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lunedì 17 ottobre 2016

INFANTICIDI

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L’uccisione di un bambino – e peggio ancora di un neonato – per mano di sua madre è un gesto così violento che è impossibile giustificarlo. Ma bisogna giustificarlo, oppure tentare di capirlo perché sia più facile prevenirlo.
E’ così frequente leggere nel giornale trafiletti che parlano di omicidi, incidenti, drammi della vita, e poi continuare per la propria strada dimentichi delle brevi righe appena lette.
Il malessere provocato dall’arrivo di un figlio non è un fenomeno raro. Abbiamo la capacità di fare qualcosa, di mostrarci creativi, di imporre non solo che le madri siano curate, ma che ci si prenda cura di loro.
Per nascere madre non basta mettere al mondo un figlio, è necessario che si metta in moto tutta una serie di processi. Una madre deve vivere la propria condizione con un senso di sicurezza e di fiducia, sentirsi parte di una storia familiare positiva, aver concepito il bambino in un contesto di attesa affettiva, in una speranza di progetto parentale.

La madre compie l’omicidio per sottrarlo ai mali del mondo, per salvarlo dalla sofferenza di esistere, per preservarlo da reali o presunte difformità. Impulsi irrazionali e convinzioni religiose possono confluire in uno stato depressivo in cui la sofferenza interiore, l’angoscia e il mal di vivere concorrono alla messa in atto di un gesto irreversibile, forse incubato e fantasmato da tempo.
Il fattore scatenante della dinamica omicidiaria non è necessariamente di carattere patologico o psicotico, anche se può essere ascritto a una malattia mentale pregressa.
Esistono, anche da parte degli studiosi del fenomeno, considerazioni di tipo biopsicosociale, che non ignorano gli aspetti biochimici ma anche di adattamento sociale.
Un cedimento nervoso, una malattia fisica, l’abuso di medicinali, l’insonnia cronica, la frustrazione esistenziale possono essere infine fra i detonatori di questo terribile atto privo di segni premonitori. Non di rado all’omicidio del bambino segue il suicidio della madre.

Il figlicidio a elevata componente psicotica si verifica quando il genitore uccide in preda a un raptus, ad allucinazioni imperative in forma di comando, sdoppiamento della personalità, turbe sociali, demonizzazione del figlio, depressione post-partum, scompensi ormonali, malinconia psichica, frustrazione individuale.
Si può inserire nella presente catalogazione lo stress; ovvero un insieme di fattori stressanti, nel quale confluiscono eventi dovuti anche a gravi perdite affettive – dal lutto alla separazione – capaci di giungere fino alla violenza domestica e all’omicidio.

La madre, normalmente avversa alla violenza sul figlio, può causarne la morte con un gesto impulsivo ma irrazionale, spesso conseguenti a pianti e urla del piccolo. In diversi episodi queste donne presentano un comportamento irritabile e impulsivo, o sono affette da disturbi della personalità definiti patologici, anche se non permanenti. Tale categoria complessa assume comportamenti alterati a causa dell’assunzione di droghe o alcool.
Alla morte di infanti e adolescenti può contribuire anche, come è stato osservato clinicamente, l’atteggiamento di madri ansiose e insicure che prodigano apparentemente cure affettuose ai figli ma in realtà li stanno uccidendo o, comunque, non consentono loro di vivere normalmente. Somministrare sostanze dannose ai figli, inventarne sintomi patologici esponendoli a esami e interventi pericolosi, rientra nella cosiddetta “Sindrome di Munchausen per procura”, studiata da Asher nel 1951. L’eccesso di amore o la sua mancanza inconsapevole, la paura di perdere l’essere generato che era in sé o il considerarlo un prolungamento del proprio io generante, può annientarli entrambi.

Capita di rado che con un solo atto omicidiario vengano uccisi più figli. Si tratta di una categoria composita che non ha basi motivazionali ma operazionali. Si tratta di infanticidi, o meglio di neonaticidi sequenziali, perpetrati in periodi ed età materne differenti. Non si può parlare di “madri killer”, dato che l’assassinio seriale codificato presenta caratteristiche a componente sadica, sessuale o simbolica.
Tentando poi di chiarire la psicologia e i problemi sociali delle madri, ci si può trovare di volta in volta di fronte a disturbi della personalità, percezione fantasmatica, contrapposizione a volte cruenta tra madre e figlio, oppure a paure economiche reali o immaginarie.

L’infanticidio è stato per lungo tempo strumento di controllo demografico, sia in termini di eliminazione degli storpi ( si pensi all’antichissima rupe tarpea, dalla quale venivano gettati i bambini con malformazioni), sia nei termini del contenimento delle nascite o della selezione del sesso. La Cina ne è il più famoso esempio; addirittura agli aborti forzati si associano politiche che incoraggiano l’infaticidio.

La condotta, considerata non solo criminale, ma anche particolarmente odiosa nelle società moderne, è stata invece pratica comune nel passato, ad esempio in forma di sacrificio rituale o a causa di deformità.

