nel 1951. L’eccesso di amore o la sua mancanza inconsapevole, la paura di perdere l’essere generato che era in sé o il considerarlo un prolungamento del proprio io generante, può annientarli entrambi.

Capita di rado che con un solo atto omicidiario vengano uccisi più figli. Si tratta di una categoria composita che non ha basi motivazionali ma operazionali. Si tratta di infanticidi, o meglio di neonaticidi sequenziali, perpetrati in periodi ed età materne differenti. Non si può parlare di “madri killer”, dato che l’assassinio seriale codificato presenta caratteristiche a componente sadica, sessuale o simbolica.
Tentando poi di chiarire la psicologia e i problemi sociali delle madri, ci si può trovare di volta in volta di fronte a disturbi della personalità, percezione fantasmatica, contrapposizione a volte cruenta tra madre e figlio, oppure a paure economiche reali o immaginarie.

L’infanticidio è stato per lungo tempo strumento di controllo demografico, sia in termini di eliminazione degli storpi ( si pensi all’antichissima rupe tarpea, dalla quale venivano gettati i bambini con malformazioni), sia nei termini del contenimento delle nascite o della selezione del sesso. La Cina ne è il più famoso esempio; addirittura agli aborti forzati si associano politiche che incoraggiano l’infaticidio.

La condotta, considerata non solo criminale, ma anche particolarmente odiosa nelle società moderne, è stata invece pratica comune nel passato, ad esempio in forma di sacrificio rituale o a causa di deformità.

Varia è la considerazione giuridica e criminologica dell'infanticidio, a seconda del soggetto che compie l'azione (spesso, ma non sempre, la madre), delle circostanze temporali e di altre condizioni. In diritto penale, l'uccisione di un bambino si considera il più delle volte un omicidio comune. L'infanticidio si potrebbe quindi intendere in senso etimologico (uccisione dell'infante, colui che non sa ancora parlare), ma non è esattamente così: per varie ragioni, gli ordinamenti considerano meno gravi, rispetto all'omicidio, i reati speciali individuati come infanticidio, e le delimitano in un ambito molto stretto. L'Infanticide Act britannico, ad esempio, chiama infanticidio un delitto specifico, che può essere commesso solo dalla madre nel primo anno di vita del bambino. Il codice penale italiano individua una sola ipotesi: quella dell'infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale (art. 578 c.p.) commesso dalla madre durante il parto (feticidio) o immediatamente dopo. In tutti gli altri casi, l'uccisione di un bambino è semplicemente reato di omicidio. L'art. 578 prevede infatti una pena più lieve (da 4 a 12 anni di reclusione) solo in ragione delle particolari condizioni emotive della puerpera; il trattamento di favore non si estende nemmeno a coloro che eventualmente concorrano nel reato, puniti con la stessa pena prevista per l'omicidio (non meno di 21 anni). Analoga soluzione è accolta da altri ordinamenti, come quello brasiliano attuale (art. 123 c.p.). In alcuni paesi (ad esempio di lingua spagnola) hanno rilevato o rilevano ulteriori elementi. Può essere disposto un preciso limite temporale (24 ore, 72 ore, 7 giorni) dal parto oppure, soprattutto in passato, sono stati inclusi nella previsione altri consanguinei (oltre alla madre), specie in relazione a motivi d'onore. Anche l'ordinamento italiano dava rilievo alla causa d'onore prima che la legge 442 del 1981 la espungesse definitivamente. Al termine tecnico infanticidio, con valenza giuridica limitata ai casi esposti, si sovrappongono talvolta nozioni come neonaticidio e figlicidio, che di tale valenza sono invece completamente prive. La seconda è ad esempio individuabile nelle aggravanti degli artt. 576 e 577 c.p. italiano, che peraltro corrispondono al concetto più generale di parricidio.

Quando una madre uccide il proprio figlio suscita sicuramente orrore ma anche emozioni diverse, forti legate all’immagine di fragilità del bambino che da lei dipende e che invece in lei trova la morte. Certo notizie del genere colpiscono.  In parte l’effetto è sicuramente dovuto alle modalità che i media hanno di proporre l’argomento.

Pare infatti che l’uccisione dei figli sia fenomeno di oggi. Eppure basta uno sguardo alla letteratura per scoprire che è cosa che accade dalla notte dei tempi. Si potrebbe pensare allora che oggi si verifichi una confusione tra ciò che si conosce e ciò che esiste e accade. L’inghippo starebbe nel fatto che questo fenomeno accadeva già,  solo non compariva sui giornali, non esistevano cioè i mezzi di comunicazione di massa che ne hanno fatto patrimonio di conoscenza comune.



Il neonaticidio individua la morte del neonato subito dopo il parto o del feto durante il parto. Contrariamente a quanto ci si possa aspettare, oggigiorno l’infanticidio e il neonaticidio non sono più fenomeni  legati a gravi situazioni di emarginazione, ignoranza e precarietà economica. Sono in vero fenomeni più facilmente riscontrabili con madri di giovane età, non sposate e che presentano fenomeni di negazione della gravidanza.  Alla negazione si associa il fenomeno della razionalizzazione dei sintomi, con il risultato che per queste giovani donne i mutamenti corporei della gravidanza hanno una spiegazione alternativa assolutamente ragionevole. A causa della negazione della gravidanza, spesso per queste giovani madri il parto è talmente inaspettato da non riconoscerlo nei sintomi. È quindi tanto inatteso quanto stupefacente. Capita allora di frequente che queste partoriscano nei bagni perché colte da improvvisi e inspiegabili dolori addominali e che al bambino non vengano prestate le adeguate prime cure, mancando anche tutta l’ideazione e l’investimento affettivo che la madre avrebbe dovuto già aver costruito nella gravidanza. Cioè in quel momento quel bambino partorito nella toilette non ha lo statuto di bambino per la madre, ma di impiccio di cui liberarsi.
Non deve stupire che casi come questi siano passati anche al vaglio di medici, i quali non hanno potuto diagnosticare la gravidanza perché instradati su sintomi incoerenti con la diagnosi. Spesso infatti la diagnosi è accidentale, per esempio nel caso di radiografie per motivi diversi (ad es. alla schiena…). La negazione della gravidanza non è  tanto (quantomeno non solo)  associata a patologia della madre quanto alla presenza di stressor sociali quali religione, rigida etica morale, bigottismo, rigidità dell’ambiente, mancanza di supporti intra ed extra familiari etc, che concorrono a creare in queste giovani donne la paura di essere escluse dal proprio ambiente sociale e a ridurre la loro capacità di pianificare un futuro. Interessante sarebbe capire quale tipo di immagine corporea abbiano le mamme.

Il figlicidio invece individua l’uccisione del figlio che ha superato l’anno di età.
Il neonaticidio è quindi caratterizzato dal fatto che il bambino non sia ancora stato investito di quella complessa costellazione affettiva che chiamiamo istinto materno, ma sia considerato un oggetto prodotto del corpo della madre, su cui quindi ella ha piena disponibilità.
Fenomeno ben diverso è il figlicidio. Secondo Merzagora Betsos, se si escludono i casi di uccisione dei figli per vendetta nei confronti del partner e della SPM (Munchausen per procura), si possono descrivere una serie di situazioni tipo lungo un continuum dall’assenza di patologia alla franca patologia.
Le madri che sono solite maltrattare i figli e che li uccidono in un atto impulsivo: è quest’atto una estrema conseguenza della battered child syndrome (bambini che presentano lesioni interne, tagli, contusioni ustioni, bruciature; che vengono portati in ritardo in  pronto soccorso; per le ferite dei quali i genitori hanno una spiegazione plausibil; bambini che manifestano comportamenti devianti)  e sono madri, queste, spesso caratterizzate da disturbi di personalità, scarsa intelligenza, irritabilità, con famiglie numerose e spesso a loro volta vittime nell’infanzia di violenza.
Le madri che uccidono per brutalità (descritte da De Greef) di fronte al pianto del bambino.
Le madri passive e negligenti che uccidono i propri figli con il loro agire omissivo. La morte del bambino può derivare dalla mancanza di cure e di attenzioni da parte della madre che vive le esigenze del bambino come qualcosa di strano e di minaccioso. Sono madri spesso con problemi psicotici, che temono la fusione con il bambino e quindi l’annientamento.  I bambini in questi casi muoiono per scarsa alimentazione, per mancato trattamento delle malattie o per incidenti che paiono sfortunate fatalità.
Le madri che uccidono i figli non voluti: in questi casi il bambino evoca nella mente della madre il ricordo di momenti particolarmente difficili, piuttosto che solitudine o violenza e le madri hanno spesso personalità impulsive e antisociali e precedenti di abuso di sostanze.
Le madri che uccidono il figlio trasformandolo in capro espiatorio di tutte le loro frustrazioni: esse sono convinte che il figlio abbia deformato loro il corpo, che le abbia costrette a vivere dove non vogliono e con  chi non vogliono. Sono madri dalla personalità insicura e con tratti borderline, spesso con vere e proprie malattie mentali con elementi persecutori e paranoidei.
Madri che uccidono i loro figli per motivi di convenienza sociale: fortunatamente oggi sempre più rare, data anche la disponibilità di escamotage anche legali diversi, per esempi l’affidamento al padre in caso di divorzio o il parto in ospedale con l’abbandono del minore.
Madri che uccidono i loro figli per motivi ideologici: è il caso di quelle madri che appartengono a sette religiose che vietano le trasfusioni e il ricorso ai medicinali.
Madri che hanno subito violenza dalla propria madre: queste spostano la loro aggressività dalla propria madre cattiva al figlio. Sono donne che hanno sperimentato l’inadeguatezza materna, la mancanza di protezione, che per anni hanno vissuto frustrazioni continue e ripetute nella famiglia d’origine, per le quali la violenza è la quotidiana forma di risoluzione dei conflitti: tutto questo ha compromesso in loro la capacità di attivare una qualunque forma di attaccamento nei loro figli.
Madri che uccidono nell’ambito di psicopatologie puerperali: si tratta di madri che presentano tre diverse forme di depressione di diversa gravità: maternity blues, depressione post partum e psicosi puerperale.
Madri che vogliono uccidersi e che uccidono anche il figlio, madri che uccidono il figlio per non farlo soffrire, madri che uccidono il figlio perché pensano di salvarlo: tutte queste sono madri che presentano gravi problemi di depressione, ma non legata come lo era per le precedenti all’evento del parto. Sono cioè madri alle quali la diagnosi di depressione era stata fatta magari in tempi molto antecedenti la gravidanza, o che presentano depressione psicotica. In questi casi sono molto accentuate le tematiche di inadeguatezza nello svolgere il ruolo materno, di preoccupazioni irrealistiche sulla salute del figlio, rimuginii circa la possibilità di nuocergli. Particolare attenzione è prescritta per madri depresse che presentino ideazione suicidaria.  Queste possono, in preda ad un delirio per il quale sentono di dover sottrarre alla pena della vita anche le altre persone a lei più care,  uccidere il loro bambino prima di suicidarsi, come se il figlio non fosse un’entità autonoma con vissuti diversi dai suoi. Spesso in realtà dietro a questo gesto insistono anche motivi egoistici come la paura di affrontare la morte da sola o il pensare di essere indispensabile alla vita del figlio.
Il complesso di Medea è usato a indicare il caso in cui la madre uccide il o i propri figli per vendicarsi dell’abbandono, definitivo o meno, del coniuge e risolvere le derivanti tensioni. I figli diventano strumento per infliggere sofferenza all’altro e per attirarne le sue attenzioni. Si tratta di madri sempre affette da un certo delirio di onnipotenza nei confronti dei figli per il quale così come hanno dato loro la vita, si sentono in diritto di togliergliela, estromettendo definitivamente il padre  in un patologico desiderio di completo possesso.
La sindrome di Munchausen per procura invece individua un disturbo psichiatrico per il quale le madri affette lamentano a carico dei propri figli disturbi o sintomi fittizi, spesso incompatibili con patologie reali. In molti casi esse arrivano a procurare ai propri figli i sintomi somministrando loro sostanze ad hoc. Sono madri che paiono estremamente attente al figlio, fino all’eccesso, ed hanno una qualche conoscenza medica. In realtà queste madri hanno necessità di attenzione che ottengono attraverso il ruolo della madre gentile e affabile, tanto buona cui è capitata la disgrazia della strana malattia del figlio. Spesso la somministrazione di sostanze o le cure mediche stesse si rivelano mortali per i figli.



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sabato 15 ottobre 2016

ADOZIONI A DISTANZA



Adozione a distanza: si dovrebbe poter dire che è un sistema facile e limpido per aiutare un bambino e la sua famiglia in un Paese lontano. Ma non è sempre così. Basta guardarsi un po' attorno per scoprire le prime complicazioni, che iniziano col nome della proposta. C'è chi la chiama adozione a distanza, chi invece sostegno a distanza; c'è chi ti dice adotti un bambino a distanza (quando in realtà adotti la sua comunità) e chi ti offre direttamente l'adozione di una comunità di bambini; e c'è infine anche chi la chiama child link o child sponsorship.
 
