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martedì 26 gennaio 2016

EBRAISMO IN ITALIA



Gli ebrei italiani hanno una storia molto antica, che risale fino al II secolo a.C.: reperti archeologici di lapidi tombarie e iscrizioni dedicatorie vanno indietro fino ad allora. A quel tempo la maggioranza viveva nell'estremo sud dell'Italia, con una ramificazione comunitaria a Roma, e generalmente parlavano il greco. Si pensa che alcune famiglie (per esempio gli "Adolescenti") siano i discendenti degli ebrei deportati dalla Giudea dall'imperatore Tito nel 70 a.C. Nel primo medioevo esistevano principali comunità nel meridione italiano, come per esempio Bari e Otranto. Gli ebrei medievali italiani produssero inoltre importanti opere halakhiche come Shibbole ha-Leket.
Verso la fine del XV secolo, gli Ebrei in Italia erano complessivamente 70.000 su una popolazione totale di circa 8-10 milioni di persone, quindi appena lo 0,7% - 0,9% degli abitanti (in Spagna, su una popolazione globale eguale all'Italia, vi erano allora ben 200.000 ebrei), distribuiti in 52 comunità. Di questi, circa 50.000 abitavano in Sicilia, dove si stima che nel 1492 gli ebrei componessero tra il 3 e il 6% della popolazione.
Dopo l'espulsione degli ebrei dal Regno di Napoli nel 1533, il centro di gravità si spostò a Roma e al nord.

Giulio Cesare rispettava l’osservanza delle prescrizioni ebraiche: nell’anno sabbatico gli Ebrei erano esonerati dal pagare il loro tributo allo Stato romano. E che gli Ebrei residenti in Italia mandassero regolarmente in Palestina il loro contributo per il Tempio, lo apprendiamo anche dall’orazione di Cicerone "Pro Flacco", tenuta nel 59 av. l’E.V. Flacco, già propretore in Asia, era stato accusato di concussione (de repetundis); e nel processo intentatogli figurano come testimoni Ebrei della provincia d’Asia, i quali accusano Flacco dì essersi appropriato del denaro che essi dovevano inviare a Gerusalemme. Dice Cicerone nella Difesa: Cum aurum ludaeorum nomine quotannis ex Italia et ex omnibus nostris provinciis Hierosolymam exportari soleret, Flaccus sanxit edicto ne ex Asia exportari liceret. Quis est, iudices, qui hoc non vere laudari possit?  (Essendo consuetudine che dall’Italia e da tutte le nostre province, tutti gli anni venga esportato oro a Gerusalemme, a nome dei Giudei, Flacco sancì con un editto che non fosse lecito esportarlo dall’Asia. E chi è, o Giudei, che non abbia a lodare ciò?).

Orazio in due satire (Sat. 1, 4 e Sat. 1, 9) accenna al proselitismo ebraico nella Roma del suo tempo.
Nel 66 d. l’E. V. i Giudei, esasperati dalle angherie dei procuratori romani, si ribellano; ha così inizio la Guerra giudaica, che dura 4 anni. C’erano allora in Palestina due partiti, di cui quello degli Zeloti, che voleva la guerra a oltranza, ebbe il sopravvento. Nel 69 viene posto l’assedio a Gerusalemme, che, malgrado F accanita resistenza e gli atti di leggendario valore compiuti dai Giudei, viene conquistata, da Tito il 9 di Av dell’anno seguente; il Tempio è dato alle fiamme. Secondo le leggi di guerra, i vincitori potevano disporre della vita e delle proprietà dei vinti; ed ai Giudei era riservata la sorte comune ai vinti. Una parte di essi fu destinata a perire nel circo (ad circenses) e mandata a Cesarea; una parte fu inviata nelle miniere in Sardegna (ad metalla), dove nessuno poteva sopravvivere a lungo; e una parte ancora fu portata a Roma (circa 97 mila) e adibita alla costruzione del Colosseo; altri furono venduti come schiavi: tutti i mercati dì schiavi dell’Oriente erano pieni di schiavi giudei: Dopo la rivolta di Bar Kochba (132-135) al tempo dell’imperatore Adriano, soffocata nel sangue dal Romani nel 135 d. l’E. V., molte altre migliaia di Giudei furono venduti come schiavi. Ma vivendo, come già ricordato, molti Ebrei fuori della Palestina anche prima di tali avvenimenti, essi si adoperarono per raccogliere denaro per il riscatto degli Ebrei schiavi; questa attività fu chiamata Pidion ha-shvuim, ossia: "riscatto dei prigionieri"; e in tal modo molti Ebrei furono liberati.

Oltre alla Comunità ebraica di Roma, già molto numerosa, c’erano in quell’epoca Comunità ebraiche a Venosa e Siracusa dove si trovano tuttora catacombe ebraiche - ed è, questa, un’altra prova che nelle persecuzioni del tempo erano accomunati Cristiani ed Ebrei; ed abbiamo pure notizia di Ebrei che abitavano in varie altre città italiane dell’Impero romano (Ostia, Ravenna, Ferrara, Bologna, Milano, Capua, Napoli).

Nel 313 l’imperatore Costantino emana l’Editto di Milano, che doveva porre fine alle persecuzioni contro i Cristiani, ai quali si dovevano pure restituire i beni confiscati. Ma questo Editto proclama anche la tolleranza di tutti gli altri culti. Da questo momento la situazione della Chiesa cristiana si capovolge: da perseguitata, o da sola o insieme al nucleo ebraico, diviene di questo la persecutrice, i martiri che la Chiesa ha avuto sono in numero di gran lunga inferiore a quello di quanti hanno subito il martirio per colpa dei Cristiani. Tutte le calunnie scagliate dai pagani contro i Cristiani quand’essi formavano ancora una setta in seno all’ebraismo, vengono ora ritorte da questi contro gli Ebrei: esempio tragico è il cosiddetto "omicidio rituale", che per secoli e secoli fu origine di sanguinose persecuzioni e di cui ci dà notizia per la prima volta il vescovo di Lione Agobardo, vissuto nel IX secolo.

Da ora in poi la storia degli Ebrei in Italia è in gran parte storia delle relazioni fra Ebrei e Papato; secondo la concezione della Chiesa, gli Ebrei dovevano sopravvivere per dimostrare al mando la verità dei Vangeli, e perciò mai da Roma essi furono cacciati; anzi, questa è l’unica città dell’Occidente con un’antica Comunità di Ebrei, da cui essi non furono mai espulsi.

Dopo la conquista della Sicilia da parte degli Arabi, importanti Comunità ebraiche si formarono nell’Isola. Nel 1282 la Sicilia passa sotto la dominazione spagnola; da questo momento la sorte degli Ebrei siciliani è legata alle vicende della Spagna. Degli Ebrei in Sicilia, il primo a darne notizia è Beniamino da Tudela (Navarra), vissuto nel XII sec., il secolo di Maimonide, il secolo d’oro della letteratura ebraica; il quale, per i suoi viaggi - ch’egli compì dal 1160 al 1173 - fu chiamato il Marco Polo degli Ebrei. Intorno al 1160 Beniamino da Tudela parte da Saragozza, diretto a Marsiglia e a Genova; da qui passa in Toscana, dove si ferma a Lucca e Pisa, visita Bologna e Roma (dov’è papa Alessandro III); quindi si spinge a Otranto, da dove si imbarca per Corfù. Al suo ritorno dall’Oriente si ferma in Sicilia, e ci dà interessanti notizie sulla vita degli Ebrei siciliani, che esercitavano quasi esclusivamente l’arte dei tessitori e dei tintori. Il ricordo di questa professione è rimasto in alcuni cognomi di Ebrei d’origine siciliana: Croccolo, Cremisi (come nei paesi tedeschi c’è il cognome Farber, o Ferber, che significa: tintore), e la tassa che gli Ebrei dovevano pagare come Ebrei, era detta appunto tassa dei tintori. E quando, alla fine del Medio Evo, gli Ebrei vengono cacciati dalla Sicilia, l’arte del tessitori scompare dall’Isola. Erano in tutto 37 mila; la Comunità più importante era a Palermo (circa 3 mila Ebrei). Fra le Comunità della Bassa Italia, due soprattutto erano fiorenti: Bari e Otranto, ambedue centri culturali ebraici.

Uno degli ebrei italiani più famosi fu Rabbi Moshe Chaim Luzzatto (1707–1746) le cui opere religiose ed etiche sono studiate a tutt'oggi. La comunità ebraica nel suo complesso raggiungeva circa 50.000 persone dal momento che fu emancipata nel 1870. Un momento importante nella storia dell'Ebraismo italiano è il Congresso ebraico di Forlì del 1418, in cui vengono avanzate richieste al nuovo papa, Martino V, e vengono assunte decisioni relative alla vita interna delle comunità ebraiche.

Nel 1516 la Repubblica Serenissima istituì il Ghetto di Venezia, il primo ghetto della Storia e che prende il nome dall'isola in cui fu confinata la Comunità ebraica di Venezia, a quel tempo accresciuta di numero da un'immigrazione aschenazita, e che aveva l'obbligo di rientrare la sera e le cui porte venivano chiuse la notte. Con l'espulsione degli ebrei dalla Spagna nel 1492 con il Decreto di Alhambra a Venezia si rifugiarono via via anche molti ebrei sefarditi. Traccia di queste progressive stratificazioni si ritrovano ancora oggi nelle varie Sinagoghe di Venezia (dette anche Scuole) nel Ghetto: italiana, tedesca, spagnola, levantina. Venezia ha un ruolo importante per l'ebraismo mondiale anche per la diffusione della stampa di libri in ebraico, a cominciare dalla Bibbia di Bomberg del 1517.

Nel '500 a Venezia si stamparono la maggior parte di tutti i testi in ebraico d'Europa, tra cui il Talmud completo (Bomberg 1520) ancora oggi utilizzato in tutto il mondo come base talmudica. Nel 1553 questa fioritura ebraica si interruppe traumaticamente a causa della disputa tra due case editrici veneziane, la Bragadin e la Giustiniani, sui diritti di stampa della Mishneh Torah di Maimonide curata dal Rabbino di Padova Katzenellenbogen. La disputa fu portata davanti ai tribunali dell'Inquisizione di Papa Giulio II che giudicarono eretici i testi e ne decretarono il Rogo, avvenuto prima a Campo dei Fiori a Roma, quindi in Piazza San Marco a Venezia.

Nel 1637 il Rabbino di Venezia Leone da Modena vede pubblicata a Parigi la "Historia de riti Hebraici", la prima opera intesa a spiegare l'ebraismo ai non ebrei ed a combattere i pregiudizi antisemiti del tempo. Destinata per un pubblico protestante anglosassone, l'opera precorre il dibattito sulla riammissione degli ebrei in Inghilterra al tempo di Cromwell (essendone stati espulsi nel 1290). Nel 1638 un altro Rabbino di Venezia, Simeone Luzzatto, pubblica il "Discorso circa lo stato de gl'Hebrei", sulla tolleranza religiosa ed i vantaggi reciproci dell'integrazione degli ebrei a Venezia.

