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sabato 8 luglio 2017

VENDITA di SIGARETTE e MINORI

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Fin dal 1934, il Regio Decreto 2316, “Testo unico delle leggi sulla protezione e l’assistenza della maternità e dell’infanzia”, stabilisce, all’art. 25, il divieto di vendita e somministrazione di tabacco ai minori di 16 anni, a cui è vietato anche di fumare nei luoghi pubblici.
Un ulteriore passo avanti è stato fatto dalla legge di conversione 8 novembre 2012, n. 189 del decreto 13 settembre 2012 ha introdotto il divieto di vendita delle sigarette ai minori di 18 anni, innalzando il limite dei 16 anni previsto dall'art. 25 del regio decreto 1934. I rivenditori sono tenuti a chiedere il documento d’identità agli acquirenti se la loro maggiore età non è manifesta.
Inasprite le sanzioni per chi viola le norme: sanzione da 250 a 1000 euro, da 500 a 2000 euro in caso di recidiva, fino alla sospensione per tre mesi della licenza.
Dal 1° gennaio 2013 i distributori automatici sono essere dotati di un sistema automatico di rilevamento dell’età.
Inoltre dal 1 maggio 2013 è in vigore l'ordinanza del Ministro della Salute che ha innalzato il divieto di vendita delle sigarette elettroniche con presenza di nicotina, da 16 a 18 anni.

Dal 1° gennaio 2013:

è vietata la vendita e la somministrazione di prodotti del tabacco ai minori di diciotto anni (e non più di sedici);
i distributori automatici sono adeguati alla lettura automatica dei documenti anagrafici con il nuovo limite di età;
sono inasprite le sanzioni in caso di violazioni alle norme citate: si va da un minimo di 250 euro ad un massimo di 1.000 euro alla prima violazione, mentre se il fatto è commesso  più  di  una  volta  si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da 500 a 2.000  euro  e la  sospensione,  per tre mesi, della licenza all'esercizio dell’attività.
Inoltre, la legge impone che, in caso di dubbio sull’età dell’acquirente, il rivenditore chieda un documento di identità prima di vendergli prodotti del tabacco. A scanso di equivoci, è bene chiarire che la richiesta del documento d’identità non è una facoltà ma un obbligo, a meno che l’età del cliente non sia manifesta.



A partire dal 2 febbraio 2016 è entrato in vigore un decreto legislativo che regola la produzione, la presentazione, la vendita e il consumo di sigarette, tabacco e prodotti derivati in Italia, in recepimento della direttiva 2014/40/UE del Parlamento Europeo.

Tra le novità introdotte dal decreto per quanto riguarda gli ingredienti consentiti nelle sigarette, saranno vietati «l’immissione sul mercato dei prodotti del tabacco con un aroma caratterizzante», con «additivi che creano l’impressione che un prodotto del tabacco produca benefici per la salute o comporti minori rischi per la salute», con additivi coloranti o con filtri o cartine contenenti nicotina.

Il decreto prevede anche il divieto di vendita dei pacchetti di sigarette da dieci, che per il loro prezzo inferiore sono considerate più accessibili per i minorenni. Le confezioni di tabacco sfuso invece non potranno superare i 30 grammi. Tutte le confezioni di sigarette e tabacco dovranno presentare le scritte «Il fumo uccide – smetti subito» e «Il fumo del tabacco contiene oltre 70 sostanze cancerogene»: immagini molto forti e disturbanti sulle malattie che possono colpire i fumatori e che compaiono già sui pacchetti di altri paesi. Sulle confezioni dovrà anche comparire il numero verde di un servizio che aiuta a smettere di fumare. Il decreto stabilisce anche che il 65 per cento della superficie esterna del pacchetto debba essere coperto da foto e avvertimenti, al contrario delle attuali frasi che occupano circa il 30-40 per cento.

Il decreto vieta la vendita di tabacco per uso orale, cioè quello da masticare o il cosiddetto snus, il tabacco svedese da tenere in bocca. Le sigarette elettroniche che contengono nicotina non potranno essere vendute ai minorenni, dovranno avere una serie di requisiti di sicurezza per i bambini e di caratteristiche indicate nel foglietto delle istruzioni; ci sarà inoltre un limite massimo di concentrazione di nicotina (non dovrà essere superiore a 20 mg/ml) e sono stati definiti i volumi massimi di cartucce, serbatoi e contenitori dei liquidi. Le multe per chi vende tabacco ai minori di 18 anni sono stabilite dai 500 ai 3000 euro, ed è prevista anche una sospensione di 15 giorni della licenza. Se la trasgressione si ripete, la sanzione economica raddoppia e la licenza viene revocata. Verranno applicate anche norme già discusse e anticipate nei mesi scorsi, come il divieto di fumo in auto in presenza di minori o di donne in gravidanza e «nelle pertinenze esterne degli ospedali e degli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS) pediatrici, e nelle pertinenze esterne dei singoli reparti pediatrici, ginecologici, di ostetricia e neonatologia». Il disegno di legge sulla cosiddetta “green economy” approvato lo scorso dicembre, invece, ha introdotto delle multe per chi getta a terra i mozziconi delle sigarette. Secondo i dati dell’Istituto superiore di sanità, i fumatori in Italia sono circa 11 milioni, un numero che rimane costante da diversi anni.

Le leggi ci sono ma non tutti la rispettano....oserei dire nessuno ho un figlio minore che purtroppo fuma e non c'è nessun tabaccaio che si rifiuta di vendergliele. Siamo in Italia dove tutto è lecito.....



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venerdì 14 ottobre 2016

LE SPOSE BAMBINE




Milioni di bambine e giovani donne nel mondo sono vittime di abusi, discriminazioni o costrette a matrimoni forzati in età minorile. L'11 ottobre, è la Giornata Mondiale delle bambine e delle ragazze, proclamata dall'Onu, e le varie organizzazioni umanitarie ricordano l'impegno comune nella lotta ai diritti delle giovani donne, diffondendo dati allarmanti sul fenomeno.

"Oggi nel mondo ci sono oltre 700 milioni di donne che si sono sposate in età minorile e che hanno dovuto rinunciare ad avere una crescita normale, fisica e mentale. Ogni anno 15 milioni di matrimoni hanno per protagonista una minorenne; una volta su tre - cinque milioni di casi - si tratta di una bambina con meno di 15 anni. Hanno dovuto spesso affrontare gravidanze precoci e violenze domestiche - ha sottolineato il presidente dell`Unicef Italia Giacomo Guerrera e promuovere l'istruzione delle bambine è l`investimento più potente che una nazione possa fare, perché accelera la lotta contro la povertà, le malattie, la disuguaglianza e la discriminazione di genere".

I dati diffusi dall'Unicef sui diritti negati e sul fenomeno delle spose bambine sono preoccupanti. Sarebbero 70.000 le ragazze, tra i 15 e i 19, che muoiono a causa di complicazioni durante la gravidanza e il parto e le bambine sotto i 15 anni hanno 5 volte più probabilità di morire durante la gestazione rispetto alle donne tra i 20 e i 29 anni. Inoltre un bambino che nasce da una madre minorenne ha il 60% delle probabilità in più di morire in età neonatale, rispetto a un bambino che nasce da una donna di età superiore a 19 anni. E anche quando sopravvive, sono molto più alte le possibilità che possa soffrire di denutrizione e di ritardi cognitivi o fisici. Per quanto riguarda il livello di povertà e la mancata istruzione, sempre secondo il rapporto, le donne rappresentano la metà della popolazione nel mondo, ma costituiscono il 70% dei poveri. Si stima che un aumento del 10% di ragazze che frequentano la scuola, farebbe aumentare il pil del 3% e che solo 1 ragazza ogni 3 maschi frequenta la scuola secondaria.
 
Il fenomeno delle spose bambine è in costante aumento e, secondo il rapporto di Save The Children, tra le principali barriere che impediscono alle ragazze di accedere a servizi e opportunità ci sono i matrimoni precoci. "Ogni sette secondi, nel mondo, una ragazza con meno di 15 anni si sposa, spesso con un uomo molto più grande di lei", stando ai dati del dossier Every Last Girl: Free to live, free to learn, free from harm.

La comunità internazionale si è impegnata a mettere fine alla pratica dei matrimoni precoci entro il 2030, tuttavia se il numero di spose bambine nel mondo crescerà ai ritmi attuali nel 2030 avremo 950 milioni di donne sposate giovanissime e 1,2 miliardi nel 2050, sempre secondo i dati diffusi.

