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sabato 1 ottobre 2016

PREGIUDIZI

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È più difficile disintegrare un pregiudizio che un atomo.
Albert Einstein

Un pregiudizio è generalmente basato su una predilezione immotivata per un particolare punto di vista o una particolare ideologia. Un tale pregiudizio può ad esempio condurre ad accettare o rifiutare la validità di una dichiarazione non in base alla forza degli argomenti a supporto della dichiarazione stessa, ma in base alla corrispondenza alle proprie idee preconcette. Senza quindi alcuna riflessione.

Ciò non significa che sia necessario, prima di affrontare qualsiasi questione, liberarsi da ogni pregiudizio, ma solo che di ogni proprio pregiudizio vada assunta piena consapevolezza, al fine di relativizzarne il peso e di abbandonare ogni insostenibile pretesa di verità a priori. Solo così è possibile instaurare un dialogo tra religioni diverse nel quale gli interlocutori non debbano rinunciare alle proprie più genuine e marcate posizioni: i punti di incontro non vanno trovati a scapito delle irrinunciabili e manifeste incompatibilità, e tuttavia il dialogo è possibile proprio perché nessuno crede che la propria verità renda menzogna quella dell'altro.

Nel linguaggio della psicologia sociale, quando si parla di pregiudizi ci si riferisce a un tipo particolare di atteggiamenti. Propriamente sono atteggiamenti intergruppo, cioè posizioni di favore o sfavore che hanno per oggetto un gruppo e si formano nelle relazioni intergruppo. Il pregiudizio può essere analizzato da un punto di vista antropologico perché nasce dal comune modo di approcciarsi verso la realtà. Fa parte quindi del senso comune, che è quella forma di pensiero e di ragionamento che appartiene a una cultura e ne plasma la produzione culturale in modo inconsapevole.

Si può dire anche che i pregiudizi sono culturali nel senso che variano da cultura a cultura. Ad esempio gli europei hanno determinati pregiudizi nei confronti delle qualità fisiche e psicologiche delle etnie di pelle nera. Molte tribù africane, all'opposto, pensano che gli europei siano portatori di stregoneria nella loro terra. Inoltre vi sono basi psicologiche perché è un pensiero che si basa sulle paure e le fobie del singolo individuo. Ad esempio, un pregiudizio può portare al razzismo, perché si ha paura dell'altro, dell'altra cultura, specie quando la si conosce poco. Dunque l'ignoranza in un determinato campo porta al pregiudizio.

In sociolinguistica il termine pregiudizio assume che l'uso di una certa variante linguistica o di una certa varietà di lingua ci consente di esprimere una valutazione su altri aspetti della personalità dell'individuo con cui stiamo dialogando. Queste maniere differenti di dire la stessa cosa possono assumere un grande significato sociale.

Nella filosofia della scienza il termine "pregiudizio" ha a che fare con quei fattori psicologici che alterano gli esperimenti di verifica delle ipotesi.
All'interno delle scienze sociali, Walter Lippmann, intorno al 1920, promosse il termine stereotipo nei suoi scritti relativi al pregiudizio.

Alla base di atteggiamenti non basati sull'esperienza diretta vi sono spesso stereotipi e pregiudizi.

Per la psicologia sociale uno stereotipo corrisponde a una credenza o a un insieme di credenze in base a cui un gruppo di individui attribuisce determinate caratteristiche a un altro gruppo di persone.

Gli stereotipi assomigliano molto dunque a degli schemi mentali e quando per valutare o prevedere il comportamento di una persona ricorriamo a degli stereotipi, questo tipo di ragionamento ricorda molto quanto detto a proposito delle euristiche: utilizzando uno stereotipo per valutare una persona noi non facciamo altro che utilizzare come scorciatoia mentale l'ipotesi che chi rientra in una determinata categoria avrà probabilmente le caratteristiche proprie di quella categoria.

D'altra parte uno stereotipo non si basa su una conoscenza di tipo scientifico, ma piuttosto rispecchia una valutazione che spesso si rivela rigida e non corretta dell'altro, in quanto attraverso gli stereotipi si tende in genere ad attribuire in maniera indistinta determinate caratteristiche a un'intera categoria di persone, trascurando cioè tutte le possibili differenze che potrebbero invece essere rilevate tra i diversi componenti di tale categoria. Occorre tuttavia ricordare che non necessariamente tutti gli stereotipi sono negativi: ad esempio, lo stereotipo che gli anziani hanno i capelli bianchi non ha una connotazione negativa, e se utilizzato tenendo conto che possono anche esistere eccezioni, può anche rivelarsi un'utile strategia cognitiva. In effetti se considerati come delle generalizzazioni che possono rivelarsi approssimative, gli stereotipi dimostrano di potersi rivelare, così come gli schemi mentali, delle valide strategie mentali.

Può essere utile riflettere sul come e sul perché tendiamo a creare degli stereotipi, anche se spesso essi si rivelano nient'altro che concezioni errate. In parte molti dei nostri stereotipi sono mutuati culturalmente (come quelli legati alla differenza uomini/donne, oppure relativamente al carattere o ai difetti di certe popolazioni), e ci spingeranno ad etichettare certi atteggiamenti in maniera diversa a seconda dell'attore coinvolto per rimanere coerenti con lo stereotipo di base. Gli studi sulla memoria hanno anche dimostrato come tendiamo a ricordare meglio e con più precisione episodi che confermano le nostre credenze e a dimenticare o sfumare quelli che le contraddicono; inoltre, dal punto di vista cognitivo, le persone tendono a dare un peso maggiore alle prove che confermano le proprie ipotesi piuttosto che a quelle che le contraddicono.

Similare alla connotazione più negativa di uno stereotipo, in psicologia un pregiudizio è un'opinione preconcetta concepita non per conoscenza precisa e diretta del fatto o della persona, ma sulla base di voci e opinioni comuni. Il significato di pregiudizio è cambiato nel tempo: si è passati dal significato di giudizio precedente a quello di giudizio prematuro e infine di giudizio immotivato, di idea positiva o negativa degli altri senza una ragione sufficiente (il pregiudizio è in tal senso generalmente negativo). Bisogna anche distinguere il concetto errato dal pregiudizio: un pensiero infatti diventa pregiudizio solo quando resta irreversibile anche alla luce di nuove conoscenze.



Spesso il nutrire pregiudizi relativamente a determinate categorie di persone porta a modificare il nostro comportamento sulla base delle nostre credenze, con la conseguenza di creare condizioni tali per cui ipotesi formulate sulla base di pregiudizi si verificano (profezie che si autoavverano). Naturalmente questi comportamenti porteranno poi al rafforzamento degli stereotipi stessi.

Eliminare i pregiudizi non è un'impresa facile, in quanto sono determinati da una serie di concause che hanno le loro radici nel sociale e possono quindi vantare una forte influenza sugli individui. Favorire contatti tra gruppi diversi, migliorare la conoscenza delle persone che per qualche motivo vengono percepite come “diverse” può servire a ridurre i pregiudizi, ma naturalmente occorre che le persone siano effettivamente disposte a rivedere le proprie convinzioni.

Nel manuale di psicologia sociale di Kenneth J. Gergen e Mary M. Gergen, il pregiudizio viene considerato un atteggiamento e quando questo atteggiamento si traduce in un comportamento specifico si può parlare di discriminazione.
Uno dei risultati dei meccanismi di discriminazione è che le persone contro cui essa è diretta possono sperimentare un abbassamento dell’autostima, ovvero un senso di inferiorità. Chi è vittima della discriminazione può anche sviluppare una volontà di fallire, può voler evitare, cioè, la possibilità di aver successo in una competizione.
Secondo le ricerche e gli studi più aggiornati, il pregiudizio viene acquisito durante l’infanzia o in qualsiasi periodo della vita, e il fatto che cresca o diminuisca col tempo dipende da circostanze storiche. Le esperienze fatte nei primi anni di vita possono essere responsabili di buona parte dei pregiudizi che si trovano negli individui adulti. Ma i pregiudizi possono insorgere in qualunque momento dell’arco di una vita. Buona parte di questi si forma, quando un adulto viene punito da un altro in qualche modo. Quando la gente rimprovera ingiustamente gli altri delle proprie difficoltà, si crea il fenomeno del capo espiatorio. Anche la competizione fra i gruppi può svolgere un ruolo fondamentale nella manifestazione dei pregiudizi e della discriminazione. Inoltre le differenze fra le persone alimentano ancor di più i pregiudizi e una delle ragioni è quella che le persone giudicate diverse rappresentano una minaccia alla propria autostima. Per quando riguarda la persistenza dei pregiudizi sono tre i fattori presi in considerazione: i valori comuni, la consapevolezza dell’appartenenza al gruppo e i giudizi sociali (le etichette).
Il sociologo olandese Van Dijk diffonde la tesi che il discorso e la comunicazione costituiscono una modalità di fondamentale importanza nella riproduzione sociale del pregiudizio.  Poiché nelle moderne democrazie capitalistiche la classe al potere ha un continuo bisogno di legittimazione e di approvazione, l’ideologia, secondo il sociologo olandese, rappresenta quello strumento che permette di riprodurre i processi di persuasione e di creare un saldo consenso intorno alle decisioni. L’ideologia razzista come manifestazione esplicita del pregiudizio etnico risulta essere una diretta emanazione delle élite al potere. Sono proprio queste élite, infatti, a detenere sia il potere materiale che il potere simbolico, una sorta di controllo mentale esercitato per lo più attraverso il discorso. Queste élite simboliche, come le definisce il sociologo Van Dijk, sono anche le artefici del consenso etnico dominante; esse non comprendono solamente la classe economicamente o politicamente più forte ed influente, ma inglobano rappresentanti del mondo accademico, dell’editoria, della cultura ecc. E’ per questo che Van Dijk afferma che “al di là dei rapporti di classe, la riproduzione del potere razzista coincide con la riproduzione del potere del gruppo bianco nel suo insieme”.
Così in tutti i paesi dove il gruppo bianco riveste una posizione di potere, il pregiudizio ed il razzismo sembrano essere confezionati, o come afferma Van Dijk preformulati, dalle classi dominanti per mantenere in una posizione marginale le classi subalterne, sia bianche sia di colore.