Varia è la considerazione giuridica e criminologica dell'infanticidio, a seconda del soggetto che compie l'azione (spesso, ma non sempre, la madre), delle circostanze temporali e di altre condizioni. In diritto penale, l'uccisione di un bambino si considera il più delle volte un omicidio comune. L'infanticidio si potrebbe quindi intendere in senso etimologico (uccisione dell'infante, colui che non sa ancora parlare), ma non è esattamente così: per varie ragioni, gli ordinamenti considerano meno gravi, rispetto all'omicidio, i reati speciali individuati come infanticidio, e le delimitano in un ambito molto stretto. L'Infanticide Act britannico, ad esempio, chiama infanticidio un delitto specifico, che può essere commesso solo dalla madre nel primo anno di vita del bambino. Il codice penale italiano individua una sola ipotesi: quella dell'infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale (art. 578 c.p.) commesso dalla madre durante il parto (feticidio) o immediatamente dopo. In tutti gli altri casi, l'uccisione di un bambino è semplicemente reato di omicidio. L'art. 578 prevede infatti una pena più lieve (da 4 a 12 anni di reclusione) solo in ragione delle particolari condizioni emotive della puerpera; il trattamento di favore non si estende nemmeno a coloro che eventualmente concorrano nel reato, puniti con la stessa pena prevista per l'omicidio (non meno di 21 anni). Analoga soluzione è accolta da altri ordinamenti, come quello brasiliano attuale (art. 123 c.p.). In alcuni paesi (ad esempio di lingua spagnola) hanno rilevato o rilevano ulteriori elementi. Può essere disposto un preciso limite temporale (24 ore, 72 ore, 7 giorni) dal parto oppure, soprattutto in passato, sono stati inclusi nella previsione altri consanguinei (oltre alla madre), specie in relazione a motivi d'onore. Anche l'ordinamento italiano dava rilievo alla causa d'onore prima che la legge 442 del 1981 la espungesse definitivamente. Al termine tecnico infanticidio, con valenza giuridica limitata ai casi esposti, si sovrappongono talvolta nozioni come neonaticidio e figlicidio, che di tale valenza sono invece completamente prive. La seconda è ad esempio individuabile nelle aggravanti degli artt. 576 e 577 c.p. italiano, che peraltro corrispondono al concetto più generale di parricidio.

Quando una madre uccide il proprio figlio suscita sicuramente orrore ma anche emozioni diverse, forti legate all’immagine di fragilità del bambino che da lei dipende e che invece in lei trova la morte. Certo notizie del genere colpiscono.  In parte l’effetto è sicuramente dovuto alle modalità che i media hanno di proporre l’argomento.

Pare infatti che l’uccisione dei figli sia fenomeno di oggi. Eppure basta uno sguardo alla letteratura per scoprire che è cosa che accade dalla notte dei tempi. Si potrebbe pensare allora che oggi si verifichi una confusione tra ciò che si conosce e ciò che esiste e accade. L’inghippo starebbe nel fatto che questo fenomeno accadeva già,  solo non compariva sui giornali, non esistevano cioè i mezzi di comunicazione di massa che ne hanno fatto patrimonio di conoscenza comune.



Il neonaticidio individua la morte del neonato subito dopo il parto o del feto durante il parto. Contrariamente a quanto ci si possa aspettare, oggigiorno l’infanticidio e il neonaticidio non sono più fenomeni  legati a gravi situazioni di emarginazione, ignoranza e precarietà economica. Sono in vero fenomeni più facilmente riscontrabili con madri di giovane età, non sposate e che presentano fenomeni di negazione della gravidanza.  Alla negazione si associa il fenomeno della razionalizzazione dei sintomi, con il risultato che per queste giovani donne i mutamenti corporei della gravidanza hanno una spiegazione alternativa assolutamente ragionevole. A causa della negazione della gravidanza, spesso per queste giovani madri il parto è talmente inaspettato da non riconoscerlo nei sintomi. È quindi tanto inatteso quanto stupefacente. Capita allora di frequente che queste partoriscano nei bagni perché colte da improvvisi e inspiegabili dolori addominali e che al bambino non vengano prestate le adeguate prime cure, mancando anche tutta l’ideazione e l’investimento affettivo che la madre avrebbe dovuto già aver costruito nella gravidanza. Cioè in quel momento quel bambino partorito nella toilette non ha lo statuto di bambino per la madre, ma di impiccio di cui liberarsi.
Non deve stupire che casi come questi siano passati anche al vaglio di medici, i quali non hanno potuto diagnosticare la gravidanza perché instradati su sintomi incoerenti con la diagnosi. Spesso infatti la diagnosi è accidentale, per esempio nel caso di radiografie per motivi diversi (ad es. alla schiena…). La negazione della gravidanza non è  tanto (quantomeno non solo)  associata a patologia della madre quanto alla presenza di stressor sociali quali religione, rigida etica morale, bigottismo, rigidità dell’ambiente, mancanza di supporti intra ed extra familiari etc, che concorrono a creare in queste giovani donne la paura di essere escluse dal proprio ambiente sociale e a ridurre la loro capacità di pianificare un futuro. Interessante sarebbe capire quale tipo di immagine corporea abbiano le mamme.