Le porte del Ghetto furono abbattute nel 1797 con la conquista di Venezia da parte di Napoleone che impose l'emancipazione. Durante la Seconda Aliyah (emigrazione, tra il 1904 e il 1914) molti ebrei italiani si trasferirono a Israele, e a Gerusalemme esiste tuttora una sinagoga ed un centro culturale italiani.

Nel 1938 Mussolini emanò le Leggi razziali fasciste e, dopo l'8 settembre 1943, anche l'Italia collaborò coi nazisti, inviando circa 7000 italiani ai campi di sterminio durante l'Olocausto. Oggi, gli ebrei italiani sono circa 35.000 - 38.000 (secondo alcuni 45.000) su una popolazione di 60 milioni di abitanti; la metà circa vive a Roma con un numero che va dai 13.500 ai 14.000, circa 7.000 risiedono a Milano, mentre gli altri sono sparsi in Comunità medie o piccole in tutta la penisola.

Una delle sinagoghe più grandi d'Italia si trova a Trieste. La Comunità ebraica di Casale Monferrato ospita la sua sinagoga di rito tedesco edificata nel 1595, ricca di arredi ed iscrizioni, che è un esempio di barocco piemontese ed è considerata una delle più belle d'Italia. Anche Merano e Trani ospitano una Sinagoga ebraica come diverse ne ospita Venezia, situate nei caratteristici ghetti ebraici; in particolare la Sinagoga di Venezia è riconosciuta come una delle più belle d'Europa. Di particolare pregio le Tavole della Legge in legno dorato risalenti al secolo XVIII secolo, numerosi Rimonim (terminali per rotoli della Legge) e Atarot (corone per i rotoli della Legge) sbalzati, cesellati o in filigrana d'argento.

Storicamente gli ebrei italiani si suddividono in quattro categorie:
Ebrei di rito italiano, che risiedono in Italia, ed in particolare a Roma, dal tempo dei romani (da circa 2200 anni).
Ebrei sefarditi, che possono essere suddivisi in sefarditi levantini e ebrei iberici, cioè ebrei giunti in Italia dopo le espulsioni dalla Spagna nel 1492, dal Portogallo nel 1497 e dal Regno di Napoli nel 1533. Questi a loro volta includono sia gli espulsi di quel tempo sia la famiglie criptogiudaiche che lasciarono la Spagna e il Portogallo nei secoli successivi e ritornarono all'Ebraismo.
Ebrei aschenaziti, che vivono principalmente nella parte nord dell'Italia.
Ebrei di Asti, Fossano e Moncalvo ("Appam"). Questi rappresentano gli ebrei espulsi dalla Francia nel Medioevo. La loro liturgia è simile a quella degli aschenaziti, ma contiene alcuni usi distintivi provenienti dagli ebrei francesi del tempo di Rashi, particolarmente nelle funzioni delle Festività ebraiche.
Storicamente queste comunità rimasero separate: in una data città vi era spesso una "sinagoga italiana" e una "sinagoga spagnola" e di tanto in tanto anche una "sinagoga tedesca". In molti casi, queste si sono amalgamate, ma una data sinagoga può celebrare servizi liturgici di più riti.

Attualmente esistono anche altre categorie:
Ebrei di San Nicandro che sono discendenti gerim dei neofiti di San Nicandro Garganico;
Ebrei iraniani (più precisamente persiani) che vivono a Roma e Milano;
Ebrei libici, soprattutto a Roma;
Ebrei libanesi, giunti soprattutto a Milano in seguito alla guerra civile del Libano del 1974.

L' unica organizzazione ebraica italiana che rappresenti l'ebraismo italiano di fronte allo Stato secondo la legge è l'Unione delle comunità ebraiche italiane (UCEI), come previsto dall'intesa con lo Stato italiano stipulata il 27 febbraio 1987, approvata con la legge 101/1989, revisione conclusa il 6 novembre 1996 e approvata con la legge 638/1996. L'UCEI partecipa alla ripartizione della quota dell'otto per mille del gettito IRPEF. Poiche' per lo Stato Italiano l'unica organizzazione che rappresenti giuridicamente gli interessi dell'ebraismo in Italia è l'UCEI, ne risulta che l'unica definizione di "ebreo" rilevante per lo Stato è quella data dall'Assemblea Rabbinica Italiana. Gli unici enti che possono rilasciare una certificazione di ebraicità in Italia (al fine, ad esempio, di poter richiedere di sostenere un esame universitario in giorno diverso dal sabato, o al fine di richiedere il riposo settimanale durante il sabato, con obbligo per il datore di lavoro di concederlo) sono le Comunità Ebraiche locali membre dell'UCEI che rilasciano tali certificati soltanto in base alle regole dell'ortodossia ebraica. L'iscrizione alle Comunità locali è infatti consentita soltanto previo nulla osta dell'Autorità Rabbinica locale ed al cui diniego si può ricorrere unicamente presso l'Assemblea Rabbinica Italiana (Statuto UCEI).

Gli ebrei italiani autoctoni, distinti dai sefarditi e dagli aschenaziti, sono a volte indicati nella letteratura scientifica come Italkim viene usato anche in ebraico moderno per indicare la lingua italiana. Gli ebrei di rito italiano di solito parlavano tradizionalmente una varietà di lingue giudeo-italiane come il bagitto a Livorno; attualmente solo a Roma si continua a parlare il giudaico romanesco.

Le usanze ed i riti religiosi degli ebrei di rito italiano possono essere visti come un ponte tra le tradizioni aschenazite e quelle sefardite, mostrando somiglianze con entrambe; e sono ancora più vicini alle tradizioni dei romanioti (ebrei greci in Italia). Si riconosce inoltre una suddivisione tra il minhag Benè Romì, praticato a Roma, e il minhag Italiani, praticato in città del nord come Torino, anche se i due riti sono generalmente affini, nonché alcune differenze tra il minhag di Firenze (prettamente sefardita) e quello di Livorno.

In materia di diritto religioso, la maggior parte degli ebrei di rito italiano in generale seguono le stesse regole degli askenaziti codificate da Moshe Isserles (detto il Ramo) con l'eccezione della proibizione askenazita di mangiare legumi a Pesach, mentre a Roma e Firenze seguono generalmente le stesse regole dei sefarditi, secondo lo Shulchan Aruch senza le glosse Moshe Isserles (su un totale di circa 35000 ebrei presenti in Italia solo 12000 risiedono a Roma). Tuttavia la loro liturgia è diversa da quella di entrambi questi gruppi. Una ragione di ciò potrebbe essere che l'Italia era il centro principale della prima stampa ebraica, consentendo agli ebrei italiani di conservare le proprie tradizioni, quando la maggior parte delle altre comunità dovevano optare per un libro di preghiere di standard "sefardita" o "askenazita".

Si è spesso sostenuto che il libro di preghiere italiano contenga gli ultimi resti della tradizione ebraica giudeo/galilea, mentre sia quello sefardita sia, in misura minore, quello aschenazita riflettano la tradizione babilonese. Questa affermazione è molto probabilmente storicamente accurata, anche se è difficile verificare testualmente quanto materiale liturgico dalla Terra d'Israele sopravviva. Inoltre, alcune tradizioni italiane riflettono il rito babilonese in una forma più arcaica, più o meno allo stesso modo del libro di preghiere degli ebrei yemeniti. Esempi di antiche tradizioni babilonesi conservate dagli italiani ma da nessun altro gruppo (compresi gli yemeniti), sono l'uso di keter yitenu lach nella kedushah di tutti i servizi e di naḥamenu in Birkat Hamazon (ringraziamento dopo i pasti) nello Shabbat, entrambi i quali si trovano nel siddur di Amram Gaon.



La comunità di rito italiano tradizionalmente utilizza l'ebraico italiano, un sistema di pronuncia simile a quella degli ebrei spagnoli e portoghesi. Tale pronuncia è stata in molti casi adottata anche dalle comunità sefardite, aschenazite e appam d'Italia.

Ci sono ebrei aschenaziti che vivono nel Nord Italia fin dal tardo medioevo. A Venezia, erano la più antica comunità ebraica della città, anteriore sia a quella sefardita che ai gruppi italiani. Dopo l'invenzione della stampa, l'Italia divenne un importante centro editoriale per libri ebraici e yiddish utilizzati dagli ebrei tedeschi ed altri ebrei nordeuropei. Una figura rimarchevole era Elia Levita, esperto grammatico e masoreta, anche autore del poema epico-romantico yiddish Bovo-Bukh.

Altre comunità rinomate sono state quelle di Asti, Fossano e Moncalvo, che discendevano da ebrei espulsi dalla Francia nel 1394: la comunità astigiana comprende la nota famiglia Lattes. Solo la sinagoga di Asti è ancora in uso oggi. Il loro rito, conosciuto come appam (dalle iniziali ebraiche delle suddette tre città), è simile a quello aschenazita, ma ha alcune peculiarità tratte dal vecchio rito francese, in particolare al riguardo delle festività ebraiche. Queste variazioni si trovano su fogli mobili che la comunità utilizza in combinazione con il normale libro di preghiere aschenazita e vengono stampati anche da Goldschmidt. Questo rito è l'unico discendente superstite del rito originale francese, usato da Rashi e in tutto il mondo: gli aschenaziti francesi dal 1394 utilizzano il rito tedesco-aschenazita.

Nella tradizione musicale e nella pronuncia, gli aschenaziti italiani differiscono notevolmente dagli aschkenaziti di altri paesi e mostrano una certa assimilazione con le altre due comunità. Fanno eccezione le comunità nordorientali, come quella di Gorizia che data dai tempi austro-ungheresi, e sono molto più vicine alla tradizione tedesca e austriaca.

Dal 1442, quando il Regno di Napoli cadde sotto il dominio spagnolo, un considerevole numero di ebrei sefarditi vennero a vivere nell'Italia meridionale. A seguito dell'espulsione degli ebrei dalla Spagna nel 1492 così come dalla Sicilia e dalla Sardegna nello stesso anno, dal Portogallo nel 1495 e dal Regno di Napoli nel 1533, molti si spostarono nell'Italia centrale e settentrionale. Un rinomato profugo fu Don Isaac Abrabanel.

