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venerdì 14 ottobre 2016

LE SPOSE BAMBINE




Milioni di bambine e giovani donne nel mondo sono vittime di abusi, discriminazioni o costrette a matrimoni forzati in età minorile. L'11 ottobre, è la Giornata Mondiale delle bambine e delle ragazze, proclamata dall'Onu, e le varie organizzazioni umanitarie ricordano l'impegno comune nella lotta ai diritti delle giovani donne, diffondendo dati allarmanti sul fenomeno.

"Oggi nel mondo ci sono oltre 700 milioni di donne che si sono sposate in età minorile e che hanno dovuto rinunciare ad avere una crescita normale, fisica e mentale. Ogni anno 15 milioni di matrimoni hanno per protagonista una minorenne; una volta su tre - cinque milioni di casi - si tratta di una bambina con meno di 15 anni. Hanno dovuto spesso affrontare gravidanze precoci e violenze domestiche - ha sottolineato il presidente dell`Unicef Italia Giacomo Guerrera e promuovere l'istruzione delle bambine è l`investimento più potente che una nazione possa fare, perché accelera la lotta contro la povertà, le malattie, la disuguaglianza e la discriminazione di genere".

I dati diffusi dall'Unicef sui diritti negati e sul fenomeno delle spose bambine sono preoccupanti. Sarebbero 70.000 le ragazze, tra i 15 e i 19, che muoiono a causa di complicazioni durante la gravidanza e il parto e le bambine sotto i 15 anni hanno 5 volte più probabilità di morire durante la gestazione rispetto alle donne tra i 20 e i 29 anni. Inoltre un bambino che nasce da una madre minorenne ha il 60% delle probabilità in più di morire in età neonatale, rispetto a un bambino che nasce da una donna di età superiore a 19 anni. E anche quando sopravvive, sono molto più alte le possibilità che possa soffrire di denutrizione e di ritardi cognitivi o fisici. Per quanto riguarda il livello di povertà e la mancata istruzione, sempre secondo il rapporto, le donne rappresentano la metà della popolazione nel mondo, ma costituiscono il 70% dei poveri. Si stima che un aumento del 10% di ragazze che frequentano la scuola, farebbe aumentare il pil del 3% e che solo 1 ragazza ogni 3 maschi frequenta la scuola secondaria.
 
Il fenomeno delle spose bambine è in costante aumento e, secondo il rapporto di Save The Children, tra le principali barriere che impediscono alle ragazze di accedere a servizi e opportunità ci sono i matrimoni precoci. "Ogni sette secondi, nel mondo, una ragazza con meno di 15 anni si sposa, spesso con un uomo molto più grande di lei", stando ai dati del dossier Every Last Girl: Free to live, free to learn, free from harm.

La comunità internazionale si è impegnata a mettere fine alla pratica dei matrimoni precoci entro il 2030, tuttavia se il numero di spose bambine nel mondo crescerà ai ritmi attuali nel 2030 avremo 950 milioni di donne sposate giovanissime e 1,2 miliardi nel 2050, sempre secondo i dati diffusi.

"I matrimoni in età minorile rappresentano l'inizio di un ciclo di ostacoli e svantaggi che negano alle ragazze i loro diritti fondamentali, tra cui i diritti alla salute e all'istruzione, e impediscono loro di vivere la propria infanzia, di realizzare i propri sogni e di costruirsi un futuro ricco di opportunità - ha affermato Helle Thorning-Schmidt, direttore generale di Save the Children International - e ha aggiunto - "Le bambine e le ragazze che si sposano troppo presto sono spesso costrette ad abbandonare la scuola e sono le prime a rischiare di subire violenze domestiche, abusi e stupri. Rischiano inoltre di incorrere in gravidanze precoci, con conseguenze molto gravi sulla loro salute e su quella dei loro bambini, e risultano particolarmente esposte al rischio di contrarre malattie sessualmente trasmissibili come l'Hiv".

Il dossier contiene anche la graduatoria dei Paesi dove le ragazze hanno maggiori opportunità di crescita e di sviluppo, basata su 5 parametri: matrimoni precoci, numero di bambini per madri adolescenti, mortalità materna, completamento della scuola secondaria di primo grado e numero di donne in Parlamento. Il Niger, valutando tutti i 5 criteri, occupa il posto più basso della classifica, la Svezia quello più alto. Tra i paesi virtuosi l'Italia è in decima posizione: ha gli stessi risultati della Svezia per quanto riguarda il numero di figli per madri adolescenti (6 su 1.000) e tasso di mortalità materna (4 su 100.000 nascite), mentre ha una percentuale minore di donne che siedono in Parlamento (31% contro 44%). Per quanto riguarda gli altri Paesi, Finlandia e Norvegia, occupano il secondo e il terzo posto in classifica, mentre Spagna e Germania seguono l'Italia di qualche posizione. In coda alla classifica ci sono Ciad, Repubblica Centrafricana, Mali e Somalia, che si caratterizzano per numeri molto alti di spose bambine. Gli Stati Uniti non vanno invece oltre la 32esima posizione, in virtù di tassi di mortalità materna e numero di bambini nati da madri adolescenti più alti di quelli di altri Paesi ad alto reddito.



Inoltre si sottolinea che l'India è il Paese con il più alto numero di spose bambine, con il 47% delle ragazze, più di 24,5 milioni, sposate prima di aver compiuto i 18 anni. In India, del resto, così come in Afghanistan, Yemen e Somalia, sono numerosi i casi di spose bambine che hanno meno di 10 anni. Anche guerre e crisi umanitarie contribuiscono ad alimentare il fenomeno: molte ragazze siriane vengono costrette dalle famiglie a sposarsi in tenerissima età, nella convinzione che questo sia l'unico modo per metterle al riparo da violenze e per assicurare loro risorse e mezzi di sostentamento che le stesse famiglie non sono più in grado di garantire. Tra le ragazze siriane rifugiate in Giordania, nel 2013, una su quattro di età compresa tra i 15 e i 17 anni risultava già sposata.

Infine ogni anno, secondo il rapporto, 16 milioni di ragazze tra i 15 e i 19 anni mettono al mondo un figlio, mentre sono oltre un milione le ragazze che diventano madri prima di compiere i 15 anni. Le complicazioni durante la gravidanza e il parto rappresentano, dopo i suicidi, la seconda causa di morte per le ragazze tra i 15 e i 19 anni, con circa 70.000 ragazzine che perdono la vita ogni anno.

Ancora, nel mondo 30 milioni di bambine rischiano di subire mutilazioni genitali femminili nel prossimo decennio e oltre un terzo delle giovani donne nei Paesi in via di sviluppo non ha accesso all'istruzione. In molti Paesi al mondo, infine, le ragazze continuano a non potersi esprimere liberamente e a non essere coinvolte nei processi decisionali pubblici e privati. A livello globale, solo il 23% dei seggi parlamentari è occupato da donne le quali, peraltro, presiedono le Camere dei Parlamenti solo nel 18% dei casi. La più alta percentuale di donne in Parlamento si registra in Ruanda (64%).

Non hanno nessun potere di scelta, sono isolate dalla società e private di un’infanzia normale. Spesso sono vittime di abusi e violenze, tagliate fuori dalla famiglia, dagli amici e dalla scuola.

In Turchia, tra il 2010 e il 2015, secondo il ministro della Famiglia di Ankara Sema Ramazanoglu sono state oltre 230 mila le unioni tra bambini e adulti.

Ma il numero potrebbe essere più elevato visto che molte delle nozze con minori vengono celebrate solo con rito religioso (non riconosciuto dalla legge turca) e quindi non registrate ufficialmente.

Nel centro dell'India si possono trovare in tuguri affollati donne spettrali anche bambine di 8 o 9 anni con la testa rasata e avvolte nelle bianche garze del lutto: le vedove.
Dopo la cerimonia delle nozze, le spose bambine dovrebbero tornare nella casa dei genitori fino alla prima mestruazione, ma i genitori che hanno fretta di disfarsi di loro le consegnano subito alla famiglia dello sposo.
In India il matrimonio è merce di scambio, un'alleanza, tanto che le nozze possono evitare una faida tra due famiglie, sposare una donna ancora bambina significa preservarla integra, lasciare intatta tutta la sua forza vitale, la sua purezza creatrice.
Rari sono i matrimoni d'amore, sostituiti da quelli combinati dai genitori della ragazza che la cedono a  un uomo di 30-40 anni, il quale la prende in sposa che non ha più di 12 anni; a causa della grande differenza di età esse corrono il rischio di rimanere vedove prematuramente, finendo relegate in una casa per vedove.
Con il matrimonio le spose bambine abbandonano la famiglia e la scuola per andare a vivere con il marito nella capanna dei suoceri, dove si occupano di tutte le faccende domestiche; il loro compito principale è mettere al mondo quanti più figli maschi possibile anche se il loro giovane corpo non è in grado di sopportare il peso di molteplici gravidanze: così si rischia che la madre non sopravviva al trauma del parto e che anche i neonati abbiano poche possibilità di vivere.
Dopo aver dato alla luce due o più figli, le ragazze vengono poi spesso abbandonate dal marito che prende un'altra giovane in sposa.
Tuttavia solo cinque bambine su cento hanno il coraggio di denunciare le violenze subite.

Molte società di Paesi che hanno il problema dei matrimoni precoci, attribuiscono un grande valore alla verginità prima del matrimonio, e questo può dar luogo ad una serie di pratiche miranti a “proteggere” una ragazza da un’attività sessuale sconveniente. Di fatto, si tratta di un sistema di rigido controllo imposto ad essa.
Per esempio, può succedere che le venga impedito di avere relazioni sociali al di fuori della famiglia, oppure che le venga dettato quello che può e quello che non può indossare.

In altre società, come ad esempio in Africa nord-orientale, i genitori tolgono le loro bambine da scuola non appena queste iniziano ad avere le mestruazioni, temendo che il contatto con i compagni o con gli insegnanti di sesso maschile le esponga a dei rischi. Tutte queste pratiche hanno lo scopo di sottrarre la ragazza all’attenzione sessuale maschile, ed agli occhi di genitori preoccupati il matrimonio sembra offrire la “protezione” ideale.

In ulteriori società tradizionaliste non esiste il concetto di un periodo dell’adolescenza situato tra la pubertà e l’età adulta.  Una ragazza che ha le mestruazioni è in grado di partorire un figlio, e perciò viene considerata “una donna”.

In alcune culture, l’indipendente autoconsapevolezza che una ragazza può sviluppare durante l’adolescenza, viene considerata indesiderabile.
Anche se in questi casi le donne vengono magari (raramente) onorate, da loro ci si aspetta che si sottomettano ai desideri dei padri e dei mariti, mettendosi così sotto la loro protezione per il loro stesso bene.
Ne consegue che se non lo fanno, esse meritano una punizione: per esempio, in Kenya, la violenza contro una moglie disobbediente viene comunemente ammessa.



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mercoledì 10 agosto 2016

LA SVIZZERA

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La Svizzera confina con l'Italia, la Francia, l'Austria, la Germania e il Liechtenstein.

L'odierno nome Svizzera proviene da Svitto (tedesco: Schwyz), uno dei "Cantoni forestali" (Waldstätte) che formavano il nucleo della Vecchia Confederazione. Il nome Svitto è attestato per la prima volta nel 972 come il villaggio di Suittes ed è forse legato all'alto tedesco antico suedan, "bruciare", con riferimento alle foreste bruciate per creare nuovi spazi agli insediamenti. Probabilmente il nome designava sia il territorio sia la popolazione del cantone, ma dopo la battaglia di Morgarten nel 1315 il nome Switzer, Switenses o Swicenses passò a designare tutti i Confederati. In francese sono attestati i termini Soisses, Suysses e Souyces a partire dal Cinquecento; contemporaneamente in italiano compaiono i termini Sviceri e Suyzeri, per stabilizzarsi nella variante Svizzeri scelta da Machiavelli nel 1515.