"I matrimoni in età minorile rappresentano l'inizio di un ciclo di ostacoli e svantaggi che negano alle ragazze i loro diritti fondamentali, tra cui i diritti alla salute e all'istruzione, e impediscono loro di vivere la propria infanzia, di realizzare i propri sogni e di costruirsi un futuro ricco di opportunità - ha affermato Helle Thorning-Schmidt, direttore generale di Save the Children International - e ha aggiunto - "Le bambine e le ragazze che si sposano troppo presto sono spesso costrette ad abbandonare la scuola e sono le prime a rischiare di subire violenze domestiche, abusi e stupri. Rischiano inoltre di incorrere in gravidanze precoci, con conseguenze molto gravi sulla loro salute e su quella dei loro bambini, e risultano particolarmente esposte al rischio di contrarre malattie sessualmente trasmissibili come l'Hiv".

Il dossier contiene anche la graduatoria dei Paesi dove le ragazze hanno maggiori opportunità di crescita e di sviluppo, basata su 5 parametri: matrimoni precoci, numero di bambini per madri adolescenti, mortalità materna, completamento della scuola secondaria di primo grado e numero di donne in Parlamento. Il Niger, valutando tutti i 5 criteri, occupa il posto più basso della classifica, la Svezia quello più alto. Tra i paesi virtuosi l'Italia è in decima posizione: ha gli stessi risultati della Svezia per quanto riguarda il numero di figli per madri adolescenti (6 su 1.000) e tasso di mortalità materna (4 su 100.000 nascite), mentre ha una percentuale minore di donne che siedono in Parlamento (31% contro 44%). Per quanto riguarda gli altri Paesi, Finlandia e Norvegia, occupano il secondo e il terzo posto in classifica, mentre Spagna e Germania seguono l'Italia di qualche posizione. In coda alla classifica ci sono Ciad, Repubblica Centrafricana, Mali e Somalia, che si caratterizzano per numeri molto alti di spose bambine. Gli Stati Uniti non vanno invece oltre la 32esima posizione, in virtù di tassi di mortalità materna e numero di bambini nati da madri adolescenti più alti di quelli di altri Paesi ad alto reddito.



Inoltre si sottolinea che l'India è il Paese con il più alto numero di spose bambine, con il 47% delle ragazze, più di 24,5 milioni, sposate prima di aver compiuto i 18 anni. In India, del resto, così come in Afghanistan, Yemen e Somalia, sono numerosi i casi di spose bambine che hanno meno di 10 anni. Anche guerre e crisi umanitarie contribuiscono ad alimentare il fenomeno: molte ragazze siriane vengono costrette dalle famiglie a sposarsi in tenerissima età, nella convinzione che questo sia l'unico modo per metterle al riparo da violenze e per assicurare loro risorse e mezzi di sostentamento che le stesse famiglie non sono più in grado di garantire. Tra le ragazze siriane rifugiate in Giordania, nel 2013, una su quattro di età compresa tra i 15 e i 17 anni risultava già sposata.

Infine ogni anno, secondo il rapporto, 16 milioni di ragazze tra i 15 e i 19 anni mettono al mondo un figlio, mentre sono oltre un milione le ragazze che diventano madri prima di compiere i 15 anni. Le complicazioni durante la gravidanza e il parto rappresentano, dopo i suicidi, la seconda causa di morte per le ragazze tra i 15 e i 19 anni, con circa 70.000 ragazzine che perdono la vita ogni anno.

Ancora, nel mondo 30 milioni di bambine rischiano di subire mutilazioni genitali femminili nel prossimo decennio e oltre un terzo delle giovani donne nei Paesi in via di sviluppo non ha accesso all'istruzione. In molti Paesi al mondo, infine, le ragazze continuano a non potersi esprimere liberamente e a non essere coinvolte nei processi decisionali pubblici e privati. A livello globale, solo il 23% dei seggi parlamentari è occupato da donne le quali, peraltro, presiedono le Camere dei Parlamenti solo nel 18% dei casi. La più alta percentuale di donne in Parlamento si registra in Ruanda (64%).

Non hanno nessun potere di scelta, sono isolate dalla società e private di un’infanzia normale. Spesso sono vittime di abusi e violenze, tagliate fuori dalla famiglia, dagli amici e dalla scuola.

In Turchia, tra il 2010 e il 2015, secondo il ministro della Famiglia di Ankara Sema Ramazanoglu sono state oltre 230 mila le unioni tra bambini e adulti.

Ma il numero potrebbe essere più elevato visto che molte delle nozze con minori vengono celebrate solo con rito religioso (non riconosciuto dalla legge turca) e quindi non registrate ufficialmente.

Nel centro dell'India si possono trovare in tuguri affollati donne spettrali anche bambine di 8 o 9 anni con la testa rasata e avvolte nelle bianche garze del lutto: le vedove.
Dopo la cerimonia delle nozze, le spose bambine dovrebbero tornare nella casa dei genitori fino alla prima mestruazione, ma i genitori che hanno fretta di disfarsi di loro le consegnano subito alla famiglia dello sposo.
In India il matrimonio è merce di scambio, un'alleanza, tanto che le nozze possono evitare una faida tra due famiglie, sposare una donna ancora bambina significa preservarla integra, lasciare intatta tutta la sua forza vitale, la sua purezza creatrice.
Rari sono i matrimoni d'amore, sostituiti da quelli combinati dai genitori della ragazza che la cedono a  un uomo di 30-40 anni, il quale la prende in sposa che non ha più di 12 anni; a causa della grande differenza di età esse corrono il rischio di rimanere vedove prematuramente, finendo relegate in una casa per vedove.
Con il matrimonio le spose bambine abbandonano la famiglia e la scuola per andare a vivere con il marito nella capanna dei suoceri, dove si occupano di tutte le faccende domestiche; il loro compito principale è mettere al mondo quanti più figli maschi possibile anche se il loro giovane corpo non è in grado di sopportare il peso di molteplici gravidanze: così si rischia che la madre non sopravviva al trauma del parto e che anche i neonati abbiano poche possibilità di vivere.
Dopo aver dato alla luce due o più figli, le ragazze vengono poi spesso abbandonate dal marito che prende un'altra giovane in sposa.
Tuttavia solo cinque bambine su cento hanno il coraggio di denunciare le violenze subite.

Molte società di Paesi che hanno il problema dei matrimoni precoci, attribuiscono un grande valore alla verginità prima del matrimonio, e questo può dar luogo ad una serie di pratiche miranti a “proteggere” una ragazza da un’attività sessuale sconveniente. Di fatto, si tratta di un sistema di rigido controllo imposto ad essa.
Per esempio, può succedere che le venga impedito di avere relazioni sociali al di fuori della famiglia, oppure che le venga dettato quello che può e quello che non può indossare.

In altre società, come ad esempio in Africa nord-orientale, i genitori tolgono le loro bambine da scuola non appena queste iniziano ad avere le mestruazioni, temendo che il contatto con i compagni o con gli insegnanti di sesso maschile le esponga a dei rischi. Tutte queste pratiche hanno lo scopo di sottrarre la ragazza all’attenzione sessuale maschile, ed agli occhi di genitori preoccupati il matrimonio sembra offrire la “protezione” ideale.

In ulteriori società tradizionaliste non esiste il concetto di un periodo dell’adolescenza situato tra la pubertà e l’età adulta.  Una ragazza che ha le mestruazioni è in grado di partorire un figlio, e perciò viene considerata “una donna”.

In alcune culture, l’indipendente autoconsapevolezza che una ragazza può sviluppare durante l’adolescenza, viene considerata indesiderabile.
Anche se in questi casi le donne vengono magari (raramente) onorate, da loro ci si aspetta che si sottomettano ai desideri dei padri e dei mariti, mettendosi così sotto la loro protezione per il loro stesso bene.
Ne consegue che se non lo fanno, esse meritano una punizione: per esempio, in Kenya, la violenza contro una moglie disobbediente viene comunemente ammessa.



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venerdì 3 giugno 2016

BIMBI MORTI SUI SOCIAL



La Carta di Treviso è un documento che disciplina i rapporti tra informazione e infanzia. Il punto 7 recita: "nel caso di minori malati, feriti, svantaggiati o in difficoltà occorre porre particolare attenzione e sensibilità nella diffusione delle immagini e delle vicende al fine di evitare che, in nome di un sentimento pietoso, si arrivi ad un sensazionalismo che finisce per divenire sfruttamento della persona".

A scatenare i giudizi inquisitori sono i giochi di parole sui titoli.