L’educazione è considerata un sistema fondamentale di controllo dei pregiudizi. L’educazione può trasmettere informazioni sui gruppi sociali, sul retroterra storico dei problemi attuali, etc. Grazie ad una maggior esposizione a questo tipo di informazioni si dovrebbe sviluppare una maggiore accettazione degli altri. Infine il risveglio delle coscienze ovvero l’aumento del grado di consapevolezza sociale di certi problemi può essere un rimedio al pregiudizio. Le ricerche mostrano che i partecipanti al processo chiamato “risveglio delle coscienze” sviluppano spesso un comportamento attivo verso il mondo accompagnato ad un alto grado di impegno nella realizzazione dei propri progetti e ad una rivalutazione dell’autonomia e dell’indipendenza.
Il pregiudizio appare oggi radicato nei livelli più nascosti della vita sociale, nel privato; viene in un certo senso dato per scontato attraverso l’esaltazione dell’appartenenza etnica, religiosa, culturale e perfino geografica.



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mercoledì 15 giugno 2016

L'OMOFOBIA

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Il termine omofobia significa letteralmente “paura nei confronti di persone dello stesso sesso” e più precisamente si usa per indicare l’intolleranza e i sentimenti negativi che le persone hanno nei confronti degli uomini e delle donne omosessuali. Essa può manifestarsi in modi molto diversi tra loro, dalla battuta su un una persona gay che passa per la strada, alle offese verbali, fino a vere e proprie minacce o aggressioni fisiche. In seguito all’omofobia, ad esempio, alcuni eterosessuali, raccontano di sentirsi a disagio in presenza delle persone gay o lesbiche, altri si mettono a ridere quando le incontrano per strada. Altri ancora dicono di essere disgustati dai loro comportamenti, arrabbiati o indignati. Anche la parola “frocio” può essere considerata come espressione di omofobia, perché di solito viene usata con una connotazione negativa.
L’omofobia deriva dall’idea che siamo tutti eterosessuali e che è normale e sano scegliere un partner del sesso opposto (eterosessismo). Tale considerazione è basata anche sulla falsa credenza che in natura non esistano comportamenti omosessuali (“L’omosessualità è contro natura”); molti animali, invece, presentano comportamenti omosessuali, tra cui topi, criceti, porcellini d’India, conigli, porcospini, capre, cavalli, maiali, leoni, pecore, scimmie, e scimpanzé.
L’omofobia, inoltre, si alimenta in vari modi. Innanzitutto la società è spesso diffidente nei confronti delle diversità, fino al punto di considerarle pericolose. Tale mancanza di fiducia riguarda tutte le minoranze portatrici di valori nuovi o diversi (es. anche i primi cristiani) perché minacciano quelli convenzionali. Il pregiudizio anti-gay, inoltre, è rinforzato dall’ignoranza e dalla mancanza di contatti con la comunità omosessuale. Gli individui che presentano alta omofobia, di fatto, non conoscono la realtà gay e lesbica e ne hanno un’idea astratta basata su ciò che hanno sentito dire dagli altri. Infine, noi tutti tendiamo ad agire in modo coerente con ciò che viene ritenuto desiderabile e giusto in base alle convenzioni sociali dominanti. Questo meccanismo, ad esempio, è alla base del fatto che si è soliti deridere i gay perché è consuetudine farlo.

È importante ricordare che non si nasce omofobi; lo si diventa attraverso l’educazione, i messaggi, diretti e indiretti, che la famiglia, la politica, la Chiesa e i media, ci trasmettono. Fin da bambini tutti noi acquisiamo convinzioni e valori che ci vengono presentati come assolutamente giusti e legittimi. Molto prima, dunque, di avere una reale comprensione di cosa significhi la parola omosessualità, ereditiamo, da una cultura omofoba, la convinzione che essere gay sia qualcosa di assolutamente sbagliato, innaturale e contrario alle norme del vivere comune.
Molto dipende anche dal posto antropologico in cui nasciamo e cresciamo. Nei paesi a prevalenza cattolica come l'Italia, la Chiesa esercita un’alta ingerenza sulle famiglie, sulla politica e sulla capacità legislativa conseguente. E la posizione ufficiale della Chiesa cattolica rispetto agli omosessuali è di accoglienza, solo a patto che gli omosessuali rinneghino se stessi, riconoscendo il disordine e il male della propria condizione di vita e accettando la castità e la costrizione come elemento permanente dell’intera loro esistenza.
Questo tipo di pressione morale, così pervasiva, non può non sfociare nell’omofobia interiorizzata (quell’insieme di sentimenti negativi come ansia, disprezzo, avversione che gli omosessuali provano nei confronti dell’omosessualità, propria e altrui) al punto che l’incidenza statistica dei suicidi è elevata tra gli omosessuali adolescenti, soprattutto se credenti.
Anche i media trasmettono messaggi ambigui e omofobi, attraverso la censura di scene di sesso omosessuale (anche senza nudo), o la tolleranza e lo spazio concesso a chi, cardinali o politici, promulga messaggi falsi e offensivi come l’equazione gay=pedofilo (il 95% dei pedofili è eterosessuale).

Va comunque precisato che il termine è utilizzato con diversi significati. Le definizioni di omofobia esistenti possono essere sintetizzate in tre principali prospettive: accezione pregiudiziale, accezione discriminatoria e accezione psicopatologica:
l'accezione pregiudiziale considera come omofobia qualsiasi giudizio negativo nei confronti dell'omosessualità. In questa definizione vengono considerate manifestazioni di omofobia anche tutte le convinzioni personali e sociali contrarie all'omosessualità come ad esempio: la convinzione che l'omosessualità sia patologica, immorale, contronatura, socialmente pericolosa, invalidante; la non condivisione dei comportamenti omosessuali e delle rivendicazioni sociali e giuridiche delle persone omosessuali. Non rientra in questa accezione la conversione in agito violento o persecutorio nei confronti delle persone omosessuali;
l'accezione discriminatoria considera come omofobia tutti quei comportamenti riconducibili al sessismo che ledono i diritti e la dignità delle persone omosessuali sulla base del loro orientamento sessuale. Rientrano in questa definizione le discriminazioni sul posto di lavoro, nelle istituzioni, nella cultura, gli atti di violenza fisica e psicologica (percosse, insulti, maltrattamenti). Questa definizione – che comprende anche l'acting out del sentimento discriminatorio – può essere considerata più pertinente al costrutto di omofobia in senso ristretto;
l'accezione psicopatologica considera l'omofobia come una fobia, cioè una irrazionale e persistente paura e repulsione nei confronti delle persone omosessuali che compromette il funzionamento psicologico della persona che ne presenta i sintomi. Tale valutazione diagnostica includerebbe quindi l'omofobia all'interno della categoria diagnostica dei disturbi d'ansia e rientrerebbe all'interno dell'etichetta di fobia specifica. A differenza delle prime due accezioni, l'omofobia come fobia specifica non è frutto di un consapevole pregiudizio negativo nei confronti dell'omosessualità quanto piuttosto di una dinamica irrazionale legata ai vissuti personali del soggetto. Quest'ultima definizione, per quanto più attinente alla radice etimologica del termine, ad oggi non è sostenuta da una letteratura sufficiente da farla inserire nei principali manuali psicodiagnostici.
Omofobia deriva dal greco homos (stesso, medesimo) e fobos (paura). Letteralmente significa "paura dello stesso", tuttavia il termine "omo" è qui usato in riferimento ad omosessuale. Il termine è un neologismo coniato dallo psicologo clinico George Weinberg nel suo libro Society and the Healthy Homosexual (La società e l'omosessuale sano), pubblicato nel 1971.

Un termine precursore è stato omoerotofobia, coniato dal dottor Wainwright Churchill nel libro "Homosexual behavior among males" (Comportamento omosessuale tra maschi), pubblicato nel 1967.

Intesa nel senso di "paura fobica e irrazionale", l'omofobia non è inserita in alcun manuale di diagnostica psicologica come patologia, è quindi errato pensare che sia medicalmente una fobia, come invece il nome potrebbe portare a credere. L'omofobia non è legata a una credenza politica o a un livello culturale, ma piuttosto al livello di equilibrio del singolo individuo. È stato infatti riscontrato dagli anni sessanta il fatto che tendano all'omofobia le "personalità autoritarie", rigide, insicure, che si sentono minacciate dal "diverso da sé" (ovviamente non solo omosessuale). Alti livelli di omofobia sono stati riscontrati anche in persone in lotta con una forte omosessualità latente o repressa.

In questo secondo senso l'omofobia può trarre nutrimento e soprattutto legittimazione da condanne ideologiche, religiose o politiche.

Per omofobia si può intendere anche la paura dell'omosessualità, ed in particolare la paura di venire considerati omosessuali, ed i conseguenti comportamenti volti ad evitare gli omosessuali e le situazioni considerate associate ad essi.

L'omofobia consiste nel giustificare, condonare o scusare atti di violenza o di discriminazione, di marginalizzazione e di persecuzione perpetrati contro una persona in ragione della sua reale o presunta omosessualità (si pensi ai soggetti bisessuali o anche semplicemente a persone che hanno un atteggiamento o un aspetto che non rientra nel comune stereotipo di genere sessuale, ad esempio le persone definite "effeminate").

Le ricerche psicosociali evidenziano come l'omofobia sia maggiormente legata a caratteristiche personali quali: anzianità, basso livello di istruzione, avere idee religiose fondamentaliste, non avere contatti personali con gay o lesbiche, essere autoritari, provare sensi di colpa nei confronti del sesso, avere atteggiamenti tradizionalisti rispetto ai ruoli di genere (mascolinità, etc.)