Alla fine delle grandi guerre mondiali, si pensò di dover dare una mano concreta alle decine di migliaia di orfani e di bambini abbandonati, l'adozione a distanza fu una delle varie risposte umanitarie al loro dramma. In questo contesto nacquero le più grandi e importanti agenzie internazionali di adozione a distanza. Nel corso dei decenni questo gesto solidaristico è andato ampliandosi, coinvolgendo bambini che vivono con le proprie famiglie in comunità povere nei Paesi in via di sviluppo, oppure in istituti, in attesa di poter rientrare in famiglia. Il grande favore incontrato nei Paesi industrializzati, dove il numero di adesioni è sempre stato elevato, ha favorito la nascita di decine di enti che hanno avviato progetti di questo genere. In Italia, questa forma di solidarietà è stata lanciata alla fine degli anni '60 dal Pime, il Pontificio istituto delle Missioni estere, seguito da molte altre associazioni laiche e cattoliche e dalla apertura di filiali di agenzie internazionali.

Il sistema è semplice ed efficace: versi una piccola quota fissa mensile per un bambino, per la sua istruzione o per delle cure, e hai diritto ad avere regolarmente informazioni da e su di lui. La vera confusione è la giungla delle associazioni.

Il meccanismo è simile per tutte le associazioni: chi decide di aderire riceve una cartellina contenente la foto e i cenni biografici di un bambino, che possono essere più o meno dettagliati, e l'indirizzo per la corrispondenza. Ogni sei mesi circa si riceve dal bambino un messaggio o un disegno ed ogni due anni una sua foto recente. Si hanno anche notizie sul progetto. Il sostenitore può scrivere al bambino, inviare foto e cartoline illustrate e, con un preavviso di molti mesi, può andare a incontrarlo. Lo scambio epistolare è più o meno gratificante a seconda del tipo di associazione e di programma di intervento. Se abbiamo scelto bene l'ente e l'adozione a distanza è collocata in contesti adatti, nei quali i bambini sono beneficiari diretti del progetto, allora i messaggi saranno dettagliati e puntuali nel riferire i miglioramenti ed i progressi in campo scolastico o l'evolversi di problemi sanitari.

Il numero è in continua crescita: un'inchiesta del Corriere della Sera indicava nel 2001 la cifra di 800.000 adesioni, ma una ricerca della Doxa (2001-2002) forniva un numero ben più alto, si parlava addirittura di 2 milioni di Italiani, il 4% della popolazione, e c'è da credere che nel frattempo siano diventati ancora di più, sebbene stia crescendo in tanti il senso di insoddisfazione o di delusione per aver aderito a campagne pubblicitarie di enti che promettevano ciò che poi non hanno mantenuto. La cifra annuale in media versata da ogni donatore è di 250/300 euro. Significa che ogni anno il settore delle adozioni a distanza movimenta almeno 500/600 milioni di euro. Questo fiume di denaro viene canalizzato attraverso circa 150 associazioni e lascia il nostro Paese alla volta di centinaia di istituti e di progetti sparsi per il mondo in via di sviluppo.

Non tutti gli enti operano allo stesso modo con i fondi raccolti e qui cominciano le difficoltà per chi intende capire meglio come viene usato il suo contributo. Gli interventi sul campo attraverso l'adozione a distanza rientrano più o meno in tre categorie:
1) progetti che destinano i fondi ai singoli bambini adottati a distanza;
2) programmi di sviluppo a favore di tutti i bambini che vivono nella stessa comunità a cui appartengono quelli adottati a distanza, in modo da evitare discriminazioni;
3) progetti di cooperazione allo sviluppo a favore di tutta la comunità nel senso più ampio del termine, fino a toccare un'intera regione ed i suoi abitanti: in questo caso i bambini adottati a distanza non sono i beneficiari diretti dei contributi.



A partire dagli anni '90 l'adozione a distanza è al centro di polemiche e di critiche da parte di molti che non vedono di buon occhio alcuni suoi aspetti. Nel marzo del 1998, per esempio, un vero e proprio terremoto scosse a livello internazionale il "business" miliardario delle adozioni a distanza. Un giornale Usa, il Chicago Tribune, pubblicò un'inchiesta condotta su quattro grosse agenzie internazionali, rivelando come il loro messaggio pubblicitario non coincidesse affatto con il lavoro svolto sul campo. Gli annunci suggerivano la possibilità di avere un legame diretto tra un bambino e un donatore, attraverso l'adozione a distanza, in realtà l'inchiesta fece emergere come i bambini ricevessero ben pochi benefici dai contributi. Anzi, alcuni erano addirittura morti da tempo e il donatore ignaro continuava a versare il suo contributo. Insomma, in certi casi, la "comunicazione" non è proprio allineata al "prodotto".

Quali sono le critiche che alcuni muovono al sostegno a distanza? Prima di tutto costa molto la sua complessa amministrazione, la raccolta delle foto e dei messaggi, la posta ai donatori. Queste attività sono addebitate ai progetti, che si vedono così sottrarre risorse che potrebbero essere impiegate nel lavoro sul campo; sono costi peraltro che non appaiono mai in dettaglio nei resoconti forniti. Per limitare le spese talune agenzie utilizzano i membri stessi della comunità che vengono pagati una piccola somma di denaro per ogni messaggio raccolto con la conseguenza che a volte sono loro stessi a scriverlo, o a fare il disegno, se il bambino non è raggiungibile, per non perdere il magro guadagno.
Ciò accade soprattutto quando i bambini sono dispersi in una vasta area e il progetto interessa un'intera regione. I messaggi devono essere raccolti casa per casa, camminando ore a piedi. In più, talvolta i messaggi dei bambini vengono censurati durante la traduzione per eliminare riferimenti che possono creare problemi, per esempio critiche all'associazione stessa, commenti politici o richieste esplicite di soldi.

Sulla base di fatti come questi i detrattori della formula affermano che si ha accesso a una grande quantità di informazioni sulla crescita continua del fenomeno per quanto riguarda il numero di donatori e di soldi raccolti, ma come mai si hanno così poche notizie dal campo sull'impatto effettivo dei programmi di intervento? Si leggono solo "belle storie" fornite dalle stesse associazioni e testimonianze varie dei numerosi sostenitori che si sono recati in visita ai progetti e sul loro emozionante incontro con il bambino. Nulla più. Insomma per qualcuno l'adozione a distanza è "un ottimo mezzo per raccogliere fondi ma non è sempre vero che è anche il modo migliore per spenderli", come afferma il noto economista e scrittore britannico Peter Stalker. Più in generale i critici contestano quella che è una forma di aiuto assistenziale quando, affermano, bisognerebbe puntare a forme di cooperazione che favoriscano l'auto sviluppo.

Chi ne è a favore spiega invece che l'adozione a distanza è un legame che permette di avviare e gestire dei progetti a lungo termine, anche di 10 anni, e che i bambini ne beneficeranno in modo diretto (ad esempio attraverso la frequenza scolastica e l'assistenza sanitaria di base). E in più, che questa formula favorisce nel donatore la conoscenza approfondita delle tematiche relative allo sviluppo, proprio grazie alla relazione che si instaura tra il bambino ed il suo sostenitore: quest'ultimo viene a contatto con una realtà ben diversa da quella proposta dai media. È altrettanto vero che molti sostenitori non avrebbero accettato di finanziare un progetto senza questo potente coinvolgimento emotivo: è dunque una formula capace di catturare l'attenzione e la disponibilità di quanti, altrimenti, non aderirebbero a nessun progetto di solidarietà.

Fino ad oggi in Italia è prevalsa l'idea di non regolamentare il settore dall'alto, con controlli da parte dello Stato e leggi apposite. Si è preferito fare in modo che fossero gli stessi enti non profit, coordinandosi in consorzi e Forum, a stabilire principi e criteri di auto-regolamentazione. Per questo sono sorti vari coordinamenti, come La Gabbanella, che raccoglie una quarantina di associazioni. Si sono messi a punto vari strumenti di auto-controllo quali la Carta dei Principi per il Sad e la Carta dei Criteri di Qualità, e si è cercato più volte di effettuare un censimento degli enti per istituire una anagrafe delle associazioni che operano nel settore, sempre attraverso l'auto certificazione. Ad oggi si sono registrate all'anagrafe 91 associazioni.

Il Coresad risponde a chiare richieste che provengono dalla base dei donatori italiani. Lo dimostra una ricerca effettuata nel mese di giugno 2007 sull'orientamento degli italiani ed il sostegno a distanza. Il 97% degli italiani conosce il sostegno a distanza. Di questi, il 26% dice di aver adottato a distanza un bambino o di avere una pratica in corso, mentre il 71% afferma di non averlo mai fatto un po' per ragioni economiche ma anche per mancanza di fiducia nel settore e negli enti che vi operano. Il 50% dei diffidenti afferma di poterla avviare se venisse in qualche modo risposto esaurientemente alle richieste di trasparenza su come è utilizzato il denaro. Ben l'85% degli italiani è favorevole ad una legge dello Stato che regoli in modo chiaro ed inequivocabile il settore, limitando i rischi di frode.

Da una ricerca emerge un dato davvero inquietante: tra quanti hanno aderito a un sostegno a distanza ben il 15% non ricorda il nome dell'associazione con cui lo ha avviato. Il settore è talmente popolato da sigle, acronimi simili, denominazioni più o meno difficili da ricordare che alla fine si ha una gran confusione in testa.

La superficialità e la leggerezza con cui spesso i donatori aderiscono ad una campagna pubblicitaria potrebbero, in caso di scandalo, portarli a trarre errate conclusioni: "se una è scorretta, allora lo sono tutte!".  

La durata media di un sostegno nel nostro Paese è di tre anni e mezzo, le donazioni mensili ammontano a 23 euro. Il 71% dichiara di non avere intenzione di sostenere in futuro, prossimo o venturo, aluna adozione a distanza per mancanza di fiducia (48%), perché preferisce aiutare gli altri in maniera differente (38%), perché la reputa una truffa (7%).
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domenica 17 luglio 2016

I BIMBI E L'ISIS



Tra le file dell’Isis ci sono circa 31.000 donne incinte e almeno 50 bambini provenienti dal Regno Unito. Inoltre, solo negli ultimi sei mesi la propaganda del Califfato ha pubblicizzato 12 bambini-boia, oltre a uno che ha “solo” assistito a pubbliche esecuzioni. Sono i dati più impressionanti del report realizzato dalla Quilliam Foundation di Londra sul tema dei bambini nel Califfato.

Per i reclutatori i bambini sono una risorsa importante perché possono ricoprire diversi ruoli, combattenti e non, e diventano cruciali in tempo di guerra. “I bambini sono usati come soldati, scudi umani, messaggeri, spie e sorveglianti, senza citare i matrimoni forzati e gli stupri ai quali sono costrette le ragazze”. Inoltre, cinicamente, i bambini sono considerati più economici degli adulti perché mangiano meno e non hanno bisogno di molto denaro. La guerra in Siria ha avuto un effetto devastante sul sistema scolastico. Si calcola che alla fine di settembre del 2015 oltre un quarto delle scuole era distrutto e almeno 700.000 bambini erano senza scuola su 2 milioni di rifugiati. Complessivamente, però, sono 5 milioni i bambini coinvolti nella guerra. Un bacino nel quale l’Isis pesca facilmente: l’indottrinamento che comincia nelle proprie scuole, scrive la Quilliam Foundation, “si intensifica nei campi di addestramento dove ragazzini tra i 10 e i 15 anni sono istruiti sulla shari’a, desensibilizzati sulla violenza e vengono insegnati specifici mestieri per servire meglio lo Stato islamico e impugnare la bandiera della jihad”. Le ragazze imparano a cucinare, pulire e sostenere i loro mariti “così possono essere buone mogli e madri mentre i ragazzi vengono preparati al combattimento imparando materie militari”, come l’uso delle armi.

La prima cosa insegnata ai bambini è diventare delle spie per raccogliere informazioni tra i familiari, i vicini e gli amici che non rispettano le regole e le pratiche del Califfato. Se superano questa prova, vengono “promossi” a ruoli con maggiori responsabilità e “una volta che si trovano in prima linea e impegnati in battaglia con il nemico, sono allenati anche a spiarlo”. Viene spiegato che uccidere è normale e spesso alcuni di loro assistono alle esecuzioni impugnando coltelli di combattenti adulti mentre altri bambini le effettuano. Si insegna che è un privilegio e un onore. un video mostra sei ragazzini, ai quali è concesso di giustiziare prigionieri siriani, che festeggiano correndo in un labirinto dopo aver trovato e ucciso gli ostaggi. Non mancano, naturalmente, i baby kamikaze. Sono allenati anche a questo, tanto che qualche volta viene loro ordinato di indossare giubbotti esplosivi mentre svolgono altri lavori nel caso dovessero essere attaccati. Inoltre, imparano anche a guidare veicoli pieni di esplosivo. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, nel 2015 (fino a luglio) ci furono almeno 19 casi di bambini kamikaze.

Per le ragazze la vita è diversa ma certo non migliore. Viene loro data un’educazione domestica per soddisfare i bisogni dei mariti, crescendo i figli secondo l’ideologia dell’Isis e curando la loro casa. Conosciute come “fiori e perle del Califfato”, è noto che devono essere completamente vestite, vengono controllate e non possono lasciare la loro casa se non in circostanze eccezionali. Le regole di base sono drammaticamente semplici: costrette al matrimonio tra i 9 e i 16-17 anni, nello Stato islamico devono contribuire a costruire la comunità islamica, fare figli e mandarli in battaglia.