Nel corso dei secoli successivi furono raggiunti da un flusso costante di conversos che abbandonavano la Spagna e il Portogallo. In Italia, correvano il rischio di incriminazione per "giudaizzazione", dato che per legge erano battezzati cristiani; per questo motivo in genere evitarono gli stati pontifici. I papi permisero qualche insediamento spagnolo-ebraico ad Ancona, poiché questo era il porto principale per il commercio con la Turchia, dove i loro legami con i sefarditi ottomani erano utili. Altri stati ritennero vantaggioso consentire ai conversos di stabilirsi e mescolarsi con le comunità ebraiche già esistenti e chiudere un occhio sul loro Stato religioso. Nella successiva generazione, comunque i figli dei conversos avrebbero potuto rientrare nell'Ebraismo senza problemi legali, poiché non erano mai stati battezzati.
La Repubblica Veneta aveva spesso rapporti tesi con il Papato; d'altra parte erano consapevoli dei vantaggi commerciali offerti dalla presenza di colti ebrei di lingua spagnola, in particolare per il commercio con la Turchia. In precedenza gli ebrei di Venezia erano stati tollerati con decreti di una certa durata di anni, periodicamente rinnovati. Nei primi anni del XVI secolo, queste modalità furono rese permanenti e un decreto separato fu concesso alla comunità "ponentina" (occidentale). Il prezzo pagato per questo riconoscimento fu il confinamento degli ebrei nella nuova istituzione del "Ghetto". Tuttavia per lungo tempo la Repubblica di Venezia fu considerata come la migliore località di insediamento degli ebrei, equivalente ai Paesi Bassi del XVII secolo o agli Stati Uniti nel XX secolo.
L'immigrazione sefardita fu inoltre incoraggiata dai principi d'Este, nei loro possedimenti a Reggio Emilia, Modena e Ferrara. Nel 1598 Ferrara venne ripresa dagli Stati Papalini, il che provocò un flusso migratorio verso l'esterno.
Nel 1593, Ferdinando I de' Medici, Granduca di Toscana, concesse agli ebrei portoghesi di vivere e commerciare a Pisa e Livorno (cfr. "Comunità ebraica di Livorno").
Nel complesso gli ebrei spagnoli e portoghesi rimasero separati dagli ebrei italiani autoctoni, anche se c'era una notevole influenza religiosa e intellettuale reciproca tra i gruppi.

La Scola Spagnola (sinagoga spagnola) di Venezia fu originariamente considerata come la "sinagoga madre" dalle comunità spagnole e portoghesi di tutto il mondo, poiché fu tra le prime ad essere fondate e il primo libro di preghiere fu pubblicato lì: le comunità posteriori, come Amsterdam, seguirono la sua guida in merito a questioni rituali. Col declino dell'importanza di Venezia a partire dal XVIII secolo, il ruolo di primo piano passò alla comunità ebraica di Livorno (per l'Italia ed il Mediterraneo) e ad Amsterdam (per i paesi occidentali). La sinagoga di Livorno fu distrutta durante la seconda guerra mondiale: un moderno edificio fu eretto nel 1958-1962.

Oltre agli ebrei spagnoli e portoghesi strettamente detti, l'Italia ha ospitato molti ebrei sefarditi dal Mediterraneo orientale. La Dalmazia e molte delle isole greche, dove c'erano grandi comunità ebraiche, sono state per molti secoli parte della Repubblica Veneta, e vi fu una comunità "levantina" a Venezia. Questa rimase separata dalla comunità "ponentina" (cioè la spagnola e portoghese) e legata alle proprie radici orientali, come dimostra il loro uso nei primi anni del XVIII secolo di un libro di inni classificato come maqam alla maniera ottomana. (Oggi entrambe le sinagoghe sono ancora in uso, ma le comunità si sono amalgamate). In seguito la comunità di Livorno agì come collegamento tra gli spagnoli e i portoghesi e gli ebrei sefarditi orientali e punto di riscontro tra le altre tradizioni e gruppi musicali. Molti ebrei italiani oggi hanno radici "levantine", per esempio da Corfù, e prima della seconda guerra mondiale l'Italia considerava l'esistenza delle comunità sefardite orientali come possibilità di espandere l'influenza italiana nel Mediterraneo.

Nel XVIII e XIX secolo, molti ebrei italiani (per lo più, ma non esclusivamente, dal gruppo spagnolo e portoghese) mantennero una presenza commerciale e residenziale sia in Italia che nei paesi dell'Impero Ottomano: anche coloro che si stabilirono definitivamente nell'Impero Ottomano, mantennero la loro nazionalità toscana o altra italiana, in modo da avere il beneficio delle "Capitolazioni dell'Impero ottomano". Così in Tunisia vi era una comunità di Juifs Portugais, o di L'Grana (livornesi), quest'ultima comunità che si manteneva separata dagli ebrei nativi tunisini (Tuansa) considerandosi superiore. Comunità più piccole dello stesso tipo esistevano anche in altri paesi, come la Siria, dove erano conosciuti come Señores Francos, sebbene in genere non fossero abbastanza numerosi per stabilire le proprie sinagoghe; per pregare si incontravano invece nelle reciproche dimore. Diversi paesi europei spesso nominavano ebrei di queste comunità come loro rappresentanti consolari nelle città ottomane.

Tra le due guerre mondiali, la Libia fu una colonia italiana e, come in altri paesi del Nordafrica, il potere coloniale trovò utili gli ebrei locali, essendo una élite istruita e ben introdotta. Dopo l'indipendenza libica e soprattutto dopo la Guerra dei sei giorni nel 1967, molti ebrei libici si trasferirono sia in Israele che in Italia, e oggi la maggior parte delle sinagoghe "sefardite" a Roma sono in realtà libiche. (Il Tempio Spagnolo, senza dubbio di origine spagnola e portoghese come implica il nome, ora si considera "italiano", in contrasto con queste comunità più recenti).

Scopo delle Comunità è quello di provvedere al soddisfacimento delle esigenze religiose, associative, sociali e culturali degli ebrei.

L’ebraismo è infatti non solo una religione ma anche una “cultura” che interessa ogni momento della vita. Le Comunità organizzano la collettività ebraica e sono un punto di riferimento non solo per gli ebrei che vivono sul posto ma per chiunque voglia stabilire contatti con loro. Molto spesso, infatti, ebrei di passaggio o trasferiti momentaneamente in Italia si rivolgono alla Comunità per avere informazioni sulla vita ebraica locale e prendervi parte. Da un punto di vista giuridico le Comunità hanno poteri di amministrazione e vigilanza sulle istituzioni ebraiche di assistenza, beneficenza, quelle culturali e provvedono alla tutela degli interessi locali degli ebrei. Le ventuno Comunità hanno competenza su circoscrizioni territoriali. Fanno parte di diritto della Comunità tutti gli ebrei che hanno residenza nella circoscrizione. L’iscrizione avviene con esplicita richiesta (e non è più obbligatoria, come secondo la legge del 1930).

È considerato ebreo, secondo il diritto ebraico, il figlio di madre ebrea, non convertito ad altra fede. Per cessare di appartenere alla Comunità occorre una rinuncia esplicita, che comporta la perdita del godimento di tutti i diritti e servizi che la Comunità offre. Organi della Comunità sono l’assemblea, il consiglio, la giunta, il presidente, il rabbino capo, la consulta (esiste solo in alcune Comunità), i revisori dei conti. Il consiglio è eletto da tutti gli iscritti che abbiano compiuto i diciotto anni e siano iscritti alla Comunità da almeno un anno. Esso è composto di un numero di consiglieri che varia da tre a trenta, in base al numero degli elettori. Sono eleggibili tutti gli elettori che abbiano compiuto i venti anni e siano “garanti della continuità ebraica”.

Il presidente, eletto dal consiglio, è capo della Comunità e la rappresenta.

La giunta, composta dal presidente e da un terzo dei consiglieri, amministra la Comunità. Il consiglio è l’organo principale che approva gli atti importanti, mentre alla giunta spettano le delibere preparatorie. Il funzionamento delle Comunità è assicurato con la riscossione di contributi a carico degli appartenenti in ragione del reddito. Essi sono esigibili con le forme e i privilegi che godono le imposte del Comune. La direzione spirituale della Comunità spetta al rabbino capo, che è amministrativamente un suo dipendente, assunto per chiamata o per concorso. Il rabbino capo interviene con voto consultivo alle sedute di consiglio e di giunta e ha piena autonomia per tutte le questioni religiose e di culto. Il rabbino, parallelamente al presidente, che è capo dell’amministrazione, è capo del culto e, in quanto tale, ha la funzione di maestro e di autorità con esclusiva competenza rispetto all’interpretazione della legge ebraica in materia rituale e all’esercizio del culto. In tali materie, di fronte agli organi comunitari, gli è garantita piena indipendenza. Egli può celebrare matrimoni tra ebrei, che durante la cerimonia nuziale devono dichiarare di uniformarsi a tutte le norme del codice civile italiano che regolano l’istituto del matrimonio. Il rabbino in questo caso è anche ufficiale di stato civile.

Una segreteria segue l’amministrazione generale della Comunità, che amministra i contributi annuali degli iscritti utilizzati per il funzionamento delle organizzazioni comunitarie (scuola, templi, casa di riposo e, in alcune Comunità, come a Roma, ospedale ebraico), per aiuti finanziari e assistenza anche domiciliare ad anziani (molte associazioni sono su base di volontariato) o a coloro che si rivolgono al servizio sociale per aiuto, per attività culturali e manifestazioni. La segreteria centrale fa anche da collegamento con il rabbinato, il consiglio della Comunità, le associazioni di carattere istituzionale e le associazioni culturali o di appoggio organizzate su base volontaria.

Il corso di laurea in Studi ebraici si propone come polo di diffusione della cultura ebraica mediante “corsi istituzionali” per gli iscritti alle comunità ebraiche e “corsi speciali” di durata breve aperti anche a un pubblico non ebraico, per il quale, mancando un livello adeguato di conoscenze di base, è previsto un “corso propedeutico”. Nei corsi istituzionali vengono insegnate storia, filosofia, lingua e letteratura ebraica, esegesi, letteratura rabbinica, letteratura cabbalistica e chassidica, istituzioni di diritto rabbinico, paleografia e storia del libro ebraico, scienze sociali. Nei corsi propedeutici si insegna lingua ebraica, esegesi, Bibbia e letteratura rabbinica. Si ottiene il titolo superando venti esami annuali o un numero proporzionale di corsi brevi e presentando una tesi. Sono anche previsti corsi speciali di perfezionamento su problematiche relative al rapporto tra ebraismo e il mondo esterno.

L’ebraismo in quanto religione e gli ebrei in quanto minoranza religiosa hanno diritto alla tutela da parte dello Stato italiano.

