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domenica 10 maggio 2015

LE SANTE DI LOVERE : SANTA VINCENZA GEROSA

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Vincenza (Caterina) Gerosa (Lovere, 29 ottobre 1784 – Lovere, 20 giugno 1847) è stata una religiosa italiana, cofondatrice (insieme a Bartolomea Capitanio) dell'Istituto delle suore della carità, dette di Maria Bambina. È stata proclamata santa da papa Pio XII nel 1950.

Caterina Gerosa nasce a Lovere nel 1784 in una famiglia facoltosa, nella quale con i genitori Gianantonio e Giacomina Macario vivono anche gli zii paterni, associati nel commercio delle pelli. Prima di quattro sorelle, viene presto coinvolta negli affari, dove rivela diligenza e spiccate capacità.

Cresciuta in un contesto profondamente cristiano, coltiva con entusiasmo la sua vita di fede, rivelando una grande passione per il Crocifisso da cui attinge forza e serenità per affrontare le contraddizioni e le prove familiari.

Tra i genitori e gli zii di Caterina Gerosa erano perciò molto frequenti i malumori e i litigi. Col crescere negli anni la santa ne sofferse atrocemente. Non riuscendo ad impedirli si rifugiava ai piedi del crocifìsso per attingere da Lui consolazione e forza.
Lo zio Ambrogio apprezzò l'intelligenza e la serietà della nipote e l'avviò, dopo la scuola elementare, a passare la giornata al banco di bottega e al mercato accanto a sé. Prima dell'alba, però, ella si recava in chiesa per ascoltare la Messa e fare la comunione. La sera, dopo le svariate occupazioni del giorno, vi ritornava per pregare per tutti i bisogni della famiglia e della società. In casa tutti ne ammiravano in silenzio la pietà perché, invece di farle trascurare i doveri, la rendeva più laboriosa, umile e mortificata. Benché erede di un grande patrimonio si adattava a zappare l'orto. A chi le manifestava la propria meraviglia, rispondeva: "Che volete? Devo fare la volontà di Dio". Vestiva abiti semplici e rattoppati; mangiava lo stretto necessario e, qualche volta, polenta e noci per dare ai mendicanti la sua parte di cibo; di notte si flagellava e restava a lungo prostrata sul pavimento.
A diciassette anni la Gerosa perdette il padre. Poco dopo ebbe il dolore di vedere confinare la propria madre a vivere da sola con i proventi della legittima e la proibizione, da parte degli zii, d'intrattenere relazioni con le figlie. Quando morì (1814) sull'Italia settentrionale si abbatté il flagello della carestia, al quale, tre anni dopo, si aggiunse quello del vaiolo e della febbre petecchiale. Sotto la direzione del prevosto Don Barboglio, la Gerosa fu in quel tempo un angelo consolatore per tanti poveri e malati. I testimoni dei processi asseriscono che "avrebbe dato via i muri per fare carità"; che andava ella stessa a mendicare per i bisognosi; che quattro volte la settimana offriva in casa sua un lauto pranzo a tredici poveri. Gli abitanti di Lovere la consideravano la principale loro consigliera tanto era retta, e mentre i poveri la chiamavano "zia", essi la chiamavano "signora". Caterina approfittò dell'ascendente che si era guadagnato con l'esercizio delle opere di misericordia per richiamare le giovani a una maggiore serietà di vita, i sacerdoti allo zelo delle anime e i peccatori alla frequenza dei sacramenti.
Alla morte dello zio Ambrogio (1822), tutto il patrimonio di casa Gerosa passò in proprietà della santa e in usufrutto della zia Bartolomea. Ignorando che cosa il Signore volesse da lei, la Gerosa largheggiò ancora di più nella paga agli operai e nel soccorso agli sventurati. Un giovane serio le aveva offerto la sua mano, ma ella, mostrandogli l'immagine di Sant'Agnese, gli aveva risposto che era già sposata. Le era stato rivolto l'invito (1819) di entrare tra le Figlie della Carità di S. Maddalena di Canossa (+1835), ma ella lo aveva rifiutato perché si riteneva indegna di appartenere ad una Congregazione Religiosa. A Lovere istituì (1821) la Congregazione Mariana per le fanciulle e un piccolo ospedale (1826), sotto la direzione di Bartolomeo Capitanio, la figlia del fornaio, uscita nel 1824 dal collegio delle Clarisse. Di entrambe le istituzioni ella riservò a sé soltanto le preoccupazioni dell'amministrazione. Le due sante si compresero e si completarono a vicenda nell'esercizio delle opere di carità. Ma mentre la Gerosa, impegnata a santificarsi nell'osservanza delle sue regole di terziaria francescana, non viveva che per l'Oratorio e l'Ospedale, la Capitanio, sotto la guida del suo confessore, il curato Don Angelo Bosio, aspirava a fondare una famiglia religiosa per l'educazione della gioventù e la cura dei malati. Ne parlò alla sua amica Gerosa che contava allora quarantacinque anni, ma costei, di temperamento timido, introverso, le rispose con la sua abituale umiltà: "Noi siamo buone a niente, dobbiamo vivere nascoste, contentarci di quel poco che Dio vuole". Tuttavia si piegò alle reiterate insistenze di Don Bosio convinta di fare così la volontà di Dio, e affrontò pazientemente la fiera opposizione dell'iraconda zia Bartolomea (+1843), contrarissima a che la nipote offrisse il suo patrimonio per l'acquisto della casa Gaia, adiacente all'ospedale e, dal 21-11-1832, sede dell'incipiente Istituto.
La Gerosa si mise alle dipendenze di Bartolomea, più intelligente e intraprendente. "Io sono entrata - le diceva - non per riposare, né per comandare, ma per lavorare, per essere la serva di tutte". In casa, nell'ospedale e nel piccolo orfanotrofio, istituito per dieci fanciulle povere del paese, non le mancavano di certo le più umili e faticose occupazioni.