Il nome antico Elvezia proviene dagli Elvezi, una popolazione celtica stabilitasi sull'Altipiano in epoca pre-romana. Gli Elvezi sono menzionati per la prima volta nel VI secolo a.C. Il nome Confoederatio Helvetica o Helvetia non figurava invece fra le tradizionali denominazioni del paese ed è stato utilizzato solo dopo la nascita dello Stato federale nel 1848 (quindi è da considerarsi un neologismo), con lo scopo di non privilegiare nessuna delle lingue ufficiali della Confederazione (oppure quando, per motivi pratici, era difficoltosa l'iscrizione in tre o quattro lingue). Tale denominazione compare piuttosto recentemente, in ambiti formali ed ufficiali: sulle monete e sui francobolli a partire dal 1879, sul frontone del Palazzo federale a Berna nel 1902 e sul sigillo della Confederazione nel 1948.

Dal 1995 l'acronimo “ch” costituisce il dominio di primo livello dei siti internet svizzeri.

Alla Svizzera è riconosciuta la connotazione di stato neutrale in quanto si impegna a non schierarsi in caso di guerra tra altri Stati. Questa è una condizione scelta dal Paese stesso, per questo si parla di una scelta libera, permanente ed armata.

La neutralità le è stata riconosciuta con il trattato di Parigi il 20 novembre 1815, dopo la sconfitta di Napoleone. La Svizzera aveva già richiesto di essere neutrale, ma la Francia rifiutò; infatti, a partire dal 1798, la Francia occupò il territorio svizzero ed impose altresì un'alleanza militare.

Prima di allora, precisamente all'indomani della fine della battaglia di Marigliano, la Repubblica Elvetica mantenne un profilo molto basso per quanto riguarda la politica estera. Nel 1515 la Svizzera stipulò infatti un trattato di pace con Francesco I° re di Francia e gli storici considerano questo atto come l’elemento cardine che ha dato vita alla neutralità del Paese.

Nel 1907, con la conferenza di pace dell'Aja, la Svizzera ha aderito ufficialmente alla neutralità in quanto ha firmato tutte le carte concernenti le convenzioni sui diritti ed obblighi della neutralità. Il diritto più importante che ne scaturisce è quello dell'inviolabilità del proprio territorio, a cui segue quello di non partecipare attivamente ad ogni forma di guerra e provvedere alla propria difesa. Questo tuttavia non impedisce alla Svizzera di fornire aiuti umanitari in situazioni di guerra.

Nel 1920 il Paese aderì alla Società delle Nazioni che aveva posto la sua sede proprio in Svizzera, a Ginevra. La Società riconobbe la neutralità permanente della Svizzera e la esonerò dalla partecipazione alle azioni militari.

La politica estera della Svizzera è improntata da cinque secoli (dal 1515) alla neutralità. Questo non ha impedito di sviluppare, soprattutto negli ultimi anni, una politica estera attiva, tesa ad appianare le divergenze fra stati terzi ("i buoni uffici"), a promuovere attivamente i diritti umani e a garantire le basi naturali della vita (l'impegno per lo sviluppo e l'affermazione di un sistema ambientale internazionale). Oltre a ospitare la sede delle Nazioni Unite, la Svizzera è la patria e la sede di due grandi organizzazioni internazionali: la Croce Rossa, fondata a Ginevra, e il World Wildlife Fund (WWF), fondato a Zurigo, ma con sede a Gland, nel Canton Vaud. Nel 1960 la Svizzera ha dato vita all'Associazione europea di libero scambio (AELS), ne è tuttora membro insieme con la Norvegia, il Liechtenstein e l'Islanda. Nel 1963 la Svizzera ha aderito al Consiglio d'Europa e nel 1975 all'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE). Membro anche dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OECD), nel 1992 la Confederazione è entrata a far parte del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e nella Banca Mondiale (WB). Il 10 settembre 2002, con l'approvazione popolare, la Svizzera è entrata a far parte dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), come centonovantesimo Stato.

In generale la Svizzera affronta la politica europea, così come quella estera, con prudenza e pragmatismo. Dopo il fallimento di alcuni referendum su un'eventuale adesione (ma con margini molto ristretti: il primo di questi, sullo Spazio economico europeo nel 1992, venne respinto dal 50,3% dei votanti), la Svizzera ha scelto una via basata su accordi bilaterali con l'Unione europea. Nel 2000 un importante pacchetto di 7 accordi, rispettivamente su libera circolazione delle persone, trasporto aereo, trasporti terrestri, agricoltura, ostacoli tecnici al commercio, appalti pubblici e ricerca, ha avuto l'avallo popolare. Questo pacchetto di 7 accordi è tenuto insieme dalla cosiddetta clausola ghigliottina, ossia che se uno solo dei 7 accordi viene messo in discussione, cade l'intero pacchetto. Nel giugno del 2005 la Svizzera ha aderito agli accordi di Schengen, negoziandone l'attuazione pratica in modo di mantenere controlli saltuari alle frontiere, e reclamando un eventuale diritto di rescissione. Il 25 settembre 2005, un altro referendum ha esteso l'accordo della libera circolazione delle persone ai 10 Paesi entrati nell'UE nel 2004 (il referendum riguardava solo questo accordo, in quanto gli altri 6 si erano già automaticamente estesi ai nuovi Paesi).

Il 26 novembre 2006, sulla scia delle trattative bilaterali in corso, un ulteriore referendum ha permesso l'approvazione della "Legge federale sulla cooperazione con i Paesi dell'Est": tale legge funge da base legale per il versamento di un miliardo di Franchi svizzeri (650 milioni di Euro), che avviene a tappe nell'arco di 10 anni, dal 2006 al 2016, a sostegno dello sviluppo sociale ed economico dei 10 Paesi che hanno aderito all'UE nel 2004. Il 12 dicembre 2008 la Confederazione è entrata nell'area Schengen come 25º Paese. Da allora non vi è più nessun controllo alla frontiera per le persone, mentre sono stati mantenuti i controlli per le merci. L'8 febbraio 2009 il popolo svizzero è stato chiamato a rispondere attraverso un referendum alla domanda se allargare l'accordo sulla libera circolazione delle persone anche alla Romania e alla Bulgaria e al rinnovo dello stesso accordo con gli altri stati Europei; il risultato è stato positivo con il 59,6% di preferenze.

La Svizzera è un paese di immigrazione da lunga data: nel 1830 gli immigrati rappresentavano il 2,1% della popolazione, cresciuti al 18% nel 1913. Da allora il numero è rimasto, in termini percentuali, praticamente costante. Nel 2012 gli stranieri rappresentavano circa il 22,7% della popolazione, facendo della Svizzera il paese europeo con la più alta presenza di immigrati dopo il Lussemburgo. Annualmente viene naturalizzato circa un decimo della popolazione straniera (ma la tendenza è in aumento: le naturalizzazioni sono triplicate dal 1992 al 2005). Nel 2005 circa un terzo della popolazione residente era immigrato o discendente di immigrati. Secondo i dati del 2012, la maggior parte degli stranieri proviene dall'Italia (16,2% ? Italo-svizzeri), dalla Germania (15,7%), dal Portogallo (13,0%), dalla Francia (5,6%) e dalla Serbia (5,4%). Nel 2009, 43.400 residenti avevano acquisito la cittadinanza elvetica.

A coloro che emigrano in Svizzera per ragioni economiche, vanno aggiunti attualmente circa 16.000 richiedenti l'asilo, pari allo 0,21% della popolazione: una percentuale - tradizionalmente - più alta di quella dei paesi vicini.. In passato la Svizzera ha offerto asilo politico a interi gruppi di persone in fuga da situazioni particolari. Durante la seconda guerra mondiale la Svizzera accolse oltre 51.000 profughi civili (pari all'1,2% della popolazione svizzera di allora: 14.000 dall'Italia, 10.400 dalla Francia, 8.000 dalla Polonia, 3.250 dall'Unione sovietica, 2.600 dalla Germania e 2.200 apolidi; complessivamente 21.000 erano ebrei). Nel 1956 vennero accolti 56.000 rifugiati provenienti dall'Ungheria, nel 1968 circa 11.000 rifugiati provenienti dalla Cecoslovacchia, nel 1973 oltre 8.000 rifugiati provenienti dal Cile e altri 8.000 provenienti dal Sud-est asiatico. Nel 1981 2.500 provenienti dalla Polonia. A partire dagli anni novanta il flusso si è intensificato: la Svizzera ha accolto circa 30.000 bosniaci (dal 1992) e 53.000 kosovari (dal 1999). A partire dal 2000 la principale comunità di rifugiati è quella eritrea.

Oltre agli stranieri che trasferiscono il loro domicilio in Svizzera, nel paese entrano giornalmente (o settimanalmente) circa (il numero varia annualmente) 250.000 frontalieri (lavoratori domiciliati nei paesi vicini che passano regolarmente il confine per lavorare, attratti da migliori condizioni di lavoro). Nel 2012 i frontalieri registrati erano 264.741. Oltre la metà proviene dalla Francia (138.542), quindi dall'Italia (61.801), dalla Germania (55.311), dall'Austria (8.120) e da altri paesi europei (967). La maggior parte dei frontalieri si concentra nella regione lemanica (89.017), nella Svizzera nord-occidentale (66.074) e nel Canton Ticino (55.879).



Fino al 1900 il saldo migratorio svizzero era passivo: coloro che lasciavano la Svizzera erano più numerosi di quelli che vi arrivavano. Tradizionalmente, prima che la Costituzione del 1848 lo proibisse, il mestiere più praticato dagli svizzeri all'estero era quello del mercenario: si calcola che dal 1400 al 1848 oltre due milioni di svizzeri combatterono nelle guerre europee. Tra la metà dell'Ottocento e la prima guerra mondiale emigrarono dalla Svizzera circa 400.000 persone. La maggior parte si diresse verso gli Stati Uniti, il Brasile (Nova Friburgo, 1819), l'Argentina (Villa Lugano, 1908), l'Uruguay (Nueva Helvecia, 1862; Nouvelle Berne, 1869), l'Australia e il Sud Africa.

Accanto all'emigrazione economica, vi è stata, a partire dal XVI secolo, la fuga da persecuzioni religiose. In particolare furono gli Anabattisti nel Cinquecento a dover abbandonare la Svizzera. Alla fine del Seicento, una nuova ondata di persecuzioni investì la comunità mennonita: nel 1693 Jakob Ammann (il fondatore della comunità Amish) e i suoi seguaci dovettero rifugiarsi prima sulle Alpi quindi, nel 1720, in Pennsylvania e successivamente nell'Indiana (Berne, 1852) dove hanno potuto conservare le loro peculiarità sino a oggi. Attualmente, per designare gli svizzeri emigrati all'estero, si parla di Quinta Svizzera (dopo le quattro realtà linguistiche nazionali). I cittadini svizzeri che risiedono all'estero sono circa 700.000 (quasi il 10% degli svizzeri che vivono in patria): la maggior parte di essi risiede in Francia (179.106), negli Stati Uniti (74.966), in Germania (74.966), in Italia (48.638), in Canada (38.866), nel Regno Unito (28.861), in Spagna (23.802), in Australia (22.757), in Argentina (15.624), in Brasile (14.653), in Israele (14.251) e in Sudafrica (9.035).

La neutralità è la condizione giuridica di quegli stati che intendono rimanere estranei in una guerra fra altri, cioè non partecipare né per l'uno né per l'altro dei contendenti. Tale condizione è costituita da rispettivi diritti e doveri internazionali, cui dà origine il rapporto giuridico che si viene a creare fra i detti stati e gli stati belligeranti. L'opposizione è dunque fra neutralità e guerra e non v'è, nel diritto internazionale moderno, posto per nessuna condizione giuridica intermedia. Un preciso concetto giuridico di neutralità fu infatti ignoto al diritto internazionale più antico; dipendeva dall'arbitrio del belligerante considerare o no come nemici gli stati che non parteggiavano per esso e i neutri generalmente si limitavano a trattare allo stesso modo i belligeranti.

