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martedì 2 giugno 2015

CORTE GAMBAREDOLO A CASTEL GOFFREDO

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Sita ad est di Castel Goffredo, sulla strada per Ceresara, la corte di Gambaredolo è una tipica corte rinascimentale, costruita agli inizi del Cinquecento dal marchese Aloisio Gonzaga, divenuta residenza di villeggiatura dei signori "Gonzaga di Castel Goffredo".

La corte si presenta a pianta quadrangolare con uno spazio interno circondato e chiuso da una serie di edifici con quattro piccole torri agli angoli. Alla sinistra del complesso è situata la villa padronale. L'accesso alla corte avviene attraverso il ponte sulla peschiera, fiancheggiato da due balaustre in marmo e chiuso da un cancello a protezione.

Fu costruita nei primi decenni del Cinquecento per volere del marchese Aloisio Gonzaga di Castel Goffredo e destinata a luogo di villeggiatura dei “Gonzaga di Castel Goffredo". Alla morte di Aloisio il feudo passò al figlio primogenito Alfonso che, malato di gotta, si stabilì definitivamente a Castel Goffredo nel 1586. Costui, durante la sua permanenza a Corte Gambaredolo, mentre era intento a gettare pane ai pesci, il 6 maggio 1592 venne assassinato per motivi ereditari da otto sicari inviati dal nipote Rodolfo Gonzaga di Castiglione, che fecero scempio del corpo. I sicari subirono un processo e furono condannati a morte. Uno di questi, Andrea Franzoni, venne giustiziato ed il suo corpo appeso alle mura della corte.

Dopo la morte di Alfonso Gonzaga, il possesso della corte passò alla figlia Caterina che effettuò migliorie e nel 1615 fece anche edificare l'Oratorio di San Carlo sul luogo dell'assassinio del padre. Dal 1595 al 1600 vi soggiornò Ippolita Maggi, vedova di Alfonso Gonzaga, che ricevette la corte in usufrutto.

Nel 1657 l'Oratorio di San Carlo e la corte vennero visitati dal cardinale Pietro Ottoboni, della diocesi di Brescia, alla quale la chiesa appartenne sino alla fine del Seicento.

Passata sotto la diocesi di Mantova, nel 1777 la chiesa fu visitata dal vescovo Giovanni Battista de Pergen.

Alla corte si accede tramite un ponticello sul fossato con due balaustre di marmo.

Attualmente si trova nello stato di parziale abbandono.

Gambaredolo deriva da gamberetto, crostaceo di acqua dolce presente nel Fosso Gambaredoletto, che bagnava la corte gonzaghesca fortificata.




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lunedì 25 maggio 2015

LA CHIESA DI SAN BERNARDINO A LEGNANO

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La Chiesa di San Bernardino è stata consacrata nel XVII secolo ed è stata costruita sulle rovine di un antico oratorio su proposta di Carlo Borromeo. Le prime tracce su documenti risalgono al 1650 dove possiamo leggere: '...Nella cascina San Bernardino, copiosa di persone, si trova una picciol chiesa del medesimo nome... é antica e escetto che a tempi passati fu riedificata la capella unica che in quella si trova. L'anno 1642 fu intrapreso l'uso di farvi la festa di San Bernardino al 20 maggio...'.

Probabilmente è stata costruita nel 1580 per ricordare le prediche di San Bernardino da Siena nel convento di Sant’Angelo. Dell’antico oratorio sono giunti fino a noi parti dei muri in cotto e ciottoli e una formella di terracotta che attualmente è all'interno della chiesa.La chiesa durante i secoli fu arricchita da molte opere artistiche come un affresco raffigurante la Madonna col Bambino, San Francesco e San Carlo, un crocifisso del XVIII secolo in legno e bronzo.

