Visualizzazione post con etichetta origini. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta origini. Mostra tutti i post

sabato 4 luglio 2015

BORNO

.


Borno è un comune della Val Camonica situato sul cosiddetto Altopiano del Sole, ovverosia la valle percorsa dal torrente Trobiolo, tributaria della media Valle Camonica e dominata dalle vette più orientali delle Prealpi Orobiche. Il comune comprende però, a occidente, anche un tratto del settore bresciano della Val di Scalve.

Recenti studi di etimologia hanno riscontrato che ci sono parecchi nomi di luoghi somiglianti in zone molto diverse e distanti tra loro: ciò indica che gli antichi abitanti parlavano una lingua comune o con caratteristiche alquanto simili. Si è notato che il suono o la radice comuni “br” nelle lingue indeuropee indicava acqua, torrente, fiume, stagno, ecc. e che si trova attualmente in numerose lingue moderne, come ad esempio nell’inglese brook (torrente); in tedesco, con lo stesso significato, vi sono Brunnen, Bronn e Born (fonte, sorgente); in inglese c’è poi burn (sorgente), in ceco, bulgaro e sloveno brod (guado) e in serbo-croato bara (palude).

C’è pure un’altra antica radice, molto simile - “br” o le sue varianti “brn”, “brd”e “brg” - che invece indicano un’altura, un monte, un luogo abitato fortificato, un passo, una selva, ecc.; radice che possiamo ritrovare nelle lingue moderne: il gaelico bar (monte), l’inglese barrow (tumulo), il tedesco Berg (monte), il ceco brdo (collina), il danese borg (castello), di nuovo l’inglese boroug (città) e il polacco bor (bosco); anche i toponimi di Brescia e del Brennero hanno in sé questa radice antica.

Si può allora ipotizzare che gli antichi camuni indicassero questa zona come un luogo abitato in altura o un altopiano separato dalla circostante Valle Camonica. Queste radici le possiamo riconoscere tuttora in alcuni paesi vicini come Berzo, Breno, Braone, Bienno e Prestine ed indicano che i primitivi abitatori volevano identificare varie zone abitate più elevate rispetto al territorio sottostante.

Secondo lo studioso Gnaga in cenomane, lingua parlata da una popolazione celtica stanziatasi nel V secolo a.C. tra i fiumi Oglio e Adige e il lago di Garda, la parola bùrnich significa luogo abitato e ad essa si può far risalire il toponimo Bùren. In numerose zone dell'altopiano sono stati scoperti alcuni massi istoriati dagli antichi camuni, con inciso il disco solare; i celti chiamavano il dio sole Bormo: il luogo potrebbe aver tratto il nome dalla divinità che si venerava in questi luoghi, ma questa ipotesi è abbastanza difficile da verificare.

Con l’avvento della dominazione romana il nome antico potrebbe essersi cristallizzato nel tempo, con deboli variazioni fonetiche, perdendo però il suo contenuto semantico, cioè il significato originario primitivo; oppure, a detta di alcuni storici, i romani avrebbero imposto alla popolazione locale nuovi toponimi, causandone una modifica radicale. Analogamente il nome di Borno potrebbe derivare dal latino eburneus (bianco, candido), da intendersi come luogo splendido ed incantevole, oppure da boreus (settentrionale), in quanto luogo posto a nord rispetto alla Civitas Cammunorum, centro principale dell’occupazione romana; alcuni ne riconducono l’origine ad un nome gentilizio latino, come Burno o Burnus. Fino ad ora, comunque, non sono stati trovati reperti od epigrafi che possano suffragare l’ipotesi latina del nome.

Con le invasioni barbariche molti popoli si insediano nelle valli e, quindi, molte lingue si sovrappongono e si mescolano tra loro: proprio al lungo periodo medievale sono riconducibili varie congetture che indicano un’ipotesi, credibile o fantasiosa, per il nome del paese. Lo studioso Odorici lo fa risalire alla voce del latino medievale burnus, inteso come luogo abitato sull’orlo della valle; dalle parole del latino classico burgens e burgensis (abitante del borgo) pare siano derivate nel Medioevo le parole bùren e bùrengus, che indicherebbero l’abitante del borgo.

In un antico germanico la parola Burn indicava il ferro; già dal periodo pre-romano Borno era situato sulla via di comunicazione con la Valle di Scalve, dove c’erano numerose miniere di questo minerale, che veniva poi trasportato nei vicini forni fusori di Lozio, Malegno e Bienno: il luogo, costituendo un’importante area di scambio, potrebbe avere tratto il nome dal metallo. L’Olivieri lo fa addirittura provenire dalla voce provenzale e piemontese burna (buco).

Un’altra parola tardo-latina è burna, indicante termine o pietra di confine, il che fa ipotizzare che Borno fosse un’importante zona di confine tra vallate. In italiano antico esiste la parola bornio, che significa pietra, roccia sporgente o balza rocciosa, parola usata anche da Dante Alighieri nella sua Divina Commedia. Questo termine deriva dal francese borne (cippo, termine, limite, confine), a sua volta probabilmente derivato dal celtico botina, che voleva dire pietra di confine; pure in inglese troviamo la parola bourne (frontiera) e a Bormio, nella vicina Valtellina, la parola born si riferisce ancora oggi ad una rupe o balza rocciosa. In questo caso il termine indicherebbe un abitato costruito sulle rocce, oppure vicino o confinante con i dirupi, come possiamo notare risalendo dal fondovalle lungo la strada vecchia che da Cogno conduce all’Annunciata.

Si giunge infine al primo documento scritto, datato 1018, che attesta in modo definitivo il nome del luogo: si presume, perciò, che il toponimo fosse già in uso da alcuni secoli. Si legge infatti nel documento, redatto in latino, che dirime una lite tra feudatari e liberi uomini di Borno, questa frase: in villa quae dicitur Burnum. Il nome che in seguito è stato italianizzato in Borno, così come lo conosciamo adesso.

Le più antiche testimonianze delle presenza dell’uomo a Borno, partono dal Paleolitico Finale, un lasso di tempo compreso tra i 15.000 e 10.000 anni fà, dopo lo scioglimento dei ghiacciai pleistocenici che avevano ricoperto la Valle impedendone l’accesso.
Il territorio di Borno è importante per il periodo del IV e del III millenio a.C., l’età del Rame, a testimonianza del quale troviamo stele e massi con incisioni. Tra questi vi è anche il masso noto come “Masso di Borno” il primo ad essere rinvenuto dagli studiosi nel 1953 nella zona dell’altopiano. Detta roccia si può ammirare oggi nel Museo Archeologico di Milano.
A Borno, oltre hai resti di queste necropoli, vi sono dei resti di strutture murarie di un possibile insediamento. Nel periodo longobardo, sotto il regno di Liutprando, all’incirca verso il 735, dovrebbe collocarsi l’inizio dell’astio tra i Bornesi e gli Scalvini per il possesso del monte Negrino, una plurisecolare contesa con omicidi e incendi dolosi d’ambo le parti, terminata nel 1682.
A seguito dell’arrivo dei Franchi in Italia nel 764, la Valcamonica venne donata in feudo, da Carlo Magno, al Monastero benedettino di San Martino di Marmoutier. Proprio negli anni che seguirono la donazione carolingia fu costruita in Borno la Cappella Santi Martini. Dall’anno 893 al 953, a seguito delle invasioni degli Ungari e dei Saraceni, i Camuni edificarono numerosi fortilizi, rocche e torrioni per rifugiarvisi durante le scorrerie. A questi si fanno risalire le presunte 12 antiche torri medioevali di Borno molte delle quali riedificate su fortificazioni preesistenti (attualmente sono state individuate soltanto sette torri).
Nel Medio Evo la comunità bornese fu al centro delle maggiori lotte coni comuni limitrofi. Nel 1156 avvenne una rissa tra due schiere di Bornesi e Loziesi, nei pressi di Malegno, durante una comune processione di catecumeni alla Pieve di Cividate, in seguito alla quale nel 1186 i Bornesi ottennero il sacro fonte battesimale divenendo chiesa autonoma. Nell’anno 1166 un fatto d’armi, che portò all’uccisione di 11 uomini, avvenne in zona di Confine tra Borno ed Esine, scaturito per il possesso di una palafitta sull’Oglio, installata dai Bornesi per la pesca. Nel 1386 le famiglie dei Fostinoni, Lanzoni e Gerboni, del partito guelfo, si ribellarono al vescovo di Brescia per ragioni fiscali e vennero ammonite assieme ai reggenti del comune. Feudatari di Borno furono i Federici, Camozzi, Gandellini, Fostinoni, Montanari, Gerboni, lanzoni, lazzaroni, Curti, Gheza, Magnoli, lupi, Negri, Guarnieri, Pernici, Dabeni. Sebbene le famiglie guelfe risultino più numerose di quelle della fazione avversa, la Comunità di Borno resterà sempre ghibellina, sia per il predominio della famiglia Federici in Valle, sia per la controversia con gli Scalvini di parte guelfa.
Nel primo periodo della dominazione veneta Borno divenne il primo comune della Valcamonica per numero di abitanti con circa 1500 anime e 330 fuochi, possedeva 812 bestie grosse e 1652 bestie minute, possedeva 6 fucine a maglio 19 mulini, 2 folli e 2 raseghe. Forniva legname da opera e manufatti in ferro a Venezia ed armava l’esercito della Serenissima con decine di Cernide (militi ausiliari locali). La parrocchia, sia pure in tempi diversi, disponeva di tre romitori con altrettanti romiti: la Chiesa di S. Cosma, la chiesa campestre di S. Fiorino e I’eremo montano di S. Fermo. Per interessamento del frate Amedeo Mendez da Silva negli anni 1467-69 sorse, poco distante dalla località Rocca, il convento che ospitò dapprima i frati del Terz’Ordine della Penitenza, poi gli Amadeiti, i Minori Osservanti, i Minori Riformati e infine i Frati Minori Cappuccini, che nel ‘900 tennero il noviziato, le scuole elementari, il servizio mensa per i poveri e prestarono servizio ai Sanatori di Croce di Salven.
Nel 1580 cessò la contesa tra Borno ed Erbanno per il possesso di boschi e pascoli in località Calvarina e nello stesso anno la comunità ricevette la visita pastorale del cardinal Borromeo. Nell’anno 1630 la peste bubbonica mietè 38 vittime, l’ospedale degli appestati venne edificato in località lazzaretti, ai margini dell’abetina sottostante l’attuale località Corna Rossa. Il 3 agosto del 1688 un vastissimo incendio distrusse oltre 200 case su 300, tutto il grano, mietendo 8 vittime. Durante la cosiddetta guerra di Gradisca, tra Venezia e Austria, i Bornesi, in soccorso della Repubblica marinara, armarono ben 270 Cernide capitanate da Stefano Magnolo. Con l’avvento napoleonico e della Repubblica Cisalpina Borno, appartenente al dipartimento del Serio, divenne sede di Municipalità e di Giudicatura di pace. Sorse la Congregazione di Carità e fu edificato il cimitero per la sepoltura collettiva dei morti.
Durante il periodo austriaco si abbatterono sulla comunità numerose carestie, pestilenze e calamità naturali. Tra 1905 e il 1907 la prima società elettrica valligiana diffuse l’elettrificazione in Borno e nel vicino Ossimo. Sorsero in questo periodo le ville signorili e prese consistenza il turismo estivo d’elite. Nelle guerre italo-abissina, di Libia e d’ Africa Orientale, caddero 7 soldati bornesi. Durante la grande guerra perirono 33 soldati. Durante il periodo fascista, nel 1923, venne costruita la strada provinciale Malegno-Ossimo-Borno che sostituirà il vecchio percorso delle viti. Nel 1928 iniziarono i lavori per la costruzione dei Sanatori antitubercolari in località Croce di Salven. Negli anni 1930-31 venne realizzato dalla Società Olcese, in località Prati di lova, un bacino artificiale con relativo canale di derivazione e condotta forzata che scende dalla centrale della Rocca. Il secondo conflitto mondiale richiese altro tributo di sangue bornese: caddero 20 soldati e 1 8 risultarono dispersi in Russia, Grecia e Dalmazia.
Durante la Resistenza un gruppo di ufficiali tedeschi rocciatori fu fatto oggetto d’imboscata, in località Sedulzo, da parte di una brigata delle Fiamme Verdi della Valle di Scalve. Nello scontro perirono 14 tedeschi e 2 partigiani. Il paese dovette sopportare una cruenta rappresaglia. Furono bruciate numerose cascine sul versante di Lova, rastrellato il bestiame dei contadini e deportati un centinaio di giovani nel campo di concentramento di Villafranca. A partire dagli anni ‘60 l’economia bornese si trasforma da agrosilvo- pastorale in economia turistica. Nel 1962 si stacca da Borno la frazione di Piamborno che unitamente a Cogno di Borno e Cogno di Ossimo costituisce la nuova municipalità di Piancogno. Negli anni ‘70 Borno diviene stazione turistica invernale, viene realizzata la funivia-bidonvia Ogne-Monte Altissimo. Dalle circa 900 abitazioni degli anni ‘60 si passa alle 2900 censite nel 1991; nel periodo estivo la popolazione varia dai 2.700 residenti a circa 20.000 persone. Da ricordare, nel luglio 1998, la storica visita a Borno del Papa Giovanni Paolo II.