Probabilmente l'omofobia è correlata al timore di essere considerati omosessuali. Questo timore, dice Erich Fromm, è più frequente negli uomini che nelle donne, perché dal punto di vista culturale il maschio omosessuale viene considerato una "femminuccia", e nel pensiero sessista dominante.

« se un ragazzo viene definito "femminuccia", si sente bollato e umiliato dal gruppo. Se una ragazza è invece definita un "maschiaccio", a ciò non si accompagna uguale disapprovazione, anzi, spesso diventa motivo di orgoglio. Così la "femminuccia" è un codardo, un mammone, mentre la "maschiaccia" è una ragazza coraggiosa, capace di tener testa a un ragazzo. Probabilmente questi giudizi di valore vengono sussunti nell'atteggiamento che in seguito si sviluppa nei confronti dell'omosessualità nei due sessi.»
(Erich Fromm)

L'omofobia interiorizzata consiste nell'accettazione da parte di gay e lesbiche di pregiudizi, etichette negative e atteggiamenti discriminatori verso l'omosessualità. Questa interiorizzazione del pregiudizio è per lo più inconsapevole e può portare a vivere con difficoltà il proprio orientamento sessuale, a contrastarlo, a negarlo o addirittura a nutrire sentimenti discriminatori nei confronti degli omosessuali.

L'omofobia può diventare causa di episodi di bullismo, di violenza o di mobbing nei confronti delle persone LGBT. Secondo l'Agenzia per i diritti Fondamentali (FRA) dell'Unione europea l'omofobia nel 2009 danneggia la salute e la carriera di quasi 4 milioni di persone in Europa. L'Italia è il paese dell'Unione Europea con il maggior tasso di omofobia sociale, politica ed istituzionale. Secondo i dati del Dipartimento di Salute Pubblica i suicidi della popolazione gay, legati alla discriminazione omofoba in modo più o meno diretto, costituirebbero il 30% di tutti i suicidi adolescenziali.

Da altri studi in merito è emerso con chiarezza che gli adolescenti LGBT sono maggiormente a rischio di ideazione suicidaria rispetto ai coetanei eterosessuali. In aggiunta a ciò, una review di Haas e colleghi del 2011 sulla letteratura pubblicata in merito, suggerisce che i giovani LGBT siano dalle 2 alle 7 volte più a rischio, rispetto ai coetanei eterosessuali, di suicidio.
Sono anche stati riportati dei contesti in cui studenti LGBT hanno lamentato: la presenza di atti di discriminazione, come la negazione di servizi finanziari e sanitari, l'affibiazione di etichette verbali ingiuriose, tentativi di conversione e timore di atti di violenza sessuale ai loro danni. Tale situazione ha determinato il nascondimento della loro identità, l'evitamento di alcuni corsi, la prematura cessazione degli studi ed anche la messa in pratica di tentativi di suicidio.



A seguito dell'elevato rischio di ideazioni suicidarie e di tentativi di suicidio tra le cosiddette minoranze sessuali, i ricercatori hanno tentato di identificare i fattori che potessero spiegare tali marcate differenze. Le teorie sullo stress e lo stigma da minoranza hanno permesso di evidenziare il ruolo portante che i contesti sociali e strutturali così come le pratiche e le politiche istituzionali possono giocare nel contribuire a generare simili disparità nella salute mentale degli individui. In accordo con queste teorie, infatti, gli adulti LGBT che risiedono in stati con poche politiche sociali di tipo protettivo, hanno un maggior tasso di disordini psichiatrici e di abuso di sostanze rispetto a persone che vivono in stati con politiche protettive mirate. In linea con questi risultati, si pone anche un lavoro del 2014 di Hatzenbuehler e colleghi che ha indicato che giovani LGBT sono meno a rischio di sviluppare ideazioni suicidarie quando sono all'interno di strutture scolastiche che hanno adottato misure protettive verso le minoranze sessuali. L'ambiente sociale, inoltre, può esercitare delle influenze anche in maniera meno diretta. Uno studio condotto su una popolazione di circa 4098 maschi che hanno rapporti sessuali con altri maschi (MSM, Men who have sex with men) sieronegativi per HIV ha evidenziato, ad esempio, che un più basso livello di stigma sociale contro le persone LGBT è legato ad una diminuzione del rischio di rapporti anali non protetti (adjusted odds ratio, aOR=0,97, intervallo di confidenza al 95%, 95%CI 0,94-0,99), maggior consapevolezza riguardante la profilassi anti-HIV post esposizione (aOR=1,06, 95%CI 1,02-1,09) e di quella pre esposizione (aOR=1,06, 95%CI 1,02-1,10), maggior utilizzo della profilassi anti-HIV post esposizione (aOR=1,08, 95%CI 1,05-1,26) e di quella pre esposizione (aOR=1,21, 95%CI 1,01-1,44) ed un maggior livello di tranquillità nel discutere di sesso tra maschi con operatori sanitari (aOR=1,08, 95%CI 1,05-1,11).
Va, tuttavia, segnalato che sussiste anche la possibilità che il grado d'influenza esercitato dallo stigma da minoranza e da eventuali interventi di tipo protettivo o di supporto vari anche a seconda dell'etnia delle persone prese in considerazione.

L'importanza del contesto socioculturale che circonda le persone LGBT è stata evidenziata anche da un lavoro di Duncan e Hatzenbuehler del 2014 riguardante i cosiddetti crimini d'odio definiti come "condotte illegali, violente, distruttive o minacciose il perpetratore delle quali viene motivato dal pregiudizio contro il supposto gruppo sociale della vittima". Già altri studi in passato avevano evidenziato che le minoranze sessuali vengono colpiti da tali crimini e, secondo l'FBI, il 17,4% dgli 88.463 crimini d'odio registrati tra il 1995 ed il 2008 hanno coinvolto tali minoranze.

Lo studio di Duncan e Hatzenbuehler, condotto su un campione di studenti delle scuole superiori pubbliche di Boston, ha cercato di valutare l'effetto sulle persone LGBT del grado di vicinanza geografica alle aree ove sono stati perpretrati crimini d'odio ai danni di altre persone LGBT. Dai dati raccolti è emerso che gli adolescenti LGBT che hanno riferito di aver avuto ideazioni suicidarie tendevano a vivere a meno di 800 metri da aree ad alto tasso di crimini d'odio contro persone LGBT (21,22 per 100.000 Vs 12,26 per 100.000, p value=0,013). Gli adolescenti LGBT che hanno tentato il suicidio, inoltre, avevano maggiori probabilità di vivere a meno di 400 metri da aree ad alto tasso di crimini d'odio contro persone LGBT (33,61 per 100.000 Vs 13,18 per 100.000, p value=0,006). Tali associazioni statistiche non sono state rintracciate per quanto riguarda gli adolescenti eterosessuali. Nessuna significatività statistica è stata, inoltre, rintracciata per quanto riguarda l'associazione di problematiche suicidarie e crimini d'odio non ai danni di persone LGBT, indicando così che le significatività precedentemente presentate sono specifiche per gli adolescenti LGBT. I risultati di tale lavoro, sebbene preliminari soprattutto in considerazione della scarsa presenza di pubblicazioni analoghe, sono in accordo con la letteratura che documenta l'importanza dei contesti socioculturali nella determinazione dello Stato di salute mentale nelle minoranze sessuali.

In termini generali, il sentimento religioso sembra essere associato ad un buon livello di salute mentale. Sebbene tale dato sia variabile a seconda degli aspetti presi in considerazione, si può affermare che la religiosità sembra determinare effetti positivi: minor depressione e stress psicologico e migliore soddisfazione, felicità e stato psicologico personali. Per quanto riguarda le persone LGBT, al momento, sussistono pochi lavori che abbiano analizzato lo stato di salute mentale in rapporto con l'affiliazione religiosa. Sebbene, il sentimento religioso, come precedentemente accennato, sembri sortire effetti positivi, un ambiente sociale caratterizzato da stigma e rifiuto può produrre, in chi ne è vittima, effetti patologici.
La teoria dello stress da minoranza suggerisce che il differente livello di salute mentale tra le persone LGBT ed eterosessuali sia dovuto al differente livello di stigma e pregiudizio cui si va incontro.

Uno dei fattori presi in considerazione dalla teoria come fattore di stress è l'omofobia interiorizzata. Per omofobia interiorizzata s'intende l'internalizzazione, da parte delle persone LGBT, delle attitudini e delle credenze negative della società contro le persone LGBT stesse e poiché tale visione può essere appresa durante i normali processi di socializzazione, essa può costituire un fattore di stress particolarmente insidioso da individuare. Il suo superamento viene, inoltre, considerato un passo importante nel processo di coming out e viene considerato dai terapisti come necessario al fine di acquisire un buon livello di salute mentale. Di converso, l'omofobia interiorizzata è stata collegata ad una serie di sviluppi negativi: ansietà, depressione, ideazione suicidaria, condotta sessuale a rischio, problematiche nella vita intima ed uno stato generale di benessere più basso.

Sotto questo punto di vista, nei contesti religiosi gli insegnamenti possono essere parte di una socializzazione che si basi sullo stigma ed il permanere in tale contesto può contribuire ad potenziare il fenomeno dell'omofobia interiorizzata. Vistesi rifiutate da molte organizzazioni religiose, l'attendenza delle persone LGBT alle pratiche religiose istituzionali tende ad essere minore rispetto agli eterosessuali e vi è una maggior probabilità d'abbandono del loro credo. Al di là di ciò, comunque, le persone LGBT che si affiliano a gruppi religiosi, tendono a partecipare per lo più a denominazioni religiose “non supportive”. Alcuni lavori hanno, infatti, evidenziato che le persone LGBT tendevano ad affiliarsi a correnti di maggioranza o con maggioranza di eterosessuali sebbene tali gruppi potessero presentare un clima sociale poco ospitale. Tale dato, apparentemente contraddittorio, potrebbe trovare una spiegazione nel fatto che le persone LGBT possano avvertire un profondo significato personale nell'appertenere ad un contesto religioso cui loro sono abituati, spesso dall'infanzia. In effetti, è noto che l'abbandono di un gruppo religioso possa risultare spiacevole sotto l'aspetto sociale, culturale e spirituale.