Il fondamento di questo diritto è nell’articolo 8 della Costituzione: “Tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze”. Nonostante il dettato costituzionale, fino al 1987 i rapporti tra ebraismo e Stato italiano sono stati regolati dalla vecchia legge Falco del 1930, che non garantiva un’adeguata sistemazione giuridica al diritto degli ebrei. Diritto di organizzarsi “secondo i propri statuti” che fino a quel momento non era mai esistito neppure per le altre confessioni non cattoliche. I primi a firmare una propria intesa con lo Stato furono i valdesi (1984), seguiti dalle chiese avventiste (1987/88) e dalle assemblee di Dio (1987). Dopo molti anni di riflessione, congressi straordinari, studi e proposte, in particolare da parte della commissione giuridica dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (Ucei) (formata dagli avvocati Guido Fubini, Vittorio Ottolenghi, Giorgio Sacerdoti e Dario Tedeschi), fu trovata una formulazione soddisfacente e l’Intesa fu firmata il 27 febbraio 1987 dal presidente del Consiglio, Bettino Craxi, e dal presidente dell’Ucei, Tullia Zevi.

L’Intesa regola i principi generali e lascia allo Statuto (58 articoli) il compito di organizzare la vita interna delle Comunità e dell’Unione. Questa impostazione rappresenta una svolta radicale rispetto al passato. “Prima, gran parte delle norme si occupavano dell’organizzazione e del funzionamento delle Comunità” conferma Giorgio Sacerdoti. “Ora questa materia scompare dalla normativa e viene invece riservata all’autonomia statutaria”.

L’Intesa garantisce libertà e parità agli ebrei e alle loro organizzazioni rispetto agli altri cittadini, prevede forme di riconoscimento degli enti ebraici e delle loro attività, in particolare delle Comunità e dell’Unione come enti che devono assicurare in concreto libertà e autonomia alla confessione. Riconosce poi, nel modo più ampio, il diritto di professare la religione ebraica, inclusa la libertà di associazione, l’attività di insegnamento da parte dei rabbini, con tutela dalle manifestazioni di intolleranza e discriminazione religiosa.

L’entrata in vigore dell’Intesa ha abrogato di fatto tutte le leggi precedenti, quella del 1929 sui “culti ammessi” e quella del 1930 (legge Falco).

L’Intesa non si occupa dell’organizzazione interna delle Comunità e dell’Unione, che è lasciata allo Statuto approvato nel dicembre 1987 da un congresso straordinario dell’Unione. Questo regola la vita quotidiana e di relazione delle Comunità e dell’Unione.

Nell’Intesa (articoli 23 e 24) vengono previsti i controlli che lo Stato esercita sulle Comunità e l’Unione, quelli stessi che regolano la vita degli altri enti morali o di culto. La Comunità, l’Unione e gli enti ebraici esistenti o futuri come “enti ebraici civilmente riconosciuti” sono tenuti all’iscrizione nel registro delle persone giuridiche ed è loro garantita l’autonomia di gestione senza ingerenza da parte dello Stato. Per l’acquisto di beni immobili, per l’accettazione di donazioni ed eredità e per il conseguimento di legati si applicano le disposizioni delle leggi civili relative alle persone giuridiche.

L’articolo 1 garantisce in sede penale la parità di tutela del sentimento religioso e dei diritti di libertà religiosa, senza discriminazioni tra i cittadini e tra i culti. Le norme del codice penale, riguardanti il vilipendio della religione cattolica, si applicheranno perciò, fino a una loro eventuale abrogazione, anche alle ipotesi di vilipendio della religione ebraica. Nell’Intesa si precisa che le norme della legge 654 del 1975, con le quali si vogliono combattere tutte le forme di discriminazione razziale, si intendono riferite anche alle manifestazioni di intolleranza e pregiudizio religioso. Agli ebrei è riconosciuto il diritto, da esercitare nel quadro della flessibilità dell’organizzazione del lavoro, di osservare il Sabato e le altre festività religiose (articoli 3 e 4). Sempre a proposito di prescrizioni religiose, vanno ricordati (articoli 5, 9, 15): il diritto degli ebrei che vivono in collettività (militari, ricoverati in ospedali, carcerati) di osservare, con l’assistenza della Comunità e senza oneri per le istituzioni in cui si trovano, le prescrizioni in materia alimentare; l’assistenza spirituale ai militari ebrei e il loro diritto di partecipare alle attività di culto; l’accesso dei ministri di culto negli ospedali, case di cura o di riposo e nelle carceri; la perpetuità delle sepolture; la conferma del diritto della macellazione rituale.

L’Intesa sancisce il diritto degli ebrei di non seguire gli insegnamenti religiosi impartiti nella scuola pubblica. Per tutelare effettivamente questo diritto, è stabilito che l’insegnamento deve aver luogo secondo orari e secondo modalità che non si risolvano in una discriminazione per chi compie tale scelta.

L’articolo 13 riconosce, con la trascrizione, effetti civili al matrimonio celebrato in Italia secondo il rito ebraico. Esso costituisce un radicale cambiamento rispetto alla situazione posta dalla legge sui “culti ammessi” del 1929 che non riconosceva valore al matrimonio religioso ebraico.

Con l’articolo 16 per la tutela del patrimonio artistico, storico e culturale dell’ebraismo italiano, è sancito il principio della collaborazione dello Stato con l’Unione e con le Comunità.

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domenica 11 ottobre 2015

LE COMUNITA' PROTETTE

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La legge 8 novembre 2000 n. 328 all’art. 11 stabilisce che:

« i servizi e le strutture a ciclo residenziale e semiresidenziale sono autorizzati dai comuni. L'autorizzazione è rilasciata in conformità ai requisiti stabiliti dalla legge regionale, che recepisce e integra, in relazione alle esigenze locali, i requisiti minimi nazionali. »
I requisiti strutturali e organizzativi di tali strutture sono contenuti nel decreto ministeriale del Ministro per la Solidarietà Sociale del 21 maggio 2001 n. 308. Esso all’art. 3 stabilisce che le comunità che accolgono anziani, disabili, minori o adolescenti, adulti in difficoltà per i quali la permanenza nel nucleo familiare sia impossibile o contrastante con il progetto individuale:

« devono possedere i requisiti strutturali previsti per gli alloggi destinati a civile abitazione. Per le comunità che accolgono minori, gli specifici requisiti organizzativi, adeguati alle necessità educativo-assistenziali dei bambini e degli adolescenti, sono stabiliti dalle regioni. »
Comunità di accoglienza per minori si occupano dell'accoglienza di minori «per interventi socio-assistenziali ed educativi integrativi o sostitutivi della famiglia». La legge 28 marzo 2001 n. 149 (""Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, recante «Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori», nonché al titolo VIII del libro primo del codice civile"") stabilisce infatti che il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo, nonostante gli interventi di sostegno e aiuto, è affidato ad una famiglia.

Vengono affidati alle comunità di accoglienza anche i minori che per incuria, maltrattamento, abuso e inadeguatezza dei genitori naturali vengono minori fuori famiglia. Accolgono, inoltre, i minorenni autori di reato con progetti in alternativa alla pena detentiva e i bambini, ospitati fino al 31 dicembre 2006, negli orfanotrofi.



Molti ricorderanno quanto fosse vivo, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, il dibattito culturale in Italia sulla necessità di orientare i servizi socio sanitari, come li chiameremmo oggi, verso la promozione e lo sviluppo della persona umana ,la tutela dei suoi diritti e come si discutessero i problemi delle istituzioni totali.
Quel dibattito ha comunque avuto grandi meriti, al di là delle contraddizioni ancora attuali, e ha prodotto importanti risultati in ambito sanitario e in ambito educativo – assistenziale.
In ambito sanitario la L. 180 sintesi del recupero del diritto alla salute e della dignità e centralità della persona ;
in ambito sociale assistenziale, educativo – (vorrei aggiungere riparativo, riabilitativo):
– ha permesso un graduale passaggio dalle strutture di grandi dimensioni a strutture più piccole che facilitassero i rapporti, non più gerarchici ed autoritari, ma educativi e d’aiuto.
– nell’ambito dei minori ai grandi istituti dove il disagio, la sofferenza, le carenze, l’annullamento della personalità erano garantiti, soprattutto se il soggiorno era di lunga durata  si sono sostituiti le Comunità di piccole dimensioni.
I cambiamenti successivi sono stati molti e radicali:
– le Comunità sono diventate degli alloggi, delle case inserite nel territorio: non più grandi strutture isolate dal mondo ma nuclei inseriti in un contesto reale che mette gli utenti nella condizione di poter interagire con l’ambiente circostante;
– sono cambiati  gli educatori. Si è passati da educatori “spontanei”, magari chiamati a tale missione da ideali religiosi, sociali e politici, a degli educatori “professionali”, preparati ed in grado di intervenire progettualmente in una relazione d’aiuto
Hanno avuto un grande impulso sia teorico che pratico l’adozione e l’affido famigliare.

La Comunità è un luogo educativo ambivalente, protetto ed esposto, al tempo stesso. E’ quindi coinvolto in dinamiche, interne ed esterne, molto differenti che ne condizionano le modalità d’intervento e d’esistenza.
Luogo “protetto”: perché il suo scopo resta quello di accogliere e proteggere, tutelare dei bambini in crisi, dei bambini in difficoltà offrendo loro uno spazio alternativo alla famiglia perturbata e/o perturbante quando non destrutturante.
Ma è anche un luogo “esposto”, a rischio. Non è un vaso ermetico: ma è un alambicco comunicante. Ed in quanto tale inserito, suo malgrado, in un contesto.
Il contesto non è soltanto quello sociale, ma è rappresentato anche dalle aspettative degli attori del sistema stesso.
I bambini, in primo luogo, si attendono delle cose, si immaginano la comunità in un certo modo: di solito non tanto bene. Molti pensano di essere lì per “punizione”, altri hanno ben chiaro che si tratta di un “passaggio”, tutti chiedono, in maniera più o meno conscia, una forma di “protezione”.
Poi ci sono i genitori: alcuni accettano la Comunità di buon grado per vari motivi,  altri che l’attaccavano ferocemente perché la ritenevano il peggiore dei lager, specie quando era là a testimoniare della loro incapacità “genitoriale”.
Poi ci sono anche gli operatori: i giudici, gli assistenti sociali, i tecnici, gli psicologi, i neuropsichiatri, gli stessi educatori.
Ogni Comunità  ha  un suo universo di riferimento, un modello di funzionamento: questo è un piano del discorso non sempre chiaramente esplicitabile ed esplicitato da chi la gestisce ;se si inizia da un contesto aperto penso che sia un buon inizio,segnale  che il modello cui si pensa è una figura processuale, una costellazione dinamica, una struttura in movimento.
Le comunità sono tanto cambiate ed ancora cambieranno. Dovranno cambiare se si parte dai bisogni dei bambini, dei ragazzi  sotto il segno della problematicità, della ricerca, della logica induttiva che definisce la Comunità come uno spazio temporaneo di convivenza, che è una cosa ben diversa dall’istituto, dall’ospedale, dalla scuola, dalla famiglia, ma che però, essendo un luogo più complesso, può partecipare degli aspetti positivi di quegli altri modelli. E’ importante che in una Comunità ci sia capacità di contenimento, che ci sia familiarità, che ci sia organizzazione dell’attività, che ci sia cura ed aiuto per la persona, che ci sia affettività ed emozione.