LEGGI ANCHE : http://asiamicky.blogspot.it/2015/06/la-valcamonica.html





FAI VOLARE LA FANTASIA 
NON FARTI RUBARE IL TEMPO
 I TUOI SOGNI DIVENTANO REALTA'
 OGNI DESIDERIO SARA' REALIZZATO 
IL TUO FUTURO E' ADESSO .
 MUNDIMAGO
http://www.mundimago.org/
.
 GUARDA ANCHE


LA NOSTRA APP



http://www.mundimago.org/



lunedì 8 giugno 2015

LE CITTA' DELLA PIANURA PADANA : MAGENTA



Magenta è un comune italiano della città metropolitana di Milano
.
A metà strada tra Milano e Novara, placidamente adagiata in una pianura ricca di storia, di capannoni e di campi coltivati, c’è Magenta, grosso centro industriale passato alla storia per la famosa battaglia combattuta in epoca risorgimentale.   L’originario villaggio gallico fortificato sul Ticino, successivamente assoggettato dai romani, subì tutte le invasioni barbariche che nei secoli transitarono nel territorio, fu rasa al suolo, ricostruita e saccheggiata più volte.   La presenza di conventi, chiese e pievi sul suo territorio è secolare; i monaci della potente Certosa di Pavia cui nel ‘300 il feudo apparteneva ne migliorarono l’agricoltura e lo sfruttamento del terreno mentre il secolo successivo vi venne istituito un mercato che si svolge ancora oggi. Le origini della città di Magenta risalgono con tutta probabilità all’impero romano. Qui infatti, secondo la tradizione, Massimiano Erculeo fece costruire nel 297 alcune fortificazioni a difesa dalle scorribande barbariche provenienti da nord.
Il nome della città risale invece al X secolo. Ne abbiamo per la prima volta traccia in alcuni scritti di Bertari da Lodi del 1079 in cui si parla “de loco Mazenta” appunto. Durante il periodo medioevale la città dipendeva dalla Pieve di Corbetta, dove i magentini portavano i figlio per il battesimo.
Nel 1279 Magenta fu teatro di una battaglia fra la dinastia dei Torriani e quella dei Visconti che solo due anni prima si erano insediati alla guida di Milano. Al termine di feroci combattimenti in cui trovò la morte il generale visconteo Guglielmo Posterla, i Torriani furono respinti e i Visconti ebbero modo di mantenere inalterato il controllo su queste terre.
Nel 1310 l’imperatore di Lussemburgo Enrico (Arrigo) VII dopo aver visitato Torino, Asti e Vercelli durante il suo viaggio in direzione di Milano, sostò a Magenta, conferendole il titolo di Borgo. Durante tutto il medioevo Magenta rappresentò un feudo demaniale in alcuni casi dimenticato dai centri di potere, pertanto il suo sviluppo fu assai limitato e, come possiamo apprendere da alcuni scritti di visitatori ecclesiastici, anche la manutenzione di chiese e altri beni non fu priva di difficoltà. Nei secoli successivi Magenta fu principalmente centro agricolo abitato da contadini, ma anche residenza estiva per ricche famiglie milanesi che avevano possedimenti territoriali nelle campagne circostanti.

Prima del termine dell’epoca feudale Magenta passa da una signoria all’altra, ognuna delle quali ha lasciato tracce del proprio passaggio: opere pubbliche, palazzi, chiese e conventi, molte delle quali giunte in buono stato fino ai giorni nostri.

Durante la seconda guerra d’indipendenza, nel 1859, la città ed il territorio circostante fu teatro di una grande battaglia che vide i piemontesi e gli alleati francesi combattere contro le truppe austro-ungariche, vinta dai primi che si aprirono così la strada verso la conquista del lombardo-veneto.   A questa vittoria è stata anche dedicata la scoperta di un’anilina, un colore, avvenuta nello stesso periodo della battaglia, che il suo inventore chiamerà appunto Magenta, uno dei colori primari della quadricromia.

Pur non essendo stato un confronto di grande portata, la battaglia di Magenta è commemorata come il primo scontro che diede inizio al processo di unificazione dell'Italia che in tre anni di campagne militari condotte dai franco-piemontesi porterà alla riunione degli stati della penisola sotto il dominio dei Savoia, ma anche come il primo grande successo militare che mise in risalto la forza dell'accordo della Francia col Piemonte e l'ormai debolezza del grande apparato costituito dall'Impero austriaco che era sul punto di collassare sotto le insofferenti spinte rivoluzionarie italiane.

Nel luglio 1858 Cavour incontra segretamente Napoleone III a Plombières-les-Bains: secondo gli accordi stipulati, la Francia aiuterà il Piemonte in caso di attacco austriaco e, a guerra vinta, l'Italia dovrà essere divisa in tre regni organizzati in una confederazione sotto la presidenza onoraria del Papa (progetto poi non attuato). La cessione di Nizza e della Savoia sarà il prezzo territoriale dell'aiuto francese. Il 10 dicembre Francia e Piemonte stringono un formale trattato d'alleanza.

Il 10 gennaio 1859 Vittorio Emanuele II, nel discorso di apertura del parlamento piemontese (il cui testo viene concordato da Cavour e Napoleone III), afferma:

« ...Noi non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d'Italia si leva verso di Noi... »
(Vittorio Emanuele II)
Gli echi sono immensi in tutta la penisola: i lombardi manifestano il loro entusiasmo, mentre i volontari passano il Ticino per unirsi ai piemontesi. Il 23 aprile l'Austria invia un ultimatum al Piemonte intimandone il disarmo entro tre giorni: è l'occasione pazientemente attesa da Cavour per iniziare la guerra.

Scaduto il tempo previsto, gli austriaci invadono il Piemonte con l'intenzione di sconfiggere l'esercito sabaudo prima dell'arrivo dell'alleato francese. I piemontesi ostacolano l'avanzata del generale di artiglieria (Feldzeugmeister) Ferencz Gyulai allagando le risaie della Lomellina e del vercellese; i francesi, attraverso il colle del Moncenisio e da Genova raggiungono rapidamente il campo di battaglia. Il 20 maggio gli austriaci sono battuti a Montebello.

