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martedì 2 giugno 2015

CORTE GAMBAREDOLO A CASTEL GOFFREDO

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Sita ad est di Castel Goffredo, sulla strada per Ceresara, la corte di Gambaredolo è una tipica corte rinascimentale, costruita agli inizi del Cinquecento dal marchese Aloisio Gonzaga, divenuta residenza di villeggiatura dei signori "Gonzaga di Castel Goffredo".

La corte si presenta a pianta quadrangolare con uno spazio interno circondato e chiuso da una serie di edifici con quattro piccole torri agli angoli. Alla sinistra del complesso è situata la villa padronale. L'accesso alla corte avviene attraverso il ponte sulla peschiera, fiancheggiato da due balaustre in marmo e chiuso da un cancello a protezione.

Fu costruita nei primi decenni del Cinquecento per volere del marchese Aloisio Gonzaga di Castel Goffredo e destinata a luogo di villeggiatura dei “Gonzaga di Castel Goffredo". Alla morte di Aloisio il feudo passò al figlio primogenito Alfonso che, malato di gotta, si stabilì definitivamente a Castel Goffredo nel 1586. Costui, durante la sua permanenza a Corte Gambaredolo, mentre era intento a gettare pane ai pesci, il 6 maggio 1592 venne assassinato per motivi ereditari da otto sicari inviati dal nipote Rodolfo Gonzaga di Castiglione, che fecero scempio del corpo. I sicari subirono un processo e furono condannati a morte. Uno di questi, Andrea Franzoni, venne giustiziato ed il suo corpo appeso alle mura della corte.

Dopo la morte di Alfonso Gonzaga, il possesso della corte passò alla figlia Caterina che effettuò migliorie e nel 1615 fece anche edificare l'Oratorio di San Carlo sul luogo dell'assassinio del padre. Dal 1595 al 1600 vi soggiornò Ippolita Maggi, vedova di Alfonso Gonzaga, che ricevette la corte in usufrutto.

Nel 1657 l'Oratorio di San Carlo e la corte vennero visitati dal cardinale Pietro Ottoboni, della diocesi di Brescia, alla quale la chiesa appartenne sino alla fine del Seicento.

Passata sotto la diocesi di Mantova, nel 1777 la chiesa fu visitata dal vescovo Giovanni Battista de Pergen.

Alla corte si accede tramite un ponticello sul fossato con due balaustre di marmo.

Attualmente si trova nello stato di parziale abbandono.

Gambaredolo deriva da gamberetto, crostaceo di acqua dolce presente nel Fosso Gambaredoletto, che bagnava la corte gonzaghesca fortificata.




LEGGI ANCHE : http://asiamicky.blogspot.it/2015/06/in-giro-per-castel-goffredo.html




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sabato 21 marzo 2015

IL DELITTO DELL' ERMELLINO

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Un colpo di pistola a Cernobbio, sul lago di Como, nella notte tra il 15 e il 16 settembre 1948, dà l’avvio ad una storia di amore e morte che appassiona la gente, facendo scoprire che “anche i ricchi piangono”. E uccidono, anche. Con un colpo di pistola, la contessa Pia Bellentani da Polenta, nata Caroselli, mette fine all’esistenza del suo amante, l’industriale della seta Carlo Sacchi, e ad una certa particolare “dolce vita”, che tra guerra e dopoguerra aveva coinvolto sulle rive del lago di Como un’aristocrazia lombarda, più di denaro che di sangue, sfollata da Milano o residente nel Comasco.

La contessa Pia Bellentani, moglie del conte Bellentani, industriale milanese, madre di due bambine, durante una serata mondana a Villa D’Este sul lago di Como, uccise l’amante Carlo Sacchi, anch’egli sposato e padre di due bambine col quale da otto anni intratteneva una complicata relazione.
Nel corso della serata Sacchi aveva tenuto un comportamento cinico e arrogante nei confronti della donna.