Il figlicidio invece individua l’uccisione del figlio che ha superato l’anno di età.
Il neonaticidio è quindi caratterizzato dal fatto che il bambino non sia ancora stato investito di quella complessa costellazione affettiva che chiamiamo istinto materno, ma sia considerato un oggetto prodotto del corpo della madre, su cui quindi ella ha piena disponibilità.
Fenomeno ben diverso è il figlicidio. Secondo Merzagora Betsos, se si escludono i casi di uccisione dei figli per vendetta nei confronti del partner e della SPM (Munchausen per procura), si possono descrivere una serie di situazioni tipo lungo un continuum dall’assenza di patologia alla franca patologia.
Le madri che sono solite maltrattare i figli e che li uccidono in un atto impulsivo: è quest’atto una estrema conseguenza della battered child syndrome (bambini che presentano lesioni interne, tagli, contusioni ustioni, bruciature; che vengono portati in ritardo in  pronto soccorso; per le ferite dei quali i genitori hanno una spiegazione plausibil; bambini che manifestano comportamenti devianti)  e sono madri, queste, spesso caratterizzate da disturbi di personalità, scarsa intelligenza, irritabilità, con famiglie numerose e spesso a loro volta vittime nell’infanzia di violenza.
Le madri che uccidono per brutalità (descritte da De Greef) di fronte al pianto del bambino.
Le madri passive e negligenti che uccidono i propri figli con il loro agire omissivo. La morte del bambino può derivare dalla mancanza di cure e di attenzioni da parte della madre che vive le esigenze del bambino come qualcosa di strano e di minaccioso. Sono madri spesso con problemi psicotici, che temono la fusione con il bambino e quindi l’annientamento.  I bambini in questi casi muoiono per scarsa alimentazione, per mancato trattamento delle malattie o per incidenti che paiono sfortunate fatalità.
Le madri che uccidono i figli non voluti: in questi casi il bambino evoca nella mente della madre il ricordo di momenti particolarmente difficili, piuttosto che solitudine o violenza e le madri hanno spesso personalità impulsive e antisociali e precedenti di abuso di sostanze.
Le madri che uccidono il figlio trasformandolo in capro espiatorio di tutte le loro frustrazioni: esse sono convinte che il figlio abbia deformato loro il corpo, che le abbia costrette a vivere dove non vogliono e con  chi non vogliono. Sono madri dalla personalità insicura e con tratti borderline, spesso con vere e proprie malattie mentali con elementi persecutori e paranoidei.
Madri che uccidono i loro figli per motivi di convenienza sociale: fortunatamente oggi sempre più rare, data anche la disponibilità di escamotage anche legali diversi, per esempi l’affidamento al padre in caso di divorzio o il parto in ospedale con l’abbandono del minore.
Madri che uccidono i loro figli per motivi ideologici: è il caso di quelle madri che appartengono a sette religiose che vietano le trasfusioni e il ricorso ai medicinali.
Madri che hanno subito violenza dalla propria madre: queste spostano la loro aggressività dalla propria madre cattiva al figlio. Sono donne che hanno sperimentato l’inadeguatezza materna, la mancanza di protezione, che per anni hanno vissuto frustrazioni continue e ripetute nella famiglia d’origine, per le quali la violenza è la quotidiana forma di risoluzione dei conflitti: tutto questo ha compromesso in loro la capacità di attivare una qualunque forma di attaccamento nei loro figli.
Madri che uccidono nell’ambito di psicopatologie puerperali: si tratta di madri che presentano tre diverse forme di depressione di diversa gravità: maternity blues, depressione post partum e psicosi puerperale.
Madri che vogliono uccidersi e che uccidono anche il figlio, madri che uccidono il figlio per non farlo soffrire, madri che uccidono il figlio perché pensano di salvarlo: tutte queste sono madri che presentano gravi problemi di depressione, ma non legata come lo era per le precedenti all’evento del parto. Sono cioè madri alle quali la diagnosi di depressione era stata fatta magari in tempi molto antecedenti la gravidanza, o che presentano depressione psicotica. In questi casi sono molto accentuate le tematiche di inadeguatezza nello svolgere il ruolo materno, di preoccupazioni irrealistiche sulla salute del figlio, rimuginii circa la possibilità di nuocergli. Particolare attenzione è prescritta per madri depresse che presentino ideazione suicidaria.  Queste possono, in preda ad un delirio per il quale sentono di dover sottrarre alla pena della vita anche le altre persone a lei più care,  uccidere il loro bambino prima di suicidarsi, come se il figlio non fosse un’entità autonoma con vissuti diversi dai suoi. Spesso in realtà dietro a questo gesto insistono anche motivi egoistici come la paura di affrontare la morte da sola o il pensare di essere indispensabile alla vita del figlio.
Il complesso di Medea è usato a indicare il caso in cui la madre uccide il o i propri figli per vendicarsi dell’abbandono, definitivo o meno, del coniuge e risolvere le derivanti tensioni. I figli diventano strumento per infliggere sofferenza all’altro e per attirarne le sue attenzioni. Si tratta di madri sempre affette da un certo delirio di onnipotenza nei confronti dei figli per il quale così come hanno dato loro la vita, si sentono in diritto di togliergliela, estromettendo definitivamente il padre  in un patologico desiderio di completo possesso.
La sindrome di Munchausen per procura invece individua un disturbo psichiatrico per il quale le madri affette lamentano a carico dei propri figli disturbi o sintomi fittizi, spesso incompatibili con patologie reali. In molti casi esse arrivano a procurare ai propri figli i sintomi somministrando loro sostanze ad hoc. Sono madri che paiono estremamente attente al figlio, fino all’eccesso, ed hanno una qualche conoscenza medica. In realtà queste madri hanno necessità di attenzione che ottengono attraverso il ruolo della madre gentile e affabile, tanto buona cui è capitata la disgrazia della strana malattia del figlio. Spesso la somministrazione di sostanze o le cure mediche stesse si rivelano mortali per i figli.



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venerdì 14 ottobre 2016

OBIETTORI DI COSCIENZA

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L'obiezione di coscienza in Italia fa riferimento ad alcuni istituti giuridici volti a regolare l'esercizio dell'obiezione di coscienza.

Fino alla promulgazione di una legge che regolamentasse la fattispecie, l'obiezione di coscienza in Italia fu sempre trattata alla stessa stregua della renitenza alla leva (mancata presentazione al distretto militare per le visite di leva, o alla destinazione assegnata per lo svolgimento del servizio), oppure alla diserzione (rifiuto di proseguire il servizio di leva dopo averlo intrapreso).

Il primo obiettore italiano ufficialmente documentato fu Remigio Cuminetti, un Testimone di Geova che, nel 1916, in piena Grande Guerra, finì sotto processo per diserzione a causa del suo rifiuto di indossare l'uniforme. Nel 1940, ancora vigente il regime fascista, 26 Testimoni di Geova furono processati e condannati perché rifiutarono l'obbligo militare.

Nel secondo dopoguerra, spiccano anche i casi di Rodrigo Castello, di Pietrelcina (BN), cristiano pentecostale condannato dal Tribunale militare e successivamente tornato in libertà a seguito di amnistia, e di Enrico Ceroni, altro Testimone di Geova che, dopo perizia psichiatrica, fu condannato a 5 mesi e 20 giorni di reclusione con il beneficio della condizionale. Tra il 1946 e il 1959 ci furono 179 giovani tra i Testimoni di Geova che rifiutarono di indossare la divisa militare. Il primo processo penale di notevole risonanza fu quello a Pietro Pinna, svoltosi nel 1949. Pietro Pinna, che si appellava semplicemente ai principi della non violenza, fu condannato a 10 mesi di reclusione con il beneficio della condizionale. La notorietà che assunse il caso Pinna portò alla prima presentazione del progetto di legge relativo al riconoscimento dell'obiezione di coscienza (onorevole Colosso, Deputato del PSI, e onorevole Iginio Giordani, Deputato della DC) e permise l'avvio di un dibattito ventennale - non privo di asprezze, polemiche e accuse di viltà, scarso patriottismo e alto tradimento - sull'obiezione di coscienza, che sfociò con la legge summenzionata.