Mentre Gyulai attende con il grosso delle truppe intorno a Piacenza, Napoleone III lo trae in inganno oltrepassando il Po a Casale Monferrato e spostando velocemente l'armata francese dalla zona di Alessandria a quella di Novara per puntare verso Milano. Solo dopo le sconfitte subite il 30 e il 31 maggio a Vinzaglio e a Palestro, il comando austroungarico si accorge del tranello e ordina che il grosso dell'esercito sia spostato, attraverso Vigevano e Abbiategrasso, dalla Lomellina a Magenta. Gli austriaci retrocedono stabilendo così una linea difensiva tra il Naviglio Grande ed il Ticino; facendo saltare il grande ponte napoleonico di Boffalora sopra Ticino, tra Magenta e Trecate, che però resiste ed in parte rimane transitabile.

La notte tra il 2 ed il 3 giugno il genio francese, protetto dall'artiglieria, getta un ponte di barche di 180 metri di fronte a Turbigo: inizia così il passaggio del II Corpo d'armata che sostiene i primi scontri a Turbigo e Robecchetto. La mattina del 4 il generale Mac Mahon divide le sue truppe in due colonne dirigendo la Seconda Divisione guidata dal generale Espinasse verso Marcallo con Casone e la Prima Divisione di De La Moutterouge verso Boffalora sopra Ticino. Intanto le truppe austroungariche tardano ad arrivare ed il generale austriaco Clam-Gallas dispone le sue forze a triangolo con i vertici a Magenta, Marcallo e Boffalora.

Non appena Napoleone III sente tuonare il cannone, dal suo osservatorio nella torre di San Martino di Trecate, convinto che l'attacco di Mac Mahon sia in atto, ordina alle truppe in attesa presso il Ticino di muoversi verso i ponti del Naviglio di Boffalora, Ponte Vecchio e Ponte Nuovo. Gli austriaci fanno saltare i primi due; il ponte della dogana con quello della ferrovia, poco più a valle, rimangono così l'unico passaggio per raggiungere la sponda sinistra del canale. Ma Mac Mahon è fermo in attesa di coordinare i movimenti delle sue colonne e il III Corpo d'Armata francese tarda a giungere da Novara sul campo di battaglia.

Comincia, intanto, ad arrivare da Abbiategrasso il grosso delle truppe austriache il cui ingresso in linea rende la situazione critica per i francesi a tal punto che a Vienna viene inviato un telegramma che annuncia una schiacciante vittoria. Dopo accaniti combattimenti dall'esito incerto i francesi riescono a passare sul Ponte Nuovo solo quando gli austriaci, minacciati sul fianco destro da Mac Mahon, che ha risposto all'attacco a Boffalora, si ritirano attestandosi a Magenta. Nei combattimenti cade il generale francese Cler.

La battaglia divampa anche attorno alla stazione ferroviaria di Magenta; gli austriaci si ritirano nelle abitazioni civili sperando di difendere il territorio metro a metro. Il generale Espinasse viene colpito nei pressi di Casa Giacobbe, ma la sua colonna e quella di Mac Mahon, con una manovra "a tenaglia", attaccano il nemico trincerato nella cittadina. Verso sera i bersaglieri della Divisione del generale Fanti giungono a coprire il lato sinistro degli alleati. Gyulaj decide di optare per la ritirata strategica meditando su un contrattacco che non avverrà. Alla sera del 4 giugno, dopo la vittoriosa battaglia, l'imperatore Napoleone III nomina Mac Mahon Maresciallo di Francia e Duca di Magenta. L'8 giugno gli alleati con Vittorio Emanuele II e l'imperatore francese entrano vincitori in Milano, sfilando sotto l'Arco della Pace in corso Sempione.

Ogni anno, tradizionalmente, una ricostruzione storica con figuranti ricorda gli avvenimenti della Battaglia di Magenta.

In occasione del 150º anniversario dello scontro, la battaglia è stata spostata in campo aperto presso un'area periferica della città (e non più nel centro ove tradizionalmente la sfilata storica aveva luogo) per consentire agli oltre 300 figuranti di avere maggior manovrabilità nelle posizioni.

Casa Giacobbe, monumento ancora presente coi segni e le testimonianze dello scontro, è divenuto ad oggi un centro congressi e luogo espositivo del museo sulla battaglia.

Lo scontro di Magenta ha lasciato segni importanti anche nella cultura odierna, come ad esempio il color magenta, una mistura prodotta per la prima volta nel 1859 e che deve il proprio nome proprio all'omonima battaglia in ricordo secondo la tradizione del sangue versato sul campo dagli zuavi francesi.

Nella Parigi del secondo impero e in piena espansione, inoltre, venne realizzato il Boulevard de Magenta proprio per commemorare la grande vittoria dell'armata francese in Italia.

L'area del magentino venne rivalutata dal 1836 quando, con la costruzione di una dogana sul fiume Ticino, in prossimità del ponte napoleonico, nacque l'agglomerato urbano di Pontenuovo che venne ad unirsi a Magenta. Fu questo uno dei periodi di rinascita del comune di Magenta che sostituì gradatamente ma progressivamente gran parte dell'agricoltura con le prime industrie tessili ed alimentari. L'unico scontento degli abitanti fu quello di essere inclusi dal governo austriaco nella provincia di Pavia, anziché con la vicina Milano con cui il borgo aveva rapporti secolari. Alla fine del XIX sec. Magenta comprendeva già un ospedale locale costruito con la munificenza dei benefattori Giovanni Giacobbe e Giuseppe Fornaroli, a cui la struttura venne intitolata. Il 1947 vide Magenta elevata al rango di città, con decreto del capo dello Stato Enrico De Nicola.

Durante la seconda guerra mondiale, nel periodo dell'occupazione tedesca e della Repubblica Sociale Italiana, la famiglia ebrea milanese dei Molho, proprietaria di una fabbrica di minuterie metalliche a Magenta, fu salvata dai propri dipendenti, membri delle famiglie Cerioli e Vaiani. Dapprima fu trovato un alloggio in una cascina isolata, quindi una stanza segreta fu ricavata nel vasto magazzino al primo piano della fabbrica, ove i Molho (genitori e due bambini) poterono rimanere nascosti fino alla Liberazione. Per questo loro impegno di solidarietà, il 22 dicembre 1997, l'Istituto Yad Vashem di Gerusalemme ha conferito l'alta onorificenza dei Giusti tra le Nazioni a Angelo Cerioli, alla figlia Dina Cerioli, ai generi Antonio Garbini e Battista Magna e alla cognata Caterina Vaiani. Il 20 luglio 2000, il Parlamento Italiano ha istituito il Giorno della Memoria a ricordo sia delle vittime dell'Olocausto sia di coloro che a rischio della propria vita hanno protetto i perseguitati.

Nei primi decenni del XX secolo la crescita della città proseguì in virtù della nascita di industrie tessili e chimiche che diedero lavoro e sviluppo anche ai paesi limitrofi. Nel secondo dopoguerra Magenta conobbe il suo massimo sviluppo passando dai 15.000 abitanti del 1951 ai 24.000 del 1971. La crisi economica degli anni ’70 portò alla scomparsa di alcune grandi industrie come la Plodari, prima azienda italiana nel settore delle serrature, della Laminati Plastici e della Snia, sostituita dalla Novaceta. Anche la Saffa fu costretta ad estendere la propria attività a nuovi settori

La Saffa (Società per Azioni Fabriche Riunite Fiammiferi) è stata un'azienda produttrice di fiammiferi tra le più importanti d'Italia e d'Europa. Attiva per 130 anni, dal 1871 al 2001, ha prodotto, oltre a fiammiferi di ogni tipologia, una linea di mobili disegnati da Giò Ponti e accendini per Cartier. È stata a lungo diretta dall'ingegner Pietro Molla, marito di santa Gianna Beretta Molla. Dopo la dismissione definitiva dello stabilimento, nel 2001, parte dell'archivio della SAFFA è stato recuperato e salvato dal macero grazie ad un ex dipendente.

Persone legate a Magenta:
Marco Balzarotti (2 marzo 1957) Doppiatore italiano, nato a Magenta
Gianna Beretta Molla (4 ottobre 1922 - 28 aprile 1962) è venerata come santa dalla Chiesa cattolica, nata a Magenta
Fabio Calcaterra (n. 1965) calciatore ed allenatore, nato a Magenta
Giulia Calcaterra (3 novembre 1991), ex ginnasta, modella e showgirl, nata a Magenta
Giovanni Cattaneo (3 agosto 1916 - 31 luglio 1943), sergente d'esercito, Medaglia d'Oro al Valor Militare, nato a Magenta
Patrice de Mac Mahon, generale francese che combatté nella battaglia di Magenta, divenuto in seguito presidente della Repubblica francese
Andrea Noè (15 gennaio 1969) è un ex ciclista professionista, nato a Magenta
Carlo Ponti (1912 - 2007), produttore cinematografico, nato a Magenta
Alessio Rimoldi (4 luglio 1976), atleta vincitore della medaglia d'oro ai mondiali militari di Beirut del 2001, nato a Magenta
Roberto Salvadori (29 luglio 1950) ex calciatore, nato a Magenta
Cesare Tragella (4 gennaio 1852 – 8 maggio 1934), prevosto di Magenta dal 1889 al 1910
Francesco Bertoglio (15 febbraio 1900 – 6 luglio 1977), vescovo titolare di Paro, nato a Magenta



LEGGI ANCHE : http://asiamicky.blogspot.it/2015/05/la-pianura-padana-in-lombardia.html




.

FAI VOLARE LA FANTASIA 
NON FARTI RUBARE IL TEMPO
 I TUOI SOGNI DIVENTANO REALTA'
 OGNI DESIDERIO SARA' REALIZZATO 
IL TUO FUTURO E' ADESSO .
 MUNDIMAGO
http://www.mundimago.org/
.
 GUARDA ANCHE


LA NOSTRA APP



http://www.mundimago.org/



lunedì 20 aprile 2015

TANTI AUGURI ROMA

.