Quella sera Carlo Sacchi, milionario con l’hobby delle donne e delle poesie sconce in dialetto comasco, è particolarmente soddisfatto. È riuscito nell’impresa di riunire allo stesso tavolo le sue tre donne: moglie, amante in liquidazione e nuova amante. La moglie Lilian Willinger, ex danzatrice viennese, è persa nei suoi pensieri, rassegnata ai tradimenti del marito e sprofondata nella depressione che la divora da quando le è morta una delle tre figlie all’inizio della guerra. L’amante in liquidazione Pia Bellentani, 32 anni, è chiusa e cupa, le dita dalle lunghe unghie laccate rosso sangue intrecciate sotto il mento, mentre rivolge sguardi di muto rimprovero a Sacchi che vuole lasciarla. Solo la nuova amante, giustamente, ride: all’industriale piace appunto per il carattere allegro Sandra Guidi di Monteolimpino, detta Mimì, meno giovane delle rivali, moglie in attesa d’annullamento che prima del matrimonio era commessa in un bar e ora possiede una boutique. La compagnia è elegante: Lilian indossa un abito in seta stampata azzurro e bianco, Pia un abito bianco con una cappa d’ermellino (che avrà un ruolo importante nella vicenda), Carlo Sacchi la giacca da sera estiva bianca. C’è il marito di Pia, il conte Lamberto Bellentani, impassibile e indifferente: non può non sapere della relazione della moglie, che proprio sotto i suoi occhi poche sere prima ha fatto una scenata di gelosia a Sacchi al casinò di Campione. Poi ci sono Adriana Dulfer Dans, Franca Tremolada, la giornalista Elsa Herter, l’industriale Gigi Taroni (che essendo seduto accanto a Lilian e Pia, sarà spesso, nei reportage fotografici, scambiato per Sacchi). La serata è importante: c’è una cena di gala, la presentazione della nuova collezione di Biki, famosa creatrice di moda e comproprietaria del Corriere della Sera. Tra gli ospiti internazionali, il barone Rotschild, la principessa d’Alenberg, il Pascià Sabrì d’Egitto, zio di re Farouk. Sacchi si alza spesso dal tavolo: è irrequieto di suo, ma è anche infastidito dall’atteggiamento della Bellentani. Teme un bis della scenata di Campione. E si allontana, secondo un suo vezzo, le mani in tasca, saltellando ogni tanto sul piede destro. Quando torna al tavolo, Pia se n’è andata.
La sfilata di moda è finita da parecchio. La gente si alza, va pigramente verso la Sala Napoleonica, tutta stucchi e dorature, dove c’è il bar. Sono quasi le due di notte, molti se ne sono già andati. Quelli che restano, chiacchierano seduti sulle poltrone o sugli sgabelli accanto al bancone. Rientra Pia Bellentani: ha un involto giallo sotto la cappa d’ermellino. È stravolta, si avvicina a Sacchi. Gli dice, appassionata: «Perché non la smetti di tormentarmi? Se non la pianti, ti uccido!». L’industriale comasco le ride in faccia: «Sei proprio una terrona!». E rincara la dose: «Possibile che voi terroni non abbiate in mente nient’altro che storie da fumetti?». Continua a ridere, mentre Pia tira fuori la pistola del marito, che era stata depositata al guardaroba, avvolta in un golf giallo e che lei è andata a riprendere (il conte Bellentani la porta sempre con sé, una vecchia calibro 9 di fabbricazione ungherese, una Fegyverzyar automatica modello 37). Sacchi ride sempre più forte e lei spara, un colpo solo, da sotto la cappa d’ermellino.Logorata dal trattamento riservatole dall’amante, Pia Bellentani prese la pistola lasciata dal marito nel guardaroba, si avvicino' a Sacchi e lo colpi' a bruciapelo.

Sembra soltanto lo schiocco di un tappo di champagne. Qualcuno, assonnato o brillo, alza meccanicamente il bicchiere in un brindisi. Nessuno capisce di che si tratta, perché Sacchi continua a ridere, mentre cade lentamente, afflosciandosi. Il riso si trasforma in un rantolo, che sembra sempre una risata, solo più soffocata. E anche quando è a terra, gli rimane stampata sul viso una smorfia ironica. Qualcuno non vuole crederci, mormora: «Che scherzo stupido». Capisce tutto, invece, il marito di Biki, Robert Bouyeure, ex paracadutista, che sa riconoscere un colpo di pistola e un cadavere e si precipita verso la Bellentani. Lei estrae da sotto la cappa la pistola e se la punta alla tempia, premendo inutilmente il grilletto. L’arma s’è inceppata. Pia, gli occhi sbarrati, si lamenta: “La mia non spara più, la prego, mi presti la sua». È isterica, urla e Bouyeure le appioppa un paio di schiaffi per farla star zitta, poi quasi le suggerisce la linea di difesa: «Madame, è chiaro che si è trattato di un incidente…». E forse è davvero così: Pia non ha mai preso in mano un’arma, quella è la prima volta in vita sua che ha sparato. E con quell’unico colpo ha centrato al cuore Carlo Sacchi.