Tale situazione può diventare particolarmente pressante per persone appartenenti a minoranze etniche. Per le persone afro-americane, ad esempio, è noto come le chiese abbiano costituito un baluardo contro il razzismo sociale e siano state promotrici e sostenitrici di identità ed orgoglio etnico. Hanno, inoltre, provveduto a fornire servizi sociali e culturali in vario modo. Risulta, pertanto, chiaro come il processo di separazione, magari per confluire in contesti maggiormente supportivi per le persone LGBT, significhi anche perdere non solo i servizi ma anche tutto un contesto di profondo significato interiore.
Al fine di continuare la partecipazione in questi contesti, le persone LGBT tendono ad adottare svariate strategie per cercare di risolvere o di alleviare lo state di tensione che si può generare dalla partecipazioni in questi contesti non supportivi:
ritenere la Bibbia un documento che sarebbe stato ispirato da Dio ed in quanto tale, contenente occasionalmente punti di vista umani ormai antiquati, quali quelli sull'omosessualità;
separare le identità LGBT e religiosa così da sopprimere quella LGBT quando quella religiosa, in alcuni contesti, diviene preponderante;
neutralizzare i messaggi contro l'omosessualità questionando la credibilità a vario grado del pastore, sacerdote o di chi promuove tale visione (ciò può includere, tra le altre, la conoscenza biblica, la moralità o l'eccessiva enfasi sulla percepita eccessiva tendenza al legalismo contro il messaggio d'amore incondizionato promosso dal Nuovo Testamento).
Sebbene gli studi riguardanti la religiosità delle persone LGBT non abbiano preso molto in considerazione se il gruppo religioso fosse più o meno supportivo, un lavoro di Lease e colleghi ha mostrato che persone caucasiche LGBT coinvolte in attività religiose in contesti maggiormente supportivi erano collegate ad un minor livello di omofobia interiorizzata e che questa era legata ad un miglior livello dello stato di salute mentale. Altri lavori, di converso, hanno rilevato che contesti religiosi non supportivi possono avere un significativo effetto nel promuovere l'omofobia internalizzata nelle persone LGBT.

La problematica, tuttavia, può variare anche a seconda del gruppo etnico preso in considerazione dato che la religiosità tende a variare a seconda dell'etnia. Sebbene alcuni lavori abbiano suggerito che le persone latino-americane ed afro-americane tendano a dimostrare un maggior sentimento religioso, al momento non è stato rilevato che le persone LGBT appartenenti a questi gruppi siano maggiormente esposte a contesti non supportivi rispetto a quelle caucasiche. Alcuni lavori hanno, infatti, suggerito che alcune denominazioni evangeliche frequentate da caucasici possano essere caratterizzate da contesti particolarmente omofobi. Tuttavia, se l'affiliazione religiosa delle persone LGBT riflette quella della popolazione generale, c'è da aspettarsi che quelle latino-americane ed afro-americane siano esposte a contesti omofobi in misura maggiore rispetto a quelle caucasiche.

Un lavoro di Barnes e Meyer del 2012 condotto su 355 partecipanti LGBT ha cercato di valutare l'effetto del contesto religioso nello stato di salute delle persone LGBT attendenti. In generale, è emerso che le persone caucasiche tendevano a non dichiararsi religiose (58%) mentre solo il 36% ed il 35% degli afro-americani e dei latino-americani si è dichiarato non religioso. In termini di omofobia interiorizzata è emerso che, rispetto ai caucasici, gli afro-americani ed i latino-americani hanno maggiori livelli di essa sebbene il risultato sia statisticamente significativo solo per i latino-americani; in generale gli affiliati a contesti non supportivi hanno maggiori livelli di omofobia generalizzata rispetto agli affiliati a contesti supportivi ed ai non praticanti. La frequenza di pratica religiosa, in questo lavoro, non ha esercitato alcuna influenza sui livelli di omofobia interiorizzata dato che non è stata riscontrata nessuna differenza statisticamente significativa tra coloro che avevano un'elevata frequenza di pratica contro chi ne aveva una bassa. Va segnalato, tuttavia, che sia i latino-americani che gli afro-americani sono risultati maggiormente esposti, rispetto ai caucasici, a contesti non supportivi e che l'affiliazione a tali contesti si è dimostrata essere un buon mediatore statistico dei livelli di omofobia interiorizzata. Va segnalato infatti che la variabile affiliazione a contesti non supportivi nel modello statistico finale ha reso non più significativa la differenza dei livelli di omofobia interiorizzata tra latino-americani e caucasici ma ha anche diminuito il valore del coefficiente standardizzato B del 50% e del 25% nei modelli testati. I livelli di omofobia interiorizzata, infine, sono risultati essere statisticamente associati alla presenza di sintomi depressivi ed ad un minore benessere psicologico rendendo, nei due modelli testati, la variabile affiliazione a contesti non supportivi un miglior predittore sebbene non statisticamente significativo.

Gli autori di questo studio hanno quindi concluso che i dati presentati forniscono una base all'ipotesi che i contesti religiosi non supportivi determinino lo sviluppo di un ambiente sociale ostile alle persone LGBT il che può risultare in una maggior presenza di omofobia interiorizzata. I latino-americani, in particolare, hanno manifestato livelli significativamente maggiori, rispetto ai caucasici, di omofobia interiorizzata. La maggior affiliazione e pratica in contesti religiosi non supportivi sembra spiegare i maggiori livelli di omofobia interiorizzata. Per quanto riguarda gli afro-americani, i dati sembrano suggerire un quadro analogo sebbene non si sia raggiunta la significatività statistica.

Tali conclusioni, basate su un campione limitato e non casuale, non sono ovviamente generalizzabili. Risulta interessante, tuttavia, notare che uno studio di Gibbs e Goldbach del 2015 sembra concludere che giovani adulti LGBT che crescono e maturano in contesti religiosi sono a più alto rischio, rispetto ad altre persone LGBT, di ideazione suicidaria, più specificatamente di ideazione suicidaria cronica, così come di tentativi di suicidio.

In ambito legislativo, in molte nazioni, soprattutto europee sono previsti strumenti legislativi, di carattere civile e penale, finalizzati al contrasto dell'omofobia intesa principalmente come discriminazione basata sull'orientamento sessuale.

Va evidenziato che le legislazioni esistenti in molti casi mantengono distinto l'aspetto della non discriminazione dalle norme mirate invece a sanzionare in modo specifico azioni e comportamenti esplicitamente omofobici, quali atti violenti o di incitamento anche solo verbale all'odio. Ci sono legislazioni che fanno rientrare questo secondo aspetto in un ambito legislativo non specifico, non considerando quindi la motivazione dell'omofobia per il reato o non prevedendo sanzioni specifiche per le espressioni di odio o di incitamento all'odio legate all'orientamento sessuale.

L'omofobia, intesa come atto violento e/o incitamento all'odio, è esplicitamente punita come reato con sanzioni carcerarie e/o pecuniarie in Danimarca, Francia, Islanda, Norvegia, Paesi Bassi, Svezia e a livello regionale in Tasmania (vietato l'incitamento all'odio). Con un emendamento allo Hate Crimes Bill approvato dal Congresso nell'ottobre 2009 e denominato Matthew Shepard Act, gli Stati Uniti d'America hanno stabilito che la violenza causata da odio basato sull'orientamento sessuale costituisce un reato federale.

Norme antidiscriminatorie che menzionano esplicitamente l'orientamento sessuale sono in vigore in Europa, oltre che nei paesi sopra citati, in Austria, Belgio, Cipro, Finlandia, in quattro Länder della Germania (Berlino, Brandeburgo, Sassonia e Turingia), Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Romania, Slovenia, Spagna, Svizzera, Ungheria, Regno Unito, Repubblica Ceca, Serbia e Montenegro.

Al di fuori dell'Europa, leggi antidiscriminazione sull'orientamento sessuale sono in vigore in Canada, in alcuni degli Stati Uniti, in Australia, Nuova Zelanda, Isole Fiji, in alcuni stati del Brasile, Nicaragua, Uruguay, Colombia, Ecuador, Israele e Sudafrica.

Anche il regime castrista ha adottato forme di persecuzione nei confronti degli omosessuali. Considerati "controrivoluzionari", dagli anni sessanta agli anni ottanta anche i gay sono stati perseguitati e molti di loro sono stati rinchiusi nei campi di lavoro forzati UMAP ("Unidades Militares de Ayuda a la Producción") a causa del loro orientamento sessuale. Nell'ideologia castrista i maricones ("finocchi") erano infatti considerati espressione dei valori decadenti della società borghese:

« Agli omosessuali non dovrebbe essere concesso di stare in posizioni dove potrebbero essere capaci di mal influenzare i giovani. Nelle condizioni in cui viviamo, a causa dei problemi che il nostro paese deve affrontare, dobbiamo inculcare nei giovani lo spirito della disciplina, della lotta, del lavoro... Noi non arriveremmo mai a credere che un omosessuale possa incarnare le condizioni e i requisiti di condotta che ci permetterebbero di considerarlo un vero Rivoluzionario, un vero Comunista aggressivo. Una deviazione di questa natura si scontra con il concetto che abbiamo di ciò che un militante comunista deve essere.»
Nel marzo del 1965, Giangiacomo Feltrinelli riuscì ad ottenere da Fidel Castro una lunghissima intervista chiedendogli anche perché perseguitasse i gay, sul perché ce l'avesse tanto con gli omosessuali e cosa c'entrasse quel pogrom con la rivoluzione. Il líder máximo, dopo una risata per la domanda sfacciata, rispose alla domanda ed accennò alla paura di "mandare un figlio a scuola e vederselo tornare frocio". Nel 2010 Castro ha ammesso pubblicamente di aver "commesso una grande ingiustizia" a perseguitare gli omosessuali. Tuttavia, almeno dal 1988, Cuba è all'avanguardia in America latina per le politiche contro l'omofobia ed ha eliminato ogni traccia di legislazione omofobica.