Non mancarono convenzioni di neutralità, con cui gli stati reciprocamente si garantivano una certa immunità per il caso di guerra d'uno di essi con qualche altro stato; ma la nozione mancava d'ogni uniformità e precisione, mentre il vocabolo - che va comparendo qua e là in Francia, in Italia, in Germania, dalla fine del sec. XV al sec. XVII - viene registrato dal Wolff, alla metà del sec. XVIII (nel suo Jus gentium, 1749), come già d'uso comune nel linguaggio volgare per indicare quelli che U. Grozio chiamò: medii in bello (dicuntur vulgo neutrales).

Alla neutralità temporanea o occasionale, sopra definita, fa riscontro quella cosiddetta perpetua o permanente (per alcuni il contrapposto è fra neutralità volontaria e perpetua; sennonché anche quest'ultima è sempre volontaria, per lo meno formalmente), la quale costituisce per certi piccoli stati - nel loro interesse e nell'interesse degli stati vicini - una condizione giuridica prestabilita per ogni eventuale guerra; di conseguenza vincola la libertà dello stato in questione, vietandogli non solo d'intraprendere o di partecipare ad alcuna guerra (e quanto agli effetti il risultato è qui identico a quello della neutralità occasionale), ma anche di fare in tempo di pace una politica o di conchiudere trattati suscettibili di portare alla guerra. Creazione, questa degli stati permanentemente neutri, propria della politica europea del sec. XIX; tale fu la situazione - prima della guerra mondiale - del Belgio, del Lussemburgo, oltre che della Svizzera, la quale è la sola a conservarla anche oggi, avendone fatta una condizione espressa della sua entrata nella Società delle nazioni.

La neutralità presenta indubbi vantaggi, ma importa oneri corrispettivi (questa materia interessa specialmente la guerra marittima, perché è soprattutto in questo campo che esistono i più frequenti rapporti e si urtano i maggiori interessi opposti degli stati belligeranti e neutri).

Lo stato neutrale deve anzitutto astenersi da ogni ostilità e quindi da ogni azione che possa aumentare la forza d'un belligerante, o comunque avvantaggiarlo (la concessione di uguali agevolazioni o aiuti alle due parti avrebbe quasi sempre risultati diversi). Così è vietato allo stato neutrale:  l'invio di truppe o il loro reclutamento sul suo territorio (curiosa situazione quella della Svizzera, che forniva truppe a tutti gli stati; la costituzione del 1848 ha proscritto tali arruolamenti collettivi); la fornitura di armi e munizioni e in genere di tutto ciò che può servire alle forze armate (tale divieto riguarda lo stato e non i privati, a cui lo stato neutrale può lasciare libera, limitare, o interdire una simile attività); la concessione di prestiti o sussidi pecuniari (anche qui il divieto riguarda lo stato come tale, non i privati);  il far passare truppe dei belligeranti, o convogli a loro destinazione, o fare installare mezzi di comunicazione: nel caso di militari fuggiaschi, o di truppe in ritirata o disfatta, lo stato neutro ha l'obbligo di disarmarle e internarle fino alla fine della guerra. Il passaggio di feriti e malati di un belligerante può essere permesso a condizione che i relativi convogli non servano a nascondere o trasportare materiali di guerra o armati; i prigionieri di guerra evasi o rifugiati in territorio neutro devono essere lasciati liberi e così pure i prigionieri trasportati da truppe che abbiano sconfinato; circa il soggiorno nelle acque neutrali di navi belligeranti il divieto non è così rigoroso come per il passaggio di truppe; all'infuori del pericolo di mare, la tolleranza d'un breve soggiorno (per es., di 24 ore, o per il tempo di rifornirsi di viveri strettamente necessari, o di provvedere a riparazioni indispensabili) è ammessa. Nel caso poi che navi da guerra delle due parti nemiche vengano a trovarsi nello stesso porto neutrale, la loro uscita è regolata dalle autorità del luogo.

In cambio dei detti doveri lo stato neutrale ha diritto a che sul suo territorio (compreso il mare territoriale) non vengano compiuti atti di guerra o preparativi di nessun genere, a che le persone dei propri cittadini o sudditi e i loro beni siano rispettati: tale protezione cessa se l'individuo si espone, a favore d'un belligerante, ad atti colpiti dalle leggi e dagli usi di guerra.

Lo stato neutrale deve sopportare le restrizioni che alla libertà del commercio sono apportate dalle norme e dagli usi di guerra. È in questo campo principalmente che il contrasto di interessi fra stati belligeranti e neutri si è sempre rivelato più acuto. La Ligue de neutralité armée - che nel 1780 riunì contro l'Inghilterra quasi tutti gli altri maggiori stati - fu conchiusa appunto per opporsi alle pretese eccessive sollevate dalla detta potenza, al principio della guerra d'indipendenza americana.

In massima il commercio dei neutri è libero. La libertà del commercio neutrale significa il diritto per tutti i sudditi degli stati neutri di esercitare il commercio, durante la guerra, anche con i belligeranti e anche sul loro territorio e nell'alto mare. Le restrizioni a detta libertà concernono la confisca delle merci e delle navi neutre, nei due casi del contrabbando di guerra e del blocco.

Costituiscono contrabbando di guerra anzitutto le merci e cose d'impiego militare immediato ed esclusivo. A questa specie di contrabbando, detto assoluto, si suole accostare - come contrabbando per analogia - il trasporto di corrispondenza per le forze armate, di truppe e di ufficiali. V'è poi il cosiddetto contrabbando relativo, costituito da tutte quelle cose di uso promiscuo, di cui Grozio dava come es. i cavalli, ma la cui lista si è endata grandemente aumentando con gli sviluppi dei mezzi di offesa e difesa moderni. La distinzione vorrebbe avere come conseguenza un più rigoroso apprezzamento della destinazione per il contrabbando assoluto, che basta sia diretto a un qualsiasi punto del territorio nemico (anzi, con la teoria della continuità del viaggio è confiscabile anche se diretto a un porto neutro, quando si ha ragione di credere che questo serva solo di tappa a un ulteriore viaggio verso il nemico); mentre per il contrabbando relativo si vorrebbe la diretta destinazione alle forze nemiche e mai dovrebbe avere luogo l'applicazione della teoria del viaggio continuo. Ma la guerra mondiale ha infranto le poche norme al riguardo e tutto sarebbe qui da rifare. (Il contingentamento è un espediente che ebbe qualche applicazione durante la guerra mondiale e consiste nell'autorizzare una certa quantità d'importazioni, calcolata sulla base delle ordinarie importazioni d'anteguerra, considerando il di più come contrabbando di guerra).

Il blocco consiste nell'interruzione d'ogni commercio e comunicazione, a cui un belligerante vuole sottoporre un dato porto o un dato tratto di coste del nemico. Anche qui l'interesse dei belligeranti li porterebbe a eccedere (restarono famosi i cosiddetti blocchi sulla carta, o fittizi, fra l'Inghilterra e la Francia, durante le guerre della rivoluzione e quelle napoleoniche). Le marine mercantili neutrali devono astenersi dall'accedere al luogo bloccato, la violazione di tale divieto importa confisca della nave e anche del carico nei casi più rigorosi (dichiarazione di Londra, 26 febbraio 1909, art. 21). La pratica del blocco è universale, ma essa ormai soggiace alle condizioni dell'effettività e della notifica. Come spiega l'art. 4 della dichiarazione di Parigi del 16 aprile 1856 l'effettività è data dall'essere il blocco mantenuto "da una forza sufficiente a interdire realmente l'accesso del litorale nemico". Quanto alla notificazione, essa è resa necessaria perché il blocco sia conosciuto e va fatta dal belligerante agli stati neutri, alle autorità del posto bloccato e anche singolarmente alle navi, che si presentano davanti la linea di blocco, quando non è presumibile che ne abbiano avuto conoscenza. Anche per il blocco si è ricorso alla teoria del viaggio continuo, come un diritto di prevenzione per il belligerante di confiscare una nave fin dalla sua partenza, quando si può presumere che il suo viaggio verso un porto non bloccato sia una semplice tappa nella sua destinazione definitiva. La dichiarazione di Londra citata (art. 19) ha condannato una simile pratica. Nella guerra mondiale in principio si seguirono le regole di Londra, ma non in seguito. Anche la presunzione di conoscenza del blocco fu allargata.

All'infuori dei casi di contrabbando di guerra e di blocco, la libertà di commercio dei neutri è oggi integrata col sistema instaurato dalla dichiarazione di Parigi del 16 aprile 1856: il sistema della bandiera che copre la mercanzia e non la confisca, per cui la bandiera neutrale copre la mercanzia nemica e la mercanzia neutrale non è confiscabile anche a bordo di nave nemica. E il sistema più favorevole ai neutri e che, accettato quasi universalmente, è succeduto a sistemi più rigorosi: a quello del Consolato del mare - del contaggio ostile - della bandiera che copre la mercanzia e la confisca.

La nozione della neutralità, quale è stata sopra definita, appare avviata a nuova evoluzione dopo il Patto della Società delle nazioni e gli altri atti intesi a organizzare la difesa della pace e a fare, ove occorra, della guerra l'estremo atto di un'esecuzione forzata collettiva. Si è parlato d'una vera fine della neutralità. Neutralità e Società delle nazioni sono apparsi termini antitetici, poiché mentre neutralità vuol dire astensione dai conflitti altrui, la Società delle nazioni mira a rendere solidali gli stati. Ciò nonostante la neutralità persiste ancora giuridicamente nell'economia del Patto, in quanto in esso pure persiste giuridicamente la guerra.


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venerdì 15 luglio 2016

OBBLIGARE IL PARTNER AD AVERE RAPPORTI

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Se il marito obbliga la moglie ad avere rapporti sessuali, anche se lei non si oppone palesemente, è violenza. Dal matrimonio, infatti, discendono per entrambi i coniugi i medesimi diritti e doveri, ma è da escludere che sussista “un diritto assoluto del coniuge al compimento di atti sessuali inteso come mero sfogo all'istinto sessuale contro la volontà del partner, tanto più se tali rapporti avvengano in un contesto di sopraffazioni, infedeltà e/o violenze che costituiscono l'opposto rispetto al sentimento di stima, affiatamento e reciproca solidarietà in cui il rapporto sessuale si pone come una delle tante manifestazioni”.

Se c’è consenso tutto è lecito. Dal sadomaso all’uso di animali. Nella realtà è più facile a dirsi che a farsi. Quando è poco è motivo di addebito nella separazione, se si esagera si può arrivare alla condanna per stupro. La giurisprudenza rincorre l’evolversi dei costumi. Per i magistrati ecclesiastici dell’Ottocento era peccato mortale, per la donna, sedersi sulla ginocchia dell’uomo.
Si è passati da un’epoca in cui le cause di separazione venivano basate sul “difetto di verginità” (negli anni ’50 sul tema venivano scritti temi di diritto) a situazioni viceversa in cui sono le donne che citano in giudizio gli uomini chiedendo risarcimenti a cinque cifre per il mancato adempimento dei doveri coniugali.

Se si esamina la giurisprudenza, si evince come, a parte alcuni principi di diritto chiaramente espressi, poi quando ci si addentra nei casi concreti, ci si trova spesso di fronte a decisioni contrastanti tra loro.
Non infrequentemente infatti la Corte di Cassazione modifica sentenze di primo o secondo grado in senso diametralmente opposto.

Per comprendere gli attuali orientamenti giurisprudenziali è necessario partire dai presupposti del codice civile. Invero tra gli obblighi che derivano dal matrimonio e dai quali dipendono diritti e doveri vicendevoli, non emerge nulla di specifico in tema di rapporti sessuali (art.li 143 e seg.ti c.c.).
L’unico punto dal quale si può far discendere indirettamente una previsione legislativa è quello del secondo comma dell’art. 143 c.c. che prevede come “…Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia, ed alla coabitazione”.
Ovviamente va ricordato che il codice è stato promulgano nel 1942, e cioè in un’epoca in cui di sessualità non se ne parlava nemmeno o al massimo si parlava genericamente di debito coniugale.