Il tempio fu anche arricchito di alcune opere artistiche tra le quali un affresco raffigurante la Madonna col Bambino, San Francesco e San Carlo, da alcuni attribuito a Giovan Battista Crespi detto il Cerano. Ciò almeno fino al 1970, allorchè, in occasione di un sopralluogo effettuato dal Sovrintendente alle Gallerie di Milano, questa attribuzione fu esclusa. Infatti il Cerano, oltre a essere più grandioso nei suoi dipinti, aveva uno stile particolare nel ritrarre San Carlo, che aveva oltretutto conosciuto in vita; lo aveva cioè sempre rappresentato col naso adunco. L'affresco della chiesa di San Bemardino, invece, ci presenta un San Carlo con un naso di grandi dimensioni ma diritto, secondo la moda pittorica del XVII secolo. Il tutto ha anche una spiegazione.
Alla fine del '700 un fulmine causò seri danni al tempietto e in occasione delle successive riparazioni l'affresco, a sua volta danneggiato, fu ritagliato e coperto da una conice lignea con lesene e capitelli. In questo modo scomparve l'affresco di Francesco Lampugnani cartiglio con la firma dell'autore che secondo lo stile di esecuzione dell'opera, come ebbe a confermare il Sovrintendente alle Gallerie di Milano, doveva essere di Francesco Lampugnani e realizzata nel 1644.
Si nota anche l'analogia di alcuni particolari della Vergine col Bambino e San Carlo ritratti dallo stesso artista nella pala d'altare in Sant'Ambrogio a Legnano. Inoltre essendo la chiesa di San Bemardino sotto il patrocinio dei Lampugnani, come dimostra lo stemma gentilizio di questa nobile famiglia legnanese sull'acquasantiera posta all'ingresso, era logico che questi facessero lavorare i loro artisti, invece di affidare gli affreschi a un pittore concorrente che operava a Milano. Pure dei fratelli Lampugnani dovevano essere anche gli affreschi che figuravano sulle pareti e che andarono perduti alla fine dell'Ottocento, allorché la chiesa fu completamente ristrutturata e ampliata. In tale occasione fu abbattuta una parte del muro e furono creati due archi di accesso alla cappella absidale semicircolare, aggiunta come coro alla chiesina. Fu ricavata anche una piccola sacrestia sul lato sinistro di fianco alla torre campanaria, pure ricostruita e dotata di nuove campane. L'inaugurazione della chiesetta così restaurata avvenne il 20 maggio 1894.
Nel 1972 la parte inferiore del muro di separazione fu eliminata e l'affresco spostato in fondo alla cappella absidale. È rimasto invece al suo posto, in alto, un crocifisso del '700 di buona fattura, in legno e in bronzo. In tale occasione fu possibile ricuperare sulle pareti laterali intene due affreschi ottocenteschi realizzati dal pittore legnanese Antonio Maria Turri, raffiguranti un San Lorenzo a destra e un San Rocco a sinistra. In questa stessa circostanza inoltre era anche stato rifatto il pavimento ed erano state eliminate le balaustre per rendere più capiente l'interno della chiesa. All'inizio degli anni Ottanta il pittore e scultore Sergio Bongini ha realizzato per San Bernardino una pregevole Via Crucis in formelle di terracotta.
È stata completamente restaurata nel 1894 e negli anni settanta del XX secolo.



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sabato 23 maggio 2015

LA CHIESA DI SANT' ANTONIO ABATE A GALLARATE

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La Chiesa di Sant'Antonio abate è una chiesa posta nel centro storico di Gallarate.

La piccola chiesa, in zona centrale, ha dei precedenti storici nell'omonimo oratorio, attivo nel '400 e sede di varie confraternite.

È di minuscole proporzioni ed oggi appare quasi 'sommersa' dai palazzi adiacenti.

La chiesa di Sant’Antonio Abate, nella sua conformazione odierna, è stata realizzata nel Settecento, in uno stile barocco misurato e armonioso. È noto che il progettista della struttura fu Biagio Bellotti,importante architetto e pittore. Lavori di abbellimento e restauro vennero effettuati nel secolo scorso, durante i quali il campanile fu abbattuto, e fu aperta una facciata sul lato opposto rispetto a quello sul quale c’era la facciata originaria. Da vedere, all’interno del monumento, sono la statua di Santa Maria, gli affreschi raffiguranti episodi della vita di Sant’Antonio. Sulla volta sono stati effettuati degli affreschi con la vita di Santa Maria.