Agli inizi, che facevano presagire un glorioso avvenire, Iddio aveva segnata una prova molto dolorosa per la Gerosa: la morte della Capitanio (+1833). Che avrebbe fatto senza di lei? Ebbe un momento di accorata nostalgia per la casa che aveva abbandonato, ma umile, sottomessa e docile come sempre ai consigli di Don Bosio, rimase al suo posto, mentre andava ripetendo: "Essi vogliono un'opera grande, io non la capisco, non la vedo. Farà Iddio". Più tardi, parlando della Capitanio, confesserà: "Essa era un'aquila per il suo fervore, per i suoi desideri e io invece un bue che sempre la tirava indietro". L'olocausto della fondatrice non tardò a suscitare una fioritura di vocazioni nell'Istituto da lei appena avviato. Caterina le formò alla vita religiosa esigendo apertamente da loro spirito di sacrificio e di povertà.
Compendiava tutta la sua ascetica dicendo sovente: "Chi sa il crocifisso sa tutto, chi non sa il crocifisso non sa nulla". E, per conto suo, continuava ad aspergere lo scarso cibo di cenere e di acqua, a tracciare per terra con la lingua grandi segni di croce, a fare uso di cilici e di flagelli, a pregare di notte a lungo con le braccia aperte o con le mani sotto le ginocchia, e a praticare fin allo scrupolo, nonostante i suoi cinquant'anni suonati, le esortazioni che Don Bosio faceva alla comunità nelle conferenze mensili. Le sarebbe piaciuto continuare ad indossare il suo grembiule, ma quando i superiori decisero di darle un divisa (1835) acconsentì a portare, con il nome di Suor Vincenza, la cuffia e il velo. Essendo rimasta in lei una spiccata tendenza a mostrarsi con l'abito succinto o con gli zoccoli di legno a persone ragguardevoli, a usare con esse termini poco cortesi e a compiere gesti non conformi alla buona creanza, Don Bosio non temeva di rimproverarla. "Che volete? - diceva allora. - Sono stata educata sotto il camino". Ovvero: "Che può fare di meglio un'ignorante?". La Gerosa non consentì di essere chiamata superiora, ma soltanto "la più vecchia" perché riteneva le sue prime cinque compagne più capaci di lei. Era ferma tuttavia nell'esigere da tutte la fedele osservanza delle regole; era sincera nel riprenderle privatamente dei difetti; era severa con chi mancava di semplicità. A nessuna permetteva pressioni sulle aspiranti alla vita religiosa. "Lo spirito del Signore - diceva - è come un leggero venticello che spira dove vuole. Egli è il padrone dei cuori, li tocca e li chiama. L'opera è sua. Egli sa quello che torna a nostro bene, quello che è necessario. Lasciamo fare a Dio, non preveniamo le sue disposizioni con il pericolo di guastarle". Esatta nel compimento dei suoi doveri, voleva che lo fossero tutte le suore. Ad esse ripeteva sovente: "Se non si mette buon fondamento, la casa cade".
Ben presto l'opera avrebbe varcato i confini del paese, ma nella sua umiltà Suor Vincenza non si stancava di ripetere: "Noi non siamo buone a niente, il nostro Istituto è da niente, l'infimo di tutti". Invece, nel colera scoppiato a Lovere nel 1836, le Suore di Carità diedero a vedere di quanto eroismo fossero capaci. La loro fama giunse lontano. A Bergamo il sacerdote Carlo Botta aveva ideato di raccogliere nel convento di Santa Chiara vecchie signore e povere fanciulle bisognose di assistenza. Si era perciò rivolto alla santa per avere alcune suore, ma ella ne era rimasta tanto accorata da ammalarne perché, secondo lei, l'Istituto doveva rimanere nella cerchia di Lovere. Iddio voleva invece che si diffondesse per tutto il mondo, specialmente dopo che Gregorio XVI lo approvò (1838).
Essendo stata riconfermata nella carica di superiora, invano Suor Vincenza ripeteva: "Io sono vecchia. Non sono buona ad altro che a guastare l'opera di Dio. Farò quello che potrò, ma nello stato di suddita: aiuterò, brigherò, ma non voglio responsabilità. La mia testa è balorda e buona a niente". Tutti sapevano invece che era dotata di molto buon senso, che era sempre pronta ad abbandonare la propria opinione per seguire quella di Don Bosio, direttore di ferrea volontà. Nel 1842 poté così mandare le sue religiose nell'ospedale fondato dalla contessa Laura Ciceri Visconti a Milano, ed erigere il primo noviziato della Lombardia accanto alla comunità impegnata nell'assistenza dei malati.
Prima di morire la santa stabilì 247 sue suore in 24 case, le visitò più volte, le diresse scrivendo loro: "Siate guidate dalla retta intenzione di piacere a Dio, e per piacergli abbiate una profonda umiltà, una inalterabile pazienza, un'illimitata carità". Temeva fino all'affanno che esse, pure e semplici, rimanessero vittime dei pericoli tra i quali esercitavano il loro apostolato. Per questo raccomandava loro: "Abbiate molto cuore, ma anche testa". Grande era il suo ascendente su tutte sia perché eroica nell'esercizio delle virtù, sia perché dotata del dono della profezia. Infiacchita dal lavoro e dalle penitenze, assalita da una tosse insistente e cavernosa che le impediva il respiro e il riposo, Suor Vincenza si mise a letto nel mese di maggio 1847 con la previsione di non alzarsi più. Lasciò per testamento un discreto patrimonio all'Istituto e stabilì vari legati pii. Libera ormai dalle terrene preoccupazioni, diceva alle suore che andavano a chiederle ordini: "Lasciatemi quieta, pensateci voi, io ho da morire, voglio pensare a prepararmi". Ai medici che si affannavano a cercare rimedi ai suoi mali diceva: "Lasciatemi andare in Paradiso, adesso è la mia ora". Morì dolcemente il 28-6-1847.
Pio XI al beatificò il 7-5-1933 e Pio XII la canonizzò il 18-5-1950. Le sue reliquie sono venerate a Lovere con quelle di S. Bartolomeo Capitanio nella cappella dell'Istituto.