La denuncia contenuta in un rapporto del Comitato delle Nazioni Unite sui Diritti dell'Infanzia parla di bambini iracheni rapiti dai militanti dell'Isis vengono poi rivenduti come schiavi del sesso. Non solo, perché le barbarie dei terroristi non si fermano qui. I minori - secondo quanto denunciato - vengono anche brutalmente uccisi tramite crocifissione o sepolti vivi.



Uccidono, torturano, violentano e vendono come schiavi sessuali i bambini dei gruppi etnici minoritari in Iraq.

«Abbiamo dettagliate informazioni su bambini, specie con problemi mentali, che sono stati usati come kamikaze, probabilmente senza che loro capissero esattamente quello che stavano facendo» ha spiegato Renate Winter, uno dei 18 esperti incaricati dall'Onu di redigere il rapporto. «Ci sono video dove un gruppo di bambini di otto anni, o anche meno,  vengono istruiti per diventare soldati killer». «È un problema di portata molto vasta che riguarda principalmente le etnie minoritarie, yazide, cristiane o sciite, ma non solo. Anche i bambini sunniti possono essere usati come carne da macello».

I bambini delle etnie minoritarie, cui spesso è capitato di perdere i loro genitori a seguito della pulizia etnica realizzata dai miliziani, vengono spesso venduti nei mercati locali, con tanto di prezzo affisso sui vestiti. «Li trasformano un schiavi sessuali» ha aggiunto Winter che non ha fornito alcun dettaglio ulteriore. Ponendo poi una domanda chiave: «Abbiamo il dovere di proteggere questi bambini, ma come possiamo farlo in una situazione come questa?»

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lunedì 4 aprile 2016

LE MINE ANTIUOMO

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Le mine antiuomo, inventate e sviluppate durante le due guerre mondiali, erano all'inizio destinate a proteggere temporaneamente installazioni e obiettivi strategici. Le mine antiuomo possono causare vittime civili e continuare a danneggiare la popolazione locale anche molto tempo dopo la fine di un conflitto. Secondo le fonti che vanno contro l'impiego di questo tipo di ordigno oltre 35000 persone in Cambogia hanno sofferto di mutilazione o sono decedute a causa delle mine antiuomo molto tempo dopo la fine della Seconda Guerra d'Indocina e molte altre vittime ci sono state anche in Mozambico, Afghanistan, Angola, Cecenia, Kurdistan iracheno e ex-Iugoslavia. La rimozione delle mine terrestri è un'attività pericolosa, costosa e richiede tempi molto lunghi, e un terreno minato può risultare non percorribile e quindi non coltivabile o in generale non utilizzabile per decenni, specialmente nei paesi poveri che non hanno i mezzi per portare a termine lo sminamento. Oggi la maggior parte delle nazioni del mondo ha ufficialmente acconsentito a mettere al bando le mine antiuomo. Il record di un maggior numero di mine inesplose stimate appartiene ad Iraq e Afghanistan.

Esistono numerosi tipi di mine antiuomo: oggi se ne producono circa 340 tipi, sono molto sofisticate e poco costose; possono rimanere attive fino a quarant'anni. In media contengono circa 0,5 kg di esplosivo.

Le mine antiuomo sono attualmente messe al bando a livello mondiale dal Trattato di Ottawa del 1997 firmata da 138 paesi fra cui l'Italia. Tale convenzione entrata in vigore nel 1999 proibisce l'utilizzo, la vendita e la produzione di mine antiuomo e prevede che i paesi firmatari si impegnino in 4 anni a distruggere il loro stock di mine ed a bonificare le aree minate entro 10 km dalle loro frontiere. I paesi che non hanno firmato la convenzione sono: la Cina, gli Stati Uniti, la Russia, Cuba e Israele e Corea del Nord.

Ogni 20 minuti in qualche parte del mondo un essere umano salta su una mina, le mine antiuomo hanno causato 5.197 morti nel 2011, un terzo dei quali bambini.

Quando non uccidono, straziano corpi e anime. Invalidano per sempre, con costi enormi anche per la collettività. Le mine antiuomo continuano a mietere vittime innocenti. Perché sono l’arma più «abominevole e barbara mai concepita». Lo diceva già Kofi Annan. Tempo addietro si era accesa una fiammella di speranza. Morti e feriti sembravano in calo. E l’obiettivo di un mondo libero dalle mine nel 2025 non pareva così irraggiungibile. Ma i dati non mentono mai. Quando fu firmato il trattato in Canada, si contavano ancora 9mila vittime l’anno. L’interdizione e gli sforzi degli operatori di pace stavano garantendo ottimi risultati. Così fino al 2013. Ma da allora in poi il trend si è purtroppo invertito. Le vittime hanno ripreso a crescere, con un’iperbole nel 2014. Morti e feriti sono aumentati del 12%. Un dato 'inquietante', forse il più tragico del rapporto 2015 dell’Osservatorio sulle mine. Gli esperti che l’hanno redatto appartengono all’organizzazione non governativa Norwegian People’s Aid, un gigante mondiale della bonifica umanitaria, insieme ad Halo Trust e al Mines Advisory Group (MAG). Dalle 300 pagine del rapporto, emerge una mappa dai confini precisi. Vi spiccano dieci paesi, i più pericolosi e mortali a livello mondiale. Sono le macro-tessere di un mosaico infernale, intessuto di crisi e guerre, alcune semi-permanenti, altre dimenticate.

L'Afghanistan ha il triste primato. Le mine colpiscono qui più che altrove. Seguono la Colombia, l’Angola, la Bosnia, l’ex-Birmania, il Pakistan tribale, la Siria tragica, la Cambogia senza volto e il Mali del jihadismo rinascente. Molte delle campagne cambogiane sono tuttora minate. I contadini non possono tornare alle terre. Coltivarle è impossibile. «Troppo pericoloso», dicono gli esperti. Le mine le infestano. Sono un dramma umanitario che persiste, lontano dalle guerre, a decenni di distanza. Rallentano il ritorno dei profughi e degli sfollati. Distruggono le attività economiche. Ce ne sono nel mondo almeno 100 milioni. Pensate: dal 1945 sono state inventate 600 tipologie di mine terrestri. L’Italia era un grande produttore. Oggi non più, fortunatamente. Le sue mine ad 'azione estesa' hanno segnato una triste pagina dell’industria nazionale: le valmara-59 e le valmara-69 sono state utilizzate copiose dagli iracheni, per minare il deserto del Kuwait. Erano gli anni della prima guerra del Golfo. C’è un bellissimo libro di Gino Strada, che andrebbe letto e diffuso, per non dimenticare. Pappagalli Verdi racconta delle nostre mine antiuomo, impiegate dai mujhaeddin afghani. L’Afghanistan è pieno zeppo di mine: una, tremenda, è la sovietica Pfm-1. Ne avrete sentito già parlare: si chiama anche 'mina a farfalla', per la forma caratteristica, molto attraente per i bambini che la scambiano per un giocattolo. È stata prodotta nelle varie sfumature di marrone, verde e bianco.
Armi terribilmente semplici, fabbricate con pochi materiali: un involucro, una carica esplosiva e un congegno di accensione. È sufficiente una minima dimestichezza nell’uso degli esplosivi. Il web fornisce perfino manuali per realizzare ordigni anti-uomo, tanto rudimentali quanto esiziali. Tutti dal costo infimo. Il prezzo è garanzia di proliferazione: 3 dollari per le mine meno sofisticate e 10-15 per le più dirompenti. Molte componenti si trovano sul mercato civile. Altrimenti c’è il mercato nero delle armi, dove imperano le mine cinesi ed ex-sovietiche. Le più diffuse appartengono alla famiglia Mrud o Mon-50, copiate dalla statunitense M-18 Claymore. Costruite nei Paesi del blocco comunista, sono state impiegate massicciamente in tutto il mondo. Ne vengono continuamente rinvenute in Afghanistan, Bosnia, Croazia e Kosovo. Alcune varianti uccidono nel raggio di 200 metri, investendo chiunque vi si aggiri. Sono sistemi micidiali, dalla letalità intrinseca e permanente. Hanno una longevità di decine di anni. Bonificarle costa. Chiede un’infinità di tempo, perché le tecnologie laser e nucleari non sono ancora del tutto mature. Guerriglieri e produttori ci hanno messo del loro. Usano involucri sofisticati. Gli ordigni sono diventati impermeabili agli agenti atmosferici e semi-invisibili agli strumenti elettronici di ricerca. Non esistono più i contenitori di legno e di ferro, come ai tempi della Seconda guerra mondiale.



La tecnologia delle mine si è evoluta. La bachelite ha ceduto il posto alla resina sintetica, non aggredibile dai componenti chimici del terreno e sfuggente agli occhi elettronici degli sminatori. Quando va bene, si riesce a bonificare non più di 15-20 metri quadrati al giorno. E i costi lievitano: per ogni euro speso in un campo minato ne occorrono 20 volte tanto nell’opera di sminamento.
Si muore di mine nel Donbass, nonostante la tregua. Sorte simile tocca al disperato popolo saharawi, dai più dimenticato. L’India, la Birmania e il Pakistan ne fabbricano a iosa. I confini ne sono disseminati. E non ci sono dati certi sui conflitti in Libia, Mali, Yemen, Siria e Iraq. Daesh usa mine ed esplosivi tanto negli assedi offensivi, quanto nelle fortificazioni difensive. «Quel che abbiamo visto a Kobane, supera di gran lunga i nostri peggiori incubi», racconta un operatore di Handicap International. «L’80% della città è in rovina e ci sono obici inesplosi ovunque». Le mine non fanno notizia, ma hanno ucciso e mutilato 100mila individui negli ultimi 15 anni; 3.679 nel solo 2014.

1.243 sono i morti dell’anno scorso. Gli altri sono feriti. Di una guerra insensata. Quando esplode, una mina scatena un’onda d’urto di seimila metri al secondo. Tutto intorno la temperatura schizza fino a 4mila gradi. Il rumore è assordante, intollerabile per l’orecchio umano. Il piede investito dall’esplosione si sbriciola, insieme alle ossa della gamba. Le schegge colpiscono il resto del corpo, deturpando perfino il volto e gli occhi. Mutilano e causano emorragie. Fanno più di 10 vittime al giorno, in massima parte civili (80%) e bambini (39%). E c’è un grido d’allarme. Guerriglieri e jihadisti stanno facendo un uso sempre più massiccio di ordigni esplosivi artigianali: i famigerati Ied, assimilabili in tutto alle mine antiuomo, come le bombe cluster. Dal 1965 ad oggi sono state usate 460 milioni di sub-munizioni. Ne persistono inesplose 132 milioni, sparse qua e là, come una spada di Damocle sulle generazioni future. Individuarle è estremamente complicato, anche per il personale esperto. I più ottimisti prevedono decenni di lavoro. Forse ci vorrà anche di più. Ma non bisogna perdere la speranza. Lo insegna il Mozambico, che si è dichiarato libero dalle mine e dagli ordigni inesplosi il 17 settembre scorso.

Poche case che affacciano su vialetti di fango e campi incolti. Questo è Syze, villaggio dell’Ucraina orientale stretto tra il confine russo e la linea del fronte con la cosidetta Repubblica popolare di Luhansk. Per Kiev, un avamposto di importanza strategica.
Le mine anti-uomo, circondano letteralmente il centro abitato.
Il conflitto separatista in questa regione del Paese ha fatto fuggire quasi tutti gli abitanti di Syze. Ne restano 13, se si prendono per buoni i dati dell’Agenzia Onu per i Rifugiati.
E sono loro a convivere con la minaccia delle mine anti-uomo.
Il Comitato internazionale della Croce Rossa ritiene che questi ordigni abbiano ucciso almeno 260 persone nel Donbas, tra la metà del 2014 e la fine del 2015. I feriti superano i 480.
I pochi abitanti rimasti sono spesso le fonti migliori per localizzare i campi minati.
“Qui si può camminare solo sul sentiero – spiega Alexander – non è prudente scartare né a destra né a sinistra, il bosco e i campi sono contaminati”.
Alexander è tra quanti auspicano una divisione federale dell’Ucraina. “Le nostre tasse devono restare qui – dice – e non andare a Kiev”.
Da queste parti sono in tanti a pensarla come lui, compresi i separatisti che controllano Luhansk e Donetsk.
Il conflitto armato ha aumentato l’isolamento di queste località dal resto del Paese. Ora a Syze si sopravvive grazie all’UNHCR, che distribuisce ogni genere di aiuti.
La presenza di campi minati ostacola tutte le normali attività. Solo le forze ucraine sono abilitate a rimuovere gli ordigni. Ma per questo servono la pace e un lavoro meticoloso.
“Sono passati oltre cinquant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale e ogni tanto continuano a saltare fuori delle mine di quell’epoca – dice un’infermiera del luogo – Queste altre non saranno rimosse a breve. Resteranno qui ancora per molto tempo”.
Nell’attesa, diverse organizzazioni internazionali sono attive nella zona per disegnare delle mappe dei campi minati. Ma anche per istruire gli abitanti sui comportamenti da assumere al fine di minimizzare i rischi di incappare su un ordigno inesploso.