La contessa viene condannata a dieci anni, pena ridotta a sette in appello. Esce alla vigilia di Natale del 1955. Rivede le figlie Flavia e Stefania, passa la prima notte a Roma dal fratello Giulio, avvocato, la seconda a Sulmona dall’altro fratello, Fernando, ingegnere. Pia si stabilisce a Roma con le figlie, nel quartiere Prati. Rimasta vedova si risposa, con lo scrittore e giornalista Enrico Roda, che s’è innamorato di lei intervistandola. La contessa conduce vita ritirata, vuole solo essere dimenticata. 

Alla contessa Bellentani la Corte si  riconobbe il vizio di mente e si applicò la misura di sicurezza di dieci anni di manicomio giudiziario, ridotti poi a sette, trascorsi nel manicomio giudiziario di Aversa, dove fu sottoposta a perizia psichiatrica dal prof. Filippo Saporito.

Il professor Saporito impiego' ben due anni per stendere la perizia psichiatrica della contessa, l’ultima della sua carriera di illustre luminare della psichiatria (aveva cominciato con il brigante Musolino) e stabili'che la donna era vittima di un male ereditario, che già in tenera età le avevano portato smarrimenti, turbamenti, annebbiamenti mentali.

Saporito aveva studiato la vita della contessa in ogni particolare, aveva letto le sue lettere, i suoi quaderni di scuola.
L’idea del suicidio l’aveva accompagnata per tutta la vita e lei, forse, uccidendo l’amante aveva ucciso se stessa. 
Il suo ingresso in manicomio fu seguito con lo stesso interesse con cui i giornali avevano seguito le fasi del processo.

La contessa fu accolta con grandi gentilezze e cortesie. Dopo qualche tempo fu autorizzata a tenere con sé il pianoforte a coda che talvolta suonava per le ricoverate. 
Quando lasciò il manicomio giudiziario di Aversa, ad attenderla al portone la contessa trovò un gruppo di fotografi.

Lei, accompagnata dal suo avvocato, elegante, altera come sempre, si limitò a salutare alzando il braccio, poi salì su una macchina nera di lusso che partì senza nessuna esitazione per l'Abruzzo dove l'attendevano la madre e le due figlie.






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mercoledì 25 febbraio 2015

CESARE BECCARIA

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Cesare Bonesana-Beccaria, marchese di Gualdrasco e di Villareggio (Milano, 15 marzo 1738 – Milano, 28 novembre 1794) è stato un giurista, filosofo, economista e letterato italiano, figura di spicco dell'Illuminismo, legato agli ambienti intellettuali milanesi.

Cesare Beccaria nacque a Milano, figlio di Giovanni Saverio di Francesco e di Maria Visconti di Saliceto, il 15 marzo 1738. Studiò a Parma, poi a Pavia dove si laureò nel 1758.
Il padre sposò la Visconti in seconde nozze nel 1736, dopo essere rimasto vedovo nel 1730 di Cecilia Baldroni. Nel 1760, contro la volontà del padre, rinunciando ai suoi diritti di primogenitura, sposò l'allora sedicenne Teresa Blasco (originariamente De Blasio) nata a Rho nel 1744, dalla quale ebbe quattro figli: Giulia Beccaria (1762-1841), Maria Beccaria (1766 - 1788), nata con gravi problemi neurologici e morta giovane, Giovanni Annibale nato e morto nel 1767 e Margherita anch'essa nata e morta nel 1772.
Il padre lo cacciò di casa dopo il matrimonio, e dovette essere ospitato da Pietro Verri, che lo mantenne anche economicamente per un periodo. Beccaria si vergognò molto di questo periodo, e nonostante l'amicizia di Verri, faticava a riconoscere i suoi debiti a quest'ultimo. Teresa morì il 14 marzo 1774, a causa della sifilide o della tubercolosi. Beccaria, dopo appena 40 giorni di vedovanza, firmò il contratto di matrimonio con Anna dei Conti Barnaba Barbò, che sposò in seconde nozze il 4 giugno 1774, ad appena 82 giorni dalla morte della prima moglie, suscitando grande scalpore. Da Anna Barbò ebbe un altro figlio, Giulio Beccaria.

Il suo avvicinamento all'Illuminismo avvenne dopo la lettura delle Lettere persiane di Montesquieu.