Il 1950 vede il processo di Eveloine Santi, obiettore di fede valdese. Negli anni sessanta si terranno poi i processi agli obiettori cattolici, Giuseppe Gozzini e Fabrizio Fabbrini. A questo si aggiunsero le forti prese di posizione in favore dell'obiezione di coscienza da parte di padre Ernesto Balducci e di don Lorenzo Milani che trattò l'argomento nella sua opera L'Obbedienza non è più una virtù subendo anche un processo.

Su proposta del Sen. Anderlini nel 1970 viene presentata in Parlamento, insieme ai colleghi democristiani Giovanni Marcora e Carlo Fracanzani, una proposta di legge per legalizzare l'obiezione di coscienza. La proposta viene approvata dal Parlamento due anni dopo, con l'istituzione del servizio civile obbligatorio per chi rifiuta di prestare il servizio militare.

La prima norma nell'ordinamento italiano a disciplinare l'obiezione di coscienza fu la legge 15 dicembre 1972 n. 772 (la cosiddetta Legge Marcora dal nome del suo relatore) seguita dal relativo regolamento di attuazione di cui al D.P.R. 28 novembre 1977 n. 1139 ("Norme di attuazione della legge 15 dicembre 1972, n. 772, sul riconoscimento dell'obiezione di coscienza").
Tale legge permise agli obiettori di scegliere il servizio civile sostitutivo obbligatorio, di durata di 8 mesi superiore alla durata del servizio che si sarebbe dovuto svolgere (all'epoca 15 mesi per l'esercito, ridottisi successivamente a 12 ed infine a 10 nel 1997, 22 per la Marina Militare, ridottisi poi a 18). Tale periodo aggiuntivo fu ritenuto, in tempi più recenti, incostituzionale (sentenza 470 del 1989). È stato abolito quindi il comma 1 dell'art. 5 della legge che prevedeva una durata di 8 mesi oltre alla durata del servizio militare.

Per protestare contro una legge giudicata non equa, nel gennaio del 1973 venne fondata la Lega degli obiettori di coscienza (LOC) per iniziativa del Partito Radicale, di Pietro Pinna divenuto fondatore con Aldo Capitini del Movimento Nonviolento, del Senatore Luigi Anderlini e del valdese Giorgio Peyrot, esponente del gruppo cristiano Movimento Internazionale di Riconciliazione (MIR).

La durata superiore del servizio civile sostitutivo di quello armato fu dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 470 del 1989 che considerava la maggior durata del servizio alternativo a quello armato una:
« sanzione conseguente ad una particolare espressione della persona, nel più aperto contrasto sia con il principio di eguaglianza che con il diritto di libera manifestazione del pensiero, dando vita ad un'ingiustificata valutazione deteriore delle due forme di servizio alternativo a quello armato. »
Una disciplina organica della materia però si ebbe solo con la legge 8 luglio 1998 n. 230 che, abrogando la precedente legge n. 772/1972, e riconobbe compiutamente per la prima volta il diritto all'obiezione di coscienza, configurando la stessa non più come un beneficio concesso dallo Stato, bensì come un diritto della persona.

Con la sospensione delle chiamate al servizio militare di leva in Italia ad opera della legge 23 agosto 2004 n. 226 (a partire dal 1º gennaio 2005), risultò sospesa di fatto anche l'opzione del servizio civile obbligatorio per obiezione di coscienza.

L'essere obiettori di coscienza al servizio militare obbligatorio comportava tuttavia alcune conseguenze sullo stato giuridico, come conseguenza l'irrinunciabilità di tale status e l'impossibilità, vita natural durante, di ottenere il porto d'armi e di essere reclutato nelle forze armate italiane e nelle altre forze di polizia italiane (es. polizia municipale). Tali limitazioni permasero tuttavia con la riforma del 1998, benché altre disposizioni che potessero essere ritenute discriminatorie siano state comunque eliminate da tale legge. Inoltre, l'essersi dichiarati obiettori poteva rendere molto difficile lavorare nel campo dell'industria della difesa.



L'emanazione della legge 2 agosto 2007 n. 130 ha reso tuttavia possibile esercitare la rinuncia allo stato di obiettore: infatti la norma ha modificato la legge del 1998, stabilendo che l'obiettore ammesso al servizio civile, decorsi almeno cinque anni dalla data in cui è stato collocato in congedo secondo le norme previste per il servizio di leva, possa rinunziare allo status di obiettore di coscienza presentando apposita dichiarazione, non revocabile, da inoltrare all'Ufficio nazionale per il servizio civile, facendo così venire meno le limitazioni residue di cui alla legge n. 230/1998 e ponendo fine in modo effettivo a talune discriminazioni cui obiettivamente andavano incontro i cittadini, che avessero scelto di prestare il servizio civile in luogo di quello di leva. Il d.lgs 5 marzo 2010 n. 66 (Codice dell'arruolamento militare) dispone che agli obiettori di coscienza che sono stati ammessi a prestare servizio civile è vietato partecipare ai concorsi per qualsiasi impiego (pubblico o privato) che comporti l'uso delle armi e comunque partecipare a qualsiasi procedura per l'arruolamento nelle forze armate italiane e nelle forze di polizia italiane ad ordinamento militare o per l'assunzione nelle Forze di polizia a ordinamento civile, facendo però salva la possibilità di rinuncia allo status di obiettore.

La legge 12 ottobre 1993, n. 413 in materia di Norme sull'obiezione di coscienza alla sperimentazione animale riconosce il diritto all'obiezione di coscienza nei confronti della sperimentazione animale.

Qualsiasi ente che svolga sperimentazione animale deve obbligatoriamente rendere noto agli operatori la possibilità dell'obiezione di coscienza e tale scelta non deve avere in alcun modo conseguenze sfavorevoli.