La legislazione di contrasto alla discriminazione tra cittadini trae principale fondamento dall'articolo 3 della Costituzione della Repubblica Italiana (principio di uguaglianza formale e sostanziale):
« Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese. »
Pur non citando espressamente l'orientamento sessuale, esso può rientrare per via interpretativa sia nella nozione di "sesso", sia tra le "condizioni personali e sociali".

La Legge 25 giugno 1993, n. 205 intitolata Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa (cosiddetta Legge Mancino), integra il diritto penale italiano per quanto attiene ad alcune forme di discriminazione, tra cui non rientrano quelle basate sull'orientamento sessuale che, inserite nella sua prima formulazione, furono espunte dal testo nella stesura definitiva.

La menzione esplicita dell'orientamento sessuale è invece presente nel Decreto Legislativo 9 luglio 2003, n. 216, che tutela dalle discriminazioni sul luogo di lavoro. Le eccezioni inizialmente previste per il personale delle Forze Armate, delle Forze dell'ordine e di soccorso furono poi abolite a seguito della procedura d'infrazione aperta dalla Comunità Europea contro l'Italia, in quanto contrarie alla direttiva comunitaria contro le discriminazioni.

Il 2 ottobre 2009, nel corso della XVI Legislatura la Commissione Giustizia della Camera dei deputati ha adottato un testo base, presentato dalla deputata Anna Paola Concia e costituito da un singolo articolo, che tra le circostanze aggravanti comuni previste dall'articolo 61 del codice penale inserisce anche quella inerente all'orientamento sessuale. Tale testo è stato poi bocciato il 13 ottobre 2009 dalla maggioranza parlamentare per una pregiudiziale di costituzionalità sollevata dall'Unione di Centro. La bocciatura ha sollevato dure critiche verso l'Italia da parte di rappresentanti dell'Unione europea e dell'ONU. Alla bocciatura ha reagito invece positivamente il vescovo Domenico Mogavero, che ha definito la proposta di legge «solo un primo passo, in quanto il vero obiettivo di questa campagna sono le nozze gay».

Mara Carfagna, Ministro per le pari opportunità del Governo Berlusconi IV, il 9 novembre 2009, ha presentato Nessuna differenza, la prima campagna istituzionale in Italia contro l'omofobia e le discriminazioni di genere.

Il 17 maggio 2011, in occasione della Giornata internazionale contro l'omofobia e la transfobia, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha definito «inammissibile in società democraticamente adulte» l'irrisione degli omosessuali. Il 18 maggio 2011 il testo base della deputata Anna Paola Concia, basato su una direttiva europea, è stato ripresentato alla Commissione Giustizia della Camera dei deputati, che l'ha bocciato con 24 voti contrari e 17 favorevoli. Il ministro Carfagna ha commentato: «Il Popolo della libertà ha perso un'occasione». Il 26 luglio 2011 la Camera ha respinto per la seconda volta il ddl presentato dalla deputata Concia contro l'omotransfobia.

Un nuovo disegno di legge per l'estensione della legge Mancino ai casi di omofobia e transfobia è stato presentato durante la XVII Legislatura.

In vari paesi (per esempio Canada, Regno Unito, USA, Italia) sono stati annullati molti concerti di famosi esponenti della "scena reggae", quali Sizzla, Beenie Man, Capleton, Bounty Killer, T.O.K., Buju Banton, Elephant Man per i contenuti omofobi e sessisti dei loro testi.

L'omofobia non è inserita in alcuna classificazione clinica delle varie fobie; infatti, non compare né nel DSM né nella classificazione ICD; il termine, come nel caso della xenofobia, è solitamente utilizzato in un'accezione generica (riferita a comportamenti discriminatori) e non clinica.



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domenica 3 aprile 2016

I BIMBI ROM E LA SCUOLA

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Una realtà ancora più amara di quella che raccontano le statistiche ufficiali. Quella dei rom bulgari è una comunità abbastanza inserita, più integrata di altre. Se nel Paese d’origine il 40% di loro non lavorava, una volta arrivati in Italia la percentuale crolla al 6%. Lavorano tutti. Magari arrangiandosi, quasi sempre in nero, a volte in settori border line. Ma comunque lavorano. Solo il 20% dei bambini è iscritto a scuola, dicono i dati raccolti da una ricerca. Sono ancora meno quelli che la scuola la frequentano, scendiamo al 10%. E pure questa è una percentuale generosa perché, anche per chi frequenta, spesso sul registro ci sono più assenze che presenze. Un risultato molto peggiore di quello registrato nell’ultimo rapporto del ministero dell’Istruzione sulla cosiddetta dispersione scolastica. Dicono quelle tabelle che nella comunità rom la frequenza è al 30%.
Ma forse, quando dai fogli excel si passa alle interviste faccia a faccia, la situazione cambia. Di solito in peggio.
Nelle grandi città c’è anche un problema logistico, conta parecchio la difficoltà di raggiungere la scuola dai posti dove vivono, quasi sempre ai margini, senza trasporti. Ma nei paesi più piccoli c’è anche una scarsa volontà di reale integrazione e una scuola che non va a cercare davvero i suoi studenti. Lo dice anche quel 10% di genitori che viene contattato per iscrivere i figli a scuola ma poi non ce li manda. Come se le iscrizioni servissero più che altro a giustificare gli organici, a mantenere il posto dell’insegnante.

Quanti bambini rom frequentano le scuole dell'obbligo a Roma? Quanti di loro riescono a concludere gli studi? Finora nessuno ha avuto un'idea chiara di ciò che accade nelle scuole romane.

Un'Associazione ha provato a far luce sulla situazione attraverso il monitoraggio del percorso scolastico di un gruppo di 55 bambini rom residenti nel “villaggio attrezzato” di via di Salone, situato all'estrema periferia orientale della capitale ed inaugurato nel 2006, a seguito dello sgombero forzato del campo 'tollerato' di Casilino 900.

Lo sgombero forzato di quest'ultimo ha comportato non pochi disagi alla vita di centinaia di persone. In particolare, l'allontanamento dal campo non ha più permesso ai genitori di accompagnare personalmente i figli a scuola, interrompendo così i rapporti, costruiti negli anni, con gli insegnanti e con i genitori degli altri alunni.

Durante l'anno scolastico 2010-2011 i 55 bambini hanno usufruito del servizio della linea 40, messo a disposizione dal Comune. Nel suo tragitto la linea 40 accompagna i bambini in diverse scuole le cui distanze variano dai 13 ai 16 km. La conseguenza è che la maggior parte dei bambini trasportati giunge a scuola con un'ora, a volte due ore, di ritardo. Allo stesso modo all'uscita è necessario prelevarli in anticipo perché viceversa la permanenza oltre l'orario consentito potrebbe dar luogo ad abbandono di minore.

La somma dei ritardi giornalieri produce a fine anno un'assenza per ogni minore di circa un mese. Solo nel mese di gennaio 2011 l'Associazione ha monitorato che dei 55 minori che utilizzano la linea 40, solo 11 hanno avuto la frequenza superiore al 75% così come sancito dalla legge, e nessuno di loro ha frequentato i 16 giorni previsti dal calendario scolastico per quel mese.

Prendendo il caso di una scuola elementare di un quartiere romano frequentata da 21 bambini rom, la maggior parte frequenta solo un giorno a settimana, qualcuno arriva a quattro volte a settimana, ma nessuno frequenta ogni giorno. Le possibilità per loro di arrivare al diploma sono scarsissime, per non parlare dell'università. Nessuno di loro diventerà mai un medico, un avvocato o un ingegnere.

In un documento del 7 aprile 2011, la Commissione Europea ha stimato che solo il 43% dei bambini rom completa la scuola primaria, rispetto a una media europea del 97,5%. Solo il 10% quella secondaria. Secondo la Commissione “gli stati membri dovrebbero garantire che tutti i bambini rom, sedentari o no, abbiano accesso a un'istruzione di qualità e non siano soggetti a discriminazioni o segregazioni”.

Godono di un diverso livello di apprendimento: i bambini rom a causa del disagio sociale dal quale provengono hanno lacune didattiche che spingono i docenti ad impegnarli in attività parallele. E poi, naturalmente, c'è il problema dell'emarginazione sociale: i bambini rom all'interno della classe risultano spesso emarginati, vi sono addirittura classi di 'sostegno' organizzate durante l'orario scolastico composte solo da alunni rom e con diversa età anagrafica.

Storicamente i provvedimenti diretti solamente alle comunità rom e sinti, anche se presentati come azioni di discriminazione positiva, hanno di fatto prodotto politiche nazionali e locali discriminatorie e penalizzanti. Questo perché sono spesso ideate e attuate con scarsa comprensione delle condizioni socio-culturali, con risorse finanziarie non sufficienti e con una organizzazione inadeguata, condizioni dunque che producono un risultato opposto a quello per cui sono create, ossia un aumento della condizione di emarginazione.

Le caratteristiche di un alunno nomade sono da ascriversi alle sue abitudini e al suo ambiente. Egli è:
un bambino libero, perché ha intorno a sé spazi ampi e poche regole a cui sottostare;
autosufficiente, perché ha imparato presto a provvedere a se stesso, ed è quindi, già adulto capace di inventare strategie per la sopravvivenza (ne consegue la brevità del periodo infantile - fantastico);
bisognoso di affetto, per il precoce abbandono a sé stesso da parte degli adulti. Quando scende dalle braccia della madre, il bambino spesso resta affidato a sorelle di poco più grandi;
timoroso ed ansioso verso i non zingari, da cui è abituato a difendersi.
Inoltre, in genere in casa riceve una continua reinterpretazione di quanto apprende fuori.