La Comunità come spazio temporaneo di convivenza. La comunità come “luogo di vita”, nodo di un percorso individuale (per il minore accolto) che si fa carico delle contraddizioni della quotidianità, che entra, con coraggio e discrezione, nel vivo del disagio.
Un luogo di vita quotidiana, coi suoi riti e le sue sorprese con la consapevolezza che  la costruzione di questo clima subisce “attentati” continui, la fragilità dei risultati raggiunti è evidente, i fallimenti, le frustrazioni sono un ingrediente inevitabile.

Accettare le “avventure del quotidiano” significa, al contrario, restare all’interno di una prospettiva di “probabilità/possibilità” e vedere il minore come soggetto portatore di una storia personale originale, complessa ed in evoluzione; significa essere disposti a mettere in discussione le proprie certezze e premesse in funzione delle risposte e delle attese dei bambini; costruire continuamente nuove cornici, nuove possibilità di percepire l’altro, nuovi punti d’osservazione; significa sforzarsi di cogliere le differenze, le risorse positive del minore evitando risposte stereotipate e rigide.
In ambito metodologico clinico, questo atteggiamento significa  passare  dalla  cura  come soluzione ottimale di natura “tecnico-scientifica”, al  “prendersi cura di..”.

Quella stessa complessità che, in molti casi, è alla base del disagio delle  famiglie d’origine e della stessa sofferenza personale dei minori E’ la fatica di reggere il gioco della flessibilità dei percorsi, delle scelte, degli atteggiamenti in un contesto disgregato che occorre fronteggiare.

La complessità delle situazioni, la varietà, la multiproblematicità, la  continua trasformazione socio-economica e culturale richiedono risposte più articolate.

La Comunità dovrebbe rappresentare un nodo intermedio tra un “prima” ed un “dopo. E non uno “spazio sospeso”, un eterno presente, tanto rassicurante per i Servizi finché non esplode per eccesso di compressione.
I bambini, indipendentemente dalla gravità del loro caso, percepiscono la Comunità come soluzione temporanea: essi si interrogano sul loro futuro ed hanno bisogno di prospettive.
La temporaneità della permanenza del minore è dunque condizione essenziale per assolvere alla funzione di affidamento.

All’interno di ciascuna Comunità opera una ÉQUIPE di EDUCATORI che accompagna e condivide la quotidianità degli ospiti. Ogni quindici giorni si riunisce per programmare e organizzare il lavoro educativo.

L’attività degli educatori all’interno della Comunità è coordinata da un RESPONSABILE DI COMUNITA’, con compiti di indirizzo e sostegno al lavoro degli educatori. Spetta inoltre al Responsabile favorire i rapporti tra l’Équipe educativa e le altre figure di riferimento educativo, affettivo ed istituzionale.

L’ Èquipe educativa, per adempiere al meglio nel suo ruolo, si avvale della competenza di un SUPERVISORE (Psicologo) che si occupa di:

aiutare gli educatori nella comprensione della personalità dei Minori ospiti;
aiutare gli educatori nella gestione dei rapporti tra gli stessi e con i ragazzi;
offrire un contributo nella progettazione educativa;
fornire indicazioni ed elementi per il miglioramento della qualità del servizio offerto;
valutare con il Responsabile le esigenze di formazione interna e progettare il piano di formazione del personale;
partecipare alla valutazione delle richieste di inserimento;
seguire, quando previsti, ulteriori interventi educativi concordati dal Responsabile con i Servizi invianti per il raggiungimento degli obiettivi previsti dal P.E.I.
La valutazione di una richiesta di inserimento di un Minore fa carico all’ ÉQUIPE di ACCOGLIENZA composta da: il Responsabile, il Supervisore, il Presidente dell’Associazione o altro membro della stessa. L’autorizzazione all’inserimento di un minore in Comunità viene rilasciata dal Presidente.
Infine all’interno dell’Associazione c’è una FIGURA AMMINISTRATIVA che svolge le pratiche burocratiche e amministrative ed opera affinché vengano rispettate tutte le norme vigenti che regolamentano le Comunità e l’Associazione stessa.



Tuttavia i minori non sempre solo al sicuro nelle mure di una comunità. Abusando della sua qualità di educatrice addetta alla custodia di una comunità alloggio per minori con disturbo del comportamento, compiva atti sessuali - dicono i magistrati - con un ragazzo di età inferiore ai 16 anni, ospite della comunità. E' il terzo fermo di operatori di alcune comunità dell'Agrigentino da inizio luglio, sempre per lo stesso reato. I fatti contestati alla donna si sono verificati, secondo l'accusa, dal gennaio allo scorso 12 maggio. Poi ci sono casi di ragazzi che fuggono e tornano strafatti,ragazzi che vengono picchiati dagli educatori che non vengono licenziati ma viene trasferito il minore. Casi che il minore si rifiuta di andare a scuola e viene assecondato rischiando in seguito la bocciature per assenze ingiustificate: se lo avrebbe fatto una mamma sarebbe stata denunciata. Bambini che iniziano a fumare dove il fumo non dovrebbe esistere. Ragazzi un po' più grandicelli ma sempre minori che in libera uscita rientrano ubriachi e la cosa continua a ripetersi. In questi casi dove sono i sociali? Quindi i bambini subiscono violenze fisiche e psichiche e i loro diritti violati.

Dal settembre 2009 al maggio 2013 giudice presso il Tribunale dei minorenni di Bologna, Morcavallo ne ha visti tanti, di quei drammatici percorsi che iniziano con la sottrazione alle famiglie e finiscono con quello che lui definisce l’«internamento» (spesso per anni) negli istituti e nelle comunita` governati dai servizi sociali. Da magistrato, Morcavallo ha combattuto una guerra anche culturale contro quello che vedeva intorno a se´. Ha tentato di correggere comportamenti scorretti, ha cercato di contrastare incredibili conflitti d’interesse. Ha anche denunciato abusi e qualche illecito. E` stato a sua volta colpito da esposti, e ne e` uscito illeso, ma poi non ce l’ha fatta e ha cambiato strada: a 34 anni ha lasciato la toga e  fa l’avvocato a Roma, nello studio paterno. Si occupa di societa` e successioni. E anche di diritto della famiglia, la sua passione. Il suo racconto:

"Le nostre impostazioni erano troppo diverse: io sono sempre stato convinto che l’interesse del minore debba prevalere, e che il suo restare in famiglia, la` dov’e` possibile, coincida con questo interesse. E` la linea «meno invasiva», la stessa seguita dalla Corte costituzionale e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Gli altri giudici avevano idee diverse dalle mie, erano per l’allontanamento, quasi sempre.
Nella stragrande maggioranza dei casi si trattava di allontanamenti dalle famiglie per motivi economici o perche´ i genitori venivano ritenuti «inadeguati».



Basta che arrivi una segnalazione dei servizi sociali; basta che uno psicologo stabilisca che i genitori siano «troppo concentrati su se stessi». In molti casi, e` evidente, si tratta di vicende strumentali, che partono da separazioni conflittuali. Il problema e` che tutti gli atti del tribunale sono inappellabili perche´ si tratta di provvedimenti formalmente «provvisori». L’allontanamento dalla famiglia, per esempio, e` per sua natura un atto provvisorio. Cosi`, anche se dura anni, per legge non puo` essere oggetto di una richiesta d’appello. Insomma non ci si puo` opporre; nemmeno il migliore avvocato puo` farci nulla.
Dove si trattava di presunte violenze, una quota comunque inferiore al 5 per cento, io ho visto che molti casi si aprivano irritualmente a causa di lettere anonime. Era il classico vicino che scriveva: attenzione, in quella casa molestano i figli. Non c’era nessuna prova. Ma i servizi sociali segnalavano e il tribunale allontanava. Un arbitrio e un abuso grave, perche´ una denuncia anonima dovrebbe essere cestinata. Invece bastava a giustificare l’affido. Del resto, se si pensa che molti giudici onorari erano e sono in conflitto d’interesse, c’e` di che capirne il perche´.
Sono psicologi, sociologi, medici, assistenti sociali. Che spesso hanno fondato istituti. E a volte addirittura le stesse case d’affido che prendono in carico i bambini sottratti alle famiglie, e proprio per un’ordinanza cui hanno partecipato.

Certi fanno 20-30 udienze a settimana e incassano le parcelle del tribunale, ma intanto lavorano anche per gli istituti, le cooperative che accolgono i minori. E` un business osceno e ricco, perche´ quasi sempre bambini e ragazzi vengono affidati ai centri per mesi, spesso per anni. E le rette a volte sono elevate: ci sono comuni e aziende sanitarie locali che pagano da 200 a oltre 400 euro al giorno. Diciamo che il business e` alimentato da chi ha tutto l’interesse che cresca.
 Ovviamente c’e` chi lavora in modo disinteressato. Pero` il fenomeno si alimenta allo stesso modo per tutti. I tribunali dei minori non scelgono dove collocare i minori sottratti alle famiglie, ma guarda caso quella scelta spetta ai servizi sociali. Comunque la crescita esponenziale degli affidi e delle rette e` uguale per i buoni come per i cattivi. E c’e` chi ci guadagna.

In Italia non esiste nemmeno un registro degli affidati, come accade in quasi tutti i paesi occidentali.

Sono almeno 50 mila i minori affidati: credo costino 1,5 miliardi l’anno. Forse di piu`."



Ogni ospite che risiede in una casa-famiglia costa dai 70 ai 120 euro al giorno. La retta agli istituti (sia religiosi sia laici) viene pagata dai Comuni. Soldi pubblici, dunque. Erogati fino a quando il bambino resta "in casa". Un giro d'affari che si aggira intorno a 1 miliardo di euro l'anno. Tanto ricevono le oltre 1800 case famiglia italiane per mantenere le loro "quote" di minori. Ma un bambino assegnato a una coppia è una retta in meno che entra nelle casse della comunità. E così, purtroppo, si cerca di tenercelo il più a lungo possibile. La media è 3 anni. Un'eternità. Soprattutto se questo tempo sottratto alla vita familiare si colloca nei primi anni di vita. Quelli della formazione, i più importanti per il bambino.

Anche da qui si capisce perché migliaia di coppie restano in biblica attesa che le pratiche per l'adozione o l'affido si sblocchino. Poi ovviamente ci sono anche altri fattori, la maggior parte dei quali legati alle lungaggini e alle complicazioni burocratico-giudiziarie.