L'obiezione di coscienza per i professionisti sanitari è prevista per l'interruzione volontaria di gravidanza (IVG): introdotta in Italia dalla legge 22 maggio 1978 n. 194. Il medico può esercitare l'obiezione in qualsiasi momento della sua pratica, ma nel caso in cui partecipi attivamente ad una procedura di IVG (anche soltanto consigliando dove eseguirla) lo stato di obiettore decade irrevocabilmente comportando l'impossibilità per il medico di esercitare nuovamente l'obiezione.

Lo status di obiettore non esonera il professionista sanitario dall'assistenza antecedente e conseguente all'intervento. Il SSN è tenuto a assicurare che l'IVG si possa svolgere nelle varie strutture ospedaliere deputate a ciò, e quindi qualora il personale assunto sia costituito interamente da obiettori dovrà supplire a tale carenza in modo da poter assicurare il servizio, ad es. tramite trasferimenti di personale.

Il professionista sanitario, anche se obiettore, non può invocare l'obiezione di coscienza qualora l'intervento sia indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo (esempio: donna che giunge presso il pronto soccorso ospedaliero con grave emorragia in atto a causa di un aborto clandestino: il medico, anche se obiettore, ha in tale situazione l'obbligo di portare a termine la procedura di aborto se questo è indispensabile per salvare la vita della donna).

Molti specialisti hanno fatto questa scelta davvero per ragioni morali. Per altri il motivo del rifiuto non ha a che fare con la coscienza ma con questioni pratiche, a volte legate alla carriera o alla reputazione.  

Capita quindi che una donna si trovi costretta a spostarsi dalla propria città per arrivare nel posto in cui la legge dello stato viene applicata regolarmente. Per le minorenni che hanno voluto nascondere la situazione ai propri genitori e hanno ottenuto un permesso dal giudice del Tribunale dei Minori l’iter sarà quindi ancora più complicato.  
  
Secondo una relazione del ministero della Salute risalente allo scorso anno, in Italia ben 7 ginecologi su 10 si rifiutano di effettuare interventi di aborto volontario per motivi etici.  
  
Rispetto al 2005, quasi il 12% in più di questi medici ha sentito nella propria coscienza il bisogno di non prendere parte all’espletamento di un diritto sancito per legge. In alcune regioni poi, quasi la totalità dei ginecologi si dichiara obiettore di coscienza.  

Nel Molise sono obiettori il 93,3% dei ginecologi, il 92,9% nella PA di Bolzano, il 90.2% in Basilicata, l’87,6% in Sicilia, l’86,1% in Puglia, l’81,8% in Campania, l’80,7% nel Lazio e in Abruzzo. 

Meno accentuata, ma sempre molto alta la percentuale di anestesisti obiettori che, in media, è pari al 49,3%. Anche in questo caso i valori più elevati si osservano al Sud, con un massimo di 79,2% in Sicilia, 77,2% in Calabria, 76,7% in Molise e 71,6% nel Lazio. Mentre il personale medico obiettore raggiunge valori intorno al 46,6% con un massimo di 89,9% in Molise e 85,2% in Sicilia. 
  
In pratica su 94 ospedali con un reparto di ostetricia e ginecologia, solo 62 effettuano interruzioni volontarie di gravidanza. Cioè solo il 65,5% del totale. 

Alcune parti del nostro paese rimangono quasi completamente scoperte. La relazione del ministero della Salute non si è spinta oltre questi freddi numeri, ritenuti dal dicastero tutto sommato accettabili.  

Ma se si vanno a spulciare i dati Istat appare subito evidente lo sforzo che viene richiesto a moltissime donne per portare avanti la loro scelta difficile: nel 2012 21mila donne su 100mila si sono rivolte a strutture di altre province. Di queste il 40% è stata costretta a cambiare addirittura regione.  

Di fatto nelle province di Isernia, Benevento, Crotone, Carbonia-Iglesias e Fermo, è praticamente impossibile abortire.  
  
In Francia tutti gli ospedali pubblici hanno l’obbligo per legge di rendere disponibili i servizi di interruzione della gravidanza.  

In Inghilterra è obiettore solo il 10% dei medici ed esistono centri di prenotazione aperti 24 ore su 24 e 7 giorni su 7. Non solo. Tutti gli operatori che decidono di lavorare nelle strutture di pianificazione familiare non possono dichiararsi obiettori.  

In Svezia il diritto all’obiezione di coscienza non esiste proprio. Gli specializzandi in ginecologia e ostetricia che pensano che l’aborto sia una cosa sbagliata vengono indirizzati verso altre specializzazioni.

Altre prassi biomediche di recente emerse all’attenzione del legislatore per le evidenti implicazioni etiche che comportano sono l’eutanasia e il suicidio assistito, la fecondazione artificiale e le manipolazioni genetiche, la sperimentazione su embrioni umani e la diagnosi prenatale con finalità eugenetica che, potendo avere come esito la morte del concepito, violano il principio del «non uccidere». Delicata è anche la posizione di medici e farmacisti di fronte alla possibilità di prescrivere e somministrare farmaci abortivi, configurandosi la fattispecie in presenza della quale si legittima il diritto di appellarsi alla ‘clausola di coscienza’, dato il riconosciuto rango costituzionale dello scopo di tutela del concepito che motiva l’astensione (Corte cost., sent. 35/1997).

Per i testimoni di Geova le trasfusioni di sangue sono vietate dalle loro convinzioni religiose. In questo, ed in altri simili casi, è indiscutibile che l'obiettore si assuma la responsabilità in prima persona, senza coinvolgere altri soggetti. Tuttavia, in alcuni casi, il soggetto, se in pericolo di vita, può essere indotto a subire la trasfusione.



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lunedì 27 luglio 2015

27 LUGLIO 1993



In questo mondo si conoscono  solo scene di guerra: qui siamo  Milano 22 anni fa.....  appartenere alla razza umana è un triste guardando tali scene.

27 luglio 1993: la strage di via Palestro, un attentato dinamitardo avvenuto a Milano ad opera di cosa nostra.