Le difficoltà che un bambino zingaro incontra nell'ambiente scolastico derivano proprio dalle sue peculiarità:
il suo essere libero in ampi spazi all'aperto lo fa sentire costretto nella struttura scolastica (intesa come edificio, banchi, cattedre...); egli inoltre non è abituato a ricevere ordini e ad accettare regole delle quali non capisce e non accetta il valore;
la sua autosufficienza lo porta da una parte ad avere maggiore stimolo nella creazione dei giochi; nel contempo, gli sono negati gli stimoli culturali e verbali, che hanno i suoi coetanei;
è bisognoso di affetto, ma, al tempo stesso, si rivela estremamente timido ed introverso;
il suo timore verso i non zingari lo induce ad essere reticente nel comunicare le proprie esperienze di vita;
l' uso della lingua materna gli crea maggiori difficoltà nell'ambito linguistico espressivo per incapacità di trasposizione e ricezione della lingua italiana;
presenta labilità di attenzione e memoria.


Lo scolaro nomade rivela notevoli capacità nelle attività espressive, motorie, grafico-pittoriche, musicali e pratico manuali.
E' particolarmente abile nelle operazioni aritmetiche concrete.
La sua accettazione, nei confronti della scuola, dipende dal modo in cui l'ambiente scolastico lo accoglie. Ciò non significa solo che egli deve sentirsi tranquillo e ben accetto (cosa essenziale) ma che deve essere messo in grado di superare le grosse difficoltà di apprendimento per arrivare a dei risultati concreti di alfabetizzazione, che è ciò che lui stesso e la sua famiglia si aspettano dalla scuola.

Dalle indagini svolte è evidente l'alto tasso dell'evasione dell'obbligo scolastico. Inoltre, degli alunni iscritti, la maggior parte sono Sinti o Rom italiani; gli slavi, specie quelli di recente immigrazione, sono quasi del tutto inadempienti.

Con questi gruppi si è lavorato molto in alcune città dove è più attiva l'azione di stimolo del volontariato nei confronti dei pubblici poteri (Roma, Milano, Torino, Emilia, Sardegna).

A Roma, negli anni scorsi è state organizzato con l'aiuto della Regione, un servizio di collegamento fra campi sosta e scuole che prevedeva la sensibilizzazione dei genitori zingari, le pratiche di iscrizione, il trasporto, i rapporti con la scuola, il doposcuola al campo. Durante l'estate, l'attività continuava nei centri estivi per i piccoli Rom, organizzati dal Comune.

Non sempre una buona frequenza porta a risultati positivi e quindi all'ammissione dei bambini alla classe successiva, anche alle elementari.
Ciò a volte dipende dal fatto che le famiglie partono per gli spostamenti estivi in aprile-maggio, facendo perdere al bambino proprio il periodo in cui avviene la valutazione finale. La scuola considera l'alunno come trasferito e non lo valuta. La famiglia non lo iscrive ad un'altra scuola, perché si sposta frequentemente ed ha bisogno di bambini per il lavoro. Quindi nessuno esprime il giudizio finale.
Non vedendosi richiedere il nulla osta al trasferimento, le scuole di provenienza per un certo periodo, hanno rinviato i bambini alle prove suppletive, che si tengono entro la fine di agosto. Ma questo è ancora periodo di viaggio per i nomadi, che rientrano alla base invernale verso la fine di ottobre.

Durante la ricreazione i bambini Rom vengono isolati dagli altri bambini, forte è il loro senso di estraneità. Spesso piangono, hanno paura degli addetti ai servizi sociali, pensano che li portino via (cosa che accade non di rado).

Dal punto di vista dell’apprendimento, hanno difficoltà con la lingua italiana. Per la mancanza di spazio e di luce nelle abitazioni dei campi, i quaderni vengono lasciati a scuola, così anche i più svelti accumulano un gap nell’apprendimento con gli alunni italiani. Per evitare bocciature alle scuole elementari, gli alunni Rom vengono promossi con livelli minimi di alfabetizzazione. Alle medie è un disastro. Il gap diventa insormontabile. La difficoltà di comprendere il linguaggio formalizzato delle lezioni e dei libri di testo, determina la decimazione delle presenze degli scolari maschi, mentre le femmine già in età matrimoniale si perdono. I maschi che continuano la scuola, si assuefanno alla marginalità scolastica, in attesa di passare alle scuole serali CTP prima dei diciotto anni, tollerati perché Rom. I CTP organizzano corsi di istruzione per immigrati. Qui si generano tra immigrati e Rom conflitti razziali. La commistione con africani, ad esempio, rende i Rom ostili (“i negri fanno schifo”); mentre gli africani considerano i Rom, “sporchi zingari”. Molto spesso questa conflittualità porta all’abbandono scolastico da parte dei Rom.

Per quanto riguarda l’integrazione dei Rom nella società maggioritaria dobbiamo considerare la specificità della cultura Rom fondamentalmente di tipo orale. I valori e i comportamenti di ruolo vengono trasmessi per contagio psicologico e apprendimento imitativo diretto, tanto più rigido, quanto più separato, chiuso e autoreferente è il contesto. Bisogna tener conto che una parte consistente, se non la maggior parte, della popolazione dei campi non è alfabetizzata.L’esperienza degli operatori volontari all’interno dei “Campi” Rom mette in luce una delle maggiori difficoltà di inserimento dei Rom nella società maggioritaria.La cultura orale non contempla il saper leggere e scrivere. Ciò comporta l’impossibilità di comprendere le normative e, più semplicemente, le indicazioni scritte, che sono alla base del sistema sociale della società maggioritaria. Negli uffici delle amministrazioni locali, nelle ASL, negli ospedali, nelle scuole, per non parlare dei tribunali, le difficoltà di comunicazione dei Rom sono all’ordine del giorno. Non solo, il non saper leggere rende difficile ai Rom sapersi destreggiare nella toponomastica urbana. La mancanza di alfabetizzazione è tanto più grave se consideriamo, l’altissima mortalità scolastica dei minori Rom i cui genitori non comprendono l’importanza dell’obbligo scolastico.

Il campo, così, come microcosmo autoreferente e separato, li ri-inghiottisce, chiude loro la possibilità di aprirsi a esperienze innovative e conduce alla assunzione di modelli ripetitivi, non di rado coniugati con la criminalità. Non è peregrina l’ipotesi per cui il campo sia funzionale a generare una connivenza omertosa per le attività illegali.

Sfera pubblica e società civile: difficoltà di inclusione. Per quanto attiene i processi di integrazione e inclusione nella società maggioritaria, nonostante le dichiarazioni di buona volontà da parte delle istituzioni pubbliche sollecitate dall’Unione Europea  non è ancora superato l’approccio alla cosiddetta “emergenza nomadi” in un’ottica securitaria. Basti considerare l’accelerazione degli sgomberi, senza fornire alternative degne di una società civile.

Per comprendere la situazione dei minori, le abitudini e gli stili di vita della popolazione Rom bisogna partire dal contesto in cui si trova o è costretta a vivere la popolazione Rom: i cosiddetti “campi nomadi”, benché i Rom siano stanziali da decenni. Il campo è un microcosmo concluso e conchiuso, un sistema sociale totale autoreferente. L’autoreferenzialità è mantenuta e accentuata dal fatto che i campi sono separati, lontani dalla società maggioritaria, sia in senso sociale che urbanistico. La segregazione in spazi circoscritti e controllati ne fanno dei ghetti degradati, dove gli abitanti vengono discriminati su base etnica e in questa modalità vengono schedati con fotosegnaletiche e impronte digitali estese ai minori quattordicenni, non di rado ai più giovani, attraverso sistemi polizieschi pensati per la criminalità organizzata. Ecco di seguito una testimonianza di un Rom da un campo di Milano: “Sono arrivati alle cinque e mezzo, hanno circondato il campo, lo hanno illuminato con le cellule fotoelettriche, sono venuti casa per casa, roulotte per roulotte, ci hanno fatto uscire, ci hanno buttato fuori, hanno fotografato le case e poi i nostri documenti. Hanno finito intorno alle sette e mezzo. Io credo che tutti debbano sapere e capire cosa sta succedendo: sono italiano, sono cristiano e sono stato schedato in base alla mia razza”.(da Figli dei “campi” Ass. 21 luglio, 2014)

Ora dobbiamo chiederci che percezione possono avere i minori, se non di paura, senso di impotenza, estraneità e ostilità nei confronti del mondo della società maggioritaria? Se volgiamo lo sguardo alla vita nei “campi”, sorprende chi entra, l’intensità della vita relazionale tra gli abitanti. Di fatto, non c’è distinzione netta tra la sfera privata e la sfera sociale nella cultura e nei modi di vita Rom. Nei campi, intensa è la partecipazione alle varie attività della vita quotidiana, la maggior parte delle quali vengono svolte all’aperto a cominciare dalla preparazione dei pasti; anche per l’angustia degli spazi abitativi interni: roulottes, continers e baracche. I bambini percepiti come la maggiore ricchezza, vivono insieme in uno spazio comunitario, liberi di scorrazzare per i campi dove vengono considerati figli di tutti. Se i genitori vanno in carcere, i figli vengono assistiti dalle altre famiglie.