Ma a rendere in parte "tavoletta di pietra" la Carta di Treviso, è una variabile con cui gli addetti ai lavori ancora non sono stati in grado di confrontarsi a dovere, ovvero la capacità della rete e dei social network di anticipare le notizie, il più delle volte sfuggendo al controllo dei tradizionali organi di informazione, che sono spesso costretti a inseguire. Con buona pace dei puristi, quando le foto sono pubblicate sui siti dei giornali, commentate e molte ore dopo stampate dalle rotative, sono ormai di dominio pubblico e la quasi totalità dei lettori le hanno già viste. Addio quindi sensazionalismo, pratica archiviata.

C'è bisogno che tutti vedano, soffrano e si scandalizzino se serve. Sappiamo che quelle foto narrano un tempo in cui le azioni degli uomini e dei loro governanti erano influenzate da convinzioni e ideologie ora estinte. Un tempo in cui anche le immagini diventavano icone, simboli, bandiere.

Quanto si prova a livello emozionale non può fare dimenticare che oltre quello scatto, prima e dopo, sono successi e accadono ogni ora episodi altrettanti simili.

Siamo sicuri che serve questa ulteriore prova di forza per ricordare la tragedia del mare, la condizione dei migranti, l'incapacità di dare risposte concrete su una terribile situazione che sta vivendo il mondo intero? Quelle immagini pubblicate dai giornali o le semplici foto dei bambini diventano oggetto di post sui social network. Quei bambini morti sono stati usati per ricordarci che esiste una nuova emergenza a cui nessuno sa dare risposte. Davvero tutti abbiamo riflettuto vedendole e cambieremo atteggiamento?

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lunedì 14 dicembre 2015

BAMBINI SOLDATI

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In diversi momenti della storia e in molte culture, i minori sono stati coinvolti in campagne militari anche quando la morale comune lo riteneva riprovevole. A partire dagli anni settanta sono state firmate numerose convenzioni internazionali allo scopo di limitare la partecipazione dei bambini ai conflitti; nonostante questo, sembra che l'utilizzo dei bambini soldato negli ultimi decenni sia in aumento.
In alcuni paesi africani, sudamericani o asiatici, i bambini soldato sono spesso soggetti a questo tipo di sfruttamento. A questi bambini, in alcuni casi, vengono somministrati degli stupefacenti, per poter interagire durante uno scontro senza che essi si arrendano mentre le bambine vengono spesso usate per scopi sessuali ma anche per cucinare, piazzare esplosivi, aprire la strada all'esercito sul campo minato perché possono essere rimpiazzate più facilmente, non devono essere pagate e non si ribellano.

In Afghanistan nonostante i progressi compiuti per porre fine al reclutamento e all'impiego di bambini nelle forze nazionali di sicurezza, i bambini continuano ad essere reclutati dalle parti in conflitto, quali la Haqqani Network e i talebani. Nei casi più estremi, i bambini sono stati usati come attentatori suicidi, per la fabbricazione di armi e per il trasporto di esplosivi.

Nella Repubblica Centrafricana ragazzi e ragazze di appena otto anni sono stati reclutati e utilizzati da tutte le parti coinvolte nel conflitto per prendere parte direttamente alle violenze inter-etniche e religiose.

Nella Repubblica Democratica del Congo le Nazioni Unite hanno documentato nuovi casi di reclutamento di bambini da parte di più gruppi armati che operano nella parte orientale del paese. I bambini, in alcuni casi, anche di 10 anni di età, sono stati reclutati e utilizzati come combattenti, o in funzioni di supporto, come facchini e cuochi. Le ragazze sono state usate come schiave sessuali o sono stati vittime di altre forme di violenza sessuale.

In Iraq e Siria gli avanzamenti dell'IS e la proliferazione di gruppi armati hanno reso i bambini ancora più vulnerabili al reclutamento. Bambini di 12 anni sono in fase di addestramento militare e sono stati usati come informatori, per presidiare i posti di blocco e per sorvegliare punti strategici. In alcuni casi, sono stati utilizzati come attentatori suicidi e per effettuare esecuzioni.

Sono più di 300.000 i minori di 18 anni attualmente impegnati in conflitti nel mondo.
Centinaia di migliaia hanno combattuto nell'ultimo decennio, alcuni negli eserciti governativi, altri nelle armate di opposizione. La maggioranza di questi hanno da 15 a 18 anni ma ci sono reclute anche di 10 anni e la tendenza che si nota è verso un abbassamento dell'età. Decine di migliaia corrono ancora il rischio di diventare soldati.

Il problema è più grave in Africa e in Asia ma anche in America e Europa parecchi stati reclutano minori nelle loro forze armate.

Negli ultimi 10 anni è documentata la partecipazione a conflitti armati di bambini dai 10 ai 16 anni in 25 Paesi. Alcuni sono soldati a tutti gli effetti, altri sono usati come "portatori" di munizioni, vettovaglie ecc. e la loro vita non è meno dura e a rischio dei primi.
Alcuni sono regolarmente reclutati nelle forze armate del loro stato, altri fanno parte di armate di opposizione ai governi; in ambedue i casi sono esposti ai pericoli della battaglia e delle armi, trattati brutalmente e puniti in modo estremamente severo per gli errori. Una tentata diserzione può portare agli arresti e, in qualche caso, ad una esecuzione sommaria.
Anche le ragazze, sebbene in misura minore, sono reclutate e frequentemente soggette allo stupro e a violenze sessuali. In Etiopia, per esempio, si stima che le donne e le ragazze formino fra il 25 e il 30 per cento delle forze di opposizione armata.

Anche nella storia passata i ragazzi sono stati usati come soldati, ma negli ultimi anni questo fenomeno è in netto aumento perché è cambiata la natura della guerra, diventata oggi prevalentemente etnica, religiosa e nazionalista. I "signori della guerra" che le combattono non si curano delle Convenzioni di Ginevra e spesso considerano anche i bambini come nemici. Secondo uno studio UNICEF, i civili rappresentavano all'inizio del secolo il 5 per cento delle vittime di guerra. Oggi costituiscono il 90 per cento.



L'uso di armi automatiche e leggere ha reso più facile l'arruolamento dei minori; oggi un bambino di 10 anni può usare un AK-47 come un adulto. I ragazzi, inoltre, non chiedono paghe, e si fanno indottrinare e controllare più facilmente di un adulto, affrontano il pericolo con maggior incoscienza (per esempio attraversando campi minati o intrufolandosi nei territori nemici come spie).

Inoltre la lunghezza dei conflitti rende sempre più urgente trovare nuove reclute per rimpiazzare le perdite. Quando questo non è facile si ricorre a ragazzi di età inferiore a quanto stabilito dalla legge o perché non si seguono le procedure normali di reclutamento o perché essi non hanno documenti che dimostrino la loro vera età.

Si dice che alcuni ragazzi aderiscono come volontari: in questo caso le cause possono essere diverse: per lo più lo fanno per sopravvivere, perché c’è di mezzo la fame o il bisogno di protezione. Nella Rep. Democratica del Congo, per esempio, nel '97 da 4.000 a 5.000 adolescenti hanno aderito all'invito, fatto attraverso la radio, di arruolarsi: erano per la maggior parte "ragazzi della strada".

Un altro motivo può essere dato da una certa cultura della violenza o dal desiderio di vendicare atrocità commesse contro i loro parenti o la loro comunità. Una ricerca condotta dall'ufficio dei Quaccheri di Ginevra mostra come la maggioranza dei ragazzi che va volontario nelle truppe di opposizione lo fa come risultato di una esperienza di violenze subite personalmente o viste infliggere ai propri familiari da parte delle truppe governative.

Per i ragazzi che sopravvivono alla guerra e non hanno riportato ferite o mutilazioni, le conseguenze sul piano fisico sono comunque gravi: stati di denutrizione, malattie della pelle, patologie respiratorie e dell'apparato sessuale, incluso l'AIDS.

Inoltre ci sono le ripercussioni psicologiche dovute al fatto di essere stati testimoni o aver commesso atrocità: senso di panico e incubi continuano a perseguitare questi ragazzi anche dopo anni. Si aggiungano le conseguenze di carattere sociale: la difficoltà dell'inserirsi nuovamente in famiglia e del riprendere gli studi spesso è tale che i ragazzi non riescono ad affrontarla. Le ragazze poi, soprattutto in alcuni ambienti, dopo essere state nell'esercito, non riescono a sposarsi e finiscono col diventare prostitute.

L'uso dei bambini soldato ha ripercussioni anche su gli altri ragazzi che rimangono nell'area del conflitto, perché tutti diventano sospettabili in quanto potenzialmente nemici. Il rischio è che vengano uccisi, interrogati, fatti prigionieri.