Domani è il giorno della fondazione della nostra capitale: vediamo un po' le sue origini tra leggende e storia.

La data della fondazione di Roma è stata fissata al 21 aprile dell'anno 753 a.C. (Natale di Roma) dallo storico latino Varrone, sulla base dei calcoli effettuati dall'astrologo Lucio Taruzio. Altre leggende, basate su altri calcoli indicano date diverse.

I Romani avevano elaborato un complesso racconto mitologico sulle origini della città e dello stato; il racconto ci è giunto con le opere storiche di Tito Livio, Dionigi di Alicarnasso, Plutarco e le opere poetiche di Virgilio e Ovidio, quasi tutti vissuti nell'età augustea. In quest'epoca le leggende, riprese da testi più antichi, vengono rimaneggiate e fuse in un racconto unitario, nel quale il passato viene interpretato in funzione delle vicende del presente.

I moderni studi storici e archeologici, che si basano su queste e su altre fonti scritte, nonché sugli oggetti e sui resti di costruzioni rinvenuti in vari momenti negli scavi, tentano di ricostruire la realtà storica che sta dietro il racconto mitico, nel quale man mano si sono andati riconoscendo elementi di verità. Secondo la storiografia moderna, Roma non fu fondata con un atto volontario, invece nacque, come altri centri coevi dell'Italia centrale, dalla progressiva riunione di nuclei abitati sparsi, fenomeno detto sinecismo (ipotesi dell'origine per sinecismo).

Il mito racconta di una fondazione avvenuta a opera di Romolo, discendente dalla stirpe reale di Alba Longa, che a sua volta discendeva da Silvio, figlio di Lavinia e di Enea, l'eroe troiano giunto nel Lazio dopo la caduta di Troia.

Come si racconta nell'Eneide, Enea, figlio della dea Venere, fugge da Troia, presa dagli Achei, con il padre Anchise e il figlioletto Ascanio. Il viaggio che Enea percorre prima di raggiungere le coste del Latium vetus (antico Lazio) è lungo e pericoloso. Egli, infatti, per volere di Giunone, che si era adirata con lui, è costretto ad approdare a Cartagine dove, accolto dalla regina della città, Didone, se ne innamora e rimane per un anno a regnare al suo fianco. Ma per ordine del Fato e di Giove, Enea è costretto a ripartire, prende la via dell'antico Lazio. La disperazione di Didone nel vedere l'amato allontanarsi la porta al suicidio.

Dopo varie peregrinazioni nel Mediterraneo, Enea approdò nel Lazio nel territorio di Laurento. Qui, secondo alcuni, venne accolto da Latino, re degli Aborigeni, secondo altri, fu costretto a battersi. Il destino vuole che il re italico fosse vinto in battaglia e costretto a fare pace con l'eroe troiano. Si narra, inoltre, che una volta conosciuta la figlia del re, Lavinia, i due giovani si innamorassero perdutamente l'uno dell'altra, che era stata promessa in sposa a Turno, re dei Rutuli. L'amore dei due giovani costrinse Latino ad assecondare i desideri della giovane figlia ed a permetterle di sposare l'eroe giunto da Troia, pur sapendo che prima o poi avrebbe dovuto affrontare Turno, il quale non aveva accettato che lo straniero venuto da lontano gli fosse preferito. Una volta sposati, Enea decise di fondare una città, dandole il nome di Lavinio (l'odierna Pratica di Mare), in onore della moglie.

La guerra che ne seguì non portò nessuna delle due parti a rallegrarsi. I Rutuli furono vinti e Latino, re alleato di Enea, fu ucciso.

Virgilio invece narra che la guerra tra italici e troiani ebbe inizio dopo che Giunone provocò tra le popolazioni rivali una rissa nella quale morì il giovane Almone, cortigiano del re Latino. Il conflitto vide il tiranno etrusco Mezenzio e la maggior parte delle popolazioni italiche correre in appoggio a Turno, mentre Enea ottenne l'alleanza dei Liguri, di alcune popolazioni greche provenienti da Argo e stanziate nella città di Pallante sul Palatino, regno dell'arcade Evandro e di suo figlio Pallante, nonché degli Etruschi ostili a Mezenzio. Qui si inserisce l'episodio dei ragazzi troiani Eurialo e Niso che, uscendo nottetempo dal campo per andare incontro ad Enea, fecero irruzione in quello dei nemici, che giacevano addormentati, compiendo una strage culminata con la decapitazione del giovane condottiero Remo a opera di Niso.

Eurialo e Niso vennero scoperti e uccisi. La guerra riprese anche più cruenta: Pallante cadde nel duello contro Turno, che riuscì a spogliarlo della cintura. Ma Enea capovolse le sorti del conflitto uccidendo Mezenzio. In seguito per evitare altre vittime Turno si decise a sfidare Enea, che alla fine ebbe la meglio. Ferito Turno, Enea fu tentato di risparmiarlo, ma alla vista della cintura di Pallante non esitò ad ucciderlo, mettendo così fine alla guerra. Enea poté finalmente sposare Lavinia e fondare la città di Lavinio.

Trent'anni dopo la fondazione di Lavinio, il figlio di Enea, Ascanio, fonda una nuova città: Alba Longa, sulla quale regnarono i suoi discendenti per numerose generazioni (dal XII all'VIII secolo a.C.) come ci racconta Tito Livio. Molto tempo dopo il figlio e legittimo erede del re Proca di Alba Longa, Numitore, viene spodestato dal fratello Amulio, che costringe sua nipote Rea Silvia, figlia di Numitore, a diventare vestale e a fare quindi voto di castità per impedirle di generare un possibile pretendente al trono. Il dio Marte però s'invaghisce della fanciulla e la rende madre di due gemelli, Romolo e Remo, quest'ultimo chiamato come il condottiero rutulo decapitato nel sonno da Niso nella guerra troiano-italica. Il re Amulio, saputo della nascita, ordina l'assassinio dei gemelli per annegamento, ma il servo incaricato non trova il coraggio di compiere tale misfatto e li abbandona sulla riva del fiume Tevere. Rea Silvia non subirà la pena di morte riservata alle vestali che infrangevano il voto di castità in quanto di stirpe reale, ma verrà confinata dal re. La cesta nella quale i gemelli erano stati adagiati si arenerà presso la palude del Velabro, tra Palatino e Campidoglio, nei pressi di quello che sarà poi il foro romano, alle pendici di una cresta del Palatino, il Germalus, sotto un fico, il fico ruminale o romulare, nei pressi di una grotta detta Lupercale. Lì i due vengono trovati e allattati da una lupa che aveva perso i cuccioli ed era stata d'altra parte attirata dal pianto dei gemelli (secondo alcuni la lupa era forse una prostituta, all'epoca le prostitute erano chiamate anche lupae) e da un picchio che li protegge, entrambi animali sacri ad Ares. In quei pressi portava al pascolo il gregge il pastore Faustolo (porcaro di Amulio) che trova i gemelli e insieme con la moglie Acca Larenzia (secondo alcuni detta lupa dagli altri pastori, forse in quanto dedita alla prostituzione) li cresce come suoi figli.

Una volta adulti e conosciuta la propria origine, Romolo e Remo fanno ritorno ad Alba Longa, uccidono Amulio e rimettono sul trono il nonno Numitore. Romolo e Remo, non volendo abitare ad Alba Longa senza potervi regnare finché era in vita il nonno materno, ottengono il permesso di andare a fondare una nuova città, nel luogo dove erano cresciuti.
Romolo vuole chiamarla Roma ed edificarla sul Palatino, mentre Remo la vuole chiamare Remora e fondarla sull'Aventino. È lo stesso Livio che riferisce le due più accreditate versioni dei fatti:

« Siccome erano gemelli e il rispetto per la primogenitura non poteva funzionare come criterio elettivo, toccava agli dei che proteggevano quei luoghi indicare, interrogati mediante aruspici, chi avrebbe dato il nome alla città e chi vi avrebbe regnato. Per interpretare i segni augurali, Romolo scelse il Palatino e Remo l'Aventino. Il primo presagio, sei avvoltoi, si dice toccò a Remo. Dal momento che a Romolo ne erano apparsi dodici quando ormai il presagio era stato annunciato, i rispettivi gruppi avevano proclamato re entrambi. Gli uni sostenevano di aver diritto al potere in base alla priorità nel tempo, gli altri in base al numero degli uccelli visti. Ne nacque una discussione e dallo scontro a parole si passò al sangue: Remo, colpito nella mischia, cadde a terra. È più nota la versione secondo la quale Remo, per prendere in giro il fratello, avrebbe scavalcato le mura appena erette] e quindi Romolo, al colmo dell'ira, l'avrebbe ucciso aggiungendo queste parole di sfida: «Così, d'ora in poi, possa morire chiunque osi scavalcare le mie mura». In questo modo Romolo s'impossessò del potere e la città prese il nome del suo fondatore. »

La versione di Plutarco è simile a quella di Livio, con l'eccezione che Romolo potrebbe non aver avvistato alcun avvoltoio. La sua vittoria sarebbe pertanto stata per alcuni frutto dell'inganno. Questo il motivo per cui Remo si adirò e ne nacque la rissa che portò alla sua morte. La città, di forma quadrata, fu quindi fondata sul Palatino, nella sesta Olimpiade, 22 anni che fu celebrata la prima, e Romolo divenne il primo Re di Roma.

C'è un'altra tradizione, raccontata da autori antichi come Strabone o Tito Livio, secondo la quale Roma fu una colonia greca arcade, fondata da Evandro. A Pallante, la città sul Palatino sorta nel luogo in cui sarà fondata Roma, si colloca anche il regno di Evandro, citato nell'Eneide virgiliana. Evandro avrebbe dato ospitalità a Eracle che conduceva le mandrie sottratte a Gerione. Evandro, che aveva saputo dalla madre Nicostrata, esperta di divinazione, il destino dell'eroe greco, comprese le fatiche che avrebbe dovuto superare, gli dedicò un altare, facendovi un sacrificio secondo il rito greco, ancora presente ai tempi di Strabone. Si racconta, inoltre, che durante il suo soggiorno, le mandrie gli furono rubate da Caco, figlio di Tifone, che egli schiantò con un colpo di clava mentre cercava di impedirgli di entrare per riprendersi la mandria.