Da dove nasce questo cortocircuito? Chi lucra sulla pelle di migliaia di bambini e adolescenti che provengono da situazioni difficili, molto spesso drammatiche? "

Il destino più comune per un bambino che cresce in una casa famiglia è quello di diventare un pacco. Sballottato di qua e di là, da una comunità all'altra. A volte i centri se li contendono come merce preziosa. Perché con un minore "in casa" ogni giorno piovono dal cielo rette da 70 euro a 120. Una "diaria" di cui si fa un utilizzo non esattamente "pieno". Operatori laici o suore riescono a contenere le spese facendole stare abbondantemente dentro la retta concessa dai Comuni. Quello che resta diventa liquidità a disposizione della struttura (molte case famiglia vengono mantenute con fondi messi a disposizione dal ministero della famiglia e anche grazie a donazioni private).

Quante sono le case famiglia in Italia? Chi controlla il loro operato, anche amministrativo? Le stime più recenti parlano di oltre 1800 strutture distribuite da Nord a Sud. Con alcune regioni - Emilia Romagna, Lazio, Lombardia, Sicilia - che raggiungono numeri più consistenti (tra le 250 e le 300). Nonostante le casse (e i relativi finanziamenti) di molti Comuni siano al verde, le case-famiglia sono in continuo aumento. Il problema è che non esiste un monitoraggio. Si conosce pochissimo di questi posti e di quello che accade all'interno. Numeri, casi, situazioni, problemi, nella maggior parte dei casi vengono portati all'esterno solo grazie alla sensibilità di qualche operatore e/o assistente sociale. Perché una banca dati c'è ma è insufficiente e non esiste un vero censimento.

Buio pesto anche sul fronte delle verifiche. "Lo Stato paga le comunità ma nessuno chiede alla comunità una giustifica delle spese - aggiunge Lino D'Andrea - . Sarebbe utile che ogni casa-famiglia rendesse pubblica le modalità con cui vengono utilizzati i fondi: quanto per il cibo, quanto per il vestiario, quanto per gli psicologi o le varie attività. Il punto è che, in assenza di informazioni, i bambini stanno in questi posti e nessuno gli fa fare niente. Non crescono, non vivono la vita, non incontrano amici, non fanno sport né gite".

Gli orfanotrofi non sono ancora scomparsi del tutto. Alcuni sono stati convertiti in case-famiglia: anche due o tre comunità nello stesso edificio. Una per piano. Poi le altre storture. Nel libero mercato delle comunità per minori abbandonati, c'è chi, per essere competitivo, abbatte la diaria giornaliera fino a ridurla a 30-40 euro. Teoricamente più la abbassi e più bambini riesci a far confluire nella tua struttura attraverso l'input dei servizi sociali che, a cascata, agiscono su indicazione del tribunale.

Altra nota dolente, i tribunali. Solo nel tribunale di Milano, ogni anno si accumulano 5 mila fascicoli relativi a famiglie disagiate con a carico almeno un minore. "I magistrati non riescono a seguire la pratiche perché i ragazzi raramente sono seguiti dal territorio di competenza - ragiona un operatore dell'infanzia - . La maggior parte sono parcheggiati in un posto senza che nessuno lo segua davvero".

Le storie che vengono a galla compongono un campionario da fare accapponare la pelle. Ma se si prova a restare lucidi, si capisce come ogni vita congelata o sfilacciata, ogni odissea che abbia per protagonista un bambino "di nessuno" si deposita sullo stesso fondo di mala amministrazione. "Le case-famiglia sono una risorsa importante per il reinserimento del minore - spiega l'avvocato Andrea Falcetta, di Roma - ma la permanenza di un bambino va gestita con cura e deve rispondere a un unico criterio: trovargli il prima possibile una collocazione familiare".





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martedì 2 giugno 2015

LA COMUNITA' EBRAICA A CASTEL GOFFREDO

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La presenza di un nucleo ebraico è attestata a partire dal 1468. Il banco di prestito fu gestito per tre secoli da alcuni membri delle famiglie Norsa e Finzi, provenienti da Mantova e Ferrara, e da altri ashkenaziti fra cui i Basilea e i da Praga. I Gonzaga, signori di Castel Goffredo, concessero agli ebrei residenti a "Castel Giuffrè" condizioni particolarmente favorevoli per l'esercizio del prestito, la gestione di altre attività commerciali e l'appalto del dazio di alcuni beni, assieme ad una piena libertà di praticare la loro religione e di vivere secondo le loro tradizioni. Richiesto inizialmente dalla comunità locale con supplica al principe, il banco ebraico fu in seguito alternativamente osteggiato da uomini d'affari del luogo, che ne temevano la concorrenza, e difeso dall'autorità civica per il ruolo indispensabile che svolgeva a favore delle fasce più povere della popolazione. Quando nel secondo Cinquecento a Castel Goffredo sorse anche un Monte di pietà, il banco degli ebrei convisse con esso per quasi un secolo e mezzo senza particolari conflitti, data la loro natura insieme diversa e complementare. La comunità ebraica di Castel Goffredo costituì per circa trecento anni un'importante componente del sistema creditizio locale, sovvenendo anche alle necessità del Comune e mantenendo vivi i rapporti economici con Mantova e le realtà circostanti.

L'edificio della sinagoga sorgeva nella zona compresa tra il vecchio ospedale e vicolo Cannone, corrispondente all'attuale vicolo Remoto.

Della presenza della sinagoga non resta neppure una lapide e le stanze che accoglievano il luogo di culto sono andate irrimediabilmente perdute nel corso del 2010, durante l'abbattimento dell'edificio che le ospitava.



LEGGI ANCHE : http://asiamicky.blogspot.it/2015/06/in-giro-per-castel-goffredo.html





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sabato 23 maggio 2015

PERSONE DI BUSTO ARSIZIO : DON ISIDORO



Don Isidoro Meschi (Merate, 7 giugno 1945 – Busto Arsizio, 14 febbraio 1991) è stato un presbitero e giornalista italiano. Fu ucciso per mano di un giovane squilibrato di cui si prendeva cura da anni.

Nacque a Merate, in provincia di Lecco.

Il padre Guido è molto stimato tra i suoi concittadini per l’impegno come contabile dell’ospedale e della parrocchia, attività che presta gratuitamente, e come militante della Democrazia Cristiana.
All'età di tre mesi rischiò di morire per gravi problemi intestinali.

A Isidoro, fin da piccolo soprannominato Lolo, Gesù si manifesta a sei anni, durante la lezione di catechismo della maestra di scuola: il bimbo se ne innamora, tanto da maturare presto, “con un fulgore da non lasciare dubbio alcuno”, il desiderio di servirlo come sacerdote. La messa del mattino prima di scuola e la recita del rosario diventano abitudini quotidiane per il piccolo Lolo, che a 14 anni entra nel seminario di Seveso.
Poco dopo il suo ingresso in seminario, il padre Guido si ammala gravemente e nel giro di pochi mesi muore a soli 46 anni. La madre vorrebbe riportare Isidoro a casa con sé e con i due fratelli più piccoli, ma il ragazzo la convince a lasciarlo continuare gli studi. È così che nel 1969 Isidoro giunge all’ordinazione sacerdotale.

Il suo primo incarico è nel seminario di Venegono Inferiore come vicerettore. Nel non facile clima di contestazione seguito al Sessantotto, con i ragazzi egli dimostra una rigorosa coerenza unita a una straordinaria capacità di comprensione e accoglienza.
Dopo tre anni, Isidoro viene assegnato alla basilica di San Giovanni a Busto Arsizio, in provincia di Varese. La sua vita pastorale è piena di impegni: educatore in oratorio nei primi anni, insegnante di religione nel liceo classico cittadino, membro del consiglio presbiterale diocesano, direttore del settimanale diocesano “Luce” nell’edizione dell’Alto milanese. Isidoro è molto apprezzato per le sue fini qualità intellettuali, ma è soprattutto sull’altare e nel confessionale che esprime il suo valore: è una guida spirituale instancabile e illuminata, le sue omelie lasciano il segno e il suo rapimento durante la celebrazione eucaristica ne rivelano la fede granitica e feconda. Nonostante i suoi molteplici impegni, infatti, Lolo è sempre pronto a visitare gli ammalati e le persone sole e a prendersi a cuore gli sbandati. Tra loro c’è un ragazzo psicolabile, Maurizio, che don Isidoro cerca in tutti i modi di riabilitare facendolo anche assumere nella redazione del “Luce”.
Anche il suo stile di vita ricalca i dettami evangelici: don Isidoro è astemio e si ciba solo dell’indispensabile, il suo abbigliamento è decoroso ma usurato dal tempo, all’auto preferisce la bicicletta, che usa anche per tenersi in forma, difficilmente accetta regali e rifiuta persino i caffè, tiene per sé solo il necessario e regala ai poveri tutto ciò di cui dispone: denaro, cibo, maglioni, persino il pigiama.
Negli anni Ottanta il dilagare dell’eroina tra i giovani non lo lascia indifferente: per loro apre un punto di ascolto e poi, confidando solo sulle forze proprie e di altri volontari, ristruttura una cascina per farne il centro di recupero “Marco Riva”. Rubando il tempo al sonno, studia libri di psicologia ed elabora un metodo di riabilitazione condensato nel volume: “Dallo sballo all’empatia”, ancora oggi alla base del lavoro della comunità.
La notte del 14 febbraio 1991 Maurizio, geloso delle attenzioni che il sacerdote riservava agli altri bisognosi, va a cercare Lolo alla “Marco Riva” armato di coltello

La notte del 14 febbraio 1991 don Isidoro si trovava alla "Marco Riva" per i consueti incontri con gli ospiti della comunità. Maurizio Debiaggi, giovane con gravi problemi psichici che era stato anche suo collaboratore per il settimanale "Luce", uscì di casa dicendo alla madre che avrebbe dovuto "regolare i conti con il prete", cosa che indusse la stessa madre a telefonare a don Isidoro per avvertitlo. Quando il giovane suonò al portale, don Isidoro gli aprì senza timore. Maurizio Debiaggi però cominciò a gridare ed estrasse un coltello. Invece di cercare la fuga, don Isidoro cercò di farlo ragionare ma il ragazzo lo pugnalò al cuore. Sembrava sapesse di dover morire dato che qualche mese prima aveva scritto il suo testamento. Morì sulla macchina che lo portava all'ospedale.