La sua festa liturgica è il 28 giugno, mentre la Congregazione delle Suore di Maria Bambina e le diocesi di Brescia, Bergamo e Milano la ricordano il 18 maggio.






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LE SANTE DI LOVERE : SANTA BARTOLOMEA CAPITANIO

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Bartolomea Capitanio (Lovere, 13 gennaio 1807 – Lovere, 26 luglio 1833) è stata una religiosa italiana, fondatrice (insieme a Vincenza Gerosa) della congregazione delle Suore di Maria Bambina. È stata proclamata santa da papa Pio XII nel 1950.

Nacque il 13-1-1807 a Lovere (Bergamo), sul lago d'Iseo, da Modesto Capitanio, negoziante di grano e panettiere. Bartolomea e Camilla, le uniche figlie rimaste ai genitori, furono educate alla pietà e alla virtù dalla madre Caterina, la quale ebbe molto a soffrire da parte del marito. Possedeva costui un carattere così violento che i suoi compaesani lo chiamavano: "Modestino il matto". Più volte la settimana si ubriacava, faceva inorridire i vicini con le sue bestemmie e, ingelosito, batteva o scacciava di casa la consorte. Nonostante tanti cattivi esempi, Bartolomea crebbe ubbidiente e pura. Si commuoveva profondamente nell'ascoltare le prediche. Un giorno ne udì una sul peccato. Piangendo, esclamò: "O Gesù, non ti offenderò più". Quando la mamma la condusse in pellegrinaggio al santuario di San Luigi Gonzaga a Castiglione delle Stiviere (Mantova), Bartolomea chiese al giovane gesuita la grazia di morire della sua stessa malattia.

L'11-7-1818 Caterina, malgrado le resistenze del padre, riuscì ad affidare l'educazione della figlia maggiore alle Clarisse di Lovere. Sotto la guida di Madre Francesca Parpani Bartolomea propose di farsi santa, grande santa e presto santa con l'abnegazione di se stessa, l'esercizio dell'umiltà e la preghiera. Quando la mamma le portava frutta e dolci, essa li regalava alle compagne senza neppure assaggiarli.