Se dunque in ambito legislativo civilistico ben poco è dato rinvenire sul punto, del tutto diversa è la situazione sotto il profilo giurisprudenziale, laddove la questione dei rapporti sessuali tra coniugi è stata oggetto, ed è tuttora oggetto, di innumerevoli incisivi interventi.
Sostanzialmente i giudici hanno statuito come il diritto-dovere di intrattenere rapporti sessuali tra i coniugi, spetti ad entrambi in modo paritario ed è equiparabile a tutti gli altri diritti e doveri stabiliti nella normativa codicistica.
L’attuale orientamento indica dunque che sussiste in capo ad entrambi i coniugi un vero e proprio diritto-dovere vicendevole per ciò che concerne i rapporti sessuali, diritto-dovere che discende proprio dal contratto matrimoniale.
Da ciò ne deriva, come conseguenza giuridica, che il sottrarsi ripetutamente a tale obbligo, indipendentemente dal fatto che l’omissione si riferirebbe all’uomo o alla donna, possa dar luogo all’addebito della separazione, in quanto sussisterebbe una espressa violazione delle obbligazioni sul tema, previste dalla normativa vigente.
Tuttavia tale rifiuto deve apparire ingiustificato e comunque ripetuto nel tempo; ciò in quanto, diversamente, non potrà discenderne alcun addebito della separazione.
In sostanza dunque il mancato accordo tra coniugi circa i rapporti sessuali, il tipo di rapporti, la frequenza degli stessi e simili, legittima, inficiando la comunione materiale e spirituale tra gli interessati, la domanda di separazione.
Tutt’altro è il discorso che riguarda l’addebito.
Infatti la Cassazione ha ritenuto che l’addebito possa essere pronunciato per tale motivo, solo se sussista una “colpa” da parte del coniuge che si sottrae a tali rapporti, colpa che deve consistere appunto in un rifiuto ingiustificato e ripetuto nel tempo.
Tutto questo, secondo la giurisprudenza, in quanto il sottrarsi ad un “normale” rapporto fisico, comporta e legittima la richiesta dell’addebito all’altro coniuge.
Il rifiuto della sessualità infatti, senza alcuna giustificazione, dà luogo all’offesa della dignità della persona, comportante con la reiterazione di tale rifiuto anche un pregiudizio sul piano personale e psicologico ed una lesione del diritto costituzionalmente garantito alla salute psichica.

La questione dell’addebito della separazione non è rilevante nella maggioranza dei casi, ma può divenire particolarmente importante ove il coniuge “colpevole” dovesse avere diritto all’assegno di mantenimento.
Infatti va ricordato che gli unici effetti attuali dell’addebito della separazione, a parte quelli morali, sono di precludere i diritti ereditari (che comunque cesserebbero con il divorzio) e di comportare la perdita per il coniuge, (ove questi ne avesse teoricamente diritto), al mantenimento a carico dell’altro.
Tale conseguenza, deriva appunto dalla responsabilità nel fallimento dell’unione coniugale e cioè per aver violato gli obblighi matrimoniali.
Questo su un piano teorico.
Sul piano pratico va detto però, se l’omissione dei rapporti sessuali è uno dei motivi di addebito che frequentemente vengono richiesti nell’ambito della separazione, (è evidente che se sussiste contrasto fra coniugi vi sarà anche un rifiuto dei rapporti fisici), quasi sempre è ravvisabile il rigetto di tali pretese da parte dei giudici di merito.



Tale orientamento negativo dei giudici è ravvisabile sia in quanto è difficile dimostrare ciò che si assume essere accaduto o non accaduto tra le lenzuola, sia perché il rifiuto dei rapporti sessuali è quasi sempre giustificato e conseguenza degli altri motivi che già in precedenza avevano comportato il fallimento dell’unione, facendo cessare la pregressa comunione materiale e spirituale tra i coniugi.
Nei rari casi in cui il rifiuto di avere rapporti sessuali con l’altro coniuge è stato ritenuto rilevante, si trattava di situazioni limite, in cui il rifiuto di intrattenere rapporti sessuali appariva ammesso in sede di interrogatorio, ed ingiustificato, essendo utilizzato quale mezzo di punizione o ritorsione.

E’ dunque pacifico che, ove il rifiuto appaia giustificato, (si pensi a disturbi fisici o psichici che rendano inidoneo il coniuge ad intrattenere rapporti fisici e sessuali oppure ad una crisi di stima nella relazione, o alle innumerevoli fattispecie che minano dalle fondamenta il rapporto di coniugio), nulla quaestio per i giudici.
L’interessato potrà ricorrere, ove lo ritenga, al procedimento di separazione personale dei coniugi, ma senza invocare l’addebito.
Infatti, secondo la giurisprudenza, vi è certamente l’obbligo di tenere conto delle esigenze del proprio compagno di vita, di rispettarne i desideri.
Ciò, non solo sotto il profilo del tipo di rapporti sessuali richiesti o concessi, ma anche sotto il profilo della frequenza degli stessi.
In numerose occasioni, i giudici hanno considerato legittimo il legittimo rifiuto allorché la pretesa (in genere dell’uomo) sia eccessivamente continuativa o ripetitiva, senza alcun rispetto della sensibilità e delle esigenze dell’altro coniuge.
Dunque, se non esiste un diritto di uno dei due ad imporre le proprie pretese sul piano fisico, non esiste neanche il diritto di stabilire unilateralmente la frequenza, né la tipologia dei rapporti sessuali.
Ovviamente se emergono contrasti su tale punto, ciascun coniuge è libero di rivolgersi al tribunale e di richiedere la separazione, ma non è certo ravvisabile un diverso diritto, dell’uno sull’altro, di imporre forzatamente le proprie pretese.
E’ interessante notare sotto questo profilo come, in più occasioni, la Corte di Cassazione abbia precisato che, seppure determinati tipi di rapporti o costumi sessuali particolarmente aperti, fino a giungere ad incontri con altri partner o a scambi di coppia e simili, non costituiscano alcun illecito, se vengono accettati o richiesti anche dall’altro coniuge, poi un successivo ripensamento di questi appaia assolutamente legittimo, nè sussista un diritto del coniuge a proseguire in determinate pratiche sessuali se, ad un certo punto, l’altro decida di interrompere.
Ciò indipendentemente da un mutamento psicofisico, ma anche semplicemente per una diversa manifestazione di volontà.

Se si esaminano le sentenze di merito e di legittimità è pacifico come ormai manchi qualsiasi forma di censura relativamente alle modalità, al tipo ed alle caratteristiche dei rapporti sessuali di coppia.
La moralità fa sicuramente passi da gigante, complici i suggerimenti di internet che suppliscono alla mancanza di fantasia delle coppie.
Dalle sentenze emergono le situazioni più disparate, per non parlare di ciò che era oggetto delle sentenze dei magistrati ecclesiastici di qualche tempo fa: si va dal peccato “sicuramente mortale” di una ragazza che si siede sulle ginocchia del fidanzato (Mons. Bouvier – Manuale dei confessori 1837), ad acute dissertazioni sui rapporti sessuali in ascensore (Cassazione 10060/2001) alle galanterie di un elettricista che intratteneva sessualmente entrambe le sorelle (Cassazione 2012), al sesso di gruppo (quale motivo di addebito per entrambi Cass. Maggio 2004), fino all’utilizzo di animali nei rapporti sessuali (Trib. Bolzano 05/02/2010) per finire con pratiche sadomaso di gruppo (Corte Europea 17/02/2005).
Questa ultima decisione è di estrema importanza sia perché emessa a Strasburgo in ambito europeo consolidando un indirizzo ormai recepito dalla comunità internazionale, sia per la particolarità della fattispecie trattandosi di due cittadini belgi di cui uno magistrato sessantenne e l’altro un medico di cinquantasei anni che ricorrevano alla Corte Europea contestando la loro condanna nelle pratiche sadomasochistiche estreme con la moglie del magistrato, eccependo che fosse stato violato il diritto al rispetto della loro vita privata e che non sussistesse alcuna violazione del principio di legalità.
La Corte respingeva le censure, precisando che ciascun individuo può rivendicare il diritto di esercitare le pratiche sessuali che ritiene nel modo più libero possibile, purché però vi sia il rispetto dell’altra persona (nel caso in esame la vittima di tali pratiche ad un certo punto dei “giochi” si tirava indietro), costituendo tale obbligo di rispetto il limite alla libertà.
La Corte in sostanza non censurava la particolarità dei “giochi sessuali” (ove venivano usate secondo la dizione della sentenza, fruste, aghi, pinze, cera bollente, scosse elettriche, et similia), ma in quanto ad un certo punto era mancato il consenso della moglie del magistrato, pur se inizialmente consenziente.
Ogni pratica estrema e violenta, statuisce la sentenza, non è scriminata in quanto si esercita un diritto, ma viene censurata nei limiti della mancanza di disponibilità e di consenso della vittima.

Ma cosa accade se il clima di terrore che si respira in casa, induce la donna ad accettare qualsiasi compromesso – anche lesivo della propria libertà sessuale – pur di difendere fragili equilibri sociali, o di non mettere a repentaglio la sua vita, o quella dei figli?

Accade che la poverina finirà per accettare il “gioco al massacro”, acconsentirà a rapporti sessuali non realmente desiderati.

E lo farà in silenzio, senza nulla far percepire al partner. Troppo pericoloso dire NO! E allora, mi si permetta il termine, quella donna accetterà di essere “stuprata psicologicamente”.

Lo stupro coniugale – come dai più definito – è, purtroppo, un delitto “dai grandi numeri”. Altissime sono le percentuali delle violenze commesse proprio dall’uomo che si ha accanto. Del resto, non si può sottacere come in talune realtà, viga ancora la primitiva ottica per cui “il maschio”, con il matrimonio, acquista il debitum coniugale, ovvero il diritto alla fisica congiunzione con la moglie, ormai di sua “proprietà”. Diritto che, nei tempi passati, prendeva le forme di una sorta di esimente, di una causa di giustificazione (tacitamente recepita dai giudici), in virtù della quale, lo stupro era lecito – o comunque punito in maniera più leggera – proprio perché commesso nei confronti della coniuge.



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lunedì 7 marzo 2016

LE DONNE NEL MONDO



Numerose e diverse culture hanno riconosciuto alla donna capacità e ruoli limitati alla procreazione e alla cura della prole e della famiglia. L'emancipazione femminile ha rappresentato, negli ultimi secoli, la ricerca di un'uguaglianza formale e sostanziale tra la donna e l'uomo.

Nella preistoria di Homo sapiens la situazione è stata sicuramente variata e diversificata a seconda delle culture, epoche e luoghi geografici. Partendo da 200 000 anni fa, la società ha presentato variabili modelli, dal cacciatore di piccole prede e raccoglitore del paleolitico medio organizzato in piccole unità sociali, attraverso le più numerose società dedite alla caccia dei grossi mammiferi come mammut e ungulati, fino alle culture stanziali dedite ad agricoltura ed allevamento dell'età del rame.
Attraverso le varie epoche si sono potuti ipotizzare vari schemi sociali, e secondo alcune teorie anche matriarcato o società con parità di genere come nel caso delle sei nazioni, formate da popoli ascrivibili al neolitico, ma in nord America giunte alla nostra cultura in epoca storica, in popolazioni melanesiane, ed altre ancora.

Nell'immaginario, sicuramente supportato da diverse prove, ma non esauriente tutte le situazioni, mentre l'uomo si dedicava alla caccia le donne si specializzarono nella raccolta di bacche commestibili, radici e frutti. Si ritiene, in alcune situazioni, che fossero impegnate per gran parte della loro vita da gravidanze, allattamento e cura della prole, fossero meno mobili e si dedicassero alla raccolta dei vegetali commestibili e dei piccoli animali.