L'esplosione di una autobomba in via Palestro, presso la Galleria d'arte moderna e il Padiglione di arte contemporanea provocò l'uccisione di cinque persone: i Vigili del Fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, l'Agente di Polizia Municipale Alessandro Ferrari e Moussafir Driss, immigrato marocchino che dormiva su una panchina. Tale attentato viene inquadrato nella scia degli altri attentati del '92-'93 che provocarono la morte di 21 persone (tra cui i giudici Falcone e Borsellino) e gravi danni al patrimonio artistico.

Nel maggio 1993 alcuni mafiosi di Brancaccio e Corso dei Mille (Giuseppe Barranca, Gaspare Spatuzza, Cosimo Lo Nigro, Francesco Giuliano) provvidero a macinare e confezionare altro esplosivo in una casa fatiscente a Corso dei Mille, sempre messa a disposizione da Antonino Mangano (capo della Famiglia di Roccella); a metà luglio le due balle di esplosivo vennero nascoste in un doppiofondo ricavato nel camion di Pietro Carra (autotrasportatore che gravitava negli ambienti mafiosi di Brancaccio), che le trasportò ad Arluno, in provincia di Milano, insieme a Lo Nigro, che portò con sé una miccia ed altro materiale: ad Arluno, Carra e Lo Nigro furono raggiunti da una persona che li condusse in una stradina di campagna, dove scaricarono l'esplosivo. Il 27 luglio Lo Nigro e Giuliano giunsero a Roma, provenendo da Milano, per organizzare anche gli attentati alle chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro.

La sera del 27 luglio l'agente di Polizia Locale Alessandro Ferrari notò la presenza di una Fiat Uno (che risulterà poi rubata qualche ora prima) parcheggiata in via Palestro, di fronte al Padiglione di arte contemporanea, da cui fuoriusciva un fumo biancastro e quindi richiese l'intervento dei Vigili del fuoco, che accertarono la presenza di un ordigno all'interno dell'auto; tuttavia, qualche istante dopo, l'autobomba esplose ed uccise l'agente Alessandro Ferrari e i vigili del fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno ma anche l'immigrato marocchino Moussafir Driss, che venne raggiunto da un pezzo di lamiera mentre dormiva su una panchina.

L'onda d'urto dell'esplosione frantumò i vetri delle abitazioni circostanti e danneggiò anche alcuni ambienti della vicina Galleria d'arte moderna, provocando il crollo del muro esterno del Padiglione di arte contemporanea. Durante la notte esplose una sacca di gas formatasi in seguito alla rottura di una tubatura causata dalla deflagrazione, che procurò ingenti danni al Padiglione, ai dipinti che ospitava e alla circostante Villa Reale.

Le indagini ricostruirono l'esecuzione della strage di via Palestro in base alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Pietro Carra, Antonio Scarano, Emanuele Di Natale e Umberto Maniscalco: nel 1998 Cosimo Lo Nigro, Giuseppe Barranca, Francesco Giuliano, Gaspare Spatuzza, Luigi Giacalone, Salvatore Benigno, Antonio Scarano, Antonino Mangano e Salvatore Grigoli vennero riconosciuti come esecutori materiali della strage di via Palestro nella sentenza per le stragi del 1993; tuttavia, nella stessa sentenza, si leggeva: « Purtroppo, la mancata individuazione della base delle operazioni a Milano e dei soggetti che in questa città ebbero, sicuramente, a dare sostegno logistico e contributo manuale alla strage non ha consentito di penetrare in quelle realtà che, come dimostrato dall’investigazione condotta nelle altre vicende all’esame di questa Corte, si sono rivelate più promettenti sotto il profilo della verifica “esterna”».

Nel 2002, sempre in base alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Carra e Scarano, la Procura di Firenze dispose l'arresto dei fratelli Tommaso e Giovanni Formoso ("uomini d'onore" di Misilmeri), identificati dalle indagini come coloro che aiutarono Lo Nigro nello scarico dell'esplosivo ad Arluno e che compirono materialmente la strage di via Palestro. Nel 2003 la Corte d'Assise di Milano condannò i fratelli Formoso all'ergastolo e tale condanna venne confermata nei due successivi gradi di giudizio.

Nel 2008 Gaspare Spatuzza iniziò a collaborare con la giustizia e fornì nuove dichiarazioni sugli esecutori materiali della strage di via Palestro: in particolare, Spatuzza riferì che lui, Cosimo Lo Nigro, Francesco Giuliano, Giovanni Formoso e i fratelli Vittorio e Marcello Tutino (mafiosi di Brancaccio) parteciparono ad una riunione in cui vennero decisi i gruppi che dovevano operare su Roma o Milano per compiere gli attentati; secondo Spatuzza, Formoso e i fratelli Tutino operarono su Milano e in un primo momento lui, Lo Nigro e Giuliano li raggiunsero per aiutarli nello scarico dell'esplosivo e nel furto della Fiat Uno utilizzata nell'attentato, per poi tornare a Roma al fine di compiere gli attentati alle chiese.

In seguito Spatuzza scagionò anche Tommaso Formoso, dichiarando che all'attentato partecipò soltanto il fratello Giovanni, che da Tommaso si era fatto prestare con una scusa la villetta di Arluno dove venne scaricato l'esplosivo: tuttavia nell'aprile 2012 la Corte d'Assise di Brescia rigettò la richiesta di revisione del processo a Tommaso Formoso, adducendo che le sole dichiarazioni di Spatuzza non bastavano. Sempre sulla base delle dichiarazioni di Spatuzza, nel 2012 la Procura di Firenze dispose l'arresto del pescatore Cosimo D'Amato, cugino di Cosimo Lo Nigro, il quale era accusato di aver fornito l’esplosivo, estratto da residuati bellici recuperati in mare, che venne utilizzato in tutti gli attentati del '92-'93, compresa la strage di via Palestro. Nel 2013 D'Amato venne condannato all'ergastolo con il rito abbreviato dal giudice dell'udienza preliminare di Firenze.