Digiunava ogni sabato, lasciava il vino e la merenda ogni venerdì e poiché le ripugnava assai, si chinava talvolta a baciare la terra. Non si riscaldava quando aveva freddo, non si lamentava quando aveva caldo e talora metteva dei sassolini nelle scarpe. Per la Madonna faceva ogni giorno un dato numero di mortificazioni. Chiamava il mese mariano "il suo carnevale", tanto era lieta di onorare con speciali pratiche e digiuni la Madre di Dio che invocava sempre prima d'intraprendere un'azione. Madre Parpani, per correggere Bartolomea, della superbia alla quale si sentiva violentemente inclinata, la trattò senza riguardi, tanto da far esclamare ad una teste: "Sembrava che la maestra la odiasse". La Santa, rimproverata a torto, taceva. Una volta fu mandata per un mese nella classe inferiore dove le bimbe imparavano a leggere, pur essendo la migliore della classe. Anziché sgomentarsi, Bartolomea si sforzò di adempiere puntualmente tutte le regole dell'educandato.
In uno dei suoi scritti propose: "Voglio perseguitare l'amor proprio e la superbia, voglio proprio mettermi sotto i piedi di tutti e tutto quello che sarà contrario al mio genio, che avrò ripugnanza a fare o a dire, quand'anche mi costasse sudore di sangue, lo farò e lo paleserò a tutti i costi". Non contenta poi di pregare durante il giorno, molte volte impiegava anche parte della notte a rivolgere dolci colloqui a Gesù, a Maria e a San Luigi. Per la sua grande pietà, negli ultimi due anni che rimase nell'educandato, le venne concessa la comunione quotidiana, favore raro in quei tempi di rigorismo. A una compagna che le chiedeva come facesse a sopportare tante umiliazioni, rispose: "L'occasione di soffrire mi è cara perché così ho qualche cosa da presentare al Signore nella santa comunione".

Conseguito il diploma di maestra assistente nel 1822, cominciò nell'istituto stesso la sua attività di insegnante con le scolarette della prima elementare. Lasciato l'educandato il 18 luglio 1824 e ritornata in seno alla famiglia, continuò la sua carriera didattica nella piccola scuola aperta l'anno seguente nella sua stessa casa in favore delle bambine povere, sperimentando ed elaborando il suo metodo, fatto di intuizione e di penetrazione delle anime delle fanciulle.