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domenica 3 aprile 2016

I BIMBI ROM E LA SCUOLA

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Una realtà ancora più amara di quella che raccontano le statistiche ufficiali. Quella dei rom bulgari è una comunità abbastanza inserita, più integrata di altre. Se nel Paese d’origine il 40% di loro non lavorava, una volta arrivati in Italia la percentuale crolla al 6%. Lavorano tutti. Magari arrangiandosi, quasi sempre in nero, a volte in settori border line. Ma comunque lavorano. Solo il 20% dei bambini è iscritto a scuola, dicono i dati raccolti da una ricerca. Sono ancora meno quelli che la scuola la frequentano, scendiamo al 10%. E pure questa è una percentuale generosa perché, anche per chi frequenta, spesso sul registro ci sono più assenze che presenze. Un risultato molto peggiore di quello registrato nell’ultimo rapporto del ministero dell’Istruzione sulla cosiddetta dispersione scolastica. Dicono quelle tabelle che nella comunità rom la frequenza è al 30%.
Ma forse, quando dai fogli excel si passa alle interviste faccia a faccia, la situazione cambia. Di solito in peggio.
Nelle grandi città c’è anche un problema logistico, conta parecchio la difficoltà di raggiungere la scuola dai posti dove vivono, quasi sempre ai margini, senza trasporti. Ma nei paesi più piccoli c’è anche una scarsa volontà di reale integrazione e una scuola che non va a cercare davvero i suoi studenti. Lo dice anche quel 10% di genitori che viene contattato per iscrivere i figli a scuola ma poi non ce li manda. Come se le iscrizioni servissero più che altro a giustificare gli organici, a mantenere il posto dell’insegnante.

Quanti bambini rom frequentano le scuole dell'obbligo a Roma? Quanti di loro riescono a concludere gli studi? Finora nessuno ha avuto un'idea chiara di ciò che accade nelle scuole romane.

Un'Associazione ha provato a far luce sulla situazione attraverso il monitoraggio del percorso scolastico di un gruppo di 55 bambini rom residenti nel “villaggio attrezzato” di via di Salone, situato all'estrema periferia orientale della capitale ed inaugurato nel 2006, a seguito dello sgombero forzato del campo 'tollerato' di Casilino 900.

Lo sgombero forzato di quest'ultimo ha comportato non pochi disagi alla vita di centinaia di persone. In particolare, l'allontanamento dal campo non ha più permesso ai genitori di accompagnare personalmente i figli a scuola, interrompendo così i rapporti, costruiti negli anni, con gli insegnanti e con i genitori degli altri alunni.

Durante l'anno scolastico 2010-2011 i 55 bambini hanno usufruito del servizio della linea 40, messo a disposizione dal Comune. Nel suo tragitto la linea 40 accompagna i bambini in diverse scuole le cui distanze variano dai 13 ai 16 km. La conseguenza è che la maggior parte dei bambini trasportati giunge a scuola con un'ora, a volte due ore, di ritardo. Allo stesso modo all'uscita è necessario prelevarli in anticipo perché viceversa la permanenza oltre l'orario consentito potrebbe dar luogo ad abbandono di minore.

La somma dei ritardi giornalieri produce a fine anno un'assenza per ogni minore di circa un mese. Solo nel mese di gennaio 2011 l'Associazione ha monitorato che dei 55 minori che utilizzano la linea 40, solo 11 hanno avuto la frequenza superiore al 75% così come sancito dalla legge, e nessuno di loro ha frequentato i 16 giorni previsti dal calendario scolastico per quel mese.

Prendendo il caso di una scuola elementare di un quartiere romano frequentata da 21 bambini rom, la maggior parte frequenta solo un giorno a settimana, qualcuno arriva a quattro volte a settimana, ma nessuno frequenta ogni giorno. Le possibilità per loro di arrivare al diploma sono scarsissime, per non parlare dell'università. Nessuno di loro diventerà mai un medico, un avvocato o un ingegnere.

In un documento del 7 aprile 2011, la Commissione Europea ha stimato che solo il 43% dei bambini rom completa la scuola primaria, rispetto a una media europea del 97,5%. Solo il 10% quella secondaria. Secondo la Commissione “gli stati membri dovrebbero garantire che tutti i bambini rom, sedentari o no, abbiano accesso a un'istruzione di qualità e non siano soggetti a discriminazioni o segregazioni”.

Godono di un diverso livello di apprendimento: i bambini rom a causa del disagio sociale dal quale provengono hanno lacune didattiche che spingono i docenti ad impegnarli in attività parallele. E poi, naturalmente, c'è il problema dell'emarginazione sociale: i bambini rom all'interno della classe risultano spesso emarginati, vi sono addirittura classi di 'sostegno' organizzate durante l'orario scolastico composte solo da alunni rom e con diversa età anagrafica.

Storicamente i provvedimenti diretti solamente alle comunità rom e sinti, anche se presentati come azioni di discriminazione positiva, hanno di fatto prodotto politiche nazionali e locali discriminatorie e penalizzanti. Questo perché sono spesso ideate e attuate con scarsa comprensione delle condizioni socio-culturali, con risorse finanziarie non sufficienti e con una organizzazione inadeguata, condizioni dunque che producono un risultato opposto a quello per cui sono create, ossia un aumento della condizione di emarginazione.

Le caratteristiche di un alunno nomade sono da ascriversi alle sue abitudini e al suo ambiente. Egli è:
un bambino libero, perché ha intorno a sé spazi ampi e poche regole a cui sottostare;
autosufficiente, perché ha imparato presto a provvedere a se stesso, ed è quindi, già adulto capace di inventare strategie per la sopravvivenza (ne consegue la brevità del periodo infantile - fantastico);
bisognoso di affetto, per il precoce abbandono a sé stesso da parte degli adulti. Quando scende dalle braccia della madre, il bambino spesso resta affidato a sorelle di poco più grandi;
timoroso ed ansioso verso i non zingari, da cui è abituato a difendersi.
Inoltre, in genere in casa riceve una continua reinterpretazione di quanto apprende fuori.

Le difficoltà che un bambino zingaro incontra nell'ambiente scolastico derivano proprio dalle sue peculiarità:
il suo essere libero in ampi spazi all'aperto lo fa sentire costretto nella struttura scolastica (intesa come edificio, banchi, cattedre...); egli inoltre non è abituato a ricevere ordini e ad accettare regole delle quali non capisce e non accetta il valore;
la sua autosufficienza lo porta da una parte ad avere maggiore stimolo nella creazione dei giochi; nel contempo, gli sono negati gli stimoli culturali e verbali, che hanno i suoi coetanei;
è bisognoso di affetto, ma, al tempo stesso, si rivela estremamente timido ed introverso;
il suo timore verso i non zingari lo induce ad essere reticente nel comunicare le proprie esperienze di vita;
l' uso della lingua materna gli crea maggiori difficoltà nell'ambito linguistico espressivo per incapacità di trasposizione e ricezione della lingua italiana;
presenta labilità di attenzione e memoria.


Lo scolaro nomade rivela notevoli capacità nelle attività espressive, motorie, grafico-pittoriche, musicali e pratico manuali.
E' particolarmente abile nelle operazioni aritmetiche concrete.
La sua accettazione, nei confronti della scuola, dipende dal modo in cui l'ambiente scolastico lo accoglie. Ciò non significa solo che egli deve sentirsi tranquillo e ben accetto (cosa essenziale) ma che deve essere messo in grado di superare le grosse difficoltà di apprendimento per arrivare a dei risultati concreti di alfabetizzazione, che è ciò che lui stesso e la sua famiglia si aspettano dalla scuola.

Dalle indagini svolte è evidente l'alto tasso dell'evasione dell'obbligo scolastico. Inoltre, degli alunni iscritti, la maggior parte sono Sinti o Rom italiani; gli slavi, specie quelli di recente immigrazione, sono quasi del tutto inadempienti.

Con questi gruppi si è lavorato molto in alcune città dove è più attiva l'azione di stimolo del volontariato nei confronti dei pubblici poteri (Roma, Milano, Torino, Emilia, Sardegna).

A Roma, negli anni scorsi è state organizzato con l'aiuto della Regione, un servizio di collegamento fra campi sosta e scuole che prevedeva la sensibilizzazione dei genitori zingari, le pratiche di iscrizione, il trasporto, i rapporti con la scuola, il doposcuola al campo. Durante l'estate, l'attività continuava nei centri estivi per i piccoli Rom, organizzati dal Comune.

Non sempre una buona frequenza porta a risultati positivi e quindi all'ammissione dei bambini alla classe successiva, anche alle elementari.
Ciò a volte dipende dal fatto che le famiglie partono per gli spostamenti estivi in aprile-maggio, facendo perdere al bambino proprio il periodo in cui avviene la valutazione finale. La scuola considera l'alunno come trasferito e non lo valuta. La famiglia non lo iscrive ad un'altra scuola, perché si sposta frequentemente ed ha bisogno di bambini per il lavoro. Quindi nessuno esprime il giudizio finale.
Non vedendosi richiedere il nulla osta al trasferimento, le scuole di provenienza per un certo periodo, hanno rinviato i bambini alle prove suppletive, che si tengono entro la fine di agosto. Ma questo è ancora periodo di viaggio per i nomadi, che rientrano alla base invernale verso la fine di ottobre.

Durante la ricreazione i bambini Rom vengono isolati dagli altri bambini, forte è il loro senso di estraneità. Spesso piangono, hanno paura degli addetti ai servizi sociali, pensano che li portino via (cosa che accade non di rado).

Dal punto di vista dell’apprendimento, hanno difficoltà con la lingua italiana. Per la mancanza di spazio e di luce nelle abitazioni dei campi, i quaderni vengono lasciati a scuola, così anche i più svelti accumulano un gap nell’apprendimento con gli alunni italiani. Per evitare bocciature alle scuole elementari, gli alunni Rom vengono promossi con livelli minimi di alfabetizzazione. Alle medie è un disastro. Il gap diventa insormontabile. La difficoltà di comprendere il linguaggio formalizzato delle lezioni e dei libri di testo, determina la decimazione delle presenze degli scolari maschi, mentre le femmine già in età matrimoniale si perdono. I maschi che continuano la scuola, si assuefanno alla marginalità scolastica, in attesa di passare alle scuole serali CTP prima dei diciotto anni, tollerati perché Rom. I CTP organizzano corsi di istruzione per immigrati. Qui si generano tra immigrati e Rom conflitti razziali. La commistione con africani, ad esempio, rende i Rom ostili (“i negri fanno schifo”); mentre gli africani considerano i Rom, “sporchi zingari”. Molto spesso questa conflittualità porta all’abbandono scolastico da parte dei Rom.

Per quanto riguarda l’integrazione dei Rom nella società maggioritaria dobbiamo considerare la specificità della cultura Rom fondamentalmente di tipo orale. I valori e i comportamenti di ruolo vengono trasmessi per contagio psicologico e apprendimento imitativo diretto, tanto più rigido, quanto più separato, chiuso e autoreferente è il contesto. Bisogna tener conto che una parte consistente, se non la maggior parte, della popolazione dei campi non è alfabetizzata.L’esperienza degli operatori volontari all’interno dei “Campi” Rom mette in luce una delle maggiori difficoltà di inserimento dei Rom nella società maggioritaria.La cultura orale non contempla il saper leggere e scrivere. Ciò comporta l’impossibilità di comprendere le normative e, più semplicemente, le indicazioni scritte, che sono alla base del sistema sociale della società maggioritaria. Negli uffici delle amministrazioni locali, nelle ASL, negli ospedali, nelle scuole, per non parlare dei tribunali, le difficoltà di comunicazione dei Rom sono all’ordine del giorno. Non solo, il non saper leggere rende difficile ai Rom sapersi destreggiare nella toponomastica urbana. La mancanza di alfabetizzazione è tanto più grave se consideriamo, l’altissima mortalità scolastica dei minori Rom i cui genitori non comprendono l’importanza dell’obbligo scolastico.

Il campo, così, come microcosmo autoreferente e separato, li ri-inghiottisce, chiude loro la possibilità di aprirsi a esperienze innovative e conduce alla assunzione di modelli ripetitivi, non di rado coniugati con la criminalità. Non è peregrina l’ipotesi per cui il campo sia funzionale a generare una connivenza omertosa per le attività illegali.

Sfera pubblica e società civile: difficoltà di inclusione. Per quanto attiene i processi di integrazione e inclusione nella società maggioritaria, nonostante le dichiarazioni di buona volontà da parte delle istituzioni pubbliche sollecitate dall’Unione Europea  non è ancora superato l’approccio alla cosiddetta “emergenza nomadi” in un’ottica securitaria. Basti considerare l’accelerazione degli sgomberi, senza fornire alternative degne di una società civile.