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domenica 10 maggio 2015

LE SANTE DI LOVERE : SANTA VINCENZA GEROSA

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Vincenza (Caterina) Gerosa (Lovere, 29 ottobre 1784 – Lovere, 20 giugno 1847) è stata una religiosa italiana, cofondatrice (insieme a Bartolomea Capitanio) dell'Istituto delle suore della carità, dette di Maria Bambina. È stata proclamata santa da papa Pio XII nel 1950.

Caterina Gerosa nasce a Lovere nel 1784 in una famiglia facoltosa, nella quale con i genitori Gianantonio e Giacomina Macario vivono anche gli zii paterni, associati nel commercio delle pelli. Prima di quattro sorelle, viene presto coinvolta negli affari, dove rivela diligenza e spiccate capacità.

Cresciuta in un contesto profondamente cristiano, coltiva con entusiasmo la sua vita di fede, rivelando una grande passione per il Crocifisso da cui attinge forza e serenità per affrontare le contraddizioni e le prove familiari.

Tra i genitori e gli zii di Caterina Gerosa erano perciò molto frequenti i malumori e i litigi. Col crescere negli anni la santa ne sofferse atrocemente. Non riuscendo ad impedirli si rifugiava ai piedi del crocifìsso per attingere da Lui consolazione e forza.
Lo zio Ambrogio apprezzò l'intelligenza e la serietà della nipote e l'avviò, dopo la scuola elementare, a passare la giornata al banco di bottega e al mercato accanto a sé. Prima dell'alba, però, ella si recava in chiesa per ascoltare la Messa e fare la comunione. La sera, dopo le svariate occupazioni del giorno, vi ritornava per pregare per tutti i bisogni della famiglia e della società. In casa tutti ne ammiravano in silenzio la pietà perché, invece di farle trascurare i doveri, la rendeva più laboriosa, umile e mortificata. Benché erede di un grande patrimonio si adattava a zappare l'orto. A chi le manifestava la propria meraviglia, rispondeva: "Che volete? Devo fare la volontà di Dio". Vestiva abiti semplici e rattoppati; mangiava lo stretto necessario e, qualche volta, polenta e noci per dare ai mendicanti la sua parte di cibo; di notte si flagellava e restava a lungo prostrata sul pavimento.
A diciassette anni la Gerosa perdette il padre. Poco dopo ebbe il dolore di vedere confinare la propria madre a vivere da sola con i proventi della legittima e la proibizione, da parte degli zii, d'intrattenere relazioni con le figlie. Quando morì (1814) sull'Italia settentrionale si abbatté il flagello della carestia, al quale, tre anni dopo, si aggiunse quello del vaiolo e della febbre petecchiale. Sotto la direzione del prevosto Don Barboglio, la Gerosa fu in quel tempo un angelo consolatore per tanti poveri e malati. I testimoni dei processi asseriscono che "avrebbe dato via i muri per fare carità"; che andava ella stessa a mendicare per i bisognosi; che quattro volte la settimana offriva in casa sua un lauto pranzo a tredici poveri. Gli abitanti di Lovere la consideravano la principale loro consigliera tanto era retta, e mentre i poveri la chiamavano "zia", essi la chiamavano "signora". Caterina approfittò dell'ascendente che si era guadagnato con l'esercizio delle opere di misericordia per richiamare le giovani a una maggiore serietà di vita, i sacerdoti allo zelo delle anime e i peccatori alla frequenza dei sacramenti.