Per mantenere il proposito di raggiungere la santità ad ogni costo, stese il metodo di vita che si prefiggeva di condurre nel mondo (26-10-1826). La sua giornata s'apriva con un'ora di meditazione e la Messa, alla quale aggiungeva la comunione ogni volta che il suo direttore gliela permetteva, e si chiudeva con una visita al SS. Sacramento e il rosario che recitava dopo la cena coi familiari, inginocchiata per terra. Tra l'altro propose di visitare i poveri malati una volta la settimana, di privarsi tre volte la settimana di qualche cibo per donarlo ad essi, di fare tutte le feste un po' d'istruzione alle giovani ignoranti, di recarsi in ispirito al suono delle ore o delle campane in chiesa per una visita al SS. Sacramento e la comunione spirituale. Nel mistero eucaristico, scrisse: "Non vedo che amore, non conosco che amore, e meditandolo, non provo che amore". E così si può dire, afferma Madre Parpani, che "la sua vita fu una continua orazione e unione con Dio, giacché non sapeva mai scordarsi della divina Presenza".
Il babbo continuava a bere e a bestemmiare. Bartolomea non gli mancò mai di rispetto. Con una dolcezza infinita un po' per volta lo ridusse a fargli sentire qualche devota lettura prima del rosario con grande ammirazione del vicinato. Morì tra le sue braccia pentito dei suoi errori nel 1831. Poco dopo Bartolomea, era uscita dal collegio anche sua sorella Camilla, di temperamento molto difficile e incostante. Sebbene minore, comandava la maggiore con importunità. Bartolomea "non solo non se ne doleva, ma correva volenterosissima a contentarla e servirla", testimoniò il suo direttore spirituale, Don Angelo Bosio, coadiutore del prevosto Don Rusticiano Barboglio.
Costoro, sapendo di quanta abilità avesse dato saggio nel monastero, stabilirono di sottrarla al ristretto ambiente domestico. Per non lasciare isterilire in un negozio di fornaio le sue doti così belle pensarono di affidarle le giovanotte della parrocchia. La Santa diede i suoi esami a Bergamo e, nel 1835, aprì nella casa paterna una scuola privata che trasferì poi in quella di Don Bosio quando le alunne arrivarono a 50. Il suo metodo educativo si compendiava in questa massima: "Amare le bambine senza parzialità e sacrificarsi per loro". Quello che cercava di evitare ad ogni costo e di bandire dalle sue scuole era la noia adattandosi alle capacità di ogni alunna, cercando di riuscire facile e dilettevole.
La domenica radunava le fanciulle in casa di Caterina Gerosa, che con il suo aiuto aveva adattato una stanza a cappella e arricchito di arredi sacri. Colà recitavano il rosario, cantavano l'ufficio della Madonna, ascoltavano gli avvisi della giovane maestra, e poi si divertivano lontano dai ritrovi pericolosi. Quest'oratorio fu l'inizio della Congregazione Mariana alla quale Bartolomea diede determinate regole. Non paga del bene che faceva alle giovanotte, volle giungere alle anime religiose e sacerdotali ideando per loro la Pia unione di Gesù e Maria, composta di 12 sacerdoti e 72 vergini, in ricordo del collegio apostolico. I parroci dei paesi vicini le mandavano delle giovani affinchè insegnasse loro a fare scuola. Sovente fu invitata a recarsi nei paesi della Valcamonica per spronare le ragazze alla virtù e raggrupparle in pie associazioni con appropriati statuti. Manteneva poi con esse una relazione costante. Le sue lettere, raccolte in due volumi, riflettono l'ardore del suo cuore d'apostola. Dopo le fatiche della giornata, vegliava ancora di notte per scrivere l'esame di coscienza, vergare lettere per le amiche, fissare statuti per le associazioni, comporre novene che un'amica ricopiava per distribuirle poi ad altre anime desiderose di perfezione.
All'amica Marianna Verteva scrisse: "Sono innamoratissima della vita ritirata e religiosa, ma d'altronde troppo mi piace l'impiegarmi in opere di carità spirituali e temporali, le quali in un monastero non si possono esercitare, salvo quella di pregare il Signore per i peccatori". Non contenta di istruire le ragazze, penetrò nelle prigioni per consolare le recluse, nei tuguri per aiutare i poveri con cibi e vestiti raccolti tra le amiche. Per il totale esercizio della carità fece voto di cercare nel modo di pensare, parlare e operare soltanto quello che chiaramente conosceva essere il più perfetto.
Le sorelle Caterina e Rosa Cerosa fin dal 1826 avevano lasciato alla Congregazione di Carità una casa con podere, da trasformarsi in ospedale. Alla carica di direttrice ed economa fu da loro scelta la Capitanio, la quale aveva allora diciannove anni. La santa apparve tutti i giorni, dopo la scuola, accanto ad ogni letto per confortare, prestare i più umili servizi e medicare anche i malati più ributtanti e pericolosi. Vedendo crescere i bisogni degli infermi, dei poveri, dei derelitti e della gioventù concepì, d'accordo con il suo direttore spirituale, l'idea d'istituire una famiglia religiosa che si dedicasse alla carità operosa. Con l'aiuto di Caterina Gerosa riuscì a superare la scarsezza dei mezzi materiali. Di fronte all'ospedale fu comperata e restaurata la casa Gaia, chiamata poi dal popolo il Conventino, ed in essa il 21-11-1832 furono accolte le orfane e le scuole dopo che le due amiche avevano ascoltato la Messa del prevosto, e si erano offerte per mano di Maria SS. a Dio e al servizio della gioventù e dei malati, secondo le regole delle Figlie della Carità di San Vincenzo de' Paoli.
Nel lasciare la mamma e la sorella, Bartolomea scrisse: "V'assicuro che, se non conoscessi chiaramente che la mia vocazione è vera volontà di Dio, non farei questo passo per tutto l'oro del mondo". Nella sua nuova vita fu felice. Così ne parlò ad un'amica: "Vi confesso sinceramente che ho sempre considerato lo stato religioso come una vera morte di me stessa, ma in pratica riesce assai più vero. Non sono più padrona di me stessa; bisogna sempre operare come piace agli altri, adattarsi in tutto agli altri, calpestare l'amor proprio, sacrificarsi per la carità, tacere, sopportare, mostrarsi allegra, non desiderare nemmeno le cose più sante qualora non si confacessero con gli obblighi del proprio stato, insomma essere morta affatto in ogni cosa per non vivere che per Gesù Cristo e la sua santissima Volontà. E una vita veramente crocifissa, ma che viene addolcita da quell'amabile Sposo che gradisce i sacrifici delle sue serve. Non la cambierei con tutte le consolazioni, non dico terrene, ma neanche spirituali, perché la sicurezza di fare la volontà di Dio è quella che mi rende perfettamente contenta. Per carità, raccomandatemi al Signore, che mi faccia piuttosto morire che essere pietra d'inciampo alla sua opera".
Per il suo Istituto la Capitanio doveva essere la pietra d'angolo. Sul finire della quaresima del 1833, tornando dalla chiesa parrocchiale dov'era stata con le sue giovanotte ad adorare il SS. Sacramento esposto, si sentì più stanca del solito. Il medico la visitò e la trovò affetta da bronchite e da un generale indebolimento dell'organismo. Morì serenissima il 26-7-1833 dopo aver detto alla continuatrice della sua missione, Santa Vincenza Gerosa (+1847): "Quando sarò in cielo, sarò più utile all'Istituto che se rimanessi in terra".
Le Suore di Maria Bambina sono sparse in tutti i continenti. Per esse aveva previsto una ricca messe quando disse: "Non dubitate, l'Istituto durerà fino alla fine del mondo". Bartolomea Capitanio fu beatificata da Pio XI il 30-5-1926 e canonizzata da Pio XII il 18-5-1950. Le sue reliquie sono venerate nel tempio eretto a Lovere dalla pietà delle sue figlie spirituali nel 1938, accanto a quelle di S. Vincenza Gerosa.