Per comprendere la situazione dei minori, le abitudini e gli stili di vita della popolazione Rom bisogna partire dal contesto in cui si trova o è costretta a vivere la popolazione Rom: i cosiddetti “campi nomadi”, benché i Rom siano stanziali da decenni. Il campo è un microcosmo concluso e conchiuso, un sistema sociale totale autoreferente. L’autoreferenzialità è mantenuta e accentuata dal fatto che i campi sono separati, lontani dalla società maggioritaria, sia in senso sociale che urbanistico. La segregazione in spazi circoscritti e controllati ne fanno dei ghetti degradati, dove gli abitanti vengono discriminati su base etnica e in questa modalità vengono schedati con fotosegnaletiche e impronte digitali estese ai minori quattordicenni, non di rado ai più giovani, attraverso sistemi polizieschi pensati per la criminalità organizzata. Ecco di seguito una testimonianza di un Rom da un campo di Milano: “Sono arrivati alle cinque e mezzo, hanno circondato il campo, lo hanno illuminato con le cellule fotoelettriche, sono venuti casa per casa, roulotte per roulotte, ci hanno fatto uscire, ci hanno buttato fuori, hanno fotografato le case e poi i nostri documenti. Hanno finito intorno alle sette e mezzo. Io credo che tutti debbano sapere e capire cosa sta succedendo: sono italiano, sono cristiano e sono stato schedato in base alla mia razza”.(da Figli dei “campi” Ass. 21 luglio, 2014)

Ora dobbiamo chiederci che percezione possono avere i minori, se non di paura, senso di impotenza, estraneità e ostilità nei confronti del mondo della società maggioritaria? Se volgiamo lo sguardo alla vita nei “campi”, sorprende chi entra, l’intensità della vita relazionale tra gli abitanti. Di fatto, non c’è distinzione netta tra la sfera privata e la sfera sociale nella cultura e nei modi di vita Rom. Nei campi, intensa è la partecipazione alle varie attività della vita quotidiana, la maggior parte delle quali vengono svolte all’aperto a cominciare dalla preparazione dei pasti; anche per l’angustia degli spazi abitativi interni: roulottes, continers e baracche. I bambini percepiti come la maggiore ricchezza, vivono insieme in uno spazio comunitario, liberi di scorrazzare per i campi dove vengono considerati figli di tutti. Se i genitori vanno in carcere, i figli vengono assistiti dalle altre famiglie.



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domenica 6 dicembre 2015

SAN NICOLA



La sera del 5 dicembre i bambini dell'Italia Settentrionale mettono sul davanzale calze e scarpe. Nelle strade, le vetrine piene di giocattoli, libri, dolci, splendono di addobbi... Nella notte "San Nicolò" distribuirà tutte quelle belle cose nelle calzature dei bambini buoni, come fa la Befana a gennaio. San Nicola, si racconta, venne a sapere che tre povere bambine della sua città, sarebbero state vendute come schiave, perché la famiglia non poteva assegnare loro una dote con la quale, divenute grandi, si sarebbero potute sposare. Allora il vescovo andò solo nella notte, fino alla casa delle povere bambine e posò sulla finestra tre sacchetti pieni d'oro.

Il suo amore per i piccoli é ricordato anche da un miracolo: resuscitò tre bambini durante le persecuzioni degli ariani.

San Nicola di Bari, noto anche come san Nicola di Myra, san Nicola dei Lorenesi, san Nicola Magno, san Niccolò e san Nicolò nacque probabilmente a Pàtara di Licia, fra il 261 ed il 280, da Epifanio e Giovanna che erano cristiani e benestanti. Cresciuto in un ambiente di fede cristiana, perse, secondo le fonti più diffuse, prematuramente i genitori a causa della peste. Divenne così erede di un ricco patrimonio che distribuì tra i poveri e perciò ricordato come grande benefattore.

In seguito lasciò la sua città natale e si trasferì a Myra dove venne ordinato sacerdote. Alla morte del vescovo metropolita di Myra, venne acclamato dal popolo come nuovo vescovo. Imprigionato ed esiliato nel 305 durante la persecuzione di Diocleziano, fu poi liberato da Costantino nel 313 e riprese l'attività apostolica.

Non è certo che sia stato uno dei 318 partecipanti al Concilio di Nicea del 325: secondo la tradizione, comunque, durante il concilio avrebbe condannato duramente l'Arianesimo, difendendo l'ortodossia, ed in un momento d'impeto avrebbe preso a schiaffi Ario. Gli scritti di Andrea di Creta e di Giovanni Damasceno confermerebbero la sua fede radicata nei principi dell'ortodossia cattolica. Ottenne dei rifornimenti durante una carestia a Myra e la riduzione delle imposte dall'Imperatore.

San Nicola è uno dei santi più venerati ed amati al mondo. Egli è certamente una delle figure più grandi nel campo dell’agiografia. Tra il X e il XIII secolo non è facile trovare santi che possano reggere il confronto con lui quanto a universalità e vivacità di culto.
Ogni popolo lo ha fatto proprio, vedendolo sotto una luce diversa, pur conservandogli le caratteristiche fondamentali, prima fra tutte quella di difensore dei deboli e di coloro che subiscono ingiustizie. Egli è anche il protettore delle fanciulle che si avviano al matrimonio e dei marinai, mentre l’ancor più celebre suo patrocinio sui bambini è noto soprattutto in Occidente.

Prima dell’VIII secolo nessun testo parla del luogo di nascita di Nicola. Tutti fanno riferimento al suo episcopato nella sede di Myra, che appare così come la città di San Nicola. Il primo a parlarne è Michele Archimandrita verso il 710 d. C., indicando in Patara la città natale del futuro grande vescovo. Il modo semplice e sicuro con cui riporta la notizia induce a credere che la tradizione orale al riguardo fosse molto solida.
Di Patara parla anche il patriarca Metodio nel testo dedicato a Teodoro e ne parla il Metafraste. La notizia pertanto può essere accolta con elevato grado di probabilità.

Di S. Nicola di Bari, si sa ben poco della sua infanzia. Le fonti più antiche non ne fanno parola. Il primo a parlarne è nell’VIII secolo un monaco greco (Michele Archimandrita), il quale, spinto anche dall’intento edificante, scrive  che Nicola sin dal grembo materno era destinato a santificarsi. Sin dall’infanzia dunque avrebbe cercato di mettere in pratica le norme che la Chiesa suggerisce a chi si avvia alla vita religiosa.
Nicola nacque nell’Asia Minore, quando questa terra, prima di essere occupata dai Turchi, era di cultura e lingua greca. La grande venerazione che nutrono i russi verso di lui ha indotto alcuni in errore, affermando che sarebbe nato in Russia. Non è mancato chi lo facesse nascere nell’Africa, a motivo del fatto che a Bari si venerano alcune immagini col volto del Santo piuttosto scuro (“S. Nicola nero”). In realtà, Nicola nacque intorno all’anno 260 dopo Cristo a Patara, importante città marittima della Licia, penisola della costa meridionale dell’Asia Minore (oggi Turchia). Nel porto di questa città aveva fatto scalo anche S. Paolo in uno dei suoi viaggi.
Il fatto che l’Asia Minore fosse di lingua e cultura greca, sia pure all’interno dell’Impero Romano, fa sì che Nicola possa essere considerato “greco”. Il suo nome, Nikòlaos, significa popolo vittorioso, e, come si vedrà, il popolo avrà uno spazio notevole nella sua vita.
Da alcuni episodi (dote alle fanciulle, elezione episcopale) si potrebbe dedurre che i genitori, di cui non si conoscono i nomi, fossero benestanti, se non proprio aristocratici. In alcune Vite essi vengono chiamati Epifanio e Nonna (talvolta Teofane e Giovanna), ma questi, come vari altri episodi, si riferiscono ad un monaco Nicola vissuto (480-556) due secoli dopo nella stessa regione. Questo secondo Nicola, nato a Farroa, divenne superiore del monastero di Sion e poi vescovo di Pinara (onde è designato anche come Sionita o di Pinara).
Amante del digiuno e della penitenza, quando era ancora in fasce, Nicola era già osservante delle regole relative al digiuno settimanale, che la Chiesa aveva fissato al mercoledì ed al venerdì. Il suddetto monaco greco narra che il bimbo succhiava normalmente il latte dal seno materno, ma che il mercoledì ed il venerdì, proprio per osservare il digiuno, lo faceva soltanto una volta nella giornata.
Man mano che il bimbo cresceva, dava segni di attaccamento alle virtù, specialmente alla virtù della carità. Egli rifuggiva dai giochi frivoli dei bambini e dei ragazzi, per vivere più rigorosamente i consigli evangelici. Molto sensibile era anche nella virtù della castità, per cui, laddove non era necessario, evitava di trascorrere il tempo con bambine e fanciulle.

Carità e castità sono le due virtù che fanno da sfondo ad uno egli episodi più celebri della sua vita. Anzi, a questo episodio si sono ispirati gli artisti, specialmente occidentali, per individuare il simbolo che caratterizza il nostro Santo. Quando si vede, infatti, una statua o un quadro raffigurante un santo vescovo dell’antichità è facile sbagliare sul chi sia quel santo (Biagio, Basilio, Gregorio, Ambrogio, Agostino, e così via). Ed effettivamente anche in libri di alta qualità artistica si riscontrano spesso di questi errori. Il devoto di S. Nicola  ha però un segno infallibile per capire se si tratta di S. Nicola o di uno fra questi altri santi. Un vescovo che ha in mano o ai suoi piedi tre palle d’oro è sicuramente S. Nicola, e non può essere in alcun modo un altro Santo. Le tre palle d’oro sono infatti una deformazione artistica dei sacchetti pieni di monete d’oro, che sono al centro di questa storia.
L’episodio si svolge a Mira, città marittima ad un centinaio di chilometri da Patara, ove probabilmente Nicola con i suoi genitori si era trasferito. Secondo alcune versioni i suoi genitori erano morti ed egli era divenuto un giovane pieno di speranze e di mezzi. Secondo altre, i genitori erano ancora vivi e vegeti e Nicola dipendeva ancora da loro. Quale che sia la verità, alle sue orecchie giunse voce che una famiglia stava attraversando un brutto momento. Un signore, caduto in grave miseria, disperando di poter offrire alle figlie un decoroso matrimonio, aveva loro insinuato l’idea di prostituirsi allo scopo di raccogliere il denaro sufficiente al matrimonio.
Alla notizia di un tale proposito, Nicola decise di intervenire, e di farlo secondo il consiglio evangelico: non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra. In altre parole, voleva fare un’opera di carità, senza che la gente lo notasse e lo ammirasse. La sua virtù doveva essere nota solo a Dio, e non agli uomini, in quanto se fosse emersa e avesse avuto gli onori degli uomini, avrebbe perduto il merito della sua azione. Decise perciò di agire di notte. Avvolte delle monete d’oro in un panno, uscì di casa e raggiunse la dimora delle infelici fanciulle. Avvicinatosi alla finestra, passò la mano attraverso l’inferriata e lasciò cadere il sacchetto all’interno. Il rumore prese di sorpresa il padre delle fanciulle, che raccolse il denaro e con esso organizzò il matrimonio della figlia maggiore.
Vedendo che il padre aveva utilizzato bene il denaro da lui elargito, Nicola volle ripetere il gesto. Si può ben immaginare la gioia che riempì il cuore del padre delle fanciulle. Preso dalla curiosità aveva cercato invano, uscendo dalla casa, di individuare il benefattore. Con le monete d’oro, trovate nel sacchetto che Nicola aveva gettato attraverso la finestra, poté fare realizzare il sogno della seconda figlia di contrarre un felice matrimonio.
Intuendo la possibilità di un terzo gesto di carità, nei giorni successivi il padre cercò di dormire con un occhio solo. Non voleva che colui che aveva salvato il suo onore restasse per lui un perfetto sconosciuto. Una notte, mentre ancora si sforzava di rimanere sveglio, ecco il rumore del terzo sacchetto che, cadendo a terra, faceva il classico rumore tintinnante delle monete. Nonostante che il giovane si allontanasse rapidamente, il padre si precipitò fuori riuscendo ad individuarne la sagoma. Avendolo rincorso, lo raggiunse e lo riconobbe come uno dei suoi vicini. Nicola però gli fece promettere di non rivelare la cosa a nessuno. Il padre promise, ma a giudicare dagli avvenimenti successivi, con ogni probabilità non mantenne la promessa. E la fama di Nicola come uomo di grande carità si diffuse ancor più nella città di Mira.

Intorno all’anno 300 dopo Cristo, anche se il cristianesimo non era stato legalizzato nell’Impero e non esistevano templi cristiani, le comunità che si richiamavano all’insegnamento evangelico erano già notevolmente organizzate. I cristiani si riunivano nelle case di aristocratici che avevano abbracciato la nuova fede, e quelle case venivano chiamate domus ecclesiae, casa della comunità. Per chiesa infatti si intendeva la comunità cristiana. E questa comunità partecipava attivamente all’elezione dei vescovi, cioè di quegli anziani addetti alla cura e all’incremento della comunità nella fede e nelle opere. Questi divenivano capi della comunità e la rappresentavano nei concili, cioè in quelle assemblee che avevano il compito di analizzare e risolvere i problemi, e quindi di varare norme che riuscissero utili ai cristiani di una o più province.
Solitamente erano eletti dei presbiteri (sacerdoti), laici che abbandonavano lo stato laicale per consacrarsi al bene della comunità. L’imposizione delle mani da parte dei vescovi dava loro la facoltà di celebrare l’eucarestia, e questo li distingueva dai laici. Non mancano però casi, e Nicola è uno di questi, in cui l’eletto non è un presbitero, ma un laico. Il che non significa che passava direttamente al grado episcopale, ma che in pochi giorni gli venivano conferiti i vari ordini sacri, fino al presbiterato che apriva appunto la via all’episcopato.
In questo contesto ebbe luogo l’elezione di Nicola, che lo scrittore sacro descrive in una cornice che ha del miracoloso. Essendo morto il vescovo di Mira, i vescovi dei dintorni si erano riuniti in una domus ecclesiae per individuare il nuovo vescovo da dare alla città. Quella stessa notte uno di loro ebbe in sogno una rivelazione: avrebbero dovuto eleggere un giovane che per primo all’alba sarebbe entrato in chiesa. Il suo nome era Nicola. Ascoltando questa visione i vescovi compresero che l’eletto era destinato a grandi cose e, durante la notte, continuarono a pregare. All’alba la porta si aprì ed entrò Nicola. Il vescovo che aveva avuto la visione gli si avvicinò e chiestogli come si chiamasse, lo spinse al centro dell’assemblea e lo presentò agli astanti. Tutti furono concordi nell’eleggerlo e nel consacrarlo seduta stante vescovo di Mira.
L’episodio forse avvenne diversamente, anche perché, come si è detto, all’elezione dei vescovi partecipava sempre il popolo. Ma l’agiografo, vissuto in un’epoca in cui i vescovi avevano un potere più autonomo rispetto al laicato, narrando così l’episodio intendeva esprimere due concetti: Nicola fu fatto vescovo da laico e la sua elezione era il risultato non di accordi umani, ma soltanto della  volontà di Dio.