Ma il personaggio e la sua città rivestono anche un'importanza che probabilmente esula da quella esclusivamente mitologica. Dal nome di Pallante potrebbe infatti essere derivato lo stesso toponimo di Palatino. La coincidenza poi che le feste "Palilie" si celebrassero nella data della fondazione di Roma può far pensare a un'ipotesi di accordo e di spartizione del territorio tra la gente di Romolo, stanziata sul Germalo, altura settentrionale del Palatino, e quella di Evandro, stabilitasi sul Palatino vero e proprio, più a sud, riservando alla Velia, l'altura intermedia, il ruolo forse di area cimiteriale, come i reperti archeologici lasciano supporre. Non va neanche sottovalutato il rilievo che assume la figura di Ercole e l'ospitalità offertagli dallo stesso Evandro: Ercole, ladro e assassino (avendo ucciso Gerione per rubargli le mandrie), che cerca rifugio in una regione infestata da ladri è molto simile ai proto-romani, pastori e personaggi comunque poco raccomandabili, riuniti sul Germalo in una comunità rozza e violenta che però è disposta a riconoscere il diritto d'asilo.

Altre varianti riguardano gli stessi Romolo e Remo, figli di Enea e Dessitea, nati già a Troia, oppure di Latino, figlio di Telemaco e di Rhome, o ancora di una Emilia, figlia di Enea, e del dio Marte.

Una leggenda racconta infine una diversa versione: sul focolare della casa di Tarchezio, tirannico re di Alba Longa, era apparso un fallo, che un oracolo impose di far unire con una fanciulla vergine. La figlia del re si fece tuttavia sostituire da una schiava, ma venne scoperta dal padre: le due donne furono imprigionate e i gemelli nati da quell'unione furono esposti in una cesta lasciata nel Tevere.

Anche la figura di Acca Larenzia compare in un diverso racconto che ci ha tramandato Plutarco: il guardiano del tempio di Ercole aveva perso una partita a dadi che aveva giocato contro il dio stesso e la cui posta era una donna. Il guardiano invitò dunque Acca Larenzia nel tempio e ve la richiuse. Dopo aver passato la notte con lei Ercole favorì le sue nozze con il ricco Tarunzio, che alla sua morte la lasciò erede delle sue ricchezze: Acca Larenzia le donò al popolo romano. L'episodio spiega in tal modo il culto che le veniva dedicato (festa dei Larentalia), che forse è dovuto all'antico carattere divino di questa figura.

Secondo Plinio il Vecchio e Aulo Gellio i dodici figli di Acca Larenzia e di Faustolo sarebbero stati all'origine del collegio sacerdotale dei fratres Arvales, caratterizzato dall'uso di rituali e formulari arcaici.

L'origine del nome della città era incerta anche in età arcaica. Servio, grammatico a cavallo tra il IV e il V secolo d.C., riteneva che il nome derivasse da un'antica denominazione del fiume Tevere, Rumon, dalla radice ruo (a sua volta proveniente dal greco ρεω), scorro, così da assumere il significato di Città del Fiume. Ma si tratta di un'ipotesi che non ha riscosso successo.

Gli autori di origine greca, primo fra tutti Plutarco, tendevano naturalmente a celebrarsi come i civilizzatori e i colonizzatori del bacino del Mediterraneo e quindi insistevano sulla lontana origine ellenica della città. Una prima versione fornita da Plutarco vede la fondazione di Roma dovuta al popolo dei Pelasgi, i quali una volta giunti sulle coste del Lazio, avrebbero fondato una città il cui nome ricordasse la loro prestanza nelle armi (rhome). Secondo una seconda ricostruzione dello stesso autore, i profughi troiani guidati da Enea arrivarono sulle coste del Lazio, dove fondarono una città presso il colle Pallantion a cui diedero il nome di una delle loro donne, Rhome. Una terza versione, sempre di Plutarco, offre ipotesi alternative, secondo le quali Rome poteva essere un mitico personaggio eponimo, figlia di Italo, re degli Enotri o di Telefo, figlio di Eracle, sposò Enea o il figlio, Ascanio. Una quarta versione vede Roma fondata da Romano, figlio di Odisseo e di Circe; una quinta da Romo, figlio di Emazione, giunto da Troia per volontà dell'eroe greco Diomede; una sesta da Romide, tiranno dei Latini, che era riuscito a respingere gli Etruschi, giunti in Italia dalla Lidia e in Lidia dalla Tessaglia. Un'altra versione fa della stessa Rome la figlia di Ascanio, e quindi nipote di Enea. Ancora una Rome profuga troiana giunge nel Lazio e sposa il re Latino, sovrano del popolo lì stanziato e figlio di Telemaco, da cui ebbe un figlio di nome Romolo che fondò una città chiamata col nome della madre. In tutte le versioni si ritrova l'eponima chiamata Rome, la cui etimologia è la parola greca rhome con il significato di "forza". Le fonti citano altri possibili eroi eponimi come Romo, figlio del troiano Emasione, o Rhomis, signore dei Latini e vincitore degli Etruschi.

Secondo altre interpretazioni di un certo interesse, il nome ruma sarebbe di origine etrusca, in quanto non è stato trovato l'etimo indoeuropeo e l'unica lingua non-indoeuropea della zona era l'etrusco. Il termine sarebbe entrato come prestito nel latino arcaico e avrebbe dato origine al toponimo Ruma (più tardi Roma) e a un prenome Rume (in latino divenuto Romus), dal quale sarebbe derivato il gentilizio etrusco Rumel(e)na, divenuto in latino Romilius. Il nome Romolo sarebbe quindi derivato dal nome della città e non viceversa.

In ogni caso la tradizione linguistica assegna al termine ruma, in etrusco e in latino arcaico, il significato di mammella, come è confermato da Plutarco il quale, nella "Vita di Romolo" racconta che:

« Sulle rive dell'insenatura sorgeva un fico selvatico che i Romani chiamavano Ruminalis o, come pensa la maggioranza degli studiosi, dal nome di Romolo, oppure perché gli armenti erano soliti ritirarsi a ruminare sotto la sua ombra di mezzogiorno, o meglio ancora perché i bambini vi furono allattati; e gli antichi latini chiamavano ruma la mammella: ancora oggi chiamano Rumilia una dea che viene invocata durante l'allattamento dei bambini »
(Plutarco, Vita di Romolo, 4, 1.)
Questa interpretazione del termine ruma è quindi strettamente collegata con i motivi che hanno portato alla scelta, come simbolo della città di Roma, di una lupa con le mammelle gonfie che allatta i gemelli fondatori.

Anche sulla lupa sono da fare delle considerazioni: posto che alcuni ritengono che ad accudire i gemelli sia stata effettivamente una lupa (in quanto mammifero in grado di avere gravidanze plurigemellari) la quale, avendo perso i propri cuccioli a causa di un predatore, aveva vagato fino a quando, trovati i due neonati, li aveva allevati, impedendone così la morte certa, occorre rilevare che il termine "lupa" in latino assume anche il significato di prostituta (da cui, "lupanare", luogo dove si svolge la prostituzione), ed è quindi abbastanza probabile che la "lupa" in questione sia stata una prostituta.

Secondo una tradizione diffusa nell'antichità, una città aveva tre nomi: uno sacrale, uno pubblico e uno segreto. Posto che al nome pubblico di Roma era unito il nome religioso di Flora o Florens, usato in occasione di determinate cerimonie sacre, quello segreto è rimasto sconosciuto. Il motivo e la necessità di questa segretezza riporta a un'altra tradizione diffusa presso gli antichi (ma anche in alcune culture contemporanee non occidentali) e che si ritrova anche nella storia dell'origine della scrittura: il nome di un oggetto o di una entità esprimeva l'essenza e l'energia dell'oggetto o entità che definiva. Nominare qualcosa equivaleva a renderlo vivo ed esistente e la conoscenza del nome significava, in pratica, avere il potere di influire, in bene o in male, sull'oggetto di cui si possedeva la conoscenza. Nel caso di una città il nome segreto corrispondeva, di fatto, al nome segreto del Nume tutelare e infatti i Pontefici romani, nelle invocazioni, si rivolgevano a "Giove Ottimo Massimo o con qualunque altro nome tu voglia essere chiamato". In base a questo principio negli assedi veniva evocato il dio protettore della città assediata, promettendogli riti e sacrifici migliori, affinché abbandonasse la tutela della città nemica, e per questo motivo i romani conservarono con estrema cura il nome segreto della loro città. Secondo il poeta e latinista Giovanni Pascoli, che ne parla nell'ode Inno a Roma, il nome segreto di Roma era il palindromo della stessa, Amor, cioè amore, il che significava la dedica segreta della città a Venere, dea dell'amore e della bellezza, ricollegandosi quindi al culto di Venere genitrice, madre di Enea e della stirpe romana. Molti storici hanno concordato con questa ipotesi.

Ricostruire in modo certo le reali origini di Roma è cosa non facile, ma è sicuro che questa città nacque e si sviluppò in modo progressivo, attraverso una serie di alleanze tra villaggi presenti fin dall’anno 1000 a.C. su alcuni colli della sponda sinistra del Tevere, ed in particolare il Campidoglio, il Palatino, l’Esquilino e il Celio.