Don Lolo muore a 46 anni, come aveva spesso profetizzato agli amici, pochi mesi dopo aver scritto il suo testamento spirituale, un vero capolavoro di religiosità che si conclude con questo appello:
Sorelle e fratelli che mi avete conosciuto, accorgetevi che Gesù, Emmanuele, Cristo Signore è davvero in sovrabbondante, gioiosa pienezza Via, Verità, Vita.
In Lui, con Lui, per Lui, scoprite quanto è bella la vita, in tutte le sue espressioni autentiche. Essa, può, forse, sembrare breve, deludente, anche crudele; è invece l’appuntamento e il cammino con l’immolarsi di Gesù per noi, perché noi possiamo credere, sperare, amare fino alla Risurrezione, fino alla vita eterna.
Davanti a qualsiasi fratello, abbiate il coraggio di non chiudere né mente, né cuore; Gesù ce ne rende capaci e ci fa avere il “Suo centuplo”.
Ricordatevi che, credendo in Cristo, abbiamo la incommensurabile ricchezza di poter pregare; non rinunciate mai a mettervi sempre quali discepoli che vogliono imparare a pregare.
Adesso, sapendo che ogni giorno è reso dallo Spirito Santo Pentecoste, uniti a Maria che ci è Madre e Maestra nel permettere alla parola di Dio di illuminare e glorificare l’uomo, ricordando un poco pure me, elevate insieme la preghiera che il Vangelo di Gesù ci insegna: Padre Nostro….

Il testamento viene letto durante la cerimonia funebre, celebrata da 150 sacerdoti e due vescovi e cui partecipa una folla immensa, stimata dalle cronache giornalistiche intorno alle 20mila persone. Alla messa di suffragio che l’aveva preceduta, il cardinale Carlo Maria Martini, allora arcivescovo della diocesi di Milano, aveva detto: “Sono certo che questa morte sarà un grande segno evangelico. Non è una morte come le altre, non è una semplice disgrazia, non è una semplice perdita di un prete giovane da cui speravamo molto per la diocesi, non è un semplice vuoto ma un grande segno evangelico e voi tutti che siete venuti qui, che lo avete conosciuto, lo sentite profondamente come un grande segno evangelico per un mondo distrutto dall’odio. E io oso affermare che questo segno non sarà solo per questa comunità, non sarà solo per la città di Busto Arsizio, sarà per tutta la diocesi, per tutto il clero. Chissà che un giorno non possa essere un segno per tutta la Chiesa e fare parte della santità della Chiesa.”.

A distanza di dieci anni dalla morte il cardinale Carlo Maria Martini celebrò una santa Messa in ricordo di don Isidoro nella chiesa parrocchiale di San Giovanni di Busto Arsizio. La città mantiene il suo ricordo e ogni anno, in occasione di san Valentino, viene fatto un concerto in sua memoria in città.

A don Isidoro sono stati intitolati una via nella città di Busto Arsizio, un centro di ascolto della Caritas Italiana a Busto Arsizio ed un centro residenziale e diurno per persone affette da AIDS a Tabiago di Nibionno, in provincia di Lecco. Proprio a Nibionno è stato istituito il premio letterario "Isidoro Meschi".




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domenica 10 maggio 2015

LE SANTE DI LOVERE : SANTA BARTOLOMEA CAPITANIO

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Bartolomea Capitanio (Lovere, 13 gennaio 1807 – Lovere, 26 luglio 1833) è stata una religiosa italiana, fondatrice (insieme a Vincenza Gerosa) della congregazione delle Suore di Maria Bambina. È stata proclamata santa da papa Pio XII nel 1950.

Nacque il 13-1-1807 a Lovere (Bergamo), sul lago d'Iseo, da Modesto Capitanio, negoziante di grano e panettiere. Bartolomea e Camilla, le uniche figlie rimaste ai genitori, furono educate alla pietà e alla virtù dalla madre Caterina, la quale ebbe molto a soffrire da parte del marito. Possedeva costui un carattere così violento che i suoi compaesani lo chiamavano: "Modestino il matto". Più volte la settimana si ubriacava, faceva inorridire i vicini con le sue bestemmie e, ingelosito, batteva o scacciava di casa la consorte. Nonostante tanti cattivi esempi, Bartolomea crebbe ubbidiente e pura. Si commuoveva profondamente nell'ascoltare le prediche. Un giorno ne udì una sul peccato. Piangendo, esclamò: "O Gesù, non ti offenderò più". Quando la mamma la condusse in pellegrinaggio al santuario di San Luigi Gonzaga a Castiglione delle Stiviere (Mantova), Bartolomea chiese al giovane gesuita la grazia di morire della sua stessa malattia.

L'11-7-1818 Caterina, malgrado le resistenze del padre, riuscì ad affidare l'educazione della figlia maggiore alle Clarisse di Lovere. Sotto la guida di Madre Francesca Parpani Bartolomea propose di farsi santa, grande santa e presto santa con l'abnegazione di se stessa, l'esercizio dell'umiltà e la preghiera. Quando la mamma le portava frutta e dolci, essa li regalava alle compagne senza neppure assaggiarli.

Digiunava ogni sabato, lasciava il vino e la merenda ogni venerdì e poiché le ripugnava assai, si chinava talvolta a baciare la terra. Non si riscaldava quando aveva freddo, non si lamentava quando aveva caldo e talora metteva dei sassolini nelle scarpe. Per la Madonna faceva ogni giorno un dato numero di mortificazioni. Chiamava il mese mariano "il suo carnevale", tanto era lieta di onorare con speciali pratiche e digiuni la Madre di Dio che invocava sempre prima d'intraprendere un'azione. Madre Parpani, per correggere Bartolomea, della superbia alla quale si sentiva violentemente inclinata, la trattò senza riguardi, tanto da far esclamare ad una teste: "Sembrava che la maestra la odiasse". La Santa, rimproverata a torto, taceva. Una volta fu mandata per un mese nella classe inferiore dove le bimbe imparavano a leggere, pur essendo la migliore della classe. Anziché sgomentarsi, Bartolomea si sforzò di adempiere puntualmente tutte le regole dell'educandato.
In uno dei suoi scritti propose: "Voglio perseguitare l'amor proprio e la superbia, voglio proprio mettermi sotto i piedi di tutti e tutto quello che sarà contrario al mio genio, che avrò ripugnanza a fare o a dire, quand'anche mi costasse sudore di sangue, lo farò e lo paleserò a tutti i costi". Non contenta poi di pregare durante il giorno, molte volte impiegava anche parte della notte a rivolgere dolci colloqui a Gesù, a Maria e a San Luigi. Per la sua grande pietà, negli ultimi due anni che rimase nell'educandato, le venne concessa la comunione quotidiana, favore raro in quei tempi di rigorismo. A una compagna che le chiedeva come facesse a sopportare tante umiliazioni, rispose: "L'occasione di soffrire mi è cara perché così ho qualche cosa da presentare al Signore nella santa comunione".

Conseguito il diploma di maestra assistente nel 1822, cominciò nell'istituto stesso la sua attività di insegnante con le scolarette della prima elementare. Lasciato l'educandato il 18 luglio 1824 e ritornata in seno alla famiglia, continuò la sua carriera didattica nella piccola scuola aperta l'anno seguente nella sua stessa casa in favore delle bambine povere, sperimentando ed elaborando il suo metodo, fatto di intuizione e di penetrazione delle anime delle fanciulle.