Alla fine del paleolitico superiore si ritiene che la donna avesse come compito primario quello di procreare, come si dedurrebbe dal fatto che in alcune sculture (di epoca magdaleniana), vengono evidenziati gli organi connessi alla riproduzione: a scapito delle altre parti del corpo, il ventre e i fianchi sono decisamente prominenti, il seno voluminoso. In altri reperti invece, sempre afferenti alle veneri paleolitiche si evidenziano fatture longilinee.
In alcuni periodi in cui parte dell'umanità viveva allo stato nomade, si suppone che esse fossero sottomesse al maschio. Secondo altre teorie, almeno alcune società primitive erano invece matriarcali e, solo in un secondo momento, si sviluppò la supremazia maschile. Non ci sono sufficienti dati archeologici per convalidare o confutare completamente le teorie.

In un primo momento nella civiltà egizia ed in quelle mesopotamiche (Persia, Assiria, Babilonia) la donna aveva una posizione molto elevata all'interno della società. In questi luoghi è stato presente anche il matriarcato ma poi, con l'ascesa delle monarchie militari, persero di prestigio e si iniziarono a formare i ginecei, dai quali le donne non potevano uscire e dove non potevano vedere nessun uomo ad eccezione degli eunuchi e del proprio marito. In Egitto vi furono anche casi di donne di casta elevata, che riuscirono, spesso governando in nome dei figli ancora piccoli, dopo essere rimaste vedove, a divenire persino faraone: esempi furono Hatshepsut, Nefertiti e Cleopatra. Nefertari, la moglie di Ramses II, influenzò grandemente la politica del marito.

Nella civiltà minoica la condizione della donna era molto più avanzata che fra i micenei e la Grecia classica. Nella Grecia omerica la donna veniva rispettata ma esistevano comunque numerose contraddizioni. Nell'età di Pericle la donna ricca era tenuta in casa, mentre le donne povere erano costrette a lavorare e quindi avevano una certa libertà. Le donne non avevano diritti politici (non potevano quindi votare o essere elette membri dell'assemblea, durante l'età delle poleis) e non erano oggetto di legislazione giuridica (una donna non era colpevole, ad esempio del reato di adulterio, a differenza dell'uomo, perché ritenuta "oggetto del reato"). La condizione femminile ad Atene era assimilata a quella dello schiavo e dello straniero, o del maschio ancora minorenne. La donna passava molto tempo a contatto con la madre del marito, nel gineceo, e quest'ultima aveva un ruolo primario sulla sua educazione. Paradossalmente, se nella più raffinata Atene la donna era in condizione di inferiorità, nella militarista Sparta le donne della classe dominante (spartiati), pur non potendo governare o combattere, erano addestrate alle arti militari e godevano di maggiore libertà.



Nella società greca alle donne era vietato assistere a qualsiasi manifestazione pubblica, oltre che praticare qualsiasi attività sportiva (ad Atene), mentre a Sparta potevano dedicarsi a sport di tipo esclusivamente ginnico (danza, corsa, ecc). In occasione dei Giochi olimpici alle donne non era nemmeno permesso di avvicinarsi al perimetro esterno del santuario, pena la morte. Secondo un'antica tradizione si diceva addirittura che, se mai una donna avesse praticato una qualche attività sportiva, grandi sventure sarebbero arrivate in seguito a tutto il genere femminile. Ciò conferma la condizione di inferiorità a cui era soggetta la donna nella società greca, molto diversa, ad esempio, dalla condizione di relativa emancipazione di cui godeva la donna nel mondo romano.

In Grecia esistevano le mogli che si dedicavano esclusivamente all'educazione dei figli legittimi, le concubine che avevano rapporti sessuali stabili con l'uomo e la compagna, per il piacere. Esisteva inoltre la prostituta, che svolgeva il suo lavoro nelle strade o nelle case di tolleranza e alla quale spettava l'ultimo "gradino" nella scala sociale.

Aristotele affermava che la donna era inferiore all'uomo in quanto aveva cervello più piccolo e che la donna era un maschio mutilato.

Platone invece fu uno dei primi a pronunciarsi in favore delle donne, almeno in parte: sosteneva che le donne istruite alla filosofia, nello stato ideale da lui delineato, avessero uguali diritti politici degli uomini, e potessero accedere al governo. Questa tradizione rimarrà diffusa negli ambienti del platonismo. Anche Epicuro rivendicava pari dignità per le donne, all'interno della sua scuola filosofica, che accettava anche schiavi e stranieri. Durante l'età ellenistica la condizione femminile migliorò molto. Durante il dominio romano sul mondo greco (I secolo a.C-IV secolo d.C) molte donne di cultura ricoprivano ruoli importanti nella società, come Ipazia di Alessandria.

A Roma la donna era considerata quasi pari all'uomo: entrambi i genitori avevano pari obblighi nei confronti dei figli e la donna poteva accompagnare il marito ad una festa, a patto che mangiasse seduta e non sdraiata come era norma per gli uomini. In età arcaica era sottomessa al padre e al marito, mentre verso la fine della Repubblica e in età imperiale le donne di condizione elevata potevano svolgere una vita indipendente, ottenere il divorzio e risposarsi, mentre quelle delle classi basse erano rimaste sotto la soggezione maschile, con eccezioni delle prostitute, che pur essendo al gradino più basso (ad eccezione delle donne schiave), avevano una discreta libertà. Una certa indipendenza avevano le donne sacerdotesse dei vari templi.

Non mancarono tuttavia le limitazioni poste dal diritto romano alla capacità giuridica delle donne: esse non avevano lo ius suffragii e lo ius honorum, ciò che impediva loro di accedere alle magistrature pubbliche. Nel campo del diritto privato era inoltre negata alle donne la patria potestas, prerogativa esclusiva del pater, e conseguentemente la capacità di adottare. Il principio è espresso per il diritto classico dal giurista romano Gaio nelle sue Istituzioni: Feminae vero nullo modo adoptare possunt, quia ne quidem naturales liberos in potestate habent ("Le donne non possono affatto adottare, perché non hanno potestà neanche sui figli naturali"). Sempre da Gaio apprendiamo che alle donne, con l'eccezione delle Vestali, non era consentito in epoca arcaica di poter fare testamento. Tale ultima limitazione venne però abrogata già in epoca repubblicana.

Tra i casi di donne importanti, si può ricordare quello di Agrippina minore, moglie e nipote dell'imperatore Claudio e madre di Nerone, che durante l'assenza del marito in guerra, divenne l'unica imperatrice a battere moneta con la propria effigie e a governare de facto l'impero romano.

Nell'impero romano d'Oriente vi furono donne che regnarono e governarono in maniera assoluta, senza dividere il potere con i consorti, un esempio fu l'imperatrice Irene di Bisanzio.

Il messaggio cristiano contenuto nel Nuovo Testamento, che sotto questo punto di vista supera e reinterpreta notevolmente i precedenti testi dell'Antico Testamento, giunge ad equiparare di fatto uomo e donna. Gesù non si faceva scrupolo di predicare alle donne come agli uomini, dei miracoli narrati nei Vangeli ne beneficiavano tanto le donne quanto gli uomini, esse erano protagoniste delle parabole al pari degli uomini, e infine Gesù appare dopo risorto alle donne prima che agli uomini. Nelle lettere di Paolo, che descrivono la vita della primordiale chiesa apostolica, le donne vengono in alcuni passi esplicitamente equiparate agli uomini (Gal3,28;1Cor11,11-12).

Non mancano però testi delle epistole paoline in cui riemerge una visione impregnata dell'Antico Testamento, in cui s'invitano le donne alla sottomissione all'uomo (1Cor11,7;Ef5,22), o ne limitano l'attività nelle varie chiese locali (1Tm2,12;1Cor14,34-35). Il tenore dei passi però non sarebbe così marcato da indurre a parlare di misoginia e l'esame del contesto storico e letterario dei passi 'misogini' ridimensiona maggiormente il tenore del discredito: in 1Tm Paolo si riferisce a un problema concreto che la comunità di Efeso aveva con alcune fedeli (1Tm5,13), mentre in 1Cor la richiesta di silenzio durante i momenti carismatici dedicati alla profezia richiama il fenomeno della libera profezia femminile, spesso in contrasto con l'insegnamento degli Apostoli e della guida dei vescovi, che evolverà in seguito nel montanismo. La chiesa, se in principio aveva nella propria gerarchia anche donne, nel ruolo di diacono, successivamente riserverà agli uomini l'ordinazione sacerdotale, regola tuttora in vigore nella chiesa cattolica, e abolito invece nelle varie chiese protestanti e riformate.



Con l'arrivo dei barbari Franchi e Longobardi in Italia, la condizione della donna peggiora. Essa è infatti un oggetto nelle mani del padre, finché questi non decida di venderla ad un uomo, anche se vi furono regine che tennero il potere di fatto, come in effetti accadeva a volte nelle tribù barbariche.

Il Cristianesimo medioevale impose la sottomissione della donna all'uomo, ma la considerò importante in quanto doveva crescere spiritualmente i figli.

Con l'inquisizione alcune donne vennero ritenute rappresentanti del Diavolo sulla Terra (le streghe), capaci di trarre in inganno l'uomo spingendolo al peccato in qualsiasi modo.

Tuttavia, dopo il 1000, con l'avvento del dolce stil novo, la donna venne angelicata e considerata un tramite tra Dio e l'uomo. Tra le donne di potere vi fu la regina d'Italia e contessa Matilde di Canossa.

Alcuni filosofi illuministi avevano in precedenza preso posizione a favore dell'uguaglianza fra i sessi: fra essi d'Holbach, Condorcet, Voltaire.

Nelle insurrezioni le donne lottano a fianco degli uomini. Sono presenti il 14 luglio 1789 (presa della Bastiglia) e il 10 agosto del 1792 (assalto alle Tuileries). Nell'ottobre 1789 sono le prime a mobilitarsi e a marciare su Versailles, seguite nel pomeriggio dalla guardia nazionale. Quando la guerra porta gli uomini al fronte sono loro a sostituirli nelle fabbriche e nei laboratori con un salario minimo e inferiore a quello dei maschi. Non possono votare né essere elette, sono totalmente escluse dalla vita politica e dalle assemblee. Ma le donne non si arrendono e chiedono di essere arruolate nell'esercito per difendere la propria patria. L'assemblea legislativa, a cui si sono rivolte, gli ride in faccia, segno che, naturalmente,fa capire che non possono. Ma centinaia e centinaia di donne riescono a partire e a marciare verso il fronte. La girondina Olympe de Gouges fu una militante per i diritti femminili, ghigliottinata per aver difeso la regina Maria Antonietta e attaccato i giacobini di Robespierre.

Nel 1793 le repubblicane di Parigi chiedono che a tutte le donne sia fatto obbligo di portare la coccarda simbolo della rivoluzione e diritto alla cittadinanza. La convenzione approva, ma gli uomini hanno paura che poi chiedano anche il berretto frigio e le armi. Inoltre gli uomini trovano insopportabile che gli stessi diritti possono essere estesi anche alle donne e pensano che debbano ritornare alle faccende domestiche e non immischiarsi nella guerra.

Nell'Ottocento si diffusero anche le prime istanze femministe e di suffragio a livello europeo e negli Stati Uniti: si pronuciarono e lottarono per l'eguaglianza William Godwin e sua moglie Mary Wollstonecraft, quest'ultima dando inizio al movimento femminista. Il suffragio femminile fu sostenuto anche da John Stuart Mill, nel periodo della sua elezione come deputato alla Camera dei comuni. Anche il movimento marxista e socialista ebbe un ruolo importante nell'emancipazione femminile.

Le donne ebbero parte importante nel risorgimento italiano, ricordiamo numerose patriote: Cristina Trivulzio di Belgiojoso, Anita Garibaldi, Rosalia Montmasson (una dei Mille), Giuditta Bellerio Sidoli (amica di Giuseppe Mazzini).