Qualche volta i bambini soldato possono rappresentare un rischio anche per la popolazione civile in senso lato: in situazioni di tensione sono meno capaci di autocontrollo degli adulti e quindi sono "dal grilletto facile".

Per quanto molti stati siano riluttanti ad ammetterlo, l'uso di bambini soldato può essere considerato come una forma di lavoro illegittimo per la natura pericolosa del lavoro. L'ILO riconosce che: "il concetto di età minima per l'ammissione all'impiego o lavoro che per sua natura o per le circostanze in cui si svolge porti un rischio per la salute, la sicurezza fisica o morale dei giovani, può essere applicata anche al coinvolgimento nei conflitti armati". L'età minima, secondo la Convenzione n° 138, corrisponde ai 18 anni.
Ricerche ONU hanno mostrato come la principale categoria di ragazzi che diventa soldato in tempo di guerra, sia soggetta allo sfruttamento lavorativo in tempo di pace.
La maggioranza dei bambini soldato appartiene a queste categorie:

ragazzi separati dalle loro famiglie (orfani, rifugiati non accompagnati, figli di single)
provenienti da situazioni economiche o sociali svantaggiate (minoranze, ragazzi di strada, sfollati)
ragazzi che vivono nelle zone calde del conflitto.
Chi vive in campi profughi è particolarmente a rischio di essere sfruttato da gruppi armati. Le famiglie e le comunità sono distrutte, i ragazzi sono abbandonati a se stessi e la situazione è di grande incertezza. I rifugiati sono così spesso alla mercé dei gruppi armati.

Un crimine ripugnante. Su tutto questo, che rappresenta una gravissima violazione dei diritti umani e un ripugnante crimine di guerra, è impegnata INTERSOS, l'organizzazione umanitaria che opera a favore delle popolazioni in pericolo, vittime di calamità naturali e di conflitti armati. L'Ong è stata fondata nel 1992 con il sostegno delle Confederazioni sindacali italiane, e fonda la sua azione sui valori della solidarietà, della giustizia, della dignità della persona, dell'uguaglianza dei diritti e delle opportunità per tutti i popoli, del rispetto delle diversità, della convivenza, dell'attenzione ai più deboli e indifesi.
   
Nonostante gli sforzi a livello internazionale, il problema dei bambini soldato è ancora vivo e drammaticamente in aumento. La Convenzione Internazionale dei Diritti dell'Infanzia e dell'Adolescenza, approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989, è il primo strumento internazionale che enuncia i diritti fondamentali che devono essere riconosciuti e garantiti a tutti i bambini e a tutte le bambine del mondo, insieme con gli obblighi degli Stati e della comunità internazionale nei confronti dell'infanzia. Nel 2002 entrò in vigore il Protocollo Opzionale alla Convenzione ONU sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza, che tratta il coinvolgimento dei minori nei conflitti armati: il Protocollo stabilisce che nessun minore di 18 anni può essere reclutato forzatamente o utilizzato direttamente nelle ostilità, né dalle forze armate di uno Stato né da gruppi armati. L'Italia ratifica il Protocollo Opzionale con la Legge n. 148 del 9 maggio 2002. Sebbene il Protocollo rappresenti un passo importante, non è ancora uno strumento giuridico completo e sufficiente. Infatti, per il reclutamento volontario negli eserciti regolari, non è imposto il limite minimo di 18 anni.
Con gli Impegni di Parigi del 2007, i rappresentanti di 58 paesi si impegnano a porre fine al reclutamento illegale di minori e ad assicurare che le procedure di arruolamento nelle forze armate siano conformi al diritto internazionale. Durante la conferenza vengono rivelati i Principi di Parigi (Paris Principles), una raccolta dettagliata di linee guida per la protezione dei minori dall'arruolamento, la riabilitazione fisica e psicologica di quelli vittime dei conflitti armati. A seguito dell'entrata in vigore del Protocollo Opzionale si sono registrati notevoli progressi per quanto riguarda l'arruolamento di minori, tuttavia il problema non è affatto superato.
Esistono alcuni strumenti normativi internazionali che nel tempo sono stati adottati per tutelare e proteggere i bambini coinvolti nei conflitti e associati ai gruppi armati.

* La Convenzione ONU sui diritti dell'infanzia del 1989, che mette al bando l'uso di minori di 15 anni nei conflitti armati e che impone agli Stati coinvolti di prendersi cura della riabilitazione psicologica e sociale dei minori coinvolti nelle guerre.

* La Carta Africana sui diritti e il benessere del bambino del 1990, rafforza la protezione prevista nella Convenzione dell'89. Nella Carta è previsto il rispetto da parte degli Stati contraenti delle leggi del diritto internazionale umanitario applicabile ai conflitti armati in cui sono coinvolti i minori, e che gli Stati prendano misure necessarie perché bambini non prendano parte diretta alle ostilità.

* Il Protocollo Opzionale sul coinvolgimento dei minori nei conflitti armati alla Convenzione sui diritti dell'infanzia del 2002, che porta a 18 anni l'età minima per l'arruolamento nelle forze armate.

* E ben 6 Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite (1999-2005), che richiamano gli Stati all'osservazione delle norme di diritto internazionale sulla protezione dei bambini nei conflitti, richiedono al Segretario Generale dell'ONU l'iscrizione nella black list degli Stati parti che usano minori per la guerra, riaffermano l'urgenza di programmi di smobilitazione e disarmo, di percorsi di reinserimento e riabilitazione.


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sabato 7 novembre 2015

BASTA ALCOOL!!!!!!

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Somministrare bevande alcoliche a chi manifesta una chiara ubriachezza è punito con l’arresto da 3 mesi a un anno. Inoltre, se il somministratore è l’esercente un’osteria o altro esercizio autorizzato allo spaccio di cibi e bevande è prevista anche la sanzione della sospensione dell’attività. Ciò indipendentemente dalla entità della sanzione principale. Lo ha precisato la Corte di Cassazione in una sentenza.

Il barman, quindi, sarà chiamato a stare molto attento a quanti cocktail serve alla stessa persona, poiché, qualora questa abbia già chiari ed evidenti sintomi di ubriachezza, ad andarci di mezzo sarà il locale.

La sospensione dell’attività ha una durata minima di 15 giorni e una massima di due anni. È una misura che può avere forti ripercussioni su una attività commerciale, costretta  a rimanere inattiva ed avendo spesso, come risultato, la definitiva chiusura del locale.

Oltre a ciò, è vietata la vendita e la somministrazione di alcolici anche ai minori di 18 anni. Questo divieto si rivolge sia ai negozianti (che svolgono attività di vendita) che alle attività come pub, bar, ristoranti e discoteche (che invece svolgono attività di somministrazione). Lo ha precisato il Ministero dello Sviluppo Economico con una specifica risoluzione.

Il Ministero ha chiarito che rimane sempre fermo il generale divieto di mettere a disposizione dei minori degli anni 18 bevande alcoliche. Ragion per cui non ha rilevanza che l’adolescente consumi sul posto (ad esempio in discoteca o in un bar) oppure possa comprare per poi consumare altrove (ciò che succede per un acquisto in negozio).

È possibile riepilogare la materia nel seguente modo:
– è vietato vendere e somministrare sul posto bevande alcoliche a minori degli anni 18;
– nel caso di vendita di bevande alcoliche a minori degli anni 18, è prevista una sanzione pecuniaria da 250 a 1.000 euro;
– la somministrazione di bevande alcoliche a minori degli anni 16 è punita con la sanzione dell’arresto fino a un anno;
– la somministrazione di bevande alcoliche a minori degli anni 18, ma maggiori degli anni 16, è punita con la sanzione pecuniaria da 250 a 1.000 euro.

Anche in questi casi è prevista la sospensione dell’attività.

Della somministrazione di bevande alcoliche a minori o infermi di mente non è responsabile solo il titolare dell’esercizio, ma anche chi lo gestisce per lui: pure i dipendenti, pertanto, ne risponderanno penalmente e personalmente.

L'Articolo 689 codice penale vieta la vendita per asporto e la somministrazione di bevande alcoliche a:
minori degli anni 16
persona che appaia affetta da malattia di mente
persona che si trovi in condizioni di manifesta deficienza psichica a causa di altra infermità.



Il ministero dell’Interno ha chiarito che il divieto non riguarda la sola somministrazione, ma anche la vendita per asporto e pertanto le bevande alcoliche non possono essere consegnate nemmeno in confezione a chi ha meno di 16 anni.