Per mantenere il proposito di raggiungere la santità ad ogni costo, stese il metodo di vita che si prefiggeva di condurre nel mondo (26-10-1826). La sua giornata s'apriva con un'ora di meditazione e la Messa, alla quale aggiungeva la comunione ogni volta che il suo direttore gliela permetteva, e si chiudeva con una visita al SS. Sacramento e il rosario che recitava dopo la cena coi familiari, inginocchiata per terra. Tra l'altro propose di visitare i poveri malati una volta la settimana, di privarsi tre volte la settimana di qualche cibo per donarlo ad essi, di fare tutte le feste un po' d'istruzione alle giovani ignoranti, di recarsi in ispirito al suono delle ore o delle campane in chiesa per una visita al SS. Sacramento e la comunione spirituale. Nel mistero eucaristico, scrisse: "Non vedo che amore, non conosco che amore, e meditandolo, non provo che amore". E così si può dire, afferma Madre Parpani, che "la sua vita fu una continua orazione e unione con Dio, giacché non sapeva mai scordarsi della divina Presenza".
Il babbo continuava a bere e a bestemmiare. Bartolomea non gli mancò mai di rispetto. Con una dolcezza infinita un po' per volta lo ridusse a fargli sentire qualche devota lettura prima del rosario con grande ammirazione del vicinato. Morì tra le sue braccia pentito dei suoi errori nel 1831. Poco dopo Bartolomea, era uscita dal collegio anche sua sorella Camilla, di temperamento molto difficile e incostante. Sebbene minore, comandava la maggiore con importunità. Bartolomea "non solo non se ne doleva, ma correva volenterosissima a contentarla e servirla", testimoniò il suo direttore spirituale, Don Angelo Bosio, coadiutore del prevosto Don Rusticiano Barboglio.
Costoro, sapendo di quanta abilità avesse dato saggio nel monastero, stabilirono di sottrarla al ristretto ambiente domestico. Per non lasciare isterilire in un negozio di fornaio le sue doti così belle pensarono di affidarle le giovanotte della parrocchia. La Santa diede i suoi esami a Bergamo e, nel 1835, aprì nella casa paterna una scuola privata che trasferì poi in quella di Don Bosio quando le alunne arrivarono a 50. Il suo metodo educativo si compendiava in questa massima: "Amare le bambine senza parzialità e sacrificarsi per loro". Quello che cercava di evitare ad ogni costo e di bandire dalle sue scuole era la noia adattandosi alle capacità di ogni alunna, cercando di riuscire facile e dilettevole.
La domenica radunava le fanciulle in casa di Caterina Gerosa, che con il suo aiuto aveva adattato una stanza a cappella e arricchito di arredi sacri. Colà recitavano il rosario, cantavano l'ufficio della Madonna, ascoltavano gli avvisi della giovane maestra, e poi si divertivano lontano dai ritrovi pericolosi. Quest'oratorio fu l'inizio della Congregazione Mariana alla quale Bartolomea diede determinate regole. Non paga del bene che faceva alle giovanotte, volle giungere alle anime religiose e sacerdotali ideando per loro la Pia unione di Gesù e Maria, composta di 12 sacerdoti e 72 vergini, in ricordo del collegio apostolico. I parroci dei paesi vicini le mandavano delle giovani affinchè insegnasse loro a fare scuola. Sovente fu invitata a recarsi nei paesi della Valcamonica per spronare le ragazze alla virtù e raggrupparle in pie associazioni con appropriati statuti. Manteneva poi con esse una relazione costante. Le sue lettere, raccolte in due volumi, riflettono l'ardore del suo cuore d'apostola. Dopo le fatiche della giornata, vegliava ancora di notte per scrivere l'esame di coscienza, vergare lettere per le amiche, fissare statuti per le associazioni, comporre novene che un'amica ricopiava per distribuirle poi ad altre anime desiderose di perfezione.
All'amica Marianna Verteva scrisse: "Sono innamoratissima della vita ritirata e religiosa, ma d'altronde troppo mi piace l'impiegarmi in opere di carità spirituali e temporali, le quali in un monastero non si possono esercitare, salvo quella di pregare il Signore per i peccatori". Non contenta di istruire le ragazze, penetrò nelle prigioni per consolare le recluse, nei tuguri per aiutare i poveri con cibi e vestiti raccolti tra le amiche. Per il totale esercizio della carità fece voto di cercare nel modo di pensare, parlare e operare soltanto quello che chiaramente conosceva essere il più perfetto.
Le sorelle Caterina e Rosa Cerosa fin dal 1826 avevano lasciato alla Congregazione di Carità una casa con podere, da trasformarsi in ospedale. Alla carica di direttrice ed economa fu da loro scelta la Capitanio, la quale aveva allora diciannove anni. La santa apparve tutti i giorni, dopo la scuola, accanto ad ogni letto per confortare, prestare i più umili servizi e medicare anche i malati più ributtanti e pericolosi. Vedendo crescere i bisogni degli infermi, dei poveri, dei derelitti e della gioventù concepì, d'accordo con il suo direttore spirituale, l'idea d'istituire una famiglia religiosa che si dedicasse alla carità operosa. Con l'aiuto di Caterina Gerosa riuscì a superare la scarsezza dei mezzi materiali. Di fronte all'ospedale fu comperata e restaurata la casa Gaia, chiamata poi dal popolo il Conventino, ed in essa il 21-11-1832 furono accolte le orfane e le scuole dopo che le due amiche avevano ascoltato la Messa del prevosto, e si erano offerte per mano di Maria SS. a Dio e al servizio della gioventù e dei malati, secondo le regole delle Figlie della Carità di San Vincenzo de' Paoli.
Nel lasciare la mamma e la sorella, Bartolomea scrisse: "V'assicuro che, se non conoscessi chiaramente che la mia vocazione è vera volontà di Dio, non farei questo passo per tutto l'oro del mondo". Nella sua nuova vita fu felice. Così ne parlò ad un'amica: "Vi confesso sinceramente che ho sempre considerato lo stato religioso come una vera morte di me stessa, ma in pratica riesce assai più vero. Non sono più padrona di me stessa; bisogna sempre operare come piace agli altri, adattarsi in tutto agli altri, calpestare l'amor proprio, sacrificarsi per la carità, tacere, sopportare, mostrarsi allegra, non desiderare nemmeno le cose più sante qualora non si confacessero con gli obblighi del proprio stato, insomma essere morta affatto in ogni cosa per non vivere che per Gesù Cristo e la sua santissima Volontà. E una vita veramente crocifissa, ma che viene addolcita da quell'amabile Sposo che gradisce i sacrifici delle sue serve. Non la cambierei con tutte le consolazioni, non dico terrene, ma neanche spirituali, perché la sicurezza di fare la volontà di Dio è quella che mi rende perfettamente contenta. Per carità, raccomandatemi al Signore, che mi faccia piuttosto morire che essere pietra d'inciampo alla sua opera".
Per il suo Istituto la Capitanio doveva essere la pietra d'angolo. Sul finire della quaresima del 1833, tornando dalla chiesa parrocchiale dov'era stata con le sue giovanotte ad adorare il SS. Sacramento esposto, si sentì più stanca del solito. Il medico la visitò e la trovò affetta da bronchite e da un generale indebolimento dell'organismo. Morì serenissima il 26-7-1833 dopo aver detto alla continuatrice della sua missione, Santa Vincenza Gerosa (+1847): "Quando sarò in cielo, sarò più utile all'Istituto che se rimanessi in terra".
Le Suore di Maria Bambina sono sparse in tutti i continenti. Per esse aveva previsto una ricca messe quando disse: "Non dubitate, l'Istituto durerà fino alla fine del mondo". Bartolomea Capitanio fu beatificata da Pio XI il 30-5-1926 e canonizzata da Pio XII il 18-5-1950. Le sue reliquie sono venerate nel tempio eretto a Lovere dalla pietà delle sue figlie spirituali nel 1938, accanto a quelle di S. Vincenza Gerosa.

La sua festa liturgica è il 28 aprile, mentre la Congregazione delle Suore di Maria Bambina e le diocesi di Brescia, Bergamo e Milano la ricordano il 18 maggio.




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giovedì 2 aprile 2015

LA RIVIERA DI SALO'

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La Riviera di Salò, ufficialmente nata come «Comunità della Riviera bresciana del lago di Garda», fu una confederazione di 34 comuni della riviera bresciana del lago di Garda e di parte della Valle Sabbia. Durante la dominazione veneziana il senato veneto elargì alla Patria il titolo di Magnifica e di Figlia primogenita della Serenissima, tanto da essere ricordata ancora oggi come la Magnifica Patria della Riviera di Salò. I suoi abitanti furono indicati come "Quelli di Salò". Venne sciolta nel maggio 1797.

Il 4 novembre del 1334 le 34 comunità della riviera e di parte della val Sabbia fondarono la comunità della Riperiae lacus Gardae Brixiensis con capoluogo Maderno. Essa era una sorta di federazione con a capo un podestà. Non volendosi alleare né con Brescia, né con Verona, decidono di dedicarsi a Venezia che manderà un provveditore.

Nel 1350 la riviera cadrà nelle mani dei Visconti, visto l'impossibilità per Venezia di proteggere un così lontano territorio. Nel 1362 Salò è cinta d'assedio da parte delle truppe scaligere e la resistenza dei cittadini, unita alla grande accoglienza per Beatrice Visconti, faranno sì che il capoluogo della riviera passi da Maderno a Salò. Con la salita al potere di Gian Galeazzo Visconti Maderno tornerà ad essere la capitale per un breve periodo per poi perdere nuovamente, durante la stesura degli statuti, il titolo. Alla morte del duca i rappresentanti di Salò e della Riviera occuparono il quinto posto nella processione funebre, ben più avanti di città quali Brescia o Verona.

Nel 1428 Salò e la Riviera tornano ad essere dominio della Serenissima, per motu proprio della Comunità, che abbandona i Visconti poco prima dell'assedio di Brescia. Nei successivi anni la Riviera si schiera più volte a favore dei Visconti, mentre Brescia rimane fedele alla Dominante, pertanto Venezia porrà la Riviera nella giurisdizione di Brescia.

Solo nel 1443 la riviera otterrà di essere indipendente, almeno parzialmente, da Brescia e a poter nuovamente accogliere sul Garda il Capitano della Riviera e Provveditore di Salò mandato dal Senato veneziano.

Durante questi anni Venezia elargirà alla Patria il titolo di Magnifica e di Figlia primogenita della Serenissima, insieme ad innumerevoli autonomie, tale da renderla quasi uno stato a sé stante. Con la guerra della Lega di Cambrai la Magnifica Patria è conquistata da Francesi e Spagnoli, mal voluti dalla popolazione, tornando poi ad innalzare le bandiere di San Marco.

Dalla riviera, il 23 aprile 1570, parte una nave di armigeri per combattere contro il turco. Questi si fanno onore durante la battaglia di Lepanto.

Nel 1580 il futuro santo Carlo Borromeo arriva in visita pastorale a Salò, dirimendo questioni e fondando un Monte di Pietà spirituale per pagare degli insegnanti che educhino i giovinetti e i fanciulli poveri di Salò.

Con l'arrivo delle truppe di Napoleone a Salò il 17 agosto 1796, inizia la fine della Magnifica Patria. Il 25 marzo dei messaggeri da Brescia, insorta contro la dominante, porta l'annuncio della rivoluzione; i Salodiani in principio accolgono la notizia, poi, allontanatisi i bresciani, decidono per rimanere fedeli alla Serenissima: ha inizio la contro-rivoluzione, l'unica ufficialmente appoggiata da Venezia.

Le truppe Bresciane e Bergamasche che attaccano il golfo vengono respinte e arrestate, grazie all'intervento degli abitanti della valle Sabbia. Il 20 maggio la città di Salò è costretta ad arrendersi ai francesi, che gli toglieranno il titolo di capitale, il nome e l'indipendenza da Brescia. Nelle successive dominazioni non verrà più restaurata una provincia, dipartimento o cantone simile alla Riviera, ma sarà sempre smembrata.

La rivera era governata da un consiglio della comunità composta da 36 consiglieri che entrano in carica metà a gennaio e metà a luglio. Ogni quadra mandava 6 consiglieri. Tra questi venivano eletti trimestralmente 6 deputati, uno per quadra, incaricati di governare effettivamente la patria. Tutti i consiglieri non potevano essere imparentati direttamente (padri, figli o fratelli) o indirettamente (cognati, suoceri, nuori) con altri in carica e neppure con il sindico speciale. Al termine del loro mandato non possono essere rieletti per almeno un anno. Alla prima riunione di gennaio e di luglio sono presenti sia i consiglieri uscenti che quelli entranti, per un totale di 56 consiglieri. Il sindico speciale deve essere laureato e deve presenziare tutti i consigli di comunità per poter contrastare tutte le parti (leggi) presentate dai deputati, non può votare.

Dal punto di vista giuridico-amministrativo la Comunità benacense già con gli statuti del 1476 fra i primi testi ad avere l'onore della stampa - appare composta da trentaquattro comuni raggruppati in sei quadre - Gargnano, Montagna, Maderno, Salò, Valtenesi e Campagna - ai quali se ne aggregarono altri otto. Tali unità rimasero invariate per il Sei e Settecento e le stesse Anagrafi assegneranno alla Riviera 42 comuni con 56 parrocchie". Il rappresentante di Venezia risiedette sempre a Salò, malgrado le reiterate istanze di Maderno (sino al 1377 capoluogo della comunità) che vi fosse almeno alternanza fra i due centri quale residenza del rettore veneto. Il quale si intitolava appunto provveditore di Salò e capitano della Riviera, amministrava la giustizia criminale (quella civile era di spettanza di un patrizio bresciano, con il titolo di podestà), aveva potere di convocare il consiglio generale della comunità, in cui però non aveva diritto di voto; nella sua cancelleria criminale il coadiutore originario era nominato dalla comunità, di cui era fiduciario. Il consiglio generale della comunità (presieduto dal sindaco, affiancato da sei deputati con compiti esecutivi e di controllo) si radunava dunque a Salò, che a pieno titolo può considerarsi la capitale di questa provincia autonoma di Terraferma. Capitale talora contestata, come risulta dalle unità inventariate in questa sottoserie, nella quale sono stati inclusi i pezzi relativi non solo ai rapporti del comune di Salò con la comunità di Riviera, ma altresi quelli concernenti rapporti con quadre e comuni della stessa, a meno che la materia di tali rapporti non fosse materia specifica di altre serie, come ad es. "Estimi" o "Gravezze e dazi".



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