Alla morte dello zio Ambrogio (1822), tutto il patrimonio di casa Gerosa passò in proprietà della santa e in usufrutto della zia Bartolomea. Ignorando che cosa il Signore volesse da lei, la Gerosa largheggiò ancora di più nella paga agli operai e nel soccorso agli sventurati. Un giovane serio le aveva offerto la sua mano, ma ella, mostrandogli l'immagine di Sant'Agnese, gli aveva risposto che era già sposata. Le era stato rivolto l'invito (1819) di entrare tra le Figlie della Carità di S. Maddalena di Canossa (+1835), ma ella lo aveva rifiutato perché si riteneva indegna di appartenere ad una Congregazione Religiosa. A Lovere istituì (1821) la Congregazione Mariana per le fanciulle e un piccolo ospedale (1826), sotto la direzione di Bartolomeo Capitanio, la figlia del fornaio, uscita nel 1824 dal collegio delle Clarisse. Di entrambe le istituzioni ella riservò a sé soltanto le preoccupazioni dell'amministrazione. Le due sante si compresero e si completarono a vicenda nell'esercizio delle opere di carità. Ma mentre la Gerosa, impegnata a santificarsi nell'osservanza delle sue regole di terziaria francescana, non viveva che per l'Oratorio e l'Ospedale, la Capitanio, sotto la guida del suo confessore, il curato Don Angelo Bosio, aspirava a fondare una famiglia religiosa per l'educazione della gioventù e la cura dei malati. Ne parlò alla sua amica Gerosa che contava allora quarantacinque anni, ma costei, di temperamento timido, introverso, le rispose con la sua abituale umiltà: "Noi siamo buone a niente, dobbiamo vivere nascoste, contentarci di quel poco che Dio vuole". Tuttavia si piegò alle reiterate insistenze di Don Bosio convinta di fare così la volontà di Dio, e affrontò pazientemente la fiera opposizione dell'iraconda zia Bartolomea (+1843), contrarissima a che la nipote offrisse il suo patrimonio per l'acquisto della casa Gaia, adiacente all'ospedale e, dal 21-11-1832, sede dell'incipiente Istituto.
La Gerosa si mise alle dipendenze di Bartolomea, più intelligente e intraprendente. "Io sono entrata - le diceva - non per riposare, né per comandare, ma per lavorare, per essere la serva di tutte". In casa, nell'ospedale e nel piccolo orfanotrofio, istituito per dieci fanciulle povere del paese, non le mancavano di certo le più umili e faticose occupazioni.
Agli inizi, che facevano presagire un glorioso avvenire, Iddio aveva segnata una prova molto dolorosa per la Gerosa: la morte della Capitanio (+1833). Che avrebbe fatto senza di lei? Ebbe un momento di accorata nostalgia per la casa che aveva abbandonato, ma umile, sottomessa e docile come sempre ai consigli di Don Bosio, rimase al suo posto, mentre andava ripetendo: "Essi vogliono un'opera grande, io non la capisco, non la vedo. Farà Iddio". Più tardi, parlando della Capitanio, confesserà: "Essa era un'aquila per il suo fervore, per i suoi desideri e io invece un bue che sempre la tirava indietro". L'olocausto della fondatrice non tardò a suscitare una fioritura di vocazioni nell'Istituto da lei appena avviato. Caterina le formò alla vita religiosa esigendo apertamente da loro spirito di sacrificio e di povertà.
Compendiava tutta la sua ascetica dicendo sovente: "Chi sa il crocifisso sa tutto, chi non sa il crocifisso non sa nulla". E, per conto suo, continuava ad aspergere lo scarso cibo di cenere e di acqua, a tracciare per terra con la lingua grandi segni di croce, a fare uso di cilici e di flagelli, a pregare di notte a lungo con le braccia aperte o con le mani sotto le ginocchia, e a praticare fin allo scrupolo, nonostante i suoi cinquant'anni suonati, le esortazioni che Don Bosio faceva alla comunità nelle conferenze mensili. Le sarebbe piaciuto continuare ad indossare il suo grembiule, ma quando i superiori decisero di darle un divisa (1835) acconsentì a portare, con il nome di Suor Vincenza, la cuffia e il velo. Essendo rimasta in lei una spiccata tendenza a mostrarsi con l'abito succinto o con gli zoccoli di legno a persone ragguardevoli, a usare con esse termini poco cortesi e a compiere gesti non conformi alla buona creanza, Don Bosio non temeva di rimproverarla. "Che volete? - diceva allora. - Sono stata educata sotto il camino". Ovvero: "Che può fare di