La condizione delle donne nell'era vittoriana, nonostante il fatto che il sovrano fosse una donna, è spesso vista come l'emblema della discrepanza notevole fra il potere e le ricchezze nazionali dell'Inghilterra e l'arretrata condizione sociale. Durante il regno della regina Vittoria, la vita delle donne divenne sempre più difficile a causa della diffusione dell'ideale della "donna angelo", condiviso dalla maggior parte della società. I diritti legali delle donne sposate erano simili a quelli dei figli: esse non potevano votare, citare qualcuno in giudizio né possedere alcuna proprietà.

Inoltre, le donne erano viste come esseri puri e puliti. A causa di questa visione, i loro corpi erano visti come templi che non dovevano essere adornati con gioielli né essere utilizzati per sforzi fisici o nella pratica sessuale. Il ruolo delle donne si riduceva a procreare ed occuparsi della casa. Non potevano esercitare una professione, a meno che non fosse quella di insegnante o di domestica, né era loro riconosciuto il diritto di avere propri conti correnti o libretti di risparmio. A dispetto della loro condizione di "angeli del focolare", venerate come sante, la loro condizione giuridica era spaventosamente misera.

L’assenza di molti uomini chiamati a combattere provocò delle conseguenze a livello economico e sociale. Durante la Grande Guerra i posti di operai e contadini furono lasciati vuoti e vennero coperti dalle donne che passarono da "Angeli del Focolare" a membri attivi dell’economia e della società. Questo processo, però, non fu indolore perché le donne furono obbligate a compiere gli stessi lavori degli uomini e esse presero anche il posto dei mariti nelle faccende domestiche maschili. A questo non corrispose una maggiore libertà poiché spesso nelle case rimanevano gli anziani, i quali continuavano ad esercitare un ruolo autoritario all’interno della famiglia.

Il primo traguardo importante è il conseguimento del diritto di voto per il quale si batterono le suffragette. In seguito ai conflitti mondiali le donne, che avevano rimpiazzato i molti uomini mandati al fronte sul lavoro, ottennero maggiori ruoli in società e possibilità lavorative fuori dalla famiglia.Inoltre iniziarono ad aprire esercizi commerciali autonomi.

Le donne si sono battute per sostenere cambiamenti nel campo del diritto, dal voto all'IVG, dal divorzio alle leggi in materia di violenza sessuale. Le conquiste femminili nel mondo occidentale si sono tradotte in maggiori diritti e in un divario meno ampio tra i sessi. Malgrado questo, nemmeno nel mondo occidentale è stata raggiunta un'effettiva parità. La violenza sulle donne è una piaga presente tutt'oggi anche nei paesi occidentali. In base ad un'indagine del Parlamento Europeo, "almeno il 20% delle donne europee ha subito violenza nelle relazioni familiari e questa è una delle principali cause di decesso per le donne.



La condizione femminile in Italia comincia a migliorare verso la metà del XX secolo, quando, secondo alcune fonti, il movimento delle suffragette ottenne il suffragio femminile. Quest'ultimo venne infatti riconosciuto solo nel 1945 con un decreto di Umberto di Savoia, ultimo re d'Italia, anche in riconoscimento della lotta sostenuta da molte donne durante la guerra. Nel dopoguerra, all'Assemblea Costituente vennero elette 21 donne. La spinta femminile per l'emancipazione diminuì con il raggiungimento del diritto al voto, nel 1946 per poi rafforzarsi a partire dagli anni sessanta.

Si rafforza il movimento femminista che rivendicò gli stessi diritti degli uomini nella famiglia, nel lavoro e nella società. La Costituzione italiana del 1948 garantiva pari diritti in ogni campo (le donne hanno pari dignità sociale e uguali diritti rispetto al genere maschile, secondo l'articolo tre della Costituzione). Questo venne tradotto in legge effettiva solo con la riforma del diritto di famiglia del 1975, e l'apertura degli anni '90 al servizio militare femminile, l'ultima categoria rimasta (con l'eccezione del diritto canonico che è però un diritto fra privati interno alla chiesa) ad essere esclusivamente maschile, fino all'introduzione della nuova norma.

Ancora oggi però il World Economic Forum con un'indagine chiamata Global Gender Gap Index, rivela che nel 2010, su 128 Paesi, l'Italia si trova al 74º posto per uguaglianza di genere. L'indagine è oggetto di critiche in quanto è volta a rilevare i soli ambiti nei quali le donne sono sotto la parità. A sostegno di tale tesi si riporta che nello stesso documento è evidenziato che qualora, in un determinato ambito, sia rilevata una disparità a favore della donna e dunque a svantaggio dell'uomo il giudizio attribuito sarà "parità perfetta" e non sarà rilevata pertanto la disuguaglianza inversa donna-uomo. Tale metodologia rende, per molti, tale documento utile a valutare solo quei paesi nei quali le disparità uomo-donna sono molto elevate e presenti in tutti gli ambiti (escludendo dunque l'Italia).

Lo svantaggio femminile nella scuola secondaria di secondo grado, che storicamente caratterizzava il sistema scolastico italiano, è stato colmato agli inizi degli anni Ottanta. Da quel momento in poi le ragazze hanno sorpassato i ragazzi sia per tasso di partecipazione (il 93 per cento, contro il 91,5 degli studenti maschi nell'a.s. 2010/2011), sia soprattutto per percentuale di conseguimento del diploma: tra i diciannovenni nell'a.s. 2009/2010 il 78,4 per cento delle ragazze ha conseguito il diploma contro il 69,5 per cento dei ragazzi.

Anche nel proseguimento degli studi universitari le donne ormai sorpassano gli uomini: nel 2004 su 100 laureati con il vecchio ordinamento 59 erano donne, mentre per i corsi triennali le donne rappresentavano il quasi il 57 per cento. Inoltre i voti finali sono mediamente più alti per le donne. Attualmente le donne hanno maggiore accesso, e agevolazioni nel mondo del lavoro alla fine del percorso di studi (laurea). Inoltre, le giovani donne che decidono di essere single raggiungono posizioni dirigenziali in percentuale pari ai colleghi uomini nelle medesime condizioni.

Dal punto di vista universitario e del mondo del lavoro le giovani italiane sono ormai più istruite degli uomini, anche se scelgono spesso percorsi di studio meno remunerativi nel mercato del lavoro: scelgono infatti percorsi umanistici, artistici e sanitari piuttosto che altri (soprattutto ingegneristici).

Il tasso di disoccupazione femminile in Italia è più elevato di quello maschile. Il tasso di occupazione femminile è nettamente inferiore a quello maschile, risultando occupate nel 2010 solo circa 46 donne su 100, contro una percentuale del 67% degli uomini. Nel Mezzogiorno le differenze sono più accentuate e l'occupazione delle donne arriva a appena a superare il 30%. Il tasso di inattività è, di contro, molto alto, arrivando a sfiorare la metà di tutta la popolazione femminile in età lavorativa. Tra le principali cause di questo fenomeno va citata l'indisponibilità per motivi familiari, motivazione che è quasi inesistente per la popolazione maschile. Ad esempio il 15% delle donne dichiara di aver abbandonato il posto di lavoro a causa della nascita di un figlio. Spesso si tratta di una scelta imposta, infatti in oltre la metà dei casi sono state licenziate o messe in condizione di lasciare il lavoro perché in gravidanza.

Tutta questa inattività non si traduce però in un maggiore tempo libero per le donne. Al contrario, il tempo delle donne italiane è impiegato nel sopportare in maniera preponderante i carichi di lavoro familiari, molto più che in tutto il resto d'Europa. Gli uomini italiani risultano i meno attivi del continente nel lavoro familiare, dedicando a tali attività appena 1 h 35 min della propria giornata. Per lavoro familiare si intende sia le attività domestiche (cucinare, pulire la casa, fare il bucato etc.), sia le attività di cura dei bambini e degli adulti conviventi. Si stima che il 76,2 per cento del lavoro familiare delle coppie sia ancora a carico delle donne. Considerando i tempi di lavoro totale, cioè la somma del tempo dedicato al lavoro retribuito e di quello dedicato al lavoro familiare, le donne lavorano sempre più dei loro partner. Una donna con una occupazione tra 25 e 44 anni senza figli lavora giornalmente 53 min in più del suo partner; se però ci sono i figli la differenza aumenta ad 1 h 02 min più del partner. Persino le madri non occupate lavorano più dei loro partner (8 h 15 m contro 7 h 48 m). Una conseguenza di questa disparità è che le lavoratrici italiane dormono meno che in tutti gli altri paesi europei e hanno poco tempo da dedicare allo svago.

I dati dimostrano che le lavoratrici donne sembrano orientate a lavori meno usuranti e meno pericolosi rispetto agli uomini. Il tasso di mortalità sul lavoro è di circa 11 punti per milione; quello maschile si attesta a circa 86 unità per milione. Inoltre le donne occupate che lavorano la sera sono il 16% contro il 25% dei loro colleghi uomini. Le donne occupare che lavorano la notte sono solo il 7% contro il 14% dei loro colleghi uomini.

Nella pubblica amministrazione italiana le lavoratrici donne sono poco più della metà del totale, grazie alla preponderanza femminile tra gli insegnanti soprattutto nella scuola di base. In tale settore si nota tuttavia una netta prevalenza maschile nelle qualifiche più elevate: ogni 100 dirigenti generali si contano solo 11 donne.

Le retribuzioni degli uomini in Italia sono superiori mediamente a quelle delle donne: nel 2004 ad esempio il monte salari maschile (reddito complessivamente percepito dagli uomini italiani) era superiore di circa il 7% rispetto a quello femminile, mentre nel 2010 questo divario è arrivato al 20%. Questo si verifica perché l'occupazione femminile è concentrata su lavori a più bassa retribuzione e perché a parità di mansioni gli stipendi maschili sono, seppur leggermente (del 2%), superiori. Le donne inoltre hanno minori possibilità di beneficiare delle voci salariali accessorie, quali gli incentivi o lo straordinario.

La speranza di vita alla nascita femminile è di 5,6 anni superiore a quella maschile. Le donne, inoltre, sono meno esposte ad omicidi ed aggressioni rispetto agli uomini: i decessi per tali ragioni ai danni di persone del genere femminile rappresentano circa un quarto del totale.

In materia di diritto di famiglia svariate sentenze della magistratura italiana, tutelano la figura femminile in maniera più marcata, affermando il principio di “non bilateralità” tra i coniugi in materia di procreazione. In particolare il tribunale di Monza afferma che “non può … attribuirsi alle scelte attinenti alla maternità una qualsivoglia valenza ‘bilaterale'”.

Sempre in materia di diritto di famiglia si registra che il 71% delle richieste di divorzio è presentata dal genere femminile. Inoltre, in caso di divorzio, l'assegnazione della casa dove la famiglia viveva (in assenza di figli ed indipendentemente della proprietà della stessa) è attribuita alle donne nel 57% dei casi e solo nel 21% ai loro ex-mariti.

Sul totale delle persone che hanno svolto attività gratuita per un partito politico nel corso del 2005, circa un quarto sono donne. Il numero di parlamentari donne in Italia è coerente con tale tasso di partecipazione alla vita politica.

Nel Parlamento italiano le donne rappresentano meno del 20% del totale (18,69% al Senato e 21,43% alla Camera nella XVI Legislatura) con un risultato peggiore rispetto ad esempio alla composizione del Parlamento europeo, nel quale le donne rappresentano circa il 35%.