La maggior parte di questi villaggi era di origine latina, ma non è da escludere che ci fosse già una presenza sabina e, addirittura etrusca (Roma era la centro delle rotte tra l’Etruria e la Magna Grecia e non bisogna dimenticare che al sud esistevano anche colonie etrusche quali Volturnum, l’attuale Capua). Del resto sembra che il Celio derivasse il suo nome dal nobile etrusco Celio Vibenna e lo stesso nome di Roma potrebbe derivare dal termine “Romun” con cui gli etruschi identificavano il fiume Tevere.

Un’altra ipotesi ancora attribuisce l’origine del nome al termine greco “Rhome” che indicava la forza ed il coraggio dei suoi primi abitanti.

Molti anni più tardi, attraverso calcoli complessi e non esenti da errori, si stabilì in modo convenzionale che Roma venne fondata il 21 aprile del 753 a.C.

Recenti scavi hanno confermato che sul Palatino era presente una fortificazione quadrata risalente all’VIII secolo a.C.; in questo la storia leggendaria di Romolo che traccia un solco quadrato per poi edificare una fortificazione trova una conferma nell’archeologia.

Scavi ancor più recenti effettuati sul Campidoglio, hanno portato alla luce tracce di insediamenti risalenti addirittura all’età del bronzo (1400 a.C.). Questo sconvolge ancora di più il quadro della situazione, facendo supporre che il primo colle abitato della zona sia stato proprio il Campidoglio, probabilmente a causa della sua posizione strategica rispetto al Tevere.

La città di Roma, contrariamente a quanto afferma la leggenda, non nacque dall'idea di costruire una nuova città, ma bensì dall'unione delle piccole comunità che abitavano i sette colli di Roma. Infatti nel territorio di Roma sorgono sette colli, situati tutti sulla riva sinistra del Tevere.

I primi insediamenti nella zona della futura città di Roma sorsero sul colle Palatino intorno al X secolo a.C. (ma le prime tracce archeologiche risalgono almeno al XIV secolo a.C.), mentre successivamente vennero occupati anche i colli Esquilino e Quirinale. Resti archeologici hanno dimostrato come lungo il Tevere fino a Ostia esistessero, tra la fine dell'Età del bronzo e l'inizio dell'Età del ferro, tutta una serie di fitti villaggi, che aveva occupato quasi ogni collina lungo il fiume: all'epoca di Strabone (I secolo a.C.) erano tutti scomparsi.

La città di Roma si venne a formare attraverso un fenomeno di unione dei villaggi durato vari secoli, che vide, in analogia a quanto accadeva in tutta l'Italia centrale, la progressiva riunione in un vero e proprio centro urbano degli insediamenti dispersi sui vari colli. Ed è quello che verosimilmente può essere accaduto sul Palatino, che inizialmente era composto da vari nuclei abitativi indipendenti: il Romolo della leggenda può essere stato il realizzatore della prima unificazione di questi nuclei in un'entità unica.

La data tradizionale alla metà dell'VIII secolo a.C., corrisponde al momento in cui i dati archeologici disponibili indicano la creazione di una grande necropoli comune sull'Esquilino, che sostituisce i precedenti luoghi di sepoltura nelle zone libere tra i villaggi, ormai considerate parte integrante dello spazio urbano, come ad esempio l'area del colle Velia, l'altura intermedia tra il Germalo ed il Palatino vero e proprio. Scavi al Foro Boario hanno portato alla luce della ceramica greca dell'VIII secolo a.C. che dimostra i rapporti commerciali con le prime colonie elleniche di Ischia e Capua. Inoltre, sempre risalenti alla metà dell'VIII secolo, abbiamo le tracce archeologiche di una obliterazione di capanne sul Palatino, con la conseguente creazione di un unico sito abitativo che può essere riconosciuto come la prima dimora dei re di Roma, almeno fino al 750-725, data in cui si viene a creare un duplicato della regia palatina nella zona del futuro locus Vestae. In relazione alla capanna regia del Palatino si hanno anche la fossa di fondazione e alcune rasature di muri risalenti allo stesso periodo, che possono essere interpretati come i muri della prima Roma, la Roma quadrata delle fonti annalistiche.

La data ufficiale fu fissata da Marco Terenzio Varrone, secondo il quale la città era stata fondata da Romolo e Remo il 21 aprile del 753 a.C. Altre fonti riportano tuttavia date diverse: Quinto Ennio, poeta latino del III-II secolo a.C., nei suoi Annales colloca la fondazione nell'875, lo storico greco Timeo di Tauromenio (IV-III secolo a.C.) nell'814 (contemporaneamente, quindi, alla fondazione di Cartagine), Quinto Fabio Pittore (III a.C.) all'anno 748 e Lucio Cincio Alimento nel 729.





FAI VOLARE LA FANTASIA 
NON FARTI RUBARE IL TEMPO
 I TUOI SOGNI DIVENTANO REALTA'
 OGNI DESIDERIO SARA' REALIZZATO 
IL TUO FUTURO E' ADESSO .
 MUNDIMAGO
http://www.mundimago.org/
.
 GUARDA ANCHE


LA NOSTRA APP



http://mundimago.org/le_imago.html



lunedì 2 marzo 2015

FOLKLORE MILANESE : LA FIERA DEI OH BEJ OH BEJ

.


La fiera degli Oh bej! Oh bej! è il mercatino tipico del periodo natalizio milanese. Si tiene generalmente dal 7 dicembre, giorno del santo patrono della città, fino alla domenica immediatamente successiva.

Gli Oh bej! Oh bej! rappresentano una delle più antiche tradizioni milanesi: le prime origini storiche risalgono al 1288, periodo in cui una festa in onore di Ambrogio si svolgeva nella zona dell'antica Santa Maria Maggiore.

Ma le origini dell'attuale festa risalgono al 1510 e coincidono con l'arrivo in città di Giannetto Castiglione, primo Gran Maestro dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Egli era stato incaricato da Papa Pio IV di recarsi a Milano, nel tentativo di riaccendere la devozione e la fede verso i Santi da parte dei cittadini ambrosiani.

Arrivato nei pressi della città, Giannetto ebbe il timore di non venire accolto con favore dalla popolazione milanese, la quale non aveva mai manifestato forti simpatie nei confronti del Papa. Era inoltre il 7 dicembre, giorno in cui si festeggiava il patrono Ambrogio, in coincidenza con l’elezione vescovile del santo avvenuta il 7 dicembre 374. Decise allora di approntare un gran numero di pacchi, riempiti con dolciumi e giocattoli. Entrato a Milano iniziò con il suo seguito a distribuire il contenuto dei pacchi ai bambini milanesi, i quali si erano radunati intorno al corteo insieme ad una gran folla di cittadini. Il corteo raggiunse la Basilica di Sant'Ambrogio attorniato da una folla festante.

Da allora si cominciò ad organizzare, nel periodo della festa dedicata ad Ambrogio, la fiera degli Oh bej! Oh bej!. Venivano allestite bancarelle di vestiti, vecchi giocattoli, e soprattutto di prodotti gastronomici. Tipici dell'epoca, insieme con mostarde e castagnaccio, erano i firòn: castagne affumicate al forno, bagnate di vino bianco e infilate in lunghi spaghi.

Le origini del nome Oh bej! Oh bej! risalgono ancora una volta all'episodio dell'ingresso in città di Giannetto Castiglione. Infatti il nome deriva dalle esclamazioni di gioia dei bambini milanesi che accettavano di buon grado i doni dell'inviato papale: l'espressione lombarda "Oh bej! Oh bej!" si traduce in italiano "Oh belli!, oh belli!".

Inizialmente gli Oh bej! Oh bej! si svolgevano presso la Piazza dei Mercanti; nel 1886 la manifestazione fu trasferita nella zona adiacente alla Basilica di Sant'Ambrogio, dove rimase per 120 anni fino al 2006, anno nel quale fu spostata nella zona del Castello Sforzesco (Foro Bonaparte), dove tutt'oggi è organizzata.

Oggi le bancarelle ambulanti degli Oh bej! Oh bej! espongono principalmente prodotti di artigianato, di antiquariato e dolciari.

LEGGI ANCHE : asiamicky.blogspot.it/2015/02/milano-citta-dell-expo-conosciamola.html

http://www.mundimago.org/

FAI VOLARE LA FANTASIA 
NON FARTI RUBARE IL TEMPO
 I TUOI SOGNI DIVENTANO REALTA'
 OGNI DESIDERIO SARA' REALIZZATO 
IL TUO FUTURO E' ADESSO .
 MUNDIMAGO
http://www.mundimago.org/
.
 GUARDA ANCHE
LA NOSTRA APP


http://mundimago.org/le_imago.html



.

martedì 17 febbraio 2015

RAZZISMO NELLA STORIA

.

 .


 L'ONU condannò il razzismo con la Dichiarazione sulla razza dell'UNESCO (1950) e con una Convenzione del 1965 che definì discriminazione razziale ogni differenza, esclusione e restrizione dalla parità dei diritti in base a razza, colore della pelle e origini nazionali ed etniche. Nel 2000 il 21 marzo fu proclamato giornata mondiale contro il razzismo, in memoria dell'eccidio di 69 neri nel 1960 a Sharpeville (Sudafrica). Organizzazioni umanitarie non governative, come SOS Razzismo, nata in Francia ma operante in tutto il mondo, anche in Italia (dal 1989), si battono per sconfiggere il razzismo e ogni forma di discriminazione. Da anni l'Unione Europea invita con direttive gli Stati membri a dotarsi di leggi antidiscriminazione.La prima teoria 'scientifica' della differenziazione biologica dell'umanità in razze fu la classificazione in base al colore della pelle operata da C. Linneo nel 1735. Il testo che diede un impulso decisivo alla diffusione delle idee razziste fu il Saggio sull'ineguaglianza delle razze umane (1853-55) di J.-A. de Gobineau, che sostenne la superiorità biologica e spirituale della razza ariana germanica. Per H.S. Chamberlain (I fondamenti del 19° secolo, 1900) la storia era un'eterna lotta tra ariani, razza spiritualmente nobile, ed ebrei, ignobili e meschini. L'antiebraismo religioso si era trasformato in antisemitismo razzista, diffuso in gran parte d'Europa, dalla Russia dei pogrom alla Francia dell'affaire Dreyfus. Anche l'evoluzionismo di C. Darwin fu strumentalizzato per cercare di avvalorare le tesi razziste sostenendo che il dominio imperialistico sul mondo dimostrerebbe la superiorità biologica della razza bianca, più adatta ad affrontare la lotta per la vita e la selezione naturale. Inoltre, furono condotte misurazioni antropometriche che avrebbero dovuto rivelare la maggior intelligenza, vitalità e moralità della razza bianca e furono avanzate teorie eugenetiche che invitavano a preservare i caratteri migliori della razza impedendo il meticciato e la riproduzione degli individui peggiori. C. Lombroso, infine, sostenne che gli italiani meridionali sono biologicamente più predisposti alla delinquenza dei settentrionali.