meglio un'ignorante?". La Gerosa non consentì di essere chiamata superiora, ma soltanto "la più vecchia" perché riteneva le sue prime cinque compagne più capaci di lei. Era ferma tuttavia nell'esigere da tutte la fedele osservanza delle regole; era sincera nel riprenderle privatamente dei difetti; era severa con chi mancava di semplicità. A nessuna permetteva pressioni sulle aspiranti alla vita religiosa. "Lo spirito del Signore - diceva - è come un leggero venticello che spira dove vuole. Egli è il padrone dei cuori, li tocca e li chiama. L'opera è sua. Egli sa quello che torna a nostro bene, quello che è necessario. Lasciamo fare a Dio, non preveniamo le sue disposizioni con il pericolo di guastarle". Esatta nel compimento dei suoi doveri, voleva che lo fossero tutte le suore. Ad esse ripeteva sovente: "Se non si mette buon fondamento, la casa cade".
Ben presto l'opera avrebbe varcato i confini del paese, ma nella sua umiltà Suor Vincenza non si stancava di ripetere: "Noi non siamo buone a niente, il nostro Istituto è da niente, l'infimo di tutti". Invece, nel colera scoppiato a Lovere nel 1836, le Suore di Carità diedero a vedere di quanto eroismo fossero capaci. La loro fama giunse lontano. A Bergamo il sacerdote Carlo Botta aveva ideato di raccogliere nel convento di Santa Chiara vecchie signore e povere fanciulle bisognose di assistenza. Si era perciò rivolto alla santa per avere alcune suore, ma ella ne era rimasta tanto accorata da ammalarne perché, secondo lei, l'Istituto doveva rimanere nella cerchia di Lovere. Iddio voleva invece che si diffondesse per tutto il mondo, specialmente dopo che Gregorio XVI lo approvò (1838).
Essendo stata riconfermata nella carica di superiora, invano Suor Vincenza ripeteva: "Io sono vecchia. Non sono buona ad altro che a guastare l'opera di Dio. Farò quello che potrò, ma nello stato di suddita: aiuterò, brigherò, ma non voglio responsabilità. La mia testa è balorda e buona a niente". Tutti sapevano invece che era dotata di molto buon senso, che era sempre pronta ad abbandonare la propria opinione per seguire quella di Don Bosio, direttore di ferrea volontà. Nel 1842 poté così mandare le sue religiose nell'ospedale fondato dalla contessa Laura Ciceri Visconti a Milano, ed erigere il primo noviziato della Lombardia accanto alla comunità impegnata nell'assistenza dei malati.
Prima di morire la santa stabilì 247 sue suore in 24 case, le visitò più volte, le diresse scrivendo loro: "Siate guidate dalla retta intenzione di piacere a Dio, e per piacergli abbiate una profonda umiltà, una inalterabile pazienza, un'illimitata carità". Temeva fino all'affanno che esse, pure e semplici, rimanessero vittime dei pericoli tra i quali esercitavano il loro apostolato. Per questo raccomandava loro: "Abbiate molto cuore, ma anche testa". Grande era il suo ascendente su tutte sia perché eroica nell'esercizio delle virtù, sia perché dotata del dono della profezia. Infiacchita dal lavoro e dalle penitenze, assalita da una tosse insistente e cavernosa che le impediva il respiro e il riposo, Suor Vincenza si mise a letto nel mese di maggio 1847 con la previsione di non alzarsi più. Lasciò per testamento un discreto patrimonio all'Istituto e stabilì vari legati pii. Libera ormai dalle terrene preoccupazioni, diceva alle suore che andavano a chiederle ordini: "Lasciatemi quieta, pensateci voi, io ho da morire, voglio pensare a prepararmi". Ai medici che si affannavano a cercare rimedi ai suoi mali diceva: "Lasciatemi andare in Paradiso, adesso è la mia ora". Morì dolcemente il 28-6-1847.
Pio XI al beatificò il 7-5-1933 e Pio XII la canonizzò il 18-5-1950. Le sue reliquie sono venerate a Lovere con quelle di S. Bartolomeo Capitanio nella cappella dell'Istituto.