«Stanno comparendo diverse scritte in tutta Milano contro il 41 bis. Scritte particolari, bianche, a caratteri grandi, grafia incerta, ma ben studiate»: aveva denunciato sabato dal suo profilo Facebook il consigliere comunale del Pd David Gentili, che è anche Presidente della Commissione antimafia del Consiglio comunale di Milano. «Per la commemorazione della Strage di Palestro (27 luglio), ci piacerebbe - scrive Gentili - coinvolgere i cittadini stessi nel censurare con nettezza una campagna aggressiva, anonima, di sostegno ai mafiosi, che ci preoccupa».

Sono comparse decine di scritte contro il 41 bis sui muri di Milano. Graffiti che si oppongono al regime di carcere duro, solitamente riservato ai condannati per mafia, e che l'amministrazione comunale si sta impegnando a fare cancellare. L'autore è ignoto. La grafia delle varie scritte sembra molto simile, ma con qualche differenza fra un graffito e l'altro, tanto da fare pensare che possa esserci più di una mano.

Le scritte sono comparse in diversi punti della città e col passare delle ore altre ne vengono segnalate e cancellate. La mappa va allargandosi: piazza Leonardo Da Vinci, piazzale Maciachini, uno dei viadotti in zona Mac Mahon, viale Monza all'altezza di Precotto, Villa San Giovanni, viale Monteceneri. E la lista è ancora lunga. Sul muro di cinta dell'ippodromo è stata poi trovata la scritta "omertà = rispetto", ma potrebbe essere stata tracciata precedentemente e notata solo ora. Il Comune ha segnalato la cosa alla questura.

La cancellazione del regime di carcerazione previsto dall'articolo 41 bis (introdotto dalla Legge Gozzini) è una battaglia ormai storica dei parenti dei detenuti che vi sono sottoposti. Fece scalpore nel 2002  la comparsa allo stadio di Palermo di uno striscione contro il 41 bis durante la partita Palermo-Ascoli del 22 dicembre. Un'inchiesta della Procura di Palermo chiarì come a fare esporre lo striscione furono direttamente i boss di Cosa nostra del quartiere Brancaccio. L'abolizione del 41 bis sarebbe anche stata la richiesta da parte di Cosa nostra alla base della trattativa Stato-mafia successiva alle bombe del biennio '92 e '93.

Partendo da tutt'altro presupposto, il 41 bis è inviso anche a una serie di associazioni che si battono per i diritti dei detenuti. Il diritto dei detenuti....che hanno ucciso altre persone ....con quale diritto???? Gli animali uccidono quando hanno fame....


L'articolo 41-bis (comunemente chiamato carcere duro) fa riferimento ad una disposizione normativa della Repubblica Italiana, previsto dell'ordinamento penitenziario italiano.

La disposizione venne introdotta dalla legge legge Gozzini, che modificò la legge 26 luglio 1975, n. 354 (la legge sull'ordinamento penitenziario italiano) e riguardava inizialmente soltanto le situazioni di rivolta o altre gravi situazioni di emergenza interna alle carceri italiane.

A seguito della strage di Capaci del 23 maggio 1992, dove persero la vita Giovanni Falcone, la moglie e gli uomini della sua scorta, fu introdotto dal decreto legge 8 giugno 1992, n. 306 (cosiddetto Decreto antimafia Martelli-Scotti), convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, un secondo comma all'articolo, che consentiva al Ministro della Giustizia di sospendere per gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica le regole di trattamento e gli istituti dell'ordinamento penitenziario nei confronti dei detenuti facenti parti dell'organizzazione criminale mafiosa. Mentre si discuteva la proroga della legge, Leoluca Bagarella, in teleconferenza durante un processo a Trapani, legge un comunicato contro il 41 bis, in cui accusa i politici di non aver mantenuto le promesse (cfr. Papello di Totò Riina). Viene resa pubblica una lettera firmata da 31 boss mafiosi, con alcuni avvertimenti ai loro avvocati che, diventati parlamentari, li hanno dimenticati. In seguito, viene assegnata una scorta ad alcuni di questi avvocati e a Dell’Utri; quest'ultimo dopo alcuni mesi vi rinuncerà.

Nel 1995 il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (C.P.T.) ha visitato le carceri italiane per verificare le condizioni di detenzione dei soggetti sottoposti al regime ex art. 41-bis. Ad avviso della delegazione, questa particolare fattispecie di regime detentivo era risultato il più duro tra tutti quelli presi in considerazione durante la visita ispettiva. La delegazione intravedeva nelle restrizioni gli estremi per definire i trattamenti come inumani e degradanti. I detenuti erano privati di tutti i programmi di attività e si trovavano, essenzialmente, tagliati fuori dal mondo esterno. La durata prolungata delle restrizioni provocava effetti dannosi che si traducevano in alterazioni delle facoltà sociali e mentali, spesso irreversibili.

La norma aveva carattere di temporaneità: la sua efficacia era limitata ad un periodo di tre anni dall'entrata in vigore della legge di conversione. La sua efficacia è stata prorogata una prima volta fino al 31 dicembre 1999, una seconda volta fino al 31 dicembre 2000 ed una terza volta fino al 31 dicembre 2002. Dopo 10 anni dalla strage di Capaci, il 24 maggio 2002 il Consiglio dei Ministri approvò un disegno di legge di modifica degli articoli. 4-bis e 41-bis che fu poi approvato dal Parlamento come Legge 23 dicembre 2002, n. 279 Modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di trattamento penitenziario, prevedendo che il provvedimento ministeriale non poteva essere inferiore ad un anno e non poteva superare i due e che le proroghe successive potessero essere di solo un anno ciascuna; il regime di carcere duro venne esteso anche ai condannati per terrorismo ed eversione.

La legge 15 luglio 2009, n. 94 Disposizioni in materia di sicurezza pubblica ha cambiato di nuovo i limiti temporali, tuttora in vigore: il provvedimento può durare quattro anni e le proroghe due anni ciascuna.