Oggi possiamo affermare che nei Paesi occidentali i diritti delle donne sono legalmente riconosciuti e le leggi italiane sono tra le più avanzate d'Europa, soprattutto quelle per la tutela della maternità e sulle pari opportunità. Nonostante le leggi, molti ostacoli si frappongono ancora tra le donne e la carriera: infatti sono pochissime quelle che occupano posti di vertice nelle aziende e nei partiti politici, continuando la loro giornata ad essere la somma di due fatiche, quella domestica e quella extradomestica. Occorre realizzare quelle strutture sociali che consentirebbero di conciliare il lavoro fuori casa con la vita domestica, e particolarmente efficace potrebbe risultare la legge sul lavoro part-time.
Se però allarghiamo lo sguardo al mondo intero, il quadro è per varie ragioni sconfortante; il genere femminile, che costituisce poco più della metà dell'umanità e svolge i due terzi circa del lavoro globale, non possiede che un decimo della ricchezza, è rappresentato minimamente nei parlamenti, subisce forti discriminazioni. La piaga della violenza sessuale esiste in tutti i continenti, nei paesi industrializzati come in quelli in via di sviluppo e non conosce differenze sociali o culturali; secondo l'OMS almeno una donna su cinque nel corso della vita subisce abusi fisici o sessuali.
In paesi come la Cina e l'India, dove nascere donna è spesso considerata una disgrazia, migliaia di neonate vengono lasciate morire per cure inadeguate o per abbandono.
Nei paesi del terzo mondo la violenza sulle donne è una normale componente del tessuto culturale e non viene identificata come tale neppure dalle sue vittime.
Anche la povertà miete vittime in primo luogo tra le donne; in Nepal circa 10 mila ragazze ogni anno vengono vendute dalle famiglie per essere avviate alla prostituzione e nell'Asia sudorientale sono oltre mezzo milione le bambine costrette a tale attività.
Un problema specifico di alcune culture africane è invece quello della mutilazione genitale, ancora ampiamente praticata ed effettuata in condizioni sanitarie abominevoli, senza anestesia e soprattutto su bambine anche in tenerissima età. Gli effetti sulla salute sono devastanti e colpiscono le donne in ogni momento della loro vita sessuale e riproduttiva. Sarebbero 130 milioni le donne che hanno subito questa mutilazione e i flussi migratori stanno facendo arrivare il problema anche nei paesi occidentali.
Un altro fattore di disuguaglianza è quello derivante da motivi religiosi, presente soprattutto nei paesi di religione islamica, dove le donne sono vittime di pesanti discriminazioni. Diffusi in alcuni paesi musulmani, i gruppi integralisti si propongono di trasformare la società secondo le regole del Corano e di imporle come legge dello Stato. In Algeria alle donne è imposto di portare l'hidjab, il velo, e di vivere ai margini della società; in Iran, in Afghanistan è imposto il burka e alle donne è preclusa l'istruzione.


Un'altra piaga che colpisce le donne in ogni parte del mondo è lo stupro: sconvolge sapere quanto sia diffuso in paesi ricchi e civili quali gli Usa e il Canada, ma ancor più sconvolgente è scoprire come per esempio in Pakistan, per avere giustizia, la donna debba presentare quattro testimoni maschi e non possa testimoniare lei stessa. Inoltre, se la vittima non riesce a dimostrare il reato viene incriminata per attività sessuali illecite, incarcerata, frustata pubblicamente; in Nigeria, per un fatto analogo, è stata condannata alla lapidazione Safja, per la quale si stanno mobilitando anche le donne italiane. La violenza sessuale è anche un'arma di guerra, solo da poco riconosciuta come tale dalle leggi internazionali. I conflitti con un forte connotato etnico, come quelli nei Balcani o in Africa centrale, vedono l'uso dello stupro come strumento bellico da parte di entrambi i contendenti.



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martedì 17 febbraio 2015

RAZZISMO NELLA STORIA

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 L'ONU condannò il razzismo con la Dichiarazione sulla razza dell'UNESCO (1950) e con una Convenzione del 1965 che definì discriminazione razziale ogni differenza, esclusione e restrizione dalla parità dei diritti in base a razza, colore della pelle e origini nazionali ed etniche. Nel 2000 il 21 marzo fu proclamato giornata mondiale contro il razzismo, in memoria dell'eccidio di 69 neri nel 1960 a Sharpeville (Sudafrica). Organizzazioni umanitarie non governative, come SOS Razzismo, nata in Francia ma operante in tutto il mondo, anche in Italia (dal 1989), si battono per sconfiggere il razzismo e ogni forma di discriminazione. Da anni l'Unione Europea invita con direttive gli Stati membri a dotarsi di leggi antidiscriminazione.La prima teoria 'scientifica' della differenziazione biologica dell'umanità in razze fu la classificazione in base al colore della pelle operata da C. Linneo nel 1735. Il testo che diede un impulso decisivo alla diffusione delle idee razziste fu il Saggio sull'ineguaglianza delle razze umane (1853-55) di J.-A. de Gobineau, che sostenne la superiorità biologica e spirituale della razza ariana germanica. Per H.S. Chamberlain (I fondamenti del 19° secolo, 1900) la storia era un'eterna lotta tra ariani, razza spiritualmente nobile, ed ebrei, ignobili e meschini. L'antiebraismo religioso si era trasformato in antisemitismo razzista, diffuso in gran parte d'Europa, dalla Russia dei pogrom alla Francia dell'affaire Dreyfus. Anche l'evoluzionismo di C. Darwin fu strumentalizzato per cercare di avvalorare le tesi razziste sostenendo che il dominio imperialistico sul mondo dimostrerebbe la superiorità biologica della razza bianca, più adatta ad affrontare la lotta per la vita e la selezione naturale. Inoltre, furono condotte misurazioni antropometriche che avrebbero dovuto rivelare la maggior intelligenza, vitalità e moralità della razza bianca e furono avanzate teorie eugenetiche che invitavano a preservare i caratteri migliori della razza impedendo il meticciato e la riproduzione degli individui peggiori. C. Lombroso, infine, sostenne che gli italiani meridionali sono biologicamente più predisposti alla delinquenza dei settentrionali.

Il termine razzismo, nella sua definizione più semplice, si riferisce ad un'idea, spesso preconcetta e comunque scientificamente errata, come dimostrato dalla genetica delle popolazioni e da molti altri approcci metodologici, che la specie umana (la cui variabilità fenotipica, l'insieme di tutte le caratteristiche osservabili di un vivente, è per lo più soggetta alla continuità di una variazione clinale) possa essere suddivisibile in razze biologicamente distinte, caratterizzate da diverse capacità intellettive, valoriali o morali, con la conseguente convinzione che sia possibile determinare una gerarchia secondo cui un particolare, ipotetico, raggruppamento razzialmente definito possa essere definito superiore o inferiore a un altro.
A livello colloquiale, il termine razza riferito alla specie umana provoca frequenti fraintendimenti, anche per l'utilizzo differente da quello della lingua inglese che possiede termini come race (anche in senso generico), kind (tipo, razza), breed (nel senso di ceppo zoologico) e progeny (nel senso di progenie, schiatta); con la traduzione nel differente contesto linguistico italiano, si verificano facilmente slittamenti di senso. In senso scientifico (di scienza attuale) ed in lingua italiana le razze umane non esistono, e quelle zoologiche sono confinate nel campo zootecnico degli animali domestici. La specie umana, come diverse altre, è soggetta ad una continua variazione clinale, senza soluzione di continuità da un gruppo ad un altro.

Il concetto di cline è stato variamente utilizzato in campo scientifico anche per lo studio di popolazioni del passato. Il clustering genetico, la possibilità di analisi matematica (Cluster analysis) dei parametri biologici di una popolazione e del grado di somiglianza dei dati genetici tra individui e gruppi per inferire strutture di popolazione e quindi assegnare gli individui a gruppi, che spesso corrispondono alla loro discendenza geografica auto-identificata, è fattibile, anche utilizzando l'analisi delle componenti principali. Ci possono essere molteplici varianti di dati geni nella popolazione umana (polimorfismo). Molti geni non sono invece polimorfici, che significa che solo un singolo allele è presente nella popolazione. Queste ed altre tecniche permettono di riunire gli individui in gruppi arbitrari, utili ad esempio per lo studio di determinate patologie, e di identificare incidenze delle stesse, differenti in gruppi differenti. Questi fatti non implicano minimamente una reale suddivisione della specie, continua ed interfeconda.

Non ci sono due esseri umani geneticamente identici. Anche i gemelli monozigoti, che sviluppano da uno zigote, hanno frequenti differenze genetiche dovute a mutazioni che si verificano durante lo sviluppo. Le differenze tra gli individui, anche strettamente correlati, sono la chiave per tecniche come il fingerprinting genetico. I principali elementi di variazione biologica umana hanno distribuzioni indipendenti e non possono essere compresi se l'ipotetica esistenza di "razze" viene assunta come punto di partenza.

Più analiticamente si possono distinguere diverse accezioni del termine:

storicamente rappresenta un insieme di teorie con fondamenti anche molto antichi (ma smentite dalla scienza moderna) e manifestatesi in ogni epoca con pratiche di oppressione e segregazione razziale, che sostengono che la specie umana sarebbe un insieme di razze, biologicamente differenti, e gerarchicamente ineguali. Tra gli ispiratori ideologici degli aspetti contemporanei di questa teoria vi fu l'aristocratico francese Joseph Arthur de Gobineau, autore di un Essai sur l'inégalité des races humaines (Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane, 1853-1855). Nel XIX secolo quello che sarebbe stato poi definito razzismo nel secolo successivo ebbe rilevanza scientifica, al punto da venire oggi chiamata dagli storici razzismo scientifico.
Intorno al 1850 il razzismo esce dall'ambito scientifico e assume una connotazione politica, diventando l'alibi con cui si cerca di giustificare la legittimità di prevaricazioni e violenze verso etnie, raggruppamenti culturali, ed altro, diversi dai propri. Alcune delle massime espressioni di questo uso sono stati il nazionalsocialismo in Europa e il Ku Klux Klan nel Nuovo Mondo.
In senso colloquiale definisce ogni atteggiamento attivo di intolleranza (che può tradursi in minacce, discriminazione, violenza) verso gruppi di persone identificabili attraverso la loro cultura, religione, etnia, sesso, sessualità, aspetto fisico o altre caratteristiche. In tale senso, però, sarebbero più corretti, anche se sono raramente usati nel linguaggio popolare corrente, termini come xenofobia o meglio ancora etnocentrismo.
In senso più lato, e di uso non appropriato, comprende anche ogni atteggiamento passivo di insofferenza, pregiudizio, discriminazione verso persone che si identificano attraverso la loro regione di provenienza, cultura, religione, etnia, sesso, sessualità, aspetto fisico, accento dialettale o pronuncia difettosa, abbigliamento, abitudini, modo di socializzarsi o altre caratteristiche.

Tradizionalmente, con il termine razzismo si riconduceva alla composizione di razza, dal latino generatio oppure ratio, con il significato di natura, qualità e ismo, suffisso latino -ismus di origine greca -ισμός (-ismòs), con il significato di "classificazione" o "categorizzazione", qui inteso come astratto collettivo, sistema di idee, fazione e, per estensione, partito politico che può sottintendere significati differenti. Oggi l'etimologia viene in genere interpretata in modo diverso, in quanto si suppone che il termine razza italiano, così come gli equivalenti nelle altre lingue neolatine, derivi dal francese antico haraz o haras, allevamento di cavalli; per falsa divisione del termine unito all'articolo, l'haraz diventa così la razza.
Grazie alla genetica, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, la biologia considera ormai assodato il fatto che tutti i componenti della specie Homo sapiens sapiens costituiscano un solo insieme omogeneo e che due gruppi etnici qualsiasi, il cui aspetto sia stato modificato dall'adattamento ad ambienti esterni diversi, possano essere apparentemente molto diversi, ma, in realtà, assai vicini dal punto di vista genetico. Al contrario, popolazioni che condividono un aspetto simile possono essere geneticamente più distanti rispetto a popolazioni di "razze" diverse.
Il termine razza non è in ogni modo utilizzato in biologia per la classificazione tassonomica ma solo in zootecnia e viene applicato solamente agli animali domesticati.