In ordine all’accertamento dell’età del cliente la Corte di Cassazione con una sentenza ha ritenuto che in caso di incertezza sull’età del ragazzo sia necessario richiedere un documento di riconoscimento, non essendo sufficiente basarsi sulle dichiarazioni dell’interessato e pertanto commette il reato previsto dal medesimo articolo l’ esercente che serve o vende alcolici ad un minore di anni 16 anche se questi, o chi lo accompagna o ne ha la patria potestà, dichiari di avere una età superiore.

La condanna importa, nel caso di pubblici esercizi, la perdita dei requisiti di onorabilità (art. 92 TULPS) in capo al reo alla quale segue la revoca delle licenza se trattasi del titolare, nonché la sospensione dell’esercizio fino ad un massimo di due anni anche se il reato è commesso da un dipendente, mentre se trattasi di cessioni effettuate dalle altre categorie commerciali la pena accessoria è la sospensione dell’esercizio fino a due anni non essendo tali esercenti tenuti al possesso dei requisiti soggettivi previsti all’articolo 92 del TULPS e dalle altre leggi sulla somministrazione.

Trattandosi di responsabilità personale per configurarsi il reato è necessario che vi sia una condotta dell’esercente, o di un suo commesso, direttamente collegabile alla violazione della norma: in altre parole è necessario che sia l’esercente a consegnare la bevanda alcolica al minore non ritenendosi che il servire una bottiglia di vino ad un tavolo occupato da maggiorenni e minorenni possa configurare una fattispecie delittuosa. Diverso il caso in cui al medesimo tavolo si ordini un numero di consumazioni alcooliche pari a quello delle persone presenti. In tal caso scatta il divieto di servire chi non dimostra (o con l’aspetto o con i documenti) di avere più di 16 anni.

Va da sé che la richiesta dell’esibizione del documento atto a comprovare il superamento degli anni 16 non è una violazione della privacy, ma una condizione da soddisfare per poter usufruire delle prestazione richiesta.

Alla luce della applicabilità del divieto alla attività di vendita si deve ritenere che non sia legittima nemmeno la distribuzione (sia essa vendita che somministrazione) di alcolici con distributori automatici.

Articolo 691 codice penale Somministrazione di bevande alcoliche a persone in stato di manifesta ubriachezza.

L’articolo punisce chiunque somministra (o comunque fornisce) bevande alcoliche ad una persona in stato di manifesta ubriachezza. Se il colpevole è un esercente la condanna comporta la sospensione dell’esercizio fino a 2 anni, la perdita dei requisiti di onorabilità (art. 92 TULPS, L. 287/1991, leggi regionali) alla quale segue la revoca della licenza.

La “manifesta ubriachezza” è cosa ben diversa dalla ebbrezza (annebbiamento delle facoltà mentali che, tra l’altro, rende inabili alla guida di veicoli).

L’ubriachezza è qualcosa di più: è la temporanea alterazione mentale conseguente ad intossicazione per abuso di alcol (i medici usano il termine “intossicazione esogena acuta”) e si manifesta con il difetto della capacità di coscienza ed alcune volte in forma molesta.

Per aversi la ubriachezza manifesta, il comportamento in pubblico del soggetto attivo deve denunciare inequivocabilmente l’ubriachezza in modo che questa sia percepita da chiunque, con sintomi del tipo: alito fortemente alcolico, andatura barcollante, pronuncia incerta o balbettante.

Per aversi la condotta illegittima basta che l’ubriachezza sia palese, dia segni manifesti e non equivoci.

L’esercente, pertanto, non deve servire alcolici a chiunque si trovi in tale stato. Naturalmente non gli si può addebitare un comportamento antigiuridico se porta una bottiglia di alcolici ad un tavolo ove siede un ubriaco: il reato lo commette chi materialmente gli offre da bere.

Da tenere presente che l’articolo 187 del regolamento di esecuzione del TULPS , che impone agli esercenti di non rifiutare le proprie prestazioni a chi si offra di pagarne il prezzo, prevede in modo esplicito che tale obbligo non vale per i casi disciplinati dagli illustrati articoli del Codice Penale.

Più difficile “alzare il gomito” in terra francese. In arrivo il divieto di vendita di alcolici ai minori di 18 anni (oggi il limite è a 16) ma, soprattutto, la fine degli open bar, in voga soprattutto per l’ora dell’aperitivo, che permettevano il consumo illimitato di alcol a prezzo forfettario. Un’abitudine che facilita il “binge drinking”, bere solo per ubriacarsi, una pratica diffusa tra i più giovani. L’Italia invece, insieme ad Albania, Armenia, Bosnia-Erzegovina, Israele, Kyrgystan, Lussemburgo e Malta, è uno dei pochi Paesi in cui non vige il divieto di vendita ai minori. Vero è che è fatto divieto ai gestori di somministrare alcolici ai minori di 16 anni e le sanzioni per chi sgarra sono pesanti. Secondo quanto previsto dall’articolo 689 del codice penale, l’esercente che somministra bevande alcoliche a un minore di 16 anni rischia la sospensione della licenza, oltre a una pena pecuniaria da 516 a 2.582 euro. Stesse sanzioni per chi somministra alcolici a persone in manifesto stato di ubriachezza (art. 691 c.p.). E la pena è applicabile anche se al momento del servizio il gestore è assente.




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domenica 11 ottobre 2015

LE COMUNITA' PROTETTE

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La legge 8 novembre 2000 n. 328 all’art. 11 stabilisce che:

« i servizi e le strutture a ciclo residenziale e semiresidenziale sono autorizzati dai comuni. L'autorizzazione è rilasciata in conformità ai requisiti stabiliti dalla legge regionale, che recepisce e integra, in relazione alle esigenze locali, i requisiti minimi nazionali. »
I requisiti strutturali e organizzativi di tali strutture sono contenuti nel decreto ministeriale del Ministro per la Solidarietà Sociale del 21 maggio 2001 n. 308. Esso all’art. 3 stabilisce che le comunità che accolgono anziani, disabili, minori o adolescenti, adulti in difficoltà per i quali la permanenza nel nucleo familiare sia impossibile o contrastante con il progetto individuale:

« devono possedere i requisiti strutturali previsti per gli alloggi destinati a civile abitazione. Per le comunità che accolgono minori, gli specifici requisiti organizzativi, adeguati alle necessità educativo-assistenziali dei bambini e degli adolescenti, sono stabiliti dalle regioni. »
Comunità di accoglienza per minori si occupano dell'accoglienza di minori «per interventi socio-assistenziali ed educativi integrativi o sostitutivi della famiglia». La legge 28 marzo 2001 n. 149 (""Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, recante «Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori», nonché al titolo VIII del libro primo del codice civile"") stabilisce infatti che il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo, nonostante gli interventi di sostegno e aiuto, è affidato ad una famiglia.

Vengono affidati alle comunità di accoglienza anche i minori che per incuria, maltrattamento, abuso e inadeguatezza dei genitori naturali vengono minori fuori famiglia. Accolgono, inoltre, i minorenni autori di reato con progetti in alternativa alla pena detentiva e i bambini, ospitati fino al 31 dicembre 2006, negli orfanotrofi.



Molti ricorderanno quanto fosse vivo, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, il dibattito culturale in Italia sulla necessità di orientare i servizi socio sanitari, come li chiameremmo oggi, verso la promozione e lo sviluppo della persona umana ,la tutela dei suoi diritti e come si discutessero i problemi delle istituzioni totali.
Quel dibattito ha comunque avuto grandi meriti, al di là delle contraddizioni ancora attuali, e ha prodotto importanti risultati in ambito sanitario e in ambito educativo – assistenziale.
In ambito sanitario la L. 180 sintesi del recupero del diritto alla salute e della dignità e centralità della persona ;
in ambito sociale assistenziale, educativo – (vorrei aggiungere riparativo, riabilitativo):
– ha permesso un graduale passaggio dalle strutture di grandi dimensioni a strutture più piccole che facilitassero i rapporti, non più gerarchici ed autoritari, ma educativi e d’aiuto.
– nell’ambito dei minori ai grandi istituti dove il disagio, la sofferenza, le carenze, l’annullamento della personalità erano garantiti, soprattutto se il soggiorno era di lunga durata  si sono sostituiti le Comunità di piccole dimensioni.
I cambiamenti successivi sono stati molti e radicali:
– le Comunità sono diventate degli alloggi, delle case inserite nel territorio: non più grandi strutture isolate dal mondo ma nuclei inseriti in un contesto reale che mette gli utenti nella condizione di poter interagire con l’ambiente circostante;
– sono cambiati  gli educatori. Si è passati da educatori “spontanei”, magari chiamati a tale missione da ideali religiosi, sociali e politici, a degli educatori “professionali”, preparati ed in grado di intervenire progettualmente in una relazione d’aiuto
Hanno avuto un grande impulso sia teorico che pratico l’adozione e l’affido famigliare.