La sua festa liturgica è il 28 giugno, mentre la Congregazione delle Suore di Maria Bambina e le diocesi di Brescia, Bergamo e Milano la ricordano il 18 maggio.






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domenica 26 aprile 2015

BIUMO INFERIORE

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Il rione si affaccia sul centro storico con la chiesa di S. Martino, già pertinenza del convento delle Benedettine, poi demolito con il risanamento del santuario nel XVI secolo. Risalendo verso la chiesa della Madonnina in prato attraverso via Dandolo, primo passeggio pubblico alberato donato alla città nel 1816 dal conte Vincenzo Dandolo, si giunge nel centro della castellanza. Dell'impianto originario è conservata una vasta zona risalente al Settecento che attualmente accoglie in una sua parte il civico liceo musicale di Varese. A poca distanza sorge palazzo Orrigoni-Litta Modignani (oggi oratorio parrocchiale) edificato durante la seconda metà del Seicento. A suo fianco è presente la novecentesca chiesa dei SS. Pietro e Paolo, a ridosso della quale si apre un'area verde, testimonianza di un ottocentesco giardino privato.

Il territorio di Biumo Inferiore, è caratterizzato da edifici storici e viette strette. Il parco pubblico che corre parallelo a via Dandolo, fu il primo passeggio alberato donato alla città nel 1816 dal conte Vincenzo Dandolo. Dirigendosi verso il centro del rione ci si trova davanti la Chiesa della Madonnina in prato, realizzata tra 1678 ed il 1686 è considerata una delle realizzazioni più raffinate dell’architettura Varesina.

Delle strutture originali del rione sono conservate una vasta zona risalente al 700, dove attualmente ha sede il liceo musicale di Varese.

L’oratorio parrocchiale, è situato all’interno del palazzo Orrigoni-Litta Modignani (seconda metà del 600), a fianco sorge la chiesa dei SS. Pietro e Paolo (vecchia chiesa parrocchiale) ed un area verde pubblica. In piazza XXVI Maggio si trovana la vecchia chiesa parrocchiale realizzata intorno al 1400 / 1500 e la nuova chiesa parrocchiale in stile moderno, inaugurata nel 1972.

Dal 1920 a Biumo inferiore è presente la Coopuf una Società Anonima Cooperativa di Consumo con la denominazione “Unione Famigliare Cooperativa di Biumo Inferiore”, nata allo scopo di migliorare la vita degli associati costituendo uno spaccio alimentare, vino e acque minerali, negli anni ha dovuto seguire i cambiamenti della società e dei tempi. Attualmente l’edificio di Via De Cristoforis è un vitale spazio verticale interconnesso che ospita al piano alto la sede e la sala cinematografica dell’Associazione FilmStudio’90, al piano rialzato l’attività di ristorazione e di aggregazione della Cooperativa , e al piano interrato, quello delle storiche cantine, la sala per gli eventi musicali.
Sono presenti le Sale Nicolini, spazi espositive collocati in un palazzo storico del 700, di proprietà del comune destinati ad ospitare rassegne di arte contemporane e vengono concesse a titolo gratuito a pittori e scultori.



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venerdì 17 aprile 2015

L' ORATORIO SAN VINCENZO A SESTO CALENDE

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L'oratorio di San Vincenzo, detto anche "dei Re Magi", è una chiesetta situata a nord di Sesto Calende, su un poggio erboso, domina dall'alto la valle del Ticino, il Lago Maggiore e Sesto Calende.

Edificata tra la fine del XI secolo e l'inizio del XII secolo, probabilmente sui resti di precedenti edifici pagani e/o tardo romani, e' oggi testimonianza della continuità insediativa di carattere religioso nel territorio sestese. Restauri di ricostruzione o di consolidamento non hanno alterato la semplicità dell'edificio ad aula unica absidata. L'orditura muraria esterna diversa sui due lati a nord e a sud testimoniano interventi, non recenti, rispettosi delle caratteristiche dell'edificio. L'abside ripete motivi già notati all'esterno delle absidi della Chiesa di San Donato, distante poche centinaia di metri, quali gli archetti in cotto e pietra. L'interno e' decorato da affreschi datati, di pregevole fattura. Forse di esecuzione più antica e' la serie dell'abside. Luogo di culto fin dall'epoca preistorica ad oggi, l'area e' stata oggetto di campagne di scavo che ne hanno dimostrato l'importanza nel corso dei secoli. Ne sono testimonianza le incisioni rupestri sui massi erratici poco distanti e le tracce degli edifici preesistenti leggibili nella pavimentazione all'interno dell'edificio stesso dell'oratorio. La chiesetta servì a più riprese da lazzaretto e grande ne fu nel tempo la venerazione. Affreschi devozionali all'interno ne danno chiara testimonianza.


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