La sua festa liturgica è il 28 aprile, mentre la Congregazione delle Suore di Maria Bambina e le diocesi di Brescia, Bergamo e Milano la ricordano il 18 maggio.




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LE CITTA' DEL LAGO D' ISEO : LOVERE

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Lóvere è un comune italiano dell'Alto Sebino in provincia di Bergamo, Lombardia.

Lovere è una signorile cittadina dell’alto lago. Bellissimo centro di villeggiatura allo sbocco della Valle Canonica e Cavallina. A Lovere è bello passeggiare sul lungolago, tra giardinetti e alberi osservando l’opposta costa bresciana e le cime dell’Adamello.
La storia di Lovere è ricchissima di avvenimenti, vista la sua posizione strategica che lo colloca tra l'alto Sebino e l’imbocco della val Cavallina per i collegamenti via terra, ed all’estremità nord del lago d’Iseo per i trasporti via acqua.

I primi insediamenti accertati risalgono ad un periodo compreso tra il V ed il III secolo a.C., come testimoniato dalla presenza di un nucleo abitativo di origine celtica posto in una posizione strategica, tutt’ora chiamato Castelliere.

I secoli successivi videro l’arrivo della dominazione romana, che costruirono’ un’importante via di comunicazione, denominata poi strada di San Maurizio, e la costruzione di un consistente centro abitato sulle rive del lago. A tal riguardo numerosi sono i reperti rinvenuti, tra cui numerose sepolture con relative lapidi, risalenti ad un periodo compreso tra il primo ed il quarto secolo. Inoltre sul territorio venne scoperto un ingente quantitativo di monete e gioielli che, denominato il tesoretto di Lovere, è ora custodito presso il museo archeologico di Milano. Nel 2013 sono iniziati i lavori di scavo per il recupero della necropoli romana.

In seguito al termine dell’impero romano il territorio fu soggetto alle orde barbariche, terminate con l’insediamento dei Longobardi. A questi subentrarono i Franchi che, istituendo il Sacro Romano Impero, diedero il via al feudalesimo ed all’età medievale.

Inizialmente il territorio venne dato in gestione ai monaci di Tours (Abbazia di Marmoutier), i quali lo permutarono a favore del vescovo di Bergamo, al quale poi subentrò la famiglia Celeri. Erano gli anni in cui infuriavano le lotte di fazione tra guelfi e ghibellini, ed anche Lovere si trovò al centro di numerosi scontri: a tal riguardo il paese si dotò di parecchie fortificazioni, tra cui torri e cinte murarie, in posizione dominante rispetto al lago. Restano ancora di quell'epoca, le case torri, come Torre Soca, Torre degli Alghisi e la Torricella rotonda dell'antica cinta muraria.

Nel 1263 moriva qui Cavalcano Sala, vescovo di Brescia, cacciato da Ezzelino da Romano.

Gli scontri si protrassero fino alla prima metà del XV secolo, quando il territorio passò nella Repubblica di Venezia, che demolì numerose fortificazioni e che accolse il desiderio di parte della popolazione di porla sotto Bergamo (1441). Dalla città di Bergamo giungeva ogni anno un podestà ad amministrare giustizia.

La Serenissima varò numerose leggi volte a risollevare la situazione sociale ed economica, facendo rivivere il centro abitato e migliorando le condizioni di vita degli abitanti. Il dominio della città lagunare durò fino al 1797, quando vi subentrò la Repubblica Cisalpina. Nel 1815 passò al Regno Lombardo-Veneto, Provincia di Bergamo, distretto XVI di Lovere, a cui viene accorpato il 10 marzo 1836 Rogno.

Già in quel periodo cominciarono a svilupparsi numerose attività industriali in ambito siderurgico, che portarono benessere e sviluppo di tutta la zona fino al XX secolo, quando il paese ha cominciato a puntare decisamente anche sull’industria turistica, al fine di valorizzare le ricchezze paesaggistiche e culturali di cui è ricco.

Una lapide romana, trovata nel XVIII sec. e dedicata a Minerva, reca l’iscrizione del devoto, che sarebbe figlio di un Luarensis.
Il nome dialettale del paese (Lòer) si potrebbe far derivare dal "Luar" dell’epigrafe, ma potrebbe anche ricondursi all'antico "Luar" che in longobardo significa "bassura", luogo basso. Lovere, infatti, come altri paesi del lago, sorgeva in una zona paludosa ai piedi delle montagne.

Tra i suoi concittadini, Lovere vanta le due sante Bartolomea Capitanio e Vincenza Gerosa, vissute tra il XVIII e il XIX secolo dedicandosi a tutti i derelitti della zona (orfani, ammalati, carcerati, poveri) per i quali fondarono l’Istituto delle Suore di Carità (1832), che oggi opera a livello internazionale; Lady Mary Wortley Montagu, moglie dell’ambasciatore inglese e amante dell’arte, si stabilì a Lovere intorno al 1747. Durante il suo Grand Tour, rimase così affascinata dal lago da decidere di acquistare un palazzo in paese e una fattoria in campagna. La sua casa divenne luogo d’incontro di persone ragguardevoli della zona. Non trascurò gli affari, incrementando la produzione della sua fattoria con metodi nuovi portati dall’Inghilterra. Le lettere alla figlia sono la testimonianza del periodo trascorso a Lovere.