Nel 303 d.C. l’imperatore Diocleziano mise fine alla sua politica di tolleranza verso i cristiani e scatenò una violenta persecuzione. Questa durò un decennio, anche se i momenti di crudeltà si alternarono con momenti di pausa. Nel 313 gli imperatori Costantino e Licinio a Milano si accordarono sulle sfere di competenza, prendendosi il primo l’occidente, il secondo l’oriente. Essi emanarono anche l’editto che dava libertà di culto ai cristiani. Sei anni dopo (319), in contrasto con la politica costantiniana filocristiana, Licinio riaprì la persecuzione contro i cristiani.
Nelle fonti nicolaiane antiche (anteriori al IX secolo) non si trova alcun riferimento alla persecuzione. Considerando però che il vescovo di Patara Metodio affrontò coraggiosamente la morte, sembra probabile che anche il nostro Santo abbia dovuto patire il carcere ed altre sofferenze, non ultima quella di vedere il suo gregge subire tanti patimenti.  
Alcuni scrittori, come il Metafraste verso il 980 d.C., specificavano che Nicola aveva sofferto la persecuzione di Diocleziano, finendo in carcere. Qui, invece di abbattersi, il santo vescovo avrebbe sostenuto ed incoraggiato i fedeli a resistere nella fede e a non incensare gli dèi. Il che avrebbe spinto il preside della provincia a mandarlo in esilio. Autori successivi hanno voluto posticipare la persecuzione patita da Nicola, individuandola in quella di Licinio, piuttosto che in quella di Diocleziano. Ciò per ovviare al fatto che durante la persecuzione Nicola era già vescovo e, secondo loro,  sarebbe stato consacrato vescovo fra il 308 ed il 314.
Lo storico bizantino Niceforo Callisto, per rendere più viva l’impressione di un Nicola vicino al martirio e con i segni delle torture ancora nelle carni, scriveva: Al concilio di Nicea molti splendevano di doni apostolici. Non pochi, per essersi mantenuti costanti nel confessare la fede, portavano ancora nelle carni le cicatrici e i segni, e specialmente fra i vescovi, Nicola vescovo dei Miresi, Pafnuzio e altri.

L’imperatore Costantino, con la sua politica a favore dei cristiani, il 23 giugno dell’anno 318 emanava un editto col quale concedeva a coloro che erano stati condannati dalle normali magistrature di presentare appello al vescovo. Ma, mentre la Chiesa con simili provvedimenti si rafforzava nella società pagana, ecco che un’opinione intorno alla natura di Gesù Cristo come Figlio di Dio (se uguale o inferiore a quella del Padre) suscitò una polemica tale da spaccare l’impero in due partiti contrapposti. A scatenare lo scisma fu il prete alessandrino Ario (256-336), coetaneo di S. Nicola. Per risolvere la questione e riportare la pace l’imperatore convocò la grande assemblea (concilio) a Nicea nel 325.
Data l’ubicazione in Asia Minore ben pochi furono i vescovi occidentali che vi presero parte, mentre quelli orientali furono quasi tutti presenti. Qualcuno ha voluto mettere in dubbio la partecipazione di Nicola a questo primo ed importantissimo concilio ecumenico. Ma se è vero che il suo nome (come quello di S. Pafnuzio) non compare in diverse liste, è anche vero che compare in quella redatta da Teodoro il Lettore verso il 515 d.C., ritenuta autentica dal massimo studioso di liste dei padri conciliari (Edward Schwartz).
Una delle preghiere più note della liturgia orientale si rivolge a Nicola con queste parole: O beato vescovo Nicola, tu che con le tue opere ti sei mostrato al tuo gregge come regola di fede (kanòna pìsteos) e modello di mitezza e temperanza, tu che con la tua umiltà hai raggiunto una gloria sublime e col tuo amore  per la povertà le ricchezze celesti, intercedi presso Cristo Dio per farci ottenere la salvezza dell’anima.
Questa antica preghiera viene solitamente collegata proprio al ruolo svolto da Nicola al concilio di Nicea. Alla carenza di documentazione sulle sue azioni a Nicea suppliscono alcune leggende, la più nota delle quali (attribuita in verità anche a S. Spiridione) è quella del mattone. Dato che a provocare lo scisma era stato Ario, che non ammetteva l’uguaglianza di natura fra il Dio creatore e Gesù Cristo, il problema consisteva nel dimostrare come fosse possibile la fede in un solo Dio se anche Cristo era Dio. Considerando poi che la formula battesimale inseriva anche lo Spirito Santo, Nicola si preoccupò di dimostrare la possibilità della coesistenza di tre enti in uno solo. Preso un mattone, ricordò agli astanti la sua triplice composizione di terra, acqua e fuoco.  Il che stava a significare che la divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo non intaccava la verità fondamentale che Dio è uno. Mentre illustrava questa verità, ecco che una fiammella si levò dalle sue mani, alcune gocce caddero a terra e nelle sue mani restò soltanto terra secca.
Ancor più nota a livello popolare è la leggenda dello schiaffo ad Ario, legata all’usanza dei pittori di raffigurare agli angoli in alto il Cristo e la Vergine in atto di dare l’uno il vangelo l’altra la stola. Secondo questa leggenda Nicola, acceso di santo zelo, udendo le bestemmie di Ario che si ostinava a negare la divinità di Cristo, levò la destra e gli diede uno schiaffo. Essendo stata riferita la cosa a Costantino, l’imperatore ne ordinò la carcerazione, mentre i vescovi lo privavano dei paramenti episcopali. I carcerieri dal canto loro lo insultavano  e beffeggiavano in vari modi. Uno di loro giunse anche a bruciargli la barba. Durante la notte Nicola ebbe la visita di Cristo e della Madonna che gli diedero il vangelo (segno del magistero episcopale) e la stola o omophorion (segno del ministero sacramentale). Quando andò per celebrare la messa, indotto da spirito di umiltà, Nicola evitò di indossare i paramenti vescovili, ma alle prime sue parole ecco scendere dal cielo la vergine con la stola e degli angeli con la mitra. Ed appena terminata la celebrazione ecco rispuntargli folta la barba che la notte precedente i carcerieri gli avevano bruciata.
Queste però sono tutte leggende posteriori, poiché, a parte la sua presenza in quel concilio (sull’autorità di Teodoro il Lettore ed alcune liste del VII-VIII secolo), non si sa nulla di ciò che fece Nicola a quel concilio. Certo è che fu dalla parte di Atanasio e dell’ortodossia, altrimenti la liturgia non l’avrebbe chiamato regola di fede.

Il silenzio degli antichi scrittori sul ruolo di Nicola a quel concilio si spiega forse col fatto che Nicola ebbe un atteggiamento diverso da quello del capo del partito cattolico ortodosso, Atanasio di Alessandria. Pur avendo un carattere altrettanto energico, Nicola era più sensibile alla ricomposizione dell’armonia nella Chiesa. Non si fermava come Atanasio alla difesa ad oltranza delle fede, ma tentava anche tutte le vie per riportare gli erranti (eretici) nel grembo della Chiesa. Un atteggiamento che dovette apparire ad Atanasio come troppo incline al compromesso, e di conseguenza non degno di essere ricordato fra i difensori della fede. Questa “damnatio memoriae” da parte di Atanasio (che pure menziona molti vescovi) si spiega anche col fatto che quasi certamente Nicola militava politicamente nel “partito” opposto. Mentre infatti Atanasio parla di Ablavio, prefetto di Costantino, come “amato da Dio”, l’antico biografo di Nicola lo definisce “perverso e malvagio” (come ritiene anche il grande storico Eusebio di Cesarea e tutti gli storici pagani). Né la cosa deve sorprendere più di tanto. Anche oggi infatti persone degnissime militano politicamente su versanti opposti.
Che in S. Nicola si incontrassero il grande amore per la retta fede col grande amore dell’armonia nella Chiesa, è testimone S. Andrea di Creta, il quale scrive: Come raccontano, passando in rassegna i tralci della vera vite, incontrasti quel Teognide di santa memoria, allora vescovo della Chiesa dei Marcianisti. La disputa procedette in forma scritta fino a che non lo convertisti e riportasti all’ortodossia. Ma poiché fra voi due era forse intervenuta una sia pur minima asprezza, con la tua voce sublime citasti quel detto dell’Apostolo  dicendo: “Vieni, riconciliamoci, o fratello, prima che il sole tramonti sulla nostra ira”.
Nonostante il riferimento ai Marcianisti (talvolta è scritto Marcioniti), il vescovo Teognide è quasi certamente il vescovo di Nicea al tempo del Concilio di cui si è parlato. Simpatizzante dell’eretico Ario, Teognide si lasciò tuttavia convincere e alla fine firmò gli atti del concilio. Quasi certamente Nicola si era messo in contatto con lui già in precedenza e dovette avere un certo ruolo nel farlo decidere a firmare gli atti. In realtà Teognide successivamente non mutò atteggiamento verso Atanasio, che continuò ad avversare decisamente. Dopo un esilio di tre anni in Gallia, al ritorno continuò a criticare il termine “consustanziale” col quale Atanasio e la Chiesa definivano il rapporto fra Padre e Figlio. Nel 336 contribuì a fare esiliare S. Atanasio.
Come si può vedere, l’antichità cristiana non fa eccezione. Anche all’interno di sostenitori della retta fede si formarono “partiti” diversi. Il che comportò persino giudizi contrapposti sul piano della spiritualità. E’ il caso di Teognide, da S. Andrea di Creta ritenuto di “santa memoria”, da altri pur sempre un eretico. Ed è il caso di Teodoreto (storico della Chiesa), dalla chiesa greca considerato un eresiarca, dalla russa un “beato” (blažennyj). Ed è pure il caso del patriarca Anastasio (729-752), dalla chiesa latina ritenuto un iconoclasta, da quella greca “di santa memoria” perché pentito, dopo essere stato salvato proprio da S. Nicola dall’annegamento.



Costantino aveva lasciato libertà di culto ai pagani, tuttavia è chiaro che almeno a partire dal 318, coi poteri giurisdizionali ai vescovi, i cristiani ebbero uno spazio privilegiato all’interno dell’impero. Non pochi vescovi, e sembra che Nicola sia stato fra di essi, si impegnarono per quanto possibile a cancellare dalle loro città i segni della religione pagana fino ad abbattere alcuni templi. La tradizione ci fa vedere Nicola impegnato in tal senso. Andrea di Creta nel suo celebre Encomio di S. Nicola, rivolgendosi al nostro Santo esclama: Hai dissodato, infatti,  i campi spirituali di tutta la provincia della Licia, estirpando le spine dell’incredulità. Con i tuoi insegnamenti hai abbattuto altari di idoli e luoghi di culto di dèmoni abominevoli e al loro posto hai eretto chiese a Cristo. Pur rimanendo molto vicino al testo di Andrea, Michele Archimandrita, “concretizzava” l’opera di Nicola facendo riferimento non alle armi della parola e dell’insegnamento, ma a vere e proprie spranghe di ferro per abbattere il tempio di Diana, che si ergeva imponente. Era questo il maggiore di tutti i templi sia per altezza che per varietà di decorazioni, oltre che per presenza di demoni.
Che Michele Archimandrita si fosse documentato su fonti miresi dirette è dimostrato proprio da queste sue parole. Se non avesse fatto ricorso a tali documenti difficilmente avrebbe potuto sapere di questo ruolo preminente del tempio di Diana. Dopo recenti scavi archeologici è risultato infatti che nel 141 questo tempio era stato restaurato ed ampliato dal mecenate licio Opramoas di Rodiapoli. Una conferma, questa, che quanto dice il monaco Michele riflette i racconti che si narravano a Mira nell’VIII secolo.
E’ probabile che la verità sia quella di Andrea di Creta, che ci mostra un Nicola che abbatte il paganesimo con le armi della parola. Tuttavia, a giudicare dal carattere energico del vescovo di Mira (dimostrato in altre occasioni), non è impossibile che sia avvenuto secondo il racconto dell’Archimandrita. Ciò che li accomuna, ed era una credenza molto diffusa a livello popolare, è il particolare dei demoni che abitavano in questi templi pagani, per cui quando questi venivano demoliti, i demoni venivano a trovarsi senza un tetto ed erano costretti a cercarsi altre dimore.