La norma prevede la possibilità per il Ministro della Giustizia di sospendere l'applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti previste dalla stessa legge in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza per alcuni detenuti (anche in attesa di giudizio) incarcerati per reati di criminalità organizzata, terrorismo, eversione ed altri tipi di reato.

Il regime si applica a singoli detenuti ed è volto ad ostacolare le comunicazioni degli stessi con le organizzazioni criminali operanti all'esterno, i contatti tra appartenenti alla stessa organizzazione criminale all'interno del carcere ed i contrasti tra gli appartenenti a diverse organizzazioni criminali, così da evitare il verificarsi di delitti e garantire la sicurezza e l'ordine pubblico anche fuori dalle carceri.

La legge specifica le misure applicabili, tra cui le principali sono il rafforzamento delle misure di sicurezza con riguardo alla necessità di prevenire contatti con l'organizzazione criminale di appartenenza, restrizioni nel numero e nella modalità di svolgimento dei colloqui, la limitazione della permanenza all'aperto (cosiddetta ora d'aria) e la censura della corrispondenza.
Il "carcere duro" è applicabile per taluno dei delitti indicati dall'articolo 4-bis della legge penitenziaria:

delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza;
delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso;
delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'associazione mafiosa ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni mafiose;
delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù;
delitto di chi induce alla prostituzione una persona di età inferiore agli anni diciotto ovvero ne favorisce o sfrutta la prostituzione;
delitto di chi, utilizzando minori degli anni diciotto, realizza esibizioni pornografiche o produce materiale pornografico ovvero induce minori di anni diciotto a partecipare ad esibizioni pornografiche e chi fa commercio del materiale pornografico predetto;
delitto di tratta di persone;
delitto di acquisto e alienazione di schiavi;
delitto di violenza sessuale di gruppo;
delitto di sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione;
delitto di associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri;
delitto di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope.

Il Tribunale di sorveglianza ha revocato l'applicazione della misura nei confronti di Michele Aiello e ad Antonino Troia. In entrambi i casi la presidente dell'Associazione familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili Giovanna Maggiani Chelli ha contestato la decisione.

In data 5 novembre 2009 il Ministro della Giustizia Angelino Alfano ha reso pubblica la decisione del governo di riaprire le carceri di Pianosa e dell'Asinara, penitenziari nei quali sono stati storicamente detenuti i boss mafiosi in applicazione di tale misura. Il ministro dell'ambiente Prestigiacomo ha detto che il carcere di Pianosa non riaprirà per motivi ambientali ma si studieranno soluzioni alternative.
Anche duramente ma vivono ....dovrebbero pensare a tutto il male che hanno fatto e le vite che hanno tolto.



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sabato 21 febbraio 2015

PARCO RAVIZZA UNO DEI PARCHI PIU' ANTICHI



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Il Parco Alessandrina Ravizza è un parco pubblico di Milano, dedicato alla memoria di Alessandrina Ravizza.

È il primo a essere progettato lungo la circonvallazione esterna, a sudest della città.

L'area del parco Ravizza fu prevista in uno dei primi tentativi di espansione della città di Milano avvenuti sul finire dell'Ottocento. L'area venne già destinata a parco pubblico dal piano regolatore Beruto del 1889, ma venne realizzato solo nel 1902, quando venne completata la demolizione della cascina Camporicco che ne occupava lo spazio.

Il progetto definitivo fu steso dall'architetto Tettamanzi il quale articolò il parco Ravizza come l'area verde per il quartiere destinato a sorgervi attorno.

Il parco venne successivamente intitolato ad Alessandrina Ravizza, anticipatrice di molti temi femministi e benefattrice della città dove si dedicò all'infanzia abbandonata e al problema del diritto allo studio delle donne. Il parco divenne molto popolare come ritrovo diurno di studenti a partire dagli anni quaranta dopo che venne costruita nei suoi pressi la nuova sede dell'Università Bocconi (1938-1941).

Negli anni successivi all'entrata in vigore della legge Merlin la prostituzione invase progressivamente le strade di molte città e il parco Ravizza nottetempo era frequentato soprattutto da travestiti e transessuali cui si aggiunsero ben presto sistematici atti di vandalismo e fenomeni legati allo spaccio e al consumo di stupefacenti. Non era l'unico parco milanese a essere in condizioni disastrose per le frequentazioni notturne. La stampa quotidiana si faceva eco del disagio e delle proteste dei cittadini e sottolineava l'inadeguatezza dei provvedimenti delle autorità. Si giunse fino alla pubblicazione di vere e proprie "mappe cittadine" dei luoghi maggiormente colpiti dal fenomeno e la "singolarità" del parco Ravizza suscitò evidentemente una risonanza che andò ben oltre i confini milanesi, suscitando anche morbose e sinergiche curiosità.

La cattiva nomina del luogo è rimasta a lungo, anche quando più frequenti controlli, un'illuminazione efficace e soprattutto un diverso modo di affrontare il fenomeno hanno riportato la situazione a non essere diversa da quella di tanti altri luoghi cittadini.

Il parco è, in pianta, un grande rettangolo affacciato sul viale Toscana, fronteggiato dal parco ex OM; gli altri lati sono disegnati dalle vie Ferdinando Bocconi, Vignola e Vittadini. Il viale Giovanni Sebastiano Bach, chiuso al traffico dagli anni sessanta lo taglia in due proseguendo la viabilità esterna, mentre il largo viale Giovanni Brahms ha andamento sinuoso e si raccorda, attraverso viali minori, al largo Ludovico Beethoven: i viali, secondo il gusto del tempo, sono affiancati da numerosi alberi di alto fusto, di cui è ricco l'intero parco. Tra le essenze ricordiamo: l'acero americano, l'ailanto, il cedro deodara, il cedro dell'Atlante, il platano, varie specie di quercia, la sophora, il tiglio, il pioppo nero, il bagolaro, il carpino, l'olmo e lo spino di Giuda.

Le attrezzature sono scarne: è presente un solo campo gioco e tre sono le aree cintate per i cani; per il resto, il parco è soltanto l'ombroso riposo progettato dal suo ideatore.


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