Splendidi palazzi costruiti con buon gusto e perfetto senso architettonico fanno da secoli degna cornice e splendida corona alla piazza del porto, una delle più belle dei laghi lombardi.

Dalla piazza, attraversando il rione delle “beccarie”, si sale per il centro storico e si arriva in piazza Vittorio Emanuele II, dove l’orologio della vecchia torre civica scandisce il passare del tempo. In questa piazza, racchiusa tutt’intorno da splendidi edifici, confluiscono tutte le vie piccole e strette del borgo medievale. Si sale ancora e si arriva alla chiesa di S. Giorgio. Eretta alla fine del XIV sec. sulle strutture della medievale torre Soca, fu ampliata e modificata nel tempo, fino al XIX sec. Contiene una grandiosa tela posta sulla controfacciata raffigurante “Mosè che fa scaturire l’acqua dalla rupe” del pittore fiammingo Jean de Herdt (1657); la pala dell’altare sinistro dipinta da Gian Paolo Cavagna (1556-1627) con l’“Ultima cena”, e la pala dell’altare maggiore del bresciano Antonio Gandino (1565-1630). All’altare della madonna addolorata il 21 novembre del 1832 le due future Sante di lovere presero i voti.

Sul lungolago fa bella mostra di sé il palazzo che ospita la Galleria dell’Accademia di belle arti Tadini. Il palazzo fu costruito in gradevoli forme neoclassiche tra il 1821 e il 1826 per ospitare nelle sale affrescate le ricche collezioni d’arte del conte Luigi Tadini, che aprì al pubblico il suo museo – tra i più antichi della Lombardia – nel 1828, oggi ospita le raccolte in 33 sale. Significativo è il gruppo di opere di Antonio Canova (1757 – 1822): il raro bozzetto il terracotta della Religione e la Stele Tadini (collocata nella cappella gentilizia) tra le ultime e più belle opere del grande scultore, che sembra tradurre nel marmo quella ‘corrispondenza d’amorosi sensi” che Ugo Foscolo legava ai sepolcri. Tra i dipinti si evidenziano le opere di Jacopo Bellini (una meravigliosa Madonna con Bambino), del veronese Francesco Benaglio, di Paris Bordon, di Palma il Giovane. Le epoche successive sono documentate dai dipinti di Giacomo Ceruti detto “il Pitocchetto”, fra’ Galgario, Giandomenico Tiepolo, Francesco Hayez, Cesare Tallone e G. Oprandi.
La Galleria inoltre ospita una ricca collezione di porcellane, tra cui importanti pezzi delle manifatture di Sèvres, Meissen, Hochst, Capodimonte.
Negli ultimi anni è stata aggiunta una sezione di arte moderna contemporanea.
L’Accademia di Belle Arti istituita dal conte comprende anche le scuole di musica e di disegno, ancor oggi attive e frequentate.

Proseguendo per il lungolago - dominato dalle belle facciate di numerose ville e palazzi (tra cui il cinquecentesco palazzo Marinoni e villa Milesi con il suo parco) - appena passata la piazza si risale e ci si trova di fronte all’imponente basilica di S. Maria in Valvendra, edificata dal 1473 e consacrata nel 1520, in un periodo di particolare floridezza economica per Lovere. La Basilica dà a sua volta il nome al borgo rinascimentale di Santa Basilica di S. Maria in Valvendra  una silenziosa strada fiancheggiata da case del Quattrocento e Cinquecento che conduce al borgo medievale.
La Basilica presenta forme classicheggianti rinascimentali di gusto lombardo, con influenze veneziane. L’interno è a tre navate, suddivise da dodici colonne, con cappelle sul lato sinistro. L’opera di maggior pregio è costituita dalle grandi ante dell’organo, collocate originariamente nel Duomo Vecchio di Brescia, dipinte, all’esterno, da Floriano Ferramola con l’Annunciazione e, all’interno, da Alessandro Bonvicino detto “il Moretto”, con i Santi Faustino e Giovita a cavallo. L’abside e il presbiterio sono affrescati in trompe-l’oeil da Ottaviano Viviani. Il solenne coro ligneo è cinquecentesco; l’altare maggiore ricco di sculture e marmi policromi è opera della bottega dei Fantoni di Rovetta; la tribuna centrale di Andrea Fantoni è del 1712. La pala dell’Assunta, ispirata a motivi del Moretto e di Tiziano, è attribuita al bresciano Tommaso Bona.
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Il Monastero di Santa Chiara fu edificato nella prima parte del XVI secolo ed ampliato più volte, ospita ancor oggi le monache clarisse. Soppresso in età napoleonica e ripristinato al termine del XIX secolo, custodisce numerose opere pittoriche. La Fondazione Oprandi si sta impegnando nei lavori di restauro dell'antico edificio, restituendone l'arredo pittorico e gli stucchi. Il complesso monastico presenta al proprio interno la chiesetta di Santa Chiara, piccolo edificio di culto molto caratteristico.
L'Oratorio di San Martino risalirebbe addirittura al IX secolo, epoca in cui i territori erano posti sotto la giurisdizione dei monaci di Tours. Con il passare del tempo venne sempre meno utilizzato, date le sue ridotte dimensioni, fino ad arrivare al suo abbandono, avvenuto nel XVII secolo. Soltanto un recente restauro ha permesso di recuperare parte del patrimonio artistico in esso custodito, tra cui numerosi affreschi nell’abside.
Il Santuario delle Sante B. Capitanio e V. Gerosa è stato edificato nel terzo decennio del XX secolo e dedicato alle religiose Bartolomea Capitanio e Vincenza Gerosa che fondarono nel 1832 la congregazione delle Suore di Maria Bambina, presenta una struttura in stile neogotico. All'interno si possono ammirare affreschi e mosaici eseguiti da Pasquale Arzuffi raffiguranti le due sante, delle quali sono conservate le spoglie. Di grande interesse il piccolo museo, che racconta la storia e la società loverese nella quale si inserisce l'attività delle due sante.
Il Santuario di San Giovanni è posto in una zona suggestiva, sul culmine del monte Cala, offre un'ottima visuale su gran parte del lago e le zone circostanti. Edificato nel XV secolo ed inizialmente intitolato a San Zenone, è tuttora meta di pellegrinaggio per numerosi abitanti di Lovere.