Il santo vescovo era impegnato però non soltanto nella diffusione della verità evangelica, ma anche nell’andare incontro alle necessità dei poveri e dei bisognosi. La parola della fede era seguita dalla messa in pratica della carità.
Al tempo del suo episcopato mirese scoppiò una grave carestia, che mise in ginocchio la popolazione. Pare che Nicola prendesse varie iniziative per sovvenire ai bisogni del suo gregge, e l’eco di queste attraversò i secoli, rimanendo nella memoria dei Miresi. Una leggenda lo vede apparire in sogno a dei mercanti della Sicilia, suggerendo loro un viaggio sino alla sua città per vendere il grano, ed aggiungendo che lasciava loro una caparra. Quando i mercanti si resero conto di aver avuto la stessa visione e trovarono effettivamente la caparra, subito fecero vela per Mira e rifornirono la popolazione di grano.
Ancor più noto è l’episodio delle navi che da Alessandria d’Egitto fecero sosta nel porto di Mira. Nicola accorse e, salito su una delle navi, chiese al capitano di sbarcare una certa quantità di grano. Quello rispose che era impossibile, essendo quel grano destinato all’imperatore ed era stato misurato nel peso. Se fosse stato notato l’ammanco avrebbe potuto passare i guai suoi. Nicola gli rispose che si sarebbe addossato la responsabilità, e alla fine riuscì a convincerlo. Il frumento fu scaricato e la popolazione trovò grande sollievo, non solo perché si procurò il pane necessario, ma anche perché arò i terreni e seminò il grano che restava e poté raccoglierlo anche negli anni successivi. Quanto alle navi “alessandrine”, queste giunsero a Costantinopoli e, come il capitano aveva temuto, il tutto dovette passare per il controllo del peso. Quale non fu la sua gioia e meraviglia quando vide che il peso non era affatto diminuito, ma era risultato lo stesso della partenza delle navi da Alessandria.
Questo miracolo è all’origine non solo di tanti quadri che lo raffigurano, ma anche di tante tradizioni popolari legate al pane di S. Nicola. A Bari, anche per facilitarne il trasporto nei paesi d’origine, ai pellegrini che giungono nel mese di maggio vengono date “serte” di taralli, tenuti insieme da una funicella.

Tutti gli episodi sinora narrati hanno subìto l’incuria del tempo. Essi venivano narrati dai miresi e da nonni a nipoti giunsero fino all’VIII-IX secolo. Il lungo travaglio orale fece loro perdere i connotati della “storia” per apparire piuttosto come “tradizione” o come “leggenda”. I nomi dei protagonisti delle vicende si perdettero quasi del tutto. E’ vero che in tante Vite di S. Nicola si trovano i nomi dei genitori, dello zio archimandrita, del suo predecessore sulla cattedra di Mira, del nocchiero che l’avrebbe condotto in pellegrinaggio in Egitto e in Terra Santa, e così via. Ma si tratta di nomi che nulla hanno a che fare col nostro Nicola. Bisogna rassegnarsi alla realtà che, ad eccezione del concilio di Nicea e del vescovo Teognide, nessun nome compare nella vita del nostro Santo prima della storia dei tre innocenti salvati dalla decapitazione.
Questa storia, insieme a quella successiva dei generali bizantini (Praxis de stratelatis), è il pezzo forte di tutta la vicenda nicolaiana. Nell’antichità, per esprimere il concetto che questa narrazione era la più importante di tutte quelle che riguardavano S. Nicola, spesso non veniva indicata come Praxis de stratelatis (racconto intorno ai generali) ma semplicemente come Praxis tou agiou Nikolaou (storia di S. Nicola), quasi che tutti gli altri racconti non rivestissero alcuna importanza a paragone con questo.
In occasione della sosta di alcune navi militari nel porto di Mira, nel vicino mercato di Placoma scoppiarono dei tafferugli, in parte provocati proprio dalla soldataglia che sfogava così la tensione di una vita di asperità. In quei disordini le forze dell’ordine catturarono tre cittadini miresi, i quali dopo un processo sommario furono condannati a morte. Nicola si trovava in quel momento a colloquio con i generali dell’esercito Nepoziano, Urso ed Erpilio, i quali gli stavano dicendo della loro imminente missione militare contro i Taifali, una tribù gotica che stava suscitando una rivolta in Frigia. Invitati da S. Nicola, i generali riuscirono a fare riportare l’ordine. Ma ecco che alcuni cittadini accorsero dal vescovo, riferendogli che  il preside Eustazio aveva condannato a morte quei tre innocenti.
Seguito dai generali, Nicola prese il cammino per Mira. Giunto al luogo detto Leone, incontrò alcuni che gli dissero che i condannati erano nel luogo detto Dioscuri. Nicola procedette così fino alla chiesa dei santi martiri Crescente e Dioscoride. Qui apprese che i condannati erano già stati portati a Berra, il luogo ove solitamente venivano messi a morte i condannati. Ben sapendo che solo lui, in quanto vescovo, avrebbe potuto fermare il carnefice, accelerò il passo e vi giunse, aprendosi la strada fra la folla che faceva da spettatrice. Il carnefice era già pronto, e i condannati stavano già col collo sui ceppi, quando Nicola si avvicinò e tolse la spada al carnefice.
Avendo liberato gli innocenti dalla decapitazione, Nicola si recò al palazzo del preside Eustazio, entrandovi senza farsi annunciare. Giunto dinanzi al preside l’apostrofò accusandolo di ingiustizie, violenze e corruzione. Quando minacciò di riferire la cosa all’imperatore, Eustazio rispose che era stato indotto in errore da due notabili di Mira, Simonide ed Eudossio. Ma Nicola, senza contestare il particolare, gli rinfacciò nuovamente la corruzione e, giocando sulle parole, gli disse che non Simonide ed Eudossio, ma  Crisaffio (oro) e Argiro (argento) l’avevano corrotto. Avendo così ristabilita la verità e la giustizia, Nicola non infierì ma perdonò al preside pentito.

Edificati dal comportamento del santo vescovo,  tre generali ripresero il mare e raggiunsero la Frigia, ove riuscirono a sottomettere le forze ribelli all’impero. Un po’ per il successo dell’impresa un po’ perché Nepoziano era parente dell’imperatore, il loro ritorno a Costantinopoli avvenne in un’atmosfera di vero e proprio trionfo. Tuttavia la gloria e gli onori durarono poco, perché queste sono spesso accompagnate da gelosie ed invidie.
Gli agiografi parlano di malevoli suggerimenti del diavolo, certo è che ben presto si formò un partito avverso a Nepoziano e compagni. I componenti di questo partito riuscirono a coinvolgere il potente prefetto Ablavio, il quale convinse l’imperatore che i tre generali stavano complottando per rovesciarlo dal trono. Convinto o meno dell’attendibilità della notizia, Costantino preferì non correre rischi, e li fece mettere in prigione. Dopo alcuni mesi i seguaci di Nepoziano si stavano organizzando su come liberare i generali. Per cui i loro avversari, col denaro promesso a suo tempo, tornarono da Ablavio e lo convinsero a suggerire all’imperatore un provvedimento più drastico. Infatti, Costantino diede ordine di sopprimerli quella notte stessa.
Appresa la notizia, il carceriere Ilarione corse ad avvertire i generali, che furono presi da grande angoscia. Sentendosi prossimo alla morte, Nepoziano si sovvenne dell’intervento in extremis del vescovo Nicola a favore dei tre innocenti. Allora levò al Signore questa preghiera: Signore, Dio del tuo servo Nicola, abbi compassione di noi, grazie alla tua misericordia e all’intercessione del tuo servo Nicola. Come, per i suoi meriti, hai avuto compassione dei tre uomini condannati ingiustamente salvandoli da sicura morte, così ora rida’ la vita anche a noi, mosso a misericordia dall’intercessione di questo santo vescovo.
Il Signore esaudì la preghiera di Nepoziano, fatta propria dai compagni. Quella notte S. Nicola apparve in sogno all’imperatore minacciandolo: Costantino, alzati e libera i tre generali che tieni in prigione, poiché vi furono rinchiusi ingiustamente. Se non fai come ho detto, conferirò con Cristo, il re  dei re, e susciterò una guerra e darò in pasto i tuoi resti a fiere ed avvoltoi. Spaventato, Costantino chiese chi fosse: Sono Nicola, vescovo peccatore, e risiedo a Mira, metropoli della Licia.
Nicola apparve minaccioso anche ad Ablavio, e quando l’imperatore lo mandò a chiamare, entrambi pensarono ad un’opera di magia. Mandarono a prendere i tre generali per chiedere spiegazioni. Il colloquio aveva preso il binario della “magia”, quando Costantino chiese a Nepoziano se conoscesse un tale di nome Nicola. Nepoziano si illuminò, accorgendosi che la sua preghiera era stata esaudita. E narrò tutto all’imperatore, che seduta stante ne ordinò la liberazione. Anzi, volle che andassero a Mira a ringraziare il santo vescovo ed a portargli da parte sua preziosi doni, fra cui un Vangelo tutto decorato d’oro e candelieri ugualmente d’oro. Altri autori aggiungono che giunti a Mira si tagliarono i capelli in segno di gratitudine e di devozione verso il Santo.

E’ difficile dire quanto ci sia di vero e quanto sia stato il parto della fantasia di un popolo consapevole di aver avuto un “progenitore” ed un difensore. Per i Miresi Nicola era colui che aveva riportato la retta fede, la giustizia ed il benessere alla loro città. Non per nulla, secondo la testimonianza sia della Vita Nicolai Sionitae sia dell’Encomio di Andrea di Creta, essi istituirono la festa delle “rosalie del nostro progenitore S. Nicola”.
Fra le tante iniziative del Santo a favore della popolazione, intorno al VII secolo si narrava il suo intervento per fare ridurre le tasse per i Miresi (Praxis de tributo).
E’ nota a diversi storici la tendenza di Costantino a gravare le popolazioni dell’impero con tasse esorbitanti. Ed anche se i cristiani cercavano delle attenuanti, i pagani come Zosimo ricordavano che Costantino era costretto a una pesante politica tributaria a causa della sua eccessiva prodigalità. L’anonimo scrittore che compose l’Epitome de Caesaribus descriveva così la sua politica tributaria: Per dieci anni eccellente, nei dodici anni successivi predone, negli ultimi dieci fu chiamato pupillo per le eccessive prodigalità.
Quando anche la città di Mira si trovò a dover pagare tasse esorbitanti, i rappresentanti del popolo si rivolsero a Nicola affinché scrivesse all’imperatore. Nicola fece di più. Partì alla volta di Costantinopoli e chiese udienza. L’anonimo scrittore qui si lascia prendere la mano e, non tenendo conto che Nicola era vissuto al tempo di Costantino, immagina i vescovi della capitale che gli rendono omaggio riunendosi nel tempio della Madre di Dio alle Blacherne, chiedendogli la benedizione. A parte l’esagerazione di una simile accoglienza, quel tempio sarebbe stato costruito un secolo dopo la morte del Santo.
L’abbellimento agiografico si nota anche al momento dell’arrivo di Costantino. Prima che cominciasse il colloquio, l’imperatore gettò il suo mantello ed ecco che questo, incrociando un raggio di sole, rimase sospeso ad esso. Il prodigio rese timoroso e benevolo l’imperatore. Quando Nicola gli riferì come i Miresi fossero oppressi dalle tasse, chiedendogli di apportare una sensibile riduzione, l’imperatore chiamò il notaio ed archivista Teodosio, e secondo il desiderio di Nicola operò una netta  riduzione a soli cento denari.
Nicola prese la carta su cui era registrata questa concessione e legatala ad una canna, la gettò in mare. Per volere di Dio la canna giunse nel porto di Mira e pervenne nelle mani dei funzionari del fisco, i quali furono molto sorpresi ma si adeguarono. Intanto però a Costantinopoli i consiglieri di Costantino fecero notare all’imperatore che forse la concessione era stata un tantino esagerata. Per cui l’imperatore chiamò nuovamente Nicola per correggere la somma della tassa che i Miresi dovevano pagare. Il Santo gli rispose che da tre giorni la carta era pervenuta a Mira. Essendo ciò impossibile, Costantino promise che se le cose stavano veramente così avrebbe confermato la precedente concessione. I nunzi, da lui inviati per verificare quel che era accaduto, tornarono e riferirono che Nicola aveva detto la verità. Mantenendo la promessa, l’imperatore confermò la concessione.

Considerando la tradizione secondo la quale era già anziano al tempo del concilio di Nicea, con ogni probabilità il nostro Santo morì in un anno molto prossimo al 335 dopo Cristo. Come della sua nascita, anche della sua morte non si sa alcunché. Gli episodi e i particolari che si leggono in alcune Vite non riguardano il nostro Nicola, ma un santo monaco vissuto due secoli dopo nella stessa regione.

Nel 1087 una spedizione navale partita dalla città di Bari si impadronì delle spoglie di San Nicola, che nel 1089 vennero definitivamente poste nella cripta della Basilica eretta in suo onore. L’idea di trafugare le sue spoglie venne ai baresi nel contesto di un programma di rilancio dopo che la città, a causa della conquista normanna, aveva perduto il ruolo di residenza del catepano e quindi di capitale dell’Italia bizantina. In quei tempi la presenza in città delle reliquie di un santo importante era non solo una benedizione spirituale, ma anche mèta di pellegrinaggi e quindi fonte di benessere economico.