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martedì 17 febbraio 2015

RAZZISMO NELLA STORIA

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 L'ONU condannò il razzismo con la Dichiarazione sulla razza dell'UNESCO (1950) e con una Convenzione del 1965 che definì discriminazione razziale ogni differenza, esclusione e restrizione dalla parità dei diritti in base a razza, colore della pelle e origini nazionali ed etniche. Nel 2000 il 21 marzo fu proclamato giornata mondiale contro il razzismo, in memoria dell'eccidio di 69 neri nel 1960 a Sharpeville (Sudafrica). Organizzazioni umanitarie non governative, come SOS Razzismo, nata in Francia ma operante in tutto il mondo, anche in Italia (dal 1989), si battono per sconfiggere il razzismo e ogni forma di discriminazione. Da anni l'Unione Europea invita con direttive gli Stati membri a dotarsi di leggi antidiscriminazione.La prima teoria 'scientifica' della differenziazione biologica dell'umanità in razze fu la classificazione in base al colore della pelle operata da C. Linneo nel 1735. Il testo che diede un impulso decisivo alla diffusione delle idee razziste fu il Saggio sull'ineguaglianza delle razze umane (1853-55) di J.-A. de Gobineau, che sostenne la superiorità biologica e spirituale della razza ariana germanica. Per H.S. Chamberlain (I fondamenti del 19° secolo, 1900) la storia era un'eterna lotta tra ariani, razza spiritualmente nobile, ed ebrei, ignobili e meschini. L'antiebraismo religioso si era trasformato in antisemitismo razzista, diffuso in gran parte d'Europa, dalla Russia dei pogrom alla Francia dell'affaire Dreyfus. Anche l'evoluzionismo di C. Darwin fu strumentalizzato per cercare di avvalorare le tesi razziste sostenendo che il dominio imperialistico sul mondo dimostrerebbe la superiorità biologica della razza bianca, più adatta ad affrontare la lotta per la vita e la selezione naturale. Inoltre, furono condotte misurazioni antropometriche che avrebbero dovuto rivelare la maggior intelligenza, vitalità e moralità della razza bianca e furono avanzate teorie eugenetiche che invitavano a preservare i caratteri migliori della razza impedendo il meticciato e la riproduzione degli individui peggiori. C. Lombroso, infine, sostenne che gli italiani meridionali sono biologicamente più predisposti alla delinquenza dei settentrionali.

Il termine razzismo, nella sua definizione più semplice, si riferisce ad un'idea, spesso preconcetta e comunque scientificamente errata, come dimostrato dalla genetica delle popolazioni e da molti altri approcci metodologici, che la specie umana (la cui variabilità fenotipica, l'insieme di tutte le caratteristiche osservabili di un vivente, è per lo più soggetta alla continuità di una variazione clinale) possa essere suddivisibile in razze biologicamente distinte, caratterizzate da diverse capacità intellettive, valoriali o morali, con la conseguente convinzione che sia possibile determinare una gerarchia secondo cui un particolare, ipotetico, raggruppamento razzialmente definito possa essere definito superiore o inferiore a un altro.
A livello colloquiale, il termine razza riferito alla specie umana provoca frequenti fraintendimenti, anche per l'utilizzo differente da quello della lingua inglese che possiede termini come race (anche in senso generico), kind (tipo, razza), breed (nel senso di ceppo zoologico) e progeny (nel senso di progenie, schiatta); con la traduzione nel differente contesto linguistico italiano, si verificano facilmente slittamenti di senso. In senso scientifico (di scienza attuale) ed in lingua italiana le razze umane non esistono, e quelle zoologiche sono confinate nel campo zootecnico degli animali domestici. La specie umana, come diverse altre, è soggetta ad una continua variazione clinale, senza soluzione di continuità da un gruppo ad un altro.

Il concetto di cline è stato variamente utilizzato in campo scientifico anche per lo studio di popolazioni del passato. Il clustering genetico, la possibilità di analisi matematica (Cluster analysis) dei parametri biologici di una popolazione e del grado di somiglianza dei dati genetici tra individui e gruppi per inferire strutture di popolazione e quindi assegnare gli individui a gruppi, che spesso corrispondono alla loro discendenza geografica auto-identificata, è fattibile, anche utilizzando l'analisi delle componenti principali. Ci possono essere molteplici varianti di dati geni nella popolazione umana (polimorfismo). Molti geni non sono invece polimorfici, che significa che solo un singolo allele è presente nella popolazione. Queste ed altre tecniche permettono di riunire gli individui in gruppi arbitrari, utili ad esempio per lo studio di determinate patologie, e di identificare incidenze delle stesse, differenti in gruppi differenti. Questi fatti non implicano minimamente una reale suddivisione della specie, continua ed interfeconda.

Non ci sono due esseri umani geneticamente identici. Anche i gemelli monozigoti, che sviluppano da uno zigote, hanno frequenti differenze genetiche dovute a mutazioni che si verificano durante lo sviluppo. Le differenze tra gli individui, anche strettamente correlati, sono la chiave per tecniche come il fingerprinting genetico. I principali elementi di variazione biologica umana hanno distribuzioni indipendenti e non possono essere compresi se l'ipotetica esistenza di "razze" viene assunta come punto di partenza.

Più analiticamente si possono distinguere diverse accezioni del termine:

storicamente rappresenta un insieme di teorie con fondamenti anche molto antichi (ma smentite dalla scienza moderna) e manifestatesi in ogni epoca con pratiche di oppressione e segregazione razziale, che sostengono che la specie umana sarebbe un insieme di razze, biologicamente differenti, e gerarchicamente ineguali. Tra gli ispiratori ideologici degli aspetti contemporanei di questa teoria vi fu l'aristocratico francese Joseph Arthur de Gobineau, autore di un Essai sur l'inégalité des races humaines (Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane, 1853-1855). Nel XIX secolo quello che sarebbe stato poi definito razzismo nel secolo successivo ebbe rilevanza scientifica, al punto da venire oggi chiamata dagli storici razzismo scientifico.
Intorno al 1850 il razzismo esce dall'ambito scientifico e assume una connotazione politica, diventando l'alibi con cui si cerca di giustificare la legittimità di prevaricazioni e violenze verso etnie, raggruppamenti culturali, ed altro, diversi dai propri. Alcune delle massime espressioni di questo uso sono stati il nazionalsocialismo in Europa e il Ku Klux Klan nel Nuovo Mondo.
In senso colloquiale definisce ogni atteggiamento attivo di intolleranza (che può tradursi in minacce, discriminazione, violenza) verso gruppi di persone identificabili attraverso la loro cultura, religione, etnia, sesso, sessualità, aspetto fisico o altre caratteristiche. In tale senso, però, sarebbero più corretti, anche se sono raramente usati nel linguaggio popolare corrente, termini come xenofobia o meglio ancora etnocentrismo.
In senso più lato, e di uso non appropriato, comprende anche ogni atteggiamento passivo di insofferenza, pregiudizio, discriminazione verso persone che si identificano attraverso la loro regione di provenienza, cultura, religione, etnia, sesso, sessualità, aspetto fisico, accento dialettale o pronuncia difettosa, abbigliamento, abitudini, modo di socializzarsi o altre caratteristiche.

Tradizionalmente, con il termine razzismo si riconduceva alla composizione di razza, dal latino generatio oppure ratio, con il significato di natura, qualità e ismo, suffisso latino -ismus di origine greca -ισμός (-ismòs), con il significato di "classificazione" o "categorizzazione", qui inteso come astratto collettivo, sistema di idee, fazione e, per estensione, partito politico che può sottintendere significati differenti. Oggi l'etimologia viene in genere interpretata in modo diverso, in quanto si suppone che il termine razza italiano, così come gli equivalenti nelle altre lingue neolatine, derivi dal francese antico haraz o haras, allevamento di cavalli; per falsa divisione del termine unito all'articolo, l'haraz diventa così la razza.
Grazie alla genetica, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, la biologia considera ormai assodato il fatto che tutti i componenti della specie Homo sapiens sapiens costituiscano un solo insieme omogeneo e che due gruppi etnici qualsiasi, il cui aspetto sia stato modificato dall'adattamento ad ambienti esterni diversi, possano essere apparentemente molto diversi, ma, in realtà, assai vicini dal punto di vista genetico. Al contrario, popolazioni che condividono un aspetto simile possono essere geneticamente più distanti rispetto a popolazioni di "razze" diverse.
Il termine razza non è in ogni modo utilizzato in biologia per la classificazione tassonomica ma solo in zootecnia e viene applicato solamente agli animali domesticati.

Per fare un esempio, la diffusione di un determinato allele in popolazioni diverse può presentarsi con maggiori somiglianze fra una popolazione europea ("bianca") ed una africana, che fra due popolazioni europee. Le differenze tra le cosiddette "razze" umane riguardano infatti unicamente l'aspetto esteriore, modificato per adattarsi all'ambiente man mano che la specie umana si diffondeva per tutto il mondo; ed ovviamente l'aspetto esteriore è il dato che salta maggiormente all'occhio. Tuttavia esso coinvolge una frazione relativamente insignificante dell'intero genoma dell'uomo. Ecco perché individui che discordano vistosamente su pochi geni, relativi al colore della pelle o al taglio degli occhi, possono poi condividere caratteristiche genetiche molto più complesse ed importanti, anche se non altrettanto vistose.

Anzi, se c'è un aspetto che caratterizza l'Homo sapiens sapiens al paragone con molte specie animali, esso è semmai la straordinaria omogeneità genetica, causata dal fatto che tutti gli esseri umani discendono da un numero ristretto di antenati, evolutisi in un tempo assai recente (circa centomila anni fa), e rimescolatisi di continuo nel corso della loro storia. Eventuali differenze fenotipiche esteriori, si possono al più collocare nella cosiddetta variazione geografica o cline, nello studio strettamente tecnico riguardante la genetica delle popolazioni.

Il discorso, di tipo generale, è ugualmente estendibile ad aspetti di ambito medico quali la distribuzione nella popolazione delle patologie, o la relativa diversa sensibilità ai farmaci.

Questa premessa non era e non è condivisa dal razzismo. Secondo l'ideologia razzista, le differenze di aspetto rispecchiano la divisione effettiva in razze della specie umana. Particolare non secondario, il razzismo professa sempre la superiorità di una "razza" rispetto ad altre, sostenendo che la "razza" superiore è quella a cui appartiene il sostenitore del razzismo, e giustificando così un'eventuale discriminazione e/o oppressione di coloro i quali sono considerati inferiori.

Il razzismo, inteso come teoria pseudoscientifica, fu una delle giustificazioni ideologiche del colonialismo del XIX e XX secolo, del mantenimento della schiavitù nel XIX secolo, oltre che della discriminazione di gruppi sociali in condizioni di inferiorità, come per esempio nel caso dell'apartheid.
Il razzismo scientifico è stato preceduto e seguito da altre forme di razzismo organizzato, detto anche pre-scientifico. Nel merito di quest'ultimo la parola "razza" non è sempre riferita a un tipo biologico, ma al senso più generale di "categoria" o "genere". Quest'altra forma di razzismo non è meno importante, e in dettaglio prende molti nomi specifici a seconda dell'oggetto della discriminazione: classismo se riferito alla discriminazione in base alla classe sociale, casteismo se in base alla casta di appartenenza, sessismo se in base al sesso, ecc.