La Comunità è un luogo educativo ambivalente, protetto ed esposto, al tempo stesso. E’ quindi coinvolto in dinamiche, interne ed esterne, molto differenti che ne condizionano le modalità d’intervento e d’esistenza.
Luogo “protetto”: perché il suo scopo resta quello di accogliere e proteggere, tutelare dei bambini in crisi, dei bambini in difficoltà offrendo loro uno spazio alternativo alla famiglia perturbata e/o perturbante quando non destrutturante.
Ma è anche un luogo “esposto”, a rischio. Non è un vaso ermetico: ma è un alambicco comunicante. Ed in quanto tale inserito, suo malgrado, in un contesto.
Il contesto non è soltanto quello sociale, ma è rappresentato anche dalle aspettative degli attori del sistema stesso.
I bambini, in primo luogo, si attendono delle cose, si immaginano la comunità in un certo modo: di solito non tanto bene. Molti pensano di essere lì per “punizione”, altri hanno ben chiaro che si tratta di un “passaggio”, tutti chiedono, in maniera più o meno conscia, una forma di “protezione”.
Poi ci sono i genitori: alcuni accettano la Comunità di buon grado per vari motivi,  altri che l’attaccavano ferocemente perché la ritenevano il peggiore dei lager, specie quando era là a testimoniare della loro incapacità “genitoriale”.
Poi ci sono anche gli operatori: i giudici, gli assistenti sociali, i tecnici, gli psicologi, i neuropsichiatri, gli stessi educatori.
Ogni Comunità  ha  un suo universo di riferimento, un modello di funzionamento: questo è un piano del discorso non sempre chiaramente esplicitabile ed esplicitato da chi la gestisce ;se si inizia da un contesto aperto penso che sia un buon inizio,segnale  che il modello cui si pensa è una figura processuale, una costellazione dinamica, una struttura in movimento.
Le comunità sono tanto cambiate ed ancora cambieranno. Dovranno cambiare se si parte dai bisogni dei bambini, dei ragazzi  sotto il segno della problematicità, della ricerca, della logica induttiva che definisce la Comunità come uno spazio temporaneo di convivenza, che è una cosa ben diversa dall’istituto, dall’ospedale, dalla scuola, dalla famiglia, ma che però, essendo un luogo più complesso, può partecipare degli aspetti positivi di quegli altri modelli. E’ importante che in una Comunità ci sia capacità di contenimento, che ci sia familiarità, che ci sia organizzazione dell’attività, che ci sia cura ed aiuto per la persona, che ci sia affettività ed emozione.



La Comunità come spazio temporaneo di convivenza. La comunità come “luogo di vita”, nodo di un percorso individuale (per il minore accolto) che si fa carico delle contraddizioni della quotidianità, che entra, con coraggio e discrezione, nel vivo del disagio.
Un luogo di vita quotidiana, coi suoi riti e le sue sorprese con la consapevolezza che  la costruzione di questo clima subisce “attentati” continui, la fragilità dei risultati raggiunti è evidente, i fallimenti, le frustrazioni sono un ingrediente inevitabile.

Accettare le “avventure del quotidiano” significa, al contrario, restare all’interno di una prospettiva di “probabilità/possibilità” e vedere il minore come soggetto portatore di una storia personale originale, complessa ed in evoluzione; significa essere disposti a mettere in discussione le proprie certezze e premesse in funzione delle risposte e delle attese dei bambini; costruire continuamente nuove cornici, nuove possibilità di percepire l’altro, nuovi punti d’osservazione; significa sforzarsi di cogliere le differenze, le risorse positive del minore evitando risposte stereotipate e rigide.
In ambito metodologico clinico, questo atteggiamento significa  passare  dalla  cura  come soluzione ottimale di natura “tecnico-scientifica”, al  “prendersi cura di..”.

Quella stessa complessità che, in molti casi, è alla base del disagio delle  famiglie d’origine e della stessa sofferenza personale dei minori E’ la fatica di reggere il gioco della flessibilità dei percorsi, delle scelte, degli atteggiamenti in un contesto disgregato che occorre fronteggiare.

La complessità delle situazioni, la varietà, la multiproblematicità, la  continua trasformazione socio-economica e culturale richiedono risposte più articolate.

La Comunità dovrebbe rappresentare un nodo intermedio tra un “prima” ed un “dopo. E non uno “spazio sospeso”, un eterno presente, tanto rassicurante per i Servizi finché non esplode per eccesso di compressione.
I bambini, indipendentemente dalla gravità del loro caso, percepiscono la Comunità come soluzione temporanea: essi si interrogano sul loro futuro ed hanno bisogno di prospettive.
La temporaneità della permanenza del minore è dunque condizione essenziale per assolvere alla funzione di affidamento.

All’interno di ciascuna Comunità opera una ÉQUIPE di EDUCATORI che accompagna e condivide la quotidianità degli ospiti. Ogni quindici giorni si riunisce per programmare e organizzare il lavoro educativo.

L’attività degli educatori all’interno della Comunità è coordinata da un RESPONSABILE DI COMUNITA’, con compiti di indirizzo e sostegno al lavoro degli educatori. Spetta inoltre al Responsabile favorire i rapporti tra l’Équipe educativa e le altre figure di riferimento educativo, affettivo ed istituzionale.

L’ Èquipe educativa, per adempiere al meglio nel suo ruolo, si avvale della competenza di un SUPERVISORE (Psicologo) che si occupa di:

aiutare gli educatori nella comprensione della personalità dei Minori ospiti;
aiutare gli educatori nella gestione dei rapporti tra gli stessi e con i ragazzi;
offrire un contributo nella progettazione educativa;
fornire indicazioni ed elementi per il miglioramento della qualità del servizio offerto;
valutare con il Responsabile le esigenze di formazione interna e progettare il piano di formazione del personale;
partecipare alla valutazione delle richieste di inserimento;
seguire, quando previsti, ulteriori interventi educativi concordati dal Responsabile con i Servizi invianti per il raggiungimento degli obiettivi previsti dal P.E.I.
La valutazione di una richiesta di inserimento di un Minore fa carico all’ ÉQUIPE di ACCOGLIENZA composta da: il Responsabile, il Supervisore, il Presidente dell’Associazione o altro membro della stessa. L’autorizzazione all’inserimento di un minore in Comunità viene rilasciata dal Presidente.
Infine all’interno dell’Associazione c’è una FIGURA AMMINISTRATIVA che svolge le pratiche burocratiche e amministrative ed opera affinché vengano rispettate tutte le norme vigenti che regolamentano le Comunità e l’Associazione stessa.



Tuttavia i minori non sempre solo al sicuro nelle mure di una comunità. Abusando della sua qualità di educatrice addetta alla custodia di una comunità alloggio per minori con disturbo del comportamento, compiva atti sessuali - dicono i magistrati - con un ragazzo di età inferiore ai 16 anni, ospite della comunità. E' il terzo fermo di operatori di alcune comunità dell'Agrigentino da inizio luglio, sempre per lo stesso reato. I fatti contestati alla donna si sono verificati, secondo l'accusa, dal gennaio allo scorso 12 maggio. Poi ci sono casi di ragazzi che fuggono e tornano strafatti,ragazzi che vengono picchiati dagli educatori che non vengono licenziati ma viene trasferito il minore. Casi che il minore si rifiuta di andare a scuola e viene assecondato rischiando in seguito la bocciature per assenze ingiustificate: se lo avrebbe fatto una mamma sarebbe stata denunciata. Bambini che iniziano a fumare dove il fumo non dovrebbe esistere. Ragazzi un po' più grandicelli ma sempre minori che in libera uscita rientrano ubriachi e la cosa continua a ripetersi. In questi casi dove sono i sociali? Quindi i bambini subiscono violenze fisiche e psichiche e i loro diritti violati.