Secondo la leggenda, le reliquie furono depositate là dove i buoi che trainavano il carico dalla barca si fermarono. Alcune colonne del tempio, poi, seguirono la nave dei marinai baresi fino a Bari. Si trattava in realtà della chiesa dei benedettini (oggi chiesa di San Michele Arcangelo) sotto la custodia dell'abate Elia, che in seguito sarebbe diventato vescovo di Bari. L'abate promosse tuttavia l'edificazione di una nuova chiesa dedicata al santo, che fu consacrata due anni dopo da Papa Urbano II in occasione della definitiva collocazione delle reliquie sotto l'altare della cripta. Da allora san Nicola divenne compatrono di Bari assieme a San Sabino e le date del 6 dicembre (giorno della morte del santo) e 9 maggio (giorno dell'arrivo delle reliquie) furono dichiarate festive per la città. Il santo era anche presente, fino al XIX secolo, sullo stemma della città tramite un cimiero.

È poco noto che Venezia spartisce con Bari la custodia delle reliquie di San Nicola. I Veneziani, infatti, non si erano rassegnati all'incursione dei Baresi e nel 1099-1100, durante la prima crociata, approdarono a Myra, dove fu loro indicato il sepolcro vuoto dal quale i baresi avevano prelevato le ossa. Tuttavia qualcuno rammentò di aver visto celebrare le cerimonie più importanti, non sull'altare maggiore, ma in un ambiente secondario. Fu in tale ambiente che i veneziani rinvennero una gran quantità di minuti frammenti ossei che i baresi non avevano potuto prelevare. Questi vennero traslati nell'abbazia di San Nicolò del Lido.

San Nicolò venne quindi proclamato protettore della flotta della Serenissima e la chiesa divenne un importante luogo di culto. San Nicolò era infatti venerato come protettore dei marinai, non a caso la chiesa era collocata sul Porto del Lido, dove finiva la laguna e cominciava il mare aperto. A San Nicolò del Lido terminava l'annuale rito dello sposalizio del Mare.

Solo in tempi recenti, l'autenticità delle spoglie veneziane è stata accertata, ponendo fine a una secolare contesa fra le due città.

Nel gennaio 2003 la Chiesa cattolica di Rimini, d’intesa con il Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, faceva dono di un frammento dell'òmero sinistro di San Nicola alla Diocesi Greco-Ortodossa di Dimitriade (la greca Volos), che ne aveva inoltrato richiesta. Secondo la tradizione, l’òmero di San Nicola giunse a Rimini in modo piuttosto rocambolesco nella seconda metà del XII secolo. Protagonista della vicenda sarebbe stato un vescovo tedesco, che aveva trafugato la reliquia a Bari. Nel 1177, papa Alessandro III si fermò a Rimini venendo da Venezia; il pontefice volle sottoporre la reliquia alla prova del fuoco per accertarsi della sua originalità: "le fiamme non la bruciarono, anzi, emanarono un profumo intenso". San Nicola fu proclamato co-patrono di Rimini nel 1633. Il primo indizio sull'autenticità della tradizione è l'assenza, fra le reliquie baresi, proprio dell'òmero sinistro. La prova definitiva che si tratta della parte mancante a quanto dello scheletro è venerato Bari, è giunta dalla ricognizione anatomica e lo studio antropometrico (di Luigi Martino) e dalla ricognizione antropologica (di Fiorenzo Facchini), effettuate in occasione della donazione del 2003. La reliquia riminese è custodita nella chiesa di San Nicolò al Porto, nella cappella detta "celestina" dai Padri Celestini, cui appartenne l'edificio dal XIV al XVIII secolo. La chiesa medievale fu praticamente rasa al suolo durante la seconda guerra mondiale; sopravvissero solo il campanile e la "cappella celestina"; in entrambi, ma soprattutto nella seconda, sono visibili affreschi della scuola riminese del '300.

Dopo l'arrivo in Lorena nel 1087 di una reliquia del santo, la mano destra alzata in segno di benedizione (falange della mano destra), riportata da Bari dal signore Aubert di Varangéville, il villaggio di Port, un possesso del signor di Varangéville, diventa Saint-Nicolas-de-Port e dispone a partire dal 1093 di una prima chiesa dedicata al santo patrono della Lorena, San Nicola dei Lorenesi.

«Intorno al 1230, il cavaliere di Lorena Cunon de Réchicourt, al seguito dell'imperatore Federico II di Svevia, è fatto prigioniero durante la sesta crociata. Avrebbe pregato il 5 dicembre 1240 San Nicola prima di addormentarsi nella sua cella. La mattina, si sarebbe svegliato ancora attaccato, sui gradini della chiesa di Saint-Nicolas-de-Port, le catene gli caddero da sé durante l'ufficio che ha poi seguito.»

Da allora, ogni anno il sabato prima della festa di San Nicola, si celebra una processione in memoria del famoso "miracolo".

Nel 1429, prima di lasciare il suo paese per salvare la Francia, Giovanna d'Arco andò a visitare la tomba del santo a Saint-Nicolas-de-Port.

Alla fine del XV secolo per ringraziare san Nicola per avere salvato il Ducato di Lorena contro il duca di Borgogna Carlo il Temerario (morto durante la battaglia di Nancy il 5 gennaio 1477), il duca di Lorena Renato II ricostruisce la chiesa della città di Saint-Nicolas-de-Port. Una volta iniziati i lavori, nel 1481 essa diventerà una maestosa basilica di stile gotico fiammeggiante quasi grande come Notre-Dame di Parigi. Nel 1622 il duca Enrico II di Lorena ottiene dal Papa Gregorio XV (153-1623) l’erezione di una chiesa per i suoi sudditi che vivono a Roma. Questa bella chiesa barocca si trova vicino a Piazza Navona; è naturalmente dedicata al santo patrono della nazione lorenese e si chiama Chiesa di San Nicola dei Lorenesi. Più generalmente, in ogni città o villaggio in Lorena il 5 o 6 dicembre si tiene una processione in onore di San Nicola.

San Nicola visita le case la notte tra il 5 e il 6 dicembre, spesso accompagnato dal suo asino e regala dolci e caramelle ai bambini che cantano il famoso “lamento di San Nicola”. Nella parte di lingua tedesca della Lorena, San Nicola (Sankt Nikolaus) è accompagnato tradizionalmente dal suo assistente Rüpelz o Ruprecht (equivalente spauracchio).

In Italia il culto di san Nicola è radicato tanto nelle regioni meridionali quanto al nord.

In Venezia Giulia, in Carnia, in Cadore, in Agordino, in Alpago, in Trentino-Alto Adige, ma anche in altre località settentrionali come Lecco, è particolarmente sentita la vigilia della ricorrenza liturgica del 6 dicembre. La leggenda secondo la quale il santo regalò a tre bambini poveri tre mele rosse che nottetempo si tramutarono in oro si riflette nella tradizione che prevede che i bambini scrivano una letterina al santo e la lascino in casa: l'indomani, al posto della letterina, trovano una mela, dei mandarini, dei dolci e alcuni doni, oppure del carbone, per i più bricconcelli. In questa occasione a Trieste si canta la filastrocca:
« San Nicolò de Bari
xe la festa de i scolari
se i scolari no i ga festa
i ghe taierà la testa. »
Altrettanto radicato è il culto del santo nel Mezzogiorno: a Bari, oltre che il 6 dicembre, il santo è festeggiato dal 7 al 9 maggio, nella ricorrenza della traslazione delle ossa da Myra, quando un lungo corteo storico ripercorre gli eventi del 1086 e la statua del santo è condotta in processione su una barca e poi lasciata in piazza per il culto pubblico. In questa occasione, la città è raggiunta da numerosi pellegrini, provenienti tanto dalle altre regioni italiane (Abruzzo e Calabria, soprattutto) quanto dalla Russia e dagli altri Paesi ortodossi.

A Capitignano (AQ), la festività religiosa si mescola al culto pagano dei morti. Il 6 dicembre decine di bambini bussano alle porte delle abitazioni per chiedere "il pane di San Nicola", nel dialetto locale "le cacchiette de Santu Nicola", pronunciando la frase "Sia benedetta l'anima dei morti". La famiglia che ha spalancato loro la porta della propria casa, risponde con l'espressione "Dio lo faccia", mettendosi in tal modo in contatto sovrannaturale con i propri defunti.

A Castelpoto (Bn), si conserva un imponente scultura lignea policromata di san Nicola datata 1687, è costruita con legno di pero e fu benedetta dal Cardinale Orsini, futuro Papa Benedetto XIII, all'epoca Arcivescovo di Benevento. Il simulacro è molto pesante, non viene mai portato in processione se non per qualche ricorrenza speciale, e proviene dall'antica chiesa del paese distrutta col terremoto del 1688. Nel 1992 il simulacro di san Nicola fu restaurato e ne riemersero gli antichi colori originali che tuttora si possono ammirare. La devozione a san Nicola a Castelpoto è attestata intorno alla fine del X secolo. Infatti il culto del Santo a Benevento e nel Sannio era già diffuso prima della traslazione delle sue reliquie a Bari. Per questo la Parrocchia di Castelpoto porta ancora il nome di san Nicola da Myra. Papa Innocenzo XII nel 1698 e Papa Clemente XI nel 1717 diedero e rinnovarono l'indulgenza plenaria ai fedeli che visitano la chiesa di Castelpoto nel giorno di san Nicola. I festeggiamenti in suo onore sono organizzati dai giovani dell'Oratorio Padre Isaia Columbro della stessa Parrocchia: la sera del 6 dicembre, prima della Messa solenne, si snoda una fiaccolata che va dalla chiesa fino alla piazza principale del paese, mentre al termine della Messa, secondo la tradizione, si recita la preghiera di affidamento del paese al Santo Patrono, si benedicono i bambini, Babbo Natale porta loro i regali, si benedicono i fedeli con la manna del Santo, si distribuiscono le pagnotte di san Nicola ed infine si svolge sul tetto della chiesa uno spettacolo di fuochi pirotecnici con un magnifico incendio delle quattro nicchie del campanile. L'antica campana maggiore della chiesa presenta l'effigie di san Nicola.

A Forino (AV), la statua di San Nicola è custodita nella chiesa della frazione Castello. Ogni anno l'ultimo giovedì di luglio (o il primo giovedì di agosto quando l'ultimo giovedì di luglio coincide con la festa di Sant'Anna della frazione Celzi) la statua viene portata nella chiesa dedicata a Santo Stefano a Forino. Il santo viene accolto in paese con falò che lo accompagnano lungo il percorso. Due domeniche dopo viene fatta la processione per le vie del paese per poi ritornare a Castello l'ultima domenica del settembre. Il 6 dicembre da Castello,come da tradizione, una carrozza trainata da un cavallo porta Babbo Natale per le vie del paese a distribuire caramelle ai bambini.

A Gallo di Comiziano (NA) la festa del 6 dicembre è preceduta dai falò, attorno ai quali si balla e si intonano canti della tradizione.

Anche a Gesualdo (AV) san Nicola viene festeggiato il 6 dicembre, con la recita dell'atto di affidamento della città al santo.

A Lettomanoppello (PE) i festeggiamenti sono ad ottobre, in ricordo del salvataggio del paese dalle incursioni saracene quando gli abitanti, che imploravano la protezione del santo circondandone la statua esposta al culto sul sagrato della chiesa, apparvero agli invasori come un numeroso esercito e li misero così in fuga.

San Nicola di Myra è venerato come patrono anche nell'eparchia di Lungro, di rito bizantino: nel paese di Lungro i tre giorni antecedenti il 6 dicembre sono contraddistinti dall'accensione dei falò, dalla distribuzione del pane benedetto e dalla processione della statua del santo. La tradizionale distribuzione del pane è presente anche a Cerzeto (CS), dove la festa patronale è il 9 maggio, ricorrenza della traslazione, mentre il 6 dicembre si tiene una fiera. La tradizione di Cardinale (CZ) vuole che durante lo spostamento di una statua del santo, i buoi che ne trainavano il carro furono impediti dal proseguire oltre: l'evento fu interpretato come la predilezione di san Nicola per quel paese.

A Stefanaconi viene venerato nella chiesa matrice eretta in suo onore dopo il terremoto del 1905 egli infatti è il patrono del paese, la statua viene portata in processione il 6 dicembre nei giorni prima la festa è preceduta dalla novena.

A Vastogirardi (IS) i festeggiamenti vengono celebrati il 6 dicembre e il 3 luglio, il giorno dopo la rappresentazione Il volo dell'angelo.

San Nicola è anche considerato santo patrono della Lorena, della città di Amsterdam e della Russia ( in Siberia, tra le tribù dei Nenci convertite al cristianesimo l'antico Dio dei padri è stato sostituito dalla figura di San Nicola, da loro chiamato Mikkulai, oggetto di profonda venerazione).

Nelle località dell'Arco Alpino (Svizzera, Austria, Alto Adige) San Nicolò è solitamente accompagnato da un personaggio chiamato Krampus (Knecht Ruprecht nelle località più settentrionali) una sorta di diavolo a cui si attribuisce il ruolo di rapitore di bambini. San Nicola è molto popolare anche in altri paesi Europei (Paesi Bassi, Francia, Belgio, Austria, Svizzera, Germania, Estonia e Repubblica Ceca).

Nei Paesi Bassi, in Belgio e in Lussemburgo, Sinterklaas (Kleeschen in lussemburghese) viene festeggiato due settimane prima del 5 dicembre, data in cui distribuisce i doni (il suo compleanno risulta essere il 6 dicembre). Il culto di san Nicola fu portato a Nuova Amsterdam (New York) dai coloni olandesi (è infatti il protettore della città di Amsterdam), sotto il nome di Sinterklaas, dando successivamente origine al mito nordamericano di Santa Claus, che in Italia è quindi diventato Babbo Natale.

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