Tesi dominante oggi, che tenta di spiegare le cause del razzismo organizzato e scientifico, è quella utilitarista: il razzismo, cioè, nascerebbe prevalentemente da motivi di utilità politica, a difesa dei privilegi, dell'economia e del potere di una fazione contro l'altra.

Il razzismo "individuale" invece è considerato dalla psicologia un grave disturbo mentale di tipo narcisistico, come anche la xenofobia.

Le teorie razziste nacquero nel Medioevo allorché i sovrani cristiani vollero impadronirsi dei beni dei banchieri ebrei; si svilupparono poi nel XVI secolo, quando Spagna e Portogallo impiegarono schiavi Africani per le loro colonie. Esse assunsero un'importanza politica nel XIX secolo quando cominciò a diffondersi il mito della razza ariana. Questa ipotetica razza servì a Joseph Arthur de Gobineau per giustificare i privilegi dell'aristocrazia e spiegare l'antagonismo tra essa e le masse popolari. Però la maggior parte delle suddivisioni storiche datano l'inizio della storia moderna al 1492, e anche le radici del razzismo moderno si legano a questa data.
A seguito dell'unificazione delle corone spagnole, il 31 marzo 1492 Ferdinando II d'Aragona ed Isabella di Castiglia firmano il decreto che espelle tutti gli Ebrei dalla Spagna. L'inquisizione spagnola, personificata nella figura di Tomás de Torquemada diventa il braccio attivo della politica della corona nell'attuazione della epurazione.
Si crea il concetto di purezza del sangue, base ideologica degli statuti di limpieza de sangre promulgati alla fine del secolo.
Nello spirito di questi statuti, tesi a analizzare la stirpe originaria della persona, non il suo credo religioso attuale, si riconoscono infine quelli promulgati nel 1496 da Papa Alessandro VI dove si approva un codice di purezza anche per gli ordini monastici, come quello dei Hieronymiti.
Questi sono primi esempi classici di razzismo ideologico con profonde radici utilitaristiche. Durante il periodo dell'espulsione di alcune centinaia di migliaia di persone, le vittime furono numerose. Con questo atto si pose fine a una lunghissima convivenza produttiva sul territorio iberico di tutte le etnie del mediterraneo. Il massacro di Lisbona del 17 aprile 1506, viene ricordato come un'altra vicenda atroce (migliaia di morti in poche ore, molti dei quali arsi vivi) della penisola Iberica, figlia delle conseguenze delle leggi razziali dell'epoca.

Un fattore da considerare in una prospettiva storica, è che il razzismo è un fenomeno connesso all'età coloniale, quando le grandi potenze europee svilupparono ideologie razziste per risolvere la dissonanza tra valori cristiani di eguaglianza e carità e lo sfruttamento delle popolazioni indigene in America come in Africa.

Prima di quest'epoca la xenofobia può spesso esprimersi direttamente come tale: l'altro è inferiore in quanto "non è come noi" e ci è "quindi" ostile (in greco antico ξενός, "xenos", significa sia "straniero" che "nemico"), perché parla una lingua diversa dalla nostra ("barbaro" in greco significa letteralmente "il balbettante"), perché non professa la nostra religione, perché non si veste come noi (in molte lingue i concetti di "straniero", "strano" ed "estraneo" hanno la stessa radice linguistica, che in italiano è quella del latino "extra": "che viene da fuori").

Tuttavia la società antica preferisce stratificare l'umanità in base a concetti castali, più che razziali: il nobile è ovviamente superiore al plebeo, e il plebeo libero è superiore allo schiavo. Ed ovviamente le caratteristiche dell'individuo inferiore (il suo modo di parlare, di vestire, di comportarsi) "giustificano" pienamente la sua condizione sociale inferiore. Inoltre non va dimenticato che per la gran parte le società premoderne (come ancora molte delle società moderne) sono sessiste, ritenendo cioè che tutti i maschi della razza umana siano biologicamente superiori (più forti, più intelligenti, più morali...), per il solo fatto di essere tali, a tutte le femmine della razza umana.

Ciò detto, la mentalità premoderna in generale non avrebbe giudicato uno schiavo bianco superiore a un nobile - ad esempio - arabo in base alla sua sola appartenenza a una presunta "razza". Se si cercava una superiorità, essa veniva trovata nella cultura, nell'etnia, nella religione: ogni cristiano è superiore ad ogni infedele, dunque anche uno schiavo cristiano è, "moralmente", ma non socialmente, superiore a un principe musulmano. Ma se il principe musulmano si converte al Cristianesimo, viene meno tale inferiorità e prevale nuovamente la superiorità sociale di casta.

La società premoderna considera insomma la "razza" non come un dato immutabile e di primo piano, ma come un dato transitorio e secondario, destinato ad annacquarsi col passare delle generazioni: si ebbero così papi discendenti da famiglie ebraiche convertite, o bastardi di nobili generati con schiave nere (quindi mulatti) legittimati dai loro genitori (per esempio, Alessandro de' Medici detto "il Moro"), come pure ex schiavi "mori" nordafricani (come per esempio Leone Medici/Leone Africano) adottati da nobili famiglie.

Tutto ciò non implica accettazione del diverso: la società antica ha anzi un vero orrore per le novità e la non-conformità; implica però che la diversità motivata dall'appartenenza razziale appare ai nostri avi meno importante di altre diversità, come quelle legate al "rango sociale" o di altro tipo, che invece per la mentalità moderna sono meno importanti. Non a caso il razzismo in quanto ideologia pseudoscientifica sorge nel momento in cui questo antico criterio di valutazione è ormai in piena crisi dopo la Rivoluzione francese, e non è un caso che uno dei suoi fondatori, de Gobineau, sostenga la superiorità della razza germanica solo per giustificare la superiorità della classe sociale che secondo lui ne discende in Francia (la nobiltà, che è la classe a cui egli appartiene ed il cui monopolio assoluto del potere egli vuole giustificare in questo modo).

A questa generalizzazione si oppone la già citata "limpieza de sangre" "purezza di sangue" che la nobiltà iberica propone nel tardo Rinascimento per respingere l'ascesa degli ebrei e dei moriscos convertiti al cristianesimo, e quindi (teoricamente) integrati nella società spagnola dell'epoca. Quindi, una volta di più, il razzismo quattro-cinquecentesco è un'ideologia escogitata da una casta endogama, e non da una "razza", intesa in senso biologico.

Il concetto di "limpieza de sangre" sarebbe stato applicato anche ai danni delle popolazioni indigene dell'America prima, ed agli schiavi neri ivi importati poi, nonché degli iberici spagnoli che si erano mescolati con essi, creando una società in cui la stratificazione sociale era legata anche al gruppo etnico di appartenenza. Una società estremamente conscia dell'appartenenza razziale, al punto da conoscere non solo concetti come quello di "mulatto" o "meticcio", ma anche quelli di quarteron e octavon, cioè di persona con solo un quarto o un ottavo di sangue nero, o di zambo, cioè meticcio metà nero e metà indio, e via via con ulteriori sottodivisioni.

Paradossalmente, però, tale acuta coscienza delle differenze "razziali", che certo non è sbagliato definire "razzista", fu la reazione a un diffusissimo fenomeno di "mescolamento" delle razze da parte degli iberici non appartenenti alla nobiltà, i cui effetti si osservano agevolmente ancora oggi in tutta l'America Latina. Non mancò neppure qualche nobile che non disdegnò il matrimonio con i discendenti della nobiltà indigena India, per acquisire maggiore legittimità nel suo dominio agli occhi della popolazione dominata.

Questo fenomeno mostra quanto il razzismo ("non scientifico") iberico fosse qualitativamente diverso dal successivo razzismo ottocentesco, che fra i suoi primi scopi dichiarati ebbe appunto quello di impedire il mescolamento fra le razze umane, sempre nocivo per la razza "superiore" (cioè i bianchi).
Da questo punto di vista, un passo avanti verso il vero e proprio razzismo, inteso come teoria scientifica, si ebbe piuttosto negli Usa, dove nel dibattito infuocato relativo all'abolizione della schiavitù a metà del XIX secolo, uno degli argomenti azzardati dai suoi sostenitori fu che neri (e indiani) non fossero "davvero" esseri umani, ma andassero catalogati in una categoria diversa, alla quale non si potevano applicare le argomentazioni umanitarie proposte dagli abolizionisti. Non essendo i neri uomini, non aveva senso essere "umanitari" con loro.

In Europa i nazisti riuscirono quasi a imporre un dogma mitologico, prima contro gli ebrei poi contro i polacchi, che privava tutti coloro che venivano definiti non ariani dei diritti civili e del lavoro. Questo aspetto ricalca in parte lo stesso che i polacchi applicavano precedentemente contro la popolazione ebraica. Il governo polacco in esilio, il suo esercito, i suoi rappresentanti ufficiali conservarono immutati questi pregiudizi. Durante l'occupazione, infatti, i polacchi aiutarono il nemico nel maltrattamento e nel massacro degli ebrei. Un polacco ebbe a dire: «La fortuna è venuta a noi tramite Hitler. Egli ci sta preparando una Polonia senza Ebrei». Vi furono, tuttavia, alcune nobili eccezioni. Dopo la liberazione la maggior parte della popolazione conservò un'opinione positiva della repressione. Nel luglio 1946 uno spaventoso pogrom antisemitico nella città polacca di Kielce costò la vita a quarantun ebrei. In Polonia persino dopo la guerra, alcuni membri della Chiesa cattolica continuarono ad avere una parte di primo piano nell'incoraggiare e nel mantenere vivo l'antisemitismo

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