Dal settembre 2009 al maggio 2013 giudice presso il Tribunale dei minorenni di Bologna, Morcavallo ne ha visti tanti, di quei drammatici percorsi che iniziano con la sottrazione alle famiglie e finiscono con quello che lui definisce l’«internamento» (spesso per anni) negli istituti e nelle comunita` governati dai servizi sociali. Da magistrato, Morcavallo ha combattuto una guerra anche culturale contro quello che vedeva intorno a se´. Ha tentato di correggere comportamenti scorretti, ha cercato di contrastare incredibili conflitti d’interesse. Ha anche denunciato abusi e qualche illecito. E` stato a sua volta colpito da esposti, e ne e` uscito illeso, ma poi non ce l’ha fatta e ha cambiato strada: a 34 anni ha lasciato la toga e  fa l’avvocato a Roma, nello studio paterno. Si occupa di societa` e successioni. E anche di diritto della famiglia, la sua passione. Il suo racconto:

"Le nostre impostazioni erano troppo diverse: io sono sempre stato convinto che l’interesse del minore debba prevalere, e che il suo restare in famiglia, la` dov’e` possibile, coincida con questo interesse. E` la linea «meno invasiva», la stessa seguita dalla Corte costituzionale e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Gli altri giudici avevano idee diverse dalle mie, erano per l’allontanamento, quasi sempre.
Nella stragrande maggioranza dei casi si trattava di allontanamenti dalle famiglie per motivi economici o perche´ i genitori venivano ritenuti «inadeguati».



Basta che arrivi una segnalazione dei servizi sociali; basta che uno psicologo stabilisca che i genitori siano «troppo concentrati su se stessi». In molti casi, e` evidente, si tratta di vicende strumentali, che partono da separazioni conflittuali. Il problema e` che tutti gli atti del tribunale sono inappellabili perche´ si tratta di provvedimenti formalmente «provvisori». L’allontanamento dalla famiglia, per esempio, e` per sua natura un atto provvisorio. Cosi`, anche se dura anni, per legge non puo` essere oggetto di una richiesta d’appello. Insomma non ci si puo` opporre; nemmeno il migliore avvocato puo` farci nulla.
Dove si trattava di presunte violenze, una quota comunque inferiore al 5 per cento, io ho visto che molti casi si aprivano irritualmente a causa di lettere anonime. Era il classico vicino che scriveva: attenzione, in quella casa molestano i figli. Non c’era nessuna prova. Ma i servizi sociali segnalavano e il tribunale allontanava. Un arbitrio e un abuso grave, perche´ una denuncia anonima dovrebbe essere cestinata. Invece bastava a giustificare l’affido. Del resto, se si pensa che molti giudici onorari erano e sono in conflitto d’interesse, c’e` di che capirne il perche´.
Sono psicologi, sociologi, medici, assistenti sociali. Che spesso hanno fondato istituti. E a volte addirittura le stesse case d’affido che prendono in carico i bambini sottratti alle famiglie, e proprio per un’ordinanza cui hanno partecipato.

Certi fanno 20-30 udienze a settimana e incassano le parcelle del tribunale, ma intanto lavorano anche per gli istituti, le cooperative che accolgono i minori. E` un business osceno e ricco, perche´ quasi sempre bambini e ragazzi vengono affidati ai centri per mesi, spesso per anni. E le rette a volte sono elevate: ci sono comuni e aziende sanitarie locali che pagano da 200 a oltre 400 euro al giorno. Diciamo che il business e` alimentato da chi ha tutto l’interesse che cresca.
 Ovviamente c’e` chi lavora in modo disinteressato. Pero` il fenomeno si alimenta allo stesso modo per tutti. I tribunali dei minori non scelgono dove collocare i minori sottratti alle famiglie, ma guarda caso quella scelta spetta ai servizi sociali. Comunque la crescita esponenziale degli affidi e delle rette e` uguale per i buoni come per i cattivi. E c’e` chi ci guadagna.

In Italia non esiste nemmeno un registro degli affidati, come accade in quasi tutti i paesi occidentali.

Sono almeno 50 mila i minori affidati: credo costino 1,5 miliardi l’anno. Forse di piu`."



Ogni ospite che risiede in una casa-famiglia costa dai 70 ai 120 euro al giorno. La retta agli istituti (sia religiosi sia laici) viene pagata dai Comuni. Soldi pubblici, dunque. Erogati fino a quando il bambino resta "in casa". Un giro d'affari che si aggira intorno a 1 miliardo di euro l'anno. Tanto ricevono le oltre 1800 case famiglia italiane per mantenere le loro "quote" di minori. Ma un bambino assegnato a una coppia è una retta in meno che entra nelle casse della comunità. E così, purtroppo, si cerca di tenercelo il più a lungo possibile. La media è 3 anni. Un'eternità. Soprattutto se questo tempo sottratto alla vita familiare si colloca nei primi anni di vita. Quelli della formazione, i più importanti per il bambino.

Anche da qui si capisce perché migliaia di coppie restano in biblica attesa che le pratiche per l'adozione o l'affido si sblocchino. Poi ovviamente ci sono anche altri fattori, la maggior parte dei quali legati alle lungaggini e alle complicazioni burocratico-giudiziarie.

Da dove nasce questo cortocircuito? Chi lucra sulla pelle di migliaia di bambini e adolescenti che provengono da situazioni difficili, molto spesso drammatiche? "

Il destino più comune per un bambino che cresce in una casa famiglia è quello di diventare un pacco. Sballottato di qua e di là, da una comunità all'altra. A volte i centri se li contendono come merce preziosa. Perché con un minore "in casa" ogni giorno piovono dal cielo rette da 70 euro a 120. Una "diaria" di cui si fa un utilizzo non esattamente "pieno". Operatori laici o suore riescono a contenere le spese facendole stare abbondantemente dentro la retta concessa dai Comuni. Quello che resta diventa liquidità a disposizione della struttura (molte case famiglia vengono mantenute con fondi messi a disposizione dal ministero della famiglia e anche grazie a donazioni private).

Quante sono le case famiglia in Italia? Chi controlla il loro operato, anche amministrativo? Le stime più recenti parlano di oltre 1800 strutture distribuite da Nord a Sud. Con alcune regioni - Emilia Romagna, Lazio, Lombardia, Sicilia - che raggiungono numeri più consistenti (tra le 250 e le 300). Nonostante le casse (e i relativi finanziamenti) di molti Comuni siano al verde, le case-famiglia sono in continuo aumento. Il problema è che non esiste un monitoraggio. Si conosce pochissimo di questi posti e di quello che accade all'interno. Numeri, casi, situazioni, problemi, nella maggior parte dei casi vengono portati all'esterno solo grazie alla sensibilità di qualche operatore e/o assistente sociale. Perché una banca dati c'è ma è insufficiente e non esiste un vero censimento.

Buio pesto anche sul fronte delle verifiche. "Lo Stato paga le comunità ma nessuno chiede alla comunità una giustifica delle spese - aggiunge Lino D'Andrea - . Sarebbe utile che ogni casa-famiglia rendesse pubblica le modalità con cui vengono utilizzati i fondi: quanto per il cibo, quanto per il vestiario, quanto per gli psicologi o le varie attività. Il punto è che, in assenza di informazioni, i bambini stanno in questi posti e nessuno gli fa fare niente. Non crescono, non vivono la vita, non incontrano amici, non fanno sport né gite".

Gli orfanotrofi non sono ancora scomparsi del tutto. Alcuni sono stati convertiti in case-famiglia: anche due o tre comunità nello stesso edificio. Una per piano. Poi le altre storture. Nel libero mercato delle comunità per minori abbandonati, c'è chi, per essere competitivo, abbatte la diaria giornaliera fino a ridurla a 30-40 euro. Teoricamente più la abbassi e più bambini riesci a far confluire nella tua struttura attraverso l'input dei servizi sociali che, a cascata, agiscono su indicazione del tribunale.

Altra nota dolente, i tribunali. Solo nel tribunale di Milano, ogni anno si accumulano 5 mila fascicoli relativi a famiglie disagiate con a carico almeno un minore. "I magistrati non riescono a seguire la pratiche perché i ragazzi raramente sono seguiti dal territorio di competenza - ragiona un operatore dell'infanzia - . La maggior parte sono parcheggiati in un posto senza che nessuno lo segua davvero".

Le storie che vengono a galla compongono un campionario da fare accapponare la pelle. Ma se si prova a restare lucidi, si capisce come ogni vita congelata o sfilacciata, ogni odissea che abbia per protagonista un bambino "di nessuno" si deposita sullo stesso fondo di mala amministrazione. "Le case-famiglia sono una risorsa importante per il reinserimento del minore - spiega l'avvocato Andrea Falcetta, di Roma - ma la permanenza di un bambino va gestita con cura e deve rispondere a un unico criterio: trovargli il prima possibile una collocazione familiare".