Per fare un esempio, la diffusione di un determinato allele in popolazioni diverse può presentarsi con maggiori somiglianze fra una popolazione europea ("bianca") ed una africana, che fra due popolazioni europee. Le differenze tra le cosiddette "razze" umane riguardano infatti unicamente l'aspetto esteriore, modificato per adattarsi all'ambiente man mano che la specie umana si diffondeva per tutto il mondo; ed ovviamente l'aspetto esteriore è il dato che salta maggiormente all'occhio. Tuttavia esso coinvolge una frazione relativamente insignificante dell'intero genoma dell'uomo. Ecco perché individui che discordano vistosamente su pochi geni, relativi al colore della pelle o al taglio degli occhi, possono poi condividere caratteristiche genetiche molto più complesse ed importanti, anche se non altrettanto vistose.

Anzi, se c'è un aspetto che caratterizza l'Homo sapiens sapiens al paragone con molte specie animali, esso è semmai la straordinaria omogeneità genetica, causata dal fatto che tutti gli esseri umani discendono da un numero ristretto di antenati, evolutisi in un tempo assai recente (circa centomila anni fa), e rimescolatisi di continuo nel corso della loro storia. Eventuali differenze fenotipiche esteriori, si possono al più collocare nella cosiddetta variazione geografica o cline, nello studio strettamente tecnico riguardante la genetica delle popolazioni.

Il discorso, di tipo generale, è ugualmente estendibile ad aspetti di ambito medico quali la distribuzione nella popolazione delle patologie, o la relativa diversa sensibilità ai farmaci.

Questa premessa non era e non è condivisa dal razzismo. Secondo l'ideologia razzista, le differenze di aspetto rispecchiano la divisione effettiva in razze della specie umana. Particolare non secondario, il razzismo professa sempre la superiorità di una "razza" rispetto ad altre, sostenendo che la "razza" superiore è quella a cui appartiene il sostenitore del razzismo, e giustificando così un'eventuale discriminazione e/o oppressione di coloro i quali sono considerati inferiori.

Il razzismo, inteso come teoria pseudoscientifica, fu una delle giustificazioni ideologiche del colonialismo del XIX e XX secolo, del mantenimento della schiavitù nel XIX secolo, oltre che della discriminazione di gruppi sociali in condizioni di inferiorità, come per esempio nel caso dell'apartheid.
Il razzismo scientifico è stato preceduto e seguito da altre forme di razzismo organizzato, detto anche pre-scientifico. Nel merito di quest'ultimo la parola "razza" non è sempre riferita a un tipo biologico, ma al senso più generale di "categoria" o "genere". Quest'altra forma di razzismo non è meno importante, e in dettaglio prende molti nomi specifici a seconda dell'oggetto della discriminazione: classismo se riferito alla discriminazione in base alla classe sociale, casteismo se in base alla casta di appartenenza, sessismo se in base al sesso, ecc.

Tesi dominante oggi, che tenta di spiegare le cause del razzismo organizzato e scientifico, è quella utilitarista: il razzismo, cioè, nascerebbe prevalentemente da motivi di utilità politica, a difesa dei privilegi, dell'economia e del potere di una fazione contro l'altra.

Il razzismo "individuale" invece è considerato dalla psicologia un grave disturbo mentale di tipo narcisistico, come anche la xenofobia.

Le teorie razziste nacquero nel Medioevo allorché i sovrani cristiani vollero impadronirsi dei beni dei banchieri ebrei; si svilupparono poi nel XVI secolo, quando Spagna e Portogallo impiegarono schiavi Africani per le loro colonie. Esse assunsero un'importanza politica nel XIX secolo quando cominciò a diffondersi il mito della razza ariana. Questa ipotetica razza servì a Joseph Arthur de Gobineau per giustificare i privilegi dell'aristocrazia e spiegare l'antagonismo tra essa e le masse popolari. Però la maggior parte delle suddivisioni storiche datano l'inizio della storia moderna al 1492, e anche le radici del razzismo moderno si legano a questa data.
A seguito dell'unificazione delle corone spagnole, il 31 marzo 1492 Ferdinando II d'Aragona ed Isabella di Castiglia firmano il decreto che espelle tutti gli Ebrei dalla Spagna. L'inquisizione spagnola, personificata nella figura di Tomás de Torquemada diventa il braccio attivo della politica della corona nell'attuazione della epurazione.
Si crea il concetto di purezza del sangue, base ideologica degli statuti di limpieza de sangre promulgati alla fine del secolo.
Nello spirito di questi statuti, tesi a analizzare la stirpe originaria della persona, non il suo credo religioso attuale, si riconoscono infine quelli promulgati nel 1496 da Papa Alessandro VI dove si approva un codice di purezza anche per gli ordini monastici, come quello dei Hieronymiti.
Questi sono primi esempi classici di razzismo ideologico con profonde radici utilitaristiche. Durante il periodo dell'espulsione di alcune centinaia di migliaia di persone, le vittime furono numerose. Con questo atto si pose fine a una lunghissima convivenza produttiva sul territorio iberico di tutte le etnie del mediterraneo. Il massacro di Lisbona del 17 aprile 1506, viene ricordato come un'altra vicenda atroce (migliaia di morti in poche ore, molti dei quali arsi vivi) della penisola Iberica, figlia delle conseguenze delle leggi razziali dell'epoca.

Un fattore da considerare in una prospettiva storica, è che il razzismo è un fenomeno connesso all'età coloniale, quando le grandi potenze europee svilupparono ideologie razziste per risolvere la dissonanza tra valori cristiani di eguaglianza e carità e lo sfruttamento delle popolazioni indigene in America come in Africa.

Prima di quest'epoca la xenofobia può spesso esprimersi direttamente come tale: l'altro è inferiore in quanto "non è come noi" e ci è "quindi" ostile (in greco antico ξενός, "xenos", significa sia "straniero" che "nemico"), perché parla una lingua diversa dalla nostra ("barbaro" in greco significa letteralmente "il balbettante"), perché non professa la nostra religione, perché non si veste come noi (in molte lingue i concetti di "straniero", "strano" ed "estraneo" hanno la stessa radice linguistica, che in italiano è quella del latino "extra": "che viene da fuori").

Tuttavia la società antica preferisce stratificare l'umanità in base a concetti castali, più che razziali: il nobile è ovviamente superiore al plebeo, e il plebeo libero è superiore allo schiavo. Ed ovviamente le caratteristiche dell'individuo inferiore (il suo modo di parlare, di vestire, di comportarsi) "giustificano" pienamente la sua condizione sociale inferiore. Inoltre non va dimenticato che per la gran parte le società premoderne (come ancora molte delle società moderne) sono sessiste, ritenendo cioè che tutti i maschi della razza umana siano biologicamente superiori (più forti, più intelligenti, più morali...), per il solo fatto di essere tali, a tutte le femmine della razza umana.

Ciò detto, la mentalità premoderna in generale non avrebbe giudicato uno schiavo bianco superiore a un nobile - ad esempio - arabo in base alla sua sola appartenenza a una presunta "razza". Se si cercava una superiorità, essa veniva trovata nella cultura, nell'etnia, nella religione: ogni cristiano è superiore ad ogni infedele, dunque anche uno schiavo cristiano è, "moralmente", ma non socialmente, superiore a un principe musulmano. Ma se il principe musulmano si converte al Cristianesimo, viene meno tale inferiorità e prevale nuovamente la superiorità sociale di casta.

La società premoderna considera insomma la "razza" non come un dato immutabile e di primo piano, ma come un dato transitorio e secondario, destinato ad annacquarsi col passare delle generazioni: si ebbero così papi discendenti da famiglie ebraiche convertite, o bastardi di nobili generati con schiave nere (quindi mulatti) legittimati dai loro genitori (per esempio, Alessandro de' Medici detto "il Moro"), come pure ex schiavi "mori" nordafricani (come per esempio Leone Medici/Leone Africano) adottati da nobili famiglie.

Tutto ciò non implica accettazione del diverso: la società antica ha anzi un vero orrore per le novità e la non-conformità; implica però che la diversità motivata dall'appartenenza razziale appare ai nostri avi meno importante di altre diversità, come quelle legate al "rango sociale" o di altro tipo, che invece per la mentalità moderna sono meno importanti. Non a caso il razzismo in quanto ideologia pseudoscientifica sorge nel momento in cui questo antico criterio di valutazione è ormai in piena crisi dopo la Rivoluzione francese, e non è un caso che uno dei suoi fondatori, de Gobineau, sostenga la superiorità della razza germanica solo per giustificare la superiorità della classe sociale che secondo lui ne discende in Francia (la nobiltà, che è la classe a cui egli appartiene ed il cui monopolio assoluto del potere egli vuole giustificare in questo modo).

A questa generalizzazione si oppone la già citata "limpieza de sangre" "purezza di sangue" che la nobiltà iberica propone nel tardo Rinascimento per respingere l'ascesa degli ebrei e dei moriscos convertiti al cristianesimo, e quindi (teoricamente) integrati nella società spagnola dell'epoca. Quindi, una volta di più, il razzismo quattro-cinquecentesco è un'ideologia escogitata da una casta endogama, e non da una "razza", intesa in senso biologico.

Il concetto di "limpieza de sangre" sarebbe stato applicato anche ai danni delle popolazioni indigene dell'America prima, ed agli schiavi neri ivi importati poi, nonché degli iberici spagnoli che si erano mescolati con essi, creando una società in cui la stratificazione sociale era legata anche al gruppo etnico di appartenenza. Una società estremamente conscia dell'appartenenza razziale, al punto da conoscere non solo concetti come quello di "mulatto" o "meticcio", ma anche quelli di quarteron e octavon, cioè di persona con solo un quarto o un ottavo di sangue nero, o di zambo, cioè meticcio metà nero e metà indio, e via via con ulteriori sottodivisioni.

Paradossalmente, però, tale acuta coscienza delle differenze "razziali", che certo non è sbagliato definire "razzista", fu la reazione a un diffusissimo fenomeno di "mescolamento" delle razze da parte degli iberici non appartenenti alla nobiltà, i cui effetti si osservano agevolmente ancora oggi in tutta l'America Latina. Non mancò neppure qualche nobile che non disdegnò il matrimonio con i discendenti della nobiltà indigena India, per acquisire maggiore legittimità nel suo dominio agli occhi della popolazione dominata.

Questo fenomeno mostra quanto il razzismo ("non scientifico") iberico fosse qualitativamente diverso dal successivo razzismo ottocentesco, che fra i suoi primi scopi dichiarati ebbe appunto quello di impedire il mescolamento fra le razze umane, sempre nocivo per la razza "superiore" (cioè i bianchi).
Da questo punto di vista, un passo avanti verso il vero e proprio razzismo, inteso come teoria scientifica, si ebbe piuttosto negli Usa, dove nel dibattito infuocato relativo all'abolizione della schiavitù a metà del XIX secolo, uno degli argomenti azzardati dai suoi sostenitori fu che neri (e indiani) non fossero "davvero" esseri umani, ma andassero catalogati in una categoria diversa, alla quale non si potevano applicare le argomentazioni umanitarie proposte dagli abolizionisti. Non essendo i neri uomini, non aveva senso essere "umanitari" con loro.

In Europa i nazisti riuscirono quasi a imporre un dogma mitologico, prima contro gli ebrei poi contro i polacchi, che privava tutti coloro che venivano definiti non ariani dei diritti civili e del lavoro. Questo aspetto ricalca in parte lo stesso che i polacchi applicavano precedentemente contro la popolazione ebraica. Il governo polacco in esilio, il suo esercito, i suoi rappresentanti ufficiali conservarono immutati questi pregiudizi. Durante l'occupazione, infatti, i polacchi aiutarono il nemico nel maltrattamento e nel massacro degli ebrei. Un polacco ebbe a dire: «La fortuna è venuta a noi tramite Hitler. Egli ci sta preparando una Polonia senza Ebrei». Vi furono, tuttavia, alcune nobili eccezioni. Dopo la liberazione la maggior parte della popolazione conservò un'opinione positiva della repressione. Nel luglio 1946 uno spaventoso pogrom antisemitico nella città polacca di Kielce costò la vita a quarantun ebrei. In Polonia persino dopo la guerra, alcuni membri della Chiesa cattolica continuarono ad avere una parte di primo piano nell'incoraggiare e nel mantenere vivo l'antisemitismo

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