Il termine razzismo, nella sua definizione più semplice, si riferisce ad un'idea, spesso preconcetta e comunque scientificamente errata, come dimostrato dalla genetica delle popolazioni e da molti altri approcci metodologici, che la specie umana (la cui variabilità fenotipica, l'insieme di tutte le caratteristiche osservabili di un vivente, è per lo più soggetta alla continuità di una variazione clinale) possa essere suddivisibile in razze biologicamente distinte, caratterizzate da diverse capacità intellettive, valoriali o morali, con la conseguente convinzione che sia possibile determinare una gerarchia secondo cui un particolare, ipotetico, raggruppamento razzialmente definito possa essere definito superiore o inferiore a un altro.
A livello colloquiale, il termine razza riferito alla specie umana provoca frequenti fraintendimenti, anche per l'utilizzo differente da quello della lingua inglese che possiede termini come race (anche in senso generico), kind (tipo, razza), breed (nel senso di ceppo zoologico) e progeny (nel senso di progenie, schiatta); con la traduzione nel differente contesto linguistico italiano, si verificano facilmente slittamenti di senso. In senso scientifico (di scienza attuale) ed in lingua italiana le razze umane non esistono, e quelle zoologiche sono confinate nel campo zootecnico degli animali domestici. La specie umana, come diverse altre, è soggetta ad una continua variazione clinale, senza soluzione di continuità da un gruppo ad un altro.

Il concetto di cline è stato variamente utilizzato in campo scientifico anche per lo studio di popolazioni del passato. Il clustering genetico, la possibilità di analisi matematica (Cluster analysis) dei parametri biologici di una popolazione e del grado di somiglianza dei dati genetici tra individui e gruppi per inferire strutture di popolazione e quindi assegnare gli individui a gruppi, che spesso corrispondono alla loro discendenza geografica auto-identificata, è fattibile, anche utilizzando l'analisi delle componenti principali. Ci possono essere molteplici varianti di dati geni nella popolazione umana (polimorfismo). Molti geni non sono invece polimorfici, che significa che solo un singolo allele è presente nella popolazione. Queste ed altre tecniche permettono di riunire gli individui in gruppi arbitrari, utili ad esempio per lo studio di determinate patologie, e di identificare incidenze delle stesse, differenti in gruppi differenti. Questi fatti non implicano minimamente una reale suddivisione della specie, continua ed interfeconda.

Non ci sono due esseri umani geneticamente identici. Anche i gemelli monozigoti, che sviluppano da uno zigote, hanno frequenti differenze genetiche dovute a mutazioni che si verificano durante lo sviluppo. Le differenze tra gli individui, anche strettamente correlati, sono la chiave per tecniche come il fingerprinting genetico. I principali elementi di variazione biologica umana hanno distribuzioni indipendenti e non possono essere compresi se l'ipotetica esistenza di "razze" viene assunta come punto di partenza.

Più analiticamente si possono distinguere diverse accezioni del termine:

storicamente rappresenta un insieme di teorie con fondamenti anche molto antichi (ma smentite dalla scienza moderna) e manifestatesi in ogni epoca con pratiche di oppressione e segregazione razziale, che sostengono che la specie umana sarebbe un insieme di razze, biologicamente differenti, e gerarchicamente ineguali. Tra gli ispiratori ideologici degli aspetti contemporanei di questa teoria vi fu l'aristocratico francese Joseph Arthur de Gobineau, autore di un Essai sur l'inégalité des races humaines (Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane, 1853-1855). Nel XIX secolo quello che sarebbe stato poi definito razzismo nel secolo successivo ebbe rilevanza scientifica, al punto da venire oggi chiamata dagli storici razzismo scientifico.
Intorno al 1850 il razzismo esce dall'ambito scientifico e assume una connotazione politica, diventando l'alibi con cui si cerca di giustificare la legittimità di prevaricazioni e violenze verso etnie, raggruppamenti culturali, ed altro, diversi dai propri. Alcune delle massime espressioni di questo uso sono stati il nazionalsocialismo in Europa e il Ku Klux Klan nel Nuovo Mondo.
In senso colloquiale definisce ogni atteggiamento attivo di intolleranza (che può tradursi in minacce, discriminazione, violenza) verso gruppi di persone identificabili attraverso la loro cultura, religione, etnia, sesso, sessualità, aspetto fisico o altre caratteristiche. In tale senso, però, sarebbero più corretti, anche se sono raramente usati nel linguaggio popolare corrente, termini come xenofobia o meglio ancora etnocentrismo.
In senso più lato, e di uso non appropriato, comprende anche ogni atteggiamento passivo di insofferenza, pregiudizio, discriminazione verso persone che si identificano attraverso la loro regione di provenienza, cultura, religione, etnia, sesso, sessualità, aspetto fisico, accento dialettale o pronuncia difettosa, abbigliamento, abitudini, modo di socializzarsi o altre caratteristiche.

Tradizionalmente, con il termine razzismo si riconduceva alla composizione di razza, dal latino generatio oppure ratio, con il significato di natura, qualità e ismo, suffisso latino -ismus di origine greca -ισμός (-ismòs), con il significato di "classificazione" o "categorizzazione", qui inteso come astratto collettivo, sistema di idee, fazione e, per estensione, partito politico che può sottintendere significati differenti. Oggi l'etimologia viene in genere interpretata in modo diverso, in quanto si suppone che il termine razza italiano, così come gli equivalenti nelle altre lingue neolatine, derivi dal francese antico haraz o haras, allevamento di cavalli; per falsa divisione del termine unito all'articolo, l'haraz diventa così la razza.
Grazie alla genetica, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, la biologia considera ormai assodato il fatto che tutti i componenti della specie Homo sapiens sapiens costituiscano un solo insieme omogeneo e che due gruppi etnici qualsiasi, il cui aspetto sia stato modificato dall'adattamento ad ambienti esterni diversi, possano essere apparentemente molto diversi, ma, in realtà, assai vicini dal punto di vista genetico. Al contrario, popolazioni che condividono un aspetto simile possono essere geneticamente più distanti rispetto a popolazioni di "razze" diverse.
Il termine razza non è in ogni modo utilizzato in biologia per la classificazione tassonomica ma solo in zootecnia e viene applicato solamente agli animali domesticati.

Per fare un esempio, la diffusione di un determinato allele in popolazioni diverse può presentarsi con maggiori somiglianze fra una popolazione europea ("bianca") ed una africana, che fra due popolazioni europee. Le differenze tra le cosiddette "razze" umane riguardano infatti unicamente l'aspetto esteriore, modificato per adattarsi all'ambiente man mano che la specie umana si diffondeva per tutto il mondo; ed ovviamente l'aspetto esteriore è il dato che salta maggiormente all'occhio. Tuttavia esso coinvolge una frazione relativamente insignificante dell'intero genoma dell'uomo. Ecco perché individui che discordano vistosamente su pochi geni, relativi al colore della pelle o al taglio degli occhi, possono poi condividere caratteristiche genetiche molto più complesse ed importanti, anche se non altrettanto vistose.

Anzi, se c'è un aspetto che caratterizza l'Homo sapiens sapiens al paragone con molte specie animali, esso è semmai la straordinaria omogeneità genetica, causata dal fatto che tutti gli esseri umani discendono da un numero ristretto di antenati, evolutisi in un tempo assai recente (circa centomila anni fa), e rimescolatisi di continuo nel corso della loro storia. Eventuali differenze fenotipiche esteriori, si possono al più collocare nella cosiddetta variazione geografica o cline, nello studio strettamente tecnico riguardante la genetica delle popolazioni.

Il discorso, di tipo generale, è ugualmente estendibile ad aspetti di ambito medico quali la distribuzione nella popolazione delle patologie, o la relativa diversa sensibilità ai farmaci.

Questa premessa non era e non è condivisa dal razzismo. Secondo l'ideologia razzista, le differenze di aspetto rispecchiano la divisione effettiva in razze della specie umana. Particolare non secondario, il razzismo professa sempre la superiorità di una "razza" rispetto ad altre, sostenendo che la "razza" superiore è quella a cui appartiene il sostenitore del razzismo, e giustificando così un'eventuale discriminazione e/o oppressione di coloro i quali sono considerati inferiori.

Il razzismo, inteso come teoria pseudoscientifica, fu una delle giustificazioni ideologiche del colonialismo del XIX e XX secolo, del mantenimento della schiavitù nel XIX secolo, oltre che della discriminazione di gruppi sociali in condizioni di inferiorità, come per esempio nel caso dell'apartheid.
Il razzismo scientifico è stato preceduto e seguito da altre forme di razzismo organizzato, detto anche pre-scientifico. Nel merito di quest'ultimo la parola "razza" non è sempre riferita a un tipo biologico, ma al senso più generale di "categoria" o "genere". Quest'altra forma di razzismo non è meno importante, e in dettaglio prende molti nomi specifici a seconda dell'oggetto della discriminazione: classismo se riferito alla discriminazione in base alla classe sociale, casteismo se in base alla casta di appartenenza, sessismo se in base al sesso, ecc.