Il Palazzo Bazzini fu edificato nel 1616 dal condottiero Adorno Bazzini di fronte alla basilica di S. Maria in Valvendra, presenta una struttura ad U, ornata da pilastri ed archi ed arricchita da un giardino al termine del quale si trova una piccola torre. Attualmente è in fase di ristrutturazione, e non sono permesse le visite.
Piazza Vittorio Emanuele II è da sempre considerata il cuore pulsante del borgo, originariamente era chiamata piazza degli uffizi, a causa della presenza della sede di gran parte delle istituzioni. Tra i palazzi che la circondano merita menzione il palazzo podestarile, antica sede del podestà, e la torre civica, che porta ancora i segni della dominazione veneta. Attiguo ad essa si trova la torre Alghisi, risalente anch’essa al periodo medievale ed appartenuta ad un’importante famiglia loverese.

Il Castelliere è forse la più antica costruzione presente sul territorio loverese e può essere databile tra il quinto ed il terzo secolo a.C. Situato in posizione panoramica e strategica, fu utilizzato già ai tempi dei Galli, ed ancor’oggi possiede resti di muratura e forti difensivi risalenti alla loro colonizzazione, ma anche alle epoche successive.

Dalla Val Camonica e dalla Val Seriana, ma anche dalla pianura bresciana, arrivano molte varietà di formaggio e la farina di granturco macinata a pietra. Specialità della zona sono i salumi, tra cui la salciccia di castrato, la soppressa e il “musetto”.

Regina, è naturalmente la polenta, che accompagna il pesce di lago o la carne. è servita calda o alla griglia, ma sempre rigorosamente gialla.
Oltre ai salumi e ai formaggi, immancabili sono i ravioli bergamaschi chiamati casunsei, conditi con burro fuso e salvia. Il dolce tipico in pan di spagna vuole rappresentare il piatto tipico della cucina bergamasca “polenta e osei”.

Fra le più grandi strutture portuali sui laghi europei, il Porto Turistico di Lovere ospita un anfiteatro polifunzionale (in grado di accogliere manifestazioni, spettaco li e grandi eventi), il Centro Civico Culturale, numerose società sportive, bar, ristoranti e l’ostello.
E’ qui possibile praticare le seguenti attività: nuoto, vela, canottaggio, pattinaggio sul ghiaccio, tennis, calcio, calcetto, basket e pallavolo.

Persone legate a Lovere:
Santa Vincenza Gerosa, religiosa, santa
Santa Bartolomea Capitanio, religiosa, santa
Mario Stoppani, pilota acrobatico e collaudatore
Giacomo Agostini, campione del mondo di motociclismo
Giacomo Vender, presbitero
Giovanni Andrea Gregorini, industriale e politico
Geremia Bonomelli, vescovo di Cremona
Enrico Ghezzi, critico cinematografico
Antonio Solera, patriota
Giovanni Battista Zitti, patriota
Enrico Banzolini, patriota
Rolando Bianchi, calciatore dell'Atalanta
Luca Belingheri, calciatore del Cesena.
Giuliano Fiorani, scrittore e storico della Repubblica Sociale Italiana
Davide Guarneri, pilota motociclistico italiano
Elia Violi, rugbista del Calvisano
Nadia Fanchini, sciatrice della Nazionale Femminile di Sci




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