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lunedì 5 ottobre 2015

MINORI E SOCIAL NETWORK

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Non passa giorno senza che i nostri bimbi facciano qualcosa che meriti di essere immortalato con il vostro smartphone: la prima parola, il primo disegno comprensibile, la faccia imbrattata di omogeneizzato. Nell’ansia di cristallizzare ogni momento si scattano foto, si registrano video che poi, senza pensarci troppo, condividiamo su Facebook e su altri social network.

Un numero crescente di genitori americani negli ultimi mesi, ha cominciato a togliere immagini, filmati e informazioni sui propri figli dal social network più famoso del mondo. Secondo questi genitori archiviare l’esperienza di genitore su Facebook può risultare controproducente per una serie di motivi.

Le immagini, i video e le informazioni (compleanno, feste scolastiche etc.) espongono la prole a qualsiasi genere di malintenzionato, che con un paio di click può essere in grado di sapere che faccia  ha il bimbo e dove va a scuola.

Non è dato sapere con esattezza come il social network utilizzerà l’immagine e le informazioni dei bambini.
Non è detto che il bambino sarà entusiasta, una volta raggiunta l’età per iscriversi a Facebook, di sapere che frammenti della sua imbarazzante infanzia sono stati dispersi ai quattro venti della rete.

Ma se da un lato il numero di genitori accorti sta crescendo, dall’altro la fetta di chi condivide materiale sui propri figli a tutto spiano rimane grande. Stando a una ricerca condotta nel 2011 dal University of Michigan's Institute for Social Research, il 66% dei genitori americani nati tra gli anni ’60 e ’70 condivide senza remore la vita dei propri bambini online.



Naturalmente, Facebook mette a disposizione una serie di strumenti che dovrebbero consentire di mantenere un controllo effettivo sui contenuti condivisi, ma alcuni genitori non si fidano.

Volendo guardare come lo scandalo NSA ha influito sui sistemi di messaggistica, è ragionevole immaginare che, se questa tendenza continua ad aumentare, presto spunteranno nuovi social network che promettono una privacy blindata, studiati su misura per i genitori più premurosi.

PUBBLICARE le foto dei propri bambini su Facebook o comunque su Internet è pericoloso e sconsigliabile, almeno secondo Valentina Sellaroli, Pubblico Ministero presso il Tribunale per i minorenni di Torino con competenza su Piemonte e Valle d'Aosta. Anche se la nuova funzione Scrapbook del noto social network sembra migliorare l'attuale situazione sarebbe bene essere a conoscenza di quali sono i rischi.

Scrapbook (trad. "album") sarà disponibile a breve negli Stati Uniti e più avanti probabilmente negli altri paesi. Si tratta di un gestore di foto che organizza in maniera più efficiente tutti i propri scatti sfruttando specifici TAG. "Se scegli di taggare tuo figlio in una foto questa sarà aggiunta in un album personalizzabile", "E le foto che decidi di taggare potranno essere condivise con i tuoi amici o gli amici della tua compagna/o".

In pratica la condivisione è più restrittiva a garanzia della propria privacy, come d'altronde consente anche la pagina Facebook principale  -  se non costringesse a perdere la testa dietro alle opzioni di personalizzazione. Dopodiché il TAG può essere effettuato solo dai genitori e non da amici o estranei. Il rischio di esporsi a situazioni rischiose però non cambia.

"Il primo invito alla prudenza viene banalmente dalla diffusività del mezzo. Pubblicare su internet la foto dei propri bambini è di per sé atto che potenzialmente può raggiungere un numero di persone, conosciute e non, indiscutibilmente più ampio che non il semplice gesto di mettere la foto dei propri figli più o meno in mostra sulla propria scrivania", sottolinea il PM Sellaroli.



"Significa, cioè, esporli realisticamente ad un numero esponenzialmente maggiore di persone che possono anche non avere buone intenzioni e magari interessarsi a loro in maniera poco ortodossa. Non è così frequente ma neppure irrealistico il rischio che persone di questo genere (genericamente pedofili o persone comunque interessate in modi non del tutto lecite ai bambini) possano avvicinarsi ai nostri bambini dopo averli magari visti più volte in foto online".

Esiste anche una seconda preoccupazione che nasce da condotte criminose anche più frequenti. "Quelle di soggetti che taggano le foto di bambini online e, con procedimenti di fotomontaggio più o meno avanzati, ne traggono materiale pedopornografico di vario genere, da smerciare e far circolare tra gli appassionati", prosegue il sostituto procuratore della Repubblica, Valentina Sellaroli.

"Questo genere di condotta non è affatto così infrequente nella realtà, specie se parliamo non di singoli 'appassionatì del genere ma di circoli e giri di pedopornografici che producono immagini di questo tipo per uno scopo di lucro o comunque per un interesse personale di scambio su larga scala. Si pensi infatti al valore aggiunto che hanno immagini moltiplicate più e più volte a partire dagli stessi bambini reali (e dunque senza troppi rischi materiali) ma giungendo ad ottenere un numero assai significativo di immagini pedopornografiche che sembrano 'nuove' e dunque più appetibili". Da sottolineare che anche la pratica del fotomontaggio è punita come quella di coloro che producono queste foto con bambini reali e "non sempre serve che le pose siano sessualmente lascive o esplicite, come veniva richiesto un tempo".

"Infatti la legge di ratifica della Convenzione del Consiglio d'Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l'abuso sessuale (cd. Convenzione di Lanzarote), nel 2012, ha modificato la norma del nostro codice penale che punisce la pedopornografia minorile introducendone una nozione esplicita". "Per la prima volta: si intende ogni rappresentazione, con qualunque mezzo di un minore degli anni diciotto coinvolto in attività sessuali esplicite, reali o simulate, o qualunque rappresentazione degli organi sessuali di un minore degli anni diciotto per scopi sessuali".

Come spiega in dettaglio il Pubblico Ministero la decisione quadro del Consiglio Europeo n. 2004/68/GAI del 22.12.03, relativa alla lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini, esplicitamente intendeva per pornografia infantile anche, all'art. 1 n. 3 "immagini realistiche di un bambino inesistente implicato o coinvolto nella suddetta condotta". "È punita dunque anche la realizzazione virtuale di una immagine che veda bambini o comunque minorenni coinvolti in immagini esplicite (ove per esplicito potrebbe bastare anche la nudità degli organi sessuali) utilizzate per scopi sessuali da chi le produce, le cede, le riceve o le detiene".

Infine da rilevare un altro rischio che riguarda i casi di adozione o di affidamento di bambini allontanati da famiglie pericolose, maltrattanti o abusanti. "Se il bambino era già abbastanza grande quando è stato allontanato, rischiano di avere un canale di ricerca in più per raggiungere i bambini e le loro nuove famiglie che così non possono più essere tutelati nella loro riservatezza ed anche nella incolumità personale", conclude il pubblico ministero Sellaroli.


Questi genitori non hanno idea del funzionamento del social network. Forse non sanno che, se non cambiano le loro opzioni sulla privacy, chiunque, compresi pedofili, potranno vedere le foto dei loro figli. Inoltre molti di loro condividono altre informazioni che potrebbero mettere in pericolo i propri figli. Indirizzi, targhe di auto, nome della scuola. Sapranno inoltre che le immagini, una volta inserite su Facebook, appartengono al social network? Che potrebbe usarle come meglio crede?

Esempio pratico: Sono un pedofilo, e siccome adescare bambini per strada non è molto sicuro, li cerco online. Facebook è pieno di account di bambini, molti di loro hanno il profilo pubblico. In più mi aiutano i loro genitori. Oggi è il primo giorno di scuola, quindi su Facebook è la “fiera del bambino”, uso le tre parole chiave e mi appaiono centinaia di foto, collegate ad altrettanti profili pubblici. Individuo un bambino della mia città (poniamo Paperopoli), Filippo. In una delle foto è indicato il nome della scuola e classe del bambino. Vado su google, cerco l’indirizzo, so dove il bimbo va a scuola, (Scuola Primaria Mario Rossi – Via Don C. Bianchi 18, Telefono: 080 537****). Ma ho anche riconosciuto la via dove abita. So dove va a calcio (tra le foto pubbliche ce n’è una dell’attestato della scuola calcio). So i nomi di papà, mamma, zio Mario. So che abita a un piano terra, e con un po’ di fatica posso sapere in quale palestra va la mamma, gli orari di lavoro del papà, e così via. (Tutti i nomi di persone e luoghi sono inventati.)» Marta Marchesini, A scuola col pedofilo. (o dare in pasto i propri figli su Facebook)



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