Tesi dominante oggi, che tenta di spiegare le cause del razzismo organizzato e scientifico, è quella utilitarista: il razzismo, cioè, nascerebbe prevalentemente da motivi di utilità politica, a difesa dei privilegi, dell'economia e del potere di una fazione contro l'altra.

Il razzismo "individuale" invece è considerato dalla psicologia un grave disturbo mentale di tipo narcisistico, come anche la xenofobia.

Le teorie razziste nacquero nel Medioevo allorché i sovrani cristiani vollero impadronirsi dei beni dei banchieri ebrei; si svilupparono poi nel XVI secolo, quando Spagna e Portogallo impiegarono schiavi Africani per le loro colonie. Esse assunsero un'importanza politica nel XIX secolo quando cominciò a diffondersi il mito della razza ariana. Questa ipotetica razza servì a Joseph Arthur de Gobineau per giustificare i privilegi dell'aristocrazia e spiegare l'antagonismo tra essa e le masse popolari. Però la maggior parte delle suddivisioni storiche datano l'inizio della storia moderna al 1492, e anche le radici del razzismo moderno si legano a questa data.
A seguito dell'unificazione delle corone spagnole, il 31 marzo 1492 Ferdinando II d'Aragona ed Isabella di Castiglia firmano il decreto che espelle tutti gli Ebrei dalla Spagna. L'inquisizione spagnola, personificata nella figura di Tomás de Torquemada diventa il braccio attivo della politica della corona nell'attuazione della epurazione.
Si crea il concetto di purezza del sangue, base ideologica degli statuti di limpieza de sangre promulgati alla fine del secolo.
Nello spirito di questi statuti, tesi a analizzare la stirpe originaria della persona, non il suo credo religioso attuale, si riconoscono infine quelli promulgati nel 1496 da Papa Alessandro VI dove si approva un codice di purezza anche per gli ordini monastici, come quello dei Hieronymiti.
Questi sono primi esempi classici di razzismo ideologico con profonde radici utilitaristiche. Durante il periodo dell'espulsione di alcune centinaia di migliaia di persone, le vittime furono numerose. Con questo atto si pose fine a una lunghissima convivenza produttiva sul territorio iberico di tutte le etnie del mediterraneo. Il massacro di Lisbona del 17 aprile 1506, viene ricordato come un'altra vicenda atroce (migliaia di morti in poche ore, molti dei quali arsi vivi) della penisola Iberica, figlia delle conseguenze delle leggi razziali dell'epoca.

Un fattore da considerare in una prospettiva storica, è che il razzismo è un fenomeno connesso all'età coloniale, quando le grandi potenze europee svilupparono ideologie razziste per risolvere la dissonanza tra valori cristiani di eguaglianza e carità e lo sfruttamento delle popolazioni indigene in America come in Africa.

Prima di quest'epoca la xenofobia può spesso esprimersi direttamente come tale: l'altro è inferiore in quanto "non è come noi" e ci è "quindi" ostile (in greco antico ξενός, "xenos", significa sia "straniero" che "nemico"), perché parla una lingua diversa dalla nostra ("barbaro" in greco significa letteralmente "il balbettante"), perché non professa la nostra religione, perché non si veste come noi (in molte lingue i concetti di "straniero", "strano" ed "estraneo" hanno la stessa radice linguistica, che in italiano è quella del latino "extra": "che viene da fuori").

Tuttavia la società antica preferisce stratificare l'umanità in base a concetti castali, più che razziali: il nobile è ovviamente superiore al plebeo, e il plebeo libero è superiore allo schiavo. Ed ovviamente le caratteristiche dell'individuo inferiore (il suo modo di parlare, di vestire, di comportarsi) "giustificano" pienamente la sua condizione sociale inferiore. Inoltre non va dimenticato che per la gran parte le società premoderne (come ancora molte delle società moderne) sono sessiste, ritenendo cioè che tutti i maschi della razza umana siano biologicamente superiori (più forti, più intelligenti, più morali...), per il solo fatto di essere tali, a tutte le femmine della razza umana.

Ciò detto, la mentalità premoderna in generale non avrebbe giudicato uno schiavo bianco superiore a un nobile - ad esempio - arabo in base alla sua sola appartenenza a una presunta "razza". Se si cercava una superiorità, essa veniva trovata nella cultura, nell'etnia, nella religione: ogni cristiano è superiore ad ogni infedele, dunque anche uno schiavo cristiano è, "moralmente", ma non socialmente, superiore a un principe musulmano. Ma se il principe musulmano si converte al Cristianesimo, viene meno tale inferiorità e prevale nuovamente la superiorità sociale di casta.

La società premoderna considera insomma la "razza" non come un dato immutabile e di primo piano, ma come un dato transitorio e secondario, destinato ad annacquarsi col passare delle generazioni: si ebbero così papi discendenti da famiglie ebraiche convertite, o bastardi di nobili generati con schiave nere (quindi mulatti) legittimati dai loro genitori (per esempio, Alessandro de' Medici detto "il Moro"), come pure ex schiavi "mori" nordafricani (come per esempio Leone Medici/Leone Africano) adottati da nobili famiglie.

Tutto ciò non implica accettazione del diverso: la società antica ha anzi un vero orrore per le novità e la non-conformità; implica però che la diversità motivata dall'appartenenza razziale appare ai nostri avi meno importante di altre diversità, come quelle legate al "rango sociale" o di altro tipo, che invece per la mentalità moderna sono meno importanti. Non a caso il razzismo in quanto ideologia pseudoscientifica sorge nel momento in cui questo antico criterio di valutazione è ormai in piena crisi dopo la Rivoluzione francese, e non è un caso che uno dei suoi fondatori, de Gobineau, sostenga la superiorità della razza germanica solo per giustificare la superiorità della classe sociale che secondo lui ne discende in Francia (la nobiltà, che è la classe a cui egli appartiene ed il cui monopolio assoluto del potere egli vuole giustificare in questo modo).

A questa generalizzazione si oppone la già citata "limpieza de sangre" "purezza di sangue" che la nobiltà iberica propone nel tardo Rinascimento per respingere l'ascesa degli ebrei e dei moriscos convertiti al cristianesimo, e quindi (teoricamente) integrati nella società spagnola dell'epoca. Quindi, una volta di più, il razzismo quattro-cinquecentesco è un'ideologia escogitata da una casta endogama, e non da una "razza", intesa in senso biologico.

Il concetto di "limpieza de sangre" sarebbe stato applicato anche ai danni delle popolazioni indigene dell'America prima, ed agli schiavi neri ivi importati poi, nonché degli iberici spagnoli che si erano mescolati con essi, creando una società in cui la stratificazione sociale era legata anche al gruppo etnico di appartenenza. Una società estremamente conscia dell'appartenenza razziale, al punto da conoscere non solo concetti come quello di "mulatto" o "meticcio", ma anche quelli di quarteron e octavon, cioè di persona con solo un quarto o un ottavo di sangue nero, o di zambo, cioè meticcio metà nero e metà indio, e via via con ulteriori sottodivisioni.

Paradossalmente, però, tale acuta coscienza delle differenze "razziali", che certo non è sbagliato definire "razzista", fu la reazione a un diffusissimo fenomeno di "mescolamento" delle razze da parte degli iberici non appartenenti alla nobiltà, i cui effetti si osservano agevolmente ancora oggi in tutta l'America Latina. Non mancò neppure qualche nobile che non disdegnò il matrimonio con i discendenti della nobiltà indigena India, per acquisire maggiore legittimità nel suo dominio agli occhi della popolazione dominata.

Questo fenomeno mostra quanto il razzismo ("non scientifico") iberico fosse qualitativamente diverso dal successivo razzismo ottocentesco, che fra i suoi primi scopi dichiarati ebbe appunto quello di impedire il mescolamento fra le razze umane, sempre nocivo per la razza "superiore" (cioè i bianchi).
Da questo punto di vista, un passo avanti verso il vero e proprio razzismo, inteso come teoria scientifica, si ebbe piuttosto negli Usa, dove nel dibattito infuocato relativo all'abolizione della schiavitù a metà del XIX secolo, uno degli argomenti azzardati dai suoi sostenitori fu che neri (e indiani) non fossero "davvero" esseri umani, ma andassero catalogati in una categoria diversa, alla quale non si potevano applicare le argomentazioni umanitarie proposte dagli abolizionisti. Non essendo i neri uomini, non aveva senso essere "umanitari" con loro.

In Europa i nazisti riuscirono quasi a imporre un dogma mitologico, prima contro gli ebrei poi contro i polacchi, che privava tutti coloro che venivano definiti non ariani dei diritti civili e del lavoro. Questo aspetto ricalca in parte lo stesso che i polacchi applicavano precedentemente contro la popolazione ebraica. Il governo polacco in esilio, il suo esercito, i suoi rappresentanti ufficiali conservarono immutati questi pregiudizi. Durante l'occupazione, infatti, i polacchi aiutarono il nemico nel maltrattamento e nel massacro degli ebrei. Un polacco ebbe a dire: «La fortuna è venuta a noi tramite Hitler. Egli ci sta preparando una Polonia senza Ebrei». Vi furono, tuttavia, alcune nobili eccezioni. Dopo la liberazione la maggior parte della popolazione conservò un'opinione positiva della repressione. Nel luglio 1946 uno spaventoso pogrom antisemitico nella città polacca di Kielce costò la vita a quarantun ebrei. In Polonia persino dopo la guerra, alcuni membri della Chiesa cattolica continuarono ad avere una parte di primo piano nell'incoraggiare e nel mantenere vivo l'antisemitismo

Post più popolari

Elenco blog AMICI