Fece parte del cenacolo dei fratelli Pietro e Alessandro Verri, collaborò alla rivista Il Caffè e contribuì a creare l'Accademia dei Pugni nel 1761, fondata secondo un suo concetto della educazione dei giovani mirante a rispettare i suoi concetti di legalità. Cesare Beccaria pensava che l'uomo acculturato fosse meno incline a commettere delitti.

Dalle discussioni con gli amici Verri gli venne l'impulso di scrivere un libro che spingesse a una riforma in favore dell'umanità più sofferente. Fu stimolato in particolare da Alessandro Verri, protettore dei carcerati, a interessarsi alla situazione della giustizia.

Dopo la pubblicazione di alcuni articoli di economia, nel 1764 diede alle stampe Dei delitti e delle pene, inizialmente anonimo, breve scritto contro la tortura e la pena di morte che ebbe enorme fortuna in tutta Europa e nel mondo (Thomas Jefferson e i padri fondatori degli Stati Uniti, che la lessero direttamente in italiano, presero spunto per le nuove leggi americane) e in particolare in Francia, dove incontrò l'apprezzamento entusiastico dei filosofi dell'Encyclopédie, di Voltaire (che ebbe anche una corrispondenza con Beccaria) e dei philosophes più prestigiosi che lo tradussero (la versione francese è opera dell'abate filosofo André Morellet, con le note di Denis Diderot) e lo considerarono come un vero e proprio capolavoro. L'opera fu messa all'Indice dei libri proibiti nel 1766, a causa della distinzione tra peccato e reato.

Per molti l'opera fu scritta in realtà da Pietro Verri, che riprese temi simili nelle Osservazioni sulla tortura e pubblicata anonima a Livorno per non incorrere nelle ire del governo austriaco. Lo stile analitico appare però diverso da quello del Verri, che è più vivace, e non vi sono prove certe a proposito: in realtà si può dire che il trattato germinò dal dibattito che animava la rivista Il Caffè, di cui i fratelli Verri erano gli intellettuali di primo piano.

Il suo avvicinamento all'Illuminismo avvenne dopo la lettura delle Lettere persiane di Montesquieu.

Fece parte del cenacolo dei fratelli Pietro e Alessandro Verri, collaborò alla rivista Il Caffè e contribuì a creare l'Accademia dei Pugni nel 1761, fondata secondo un suo concetto della educazione dei giovani mirante a rispettare i suoi concetti di legalità. Cesare Beccaria pensava che l'uomo acculturato fosse meno incline a commettere delitti.

Dalle discussioni con gli amici Verri gli venne l'impulso di scrivere un libro che spingesse a una riforma in favore dell'umanità più sofferente. Fu stimolato in particolare da Alessandro Verri, protettore dei carcerati, a interessarsi alla situazione della giustizia.

Dopo la pubblicazione di alcuni articoli di economia, nel 1764 diede alle stampe Dei delitti e delle pene, inizialmente anonimo, breve scritto contro la tortura e la pena di morte che ebbe enorme fortuna in tutta Europa e nel mondo (Thomas Jefferson e i padri fondatori degli Stati Uniti, che la lessero direttamente in italiano, presero spunto per le nuove leggi americane) e in particolare in Francia, dove incontrò l'apprezzamento entusiastico dei filosofi dell'Encyclopédie, di Voltaire (che ebbe anche una corrispondenza con Beccaria) e dei philosophes più prestigiosi che lo tradussero (la versione francese è opera dell'abate filosofo André Morellet, con le note di Denis Diderot) e lo considerarono come un vero e proprio capolavoro. L'opera fu messa all'Indice dei libri proibiti nel 1766, a causa della distinzione tra peccato e reato.

Per molti l'opera fu scritta in realtà da Pietro Verri, che riprese temi simili nelle Osservazioni sulla tortura e pubblicata anonima a Livorno per non incorrere nelle ire del governo austriaco. Lo stile analitico appare però diverso da quello del Verri, che è più vivace, e non vi sono prove certe a proposito: in realtà si può dire che il trattato germinò dal dibattito che animava la rivista Il Caffè, di cui i fratelli Verri erano gli intellettuali di primo piano.

Beccaria viaggiò poi controvoglia (al momento della partenza ebbe una crisi di panico, quando dovette lasciare la moglie a Milano) fino a Parigi, e solo dietro l'insistenza dei fratelli Verri e dei filosofi francesi desiderosi di conoscerlo. Fu accolto per breve tempo nella circolo del barone d'Holbach. La sua giustificata gelosia per la moglie lontana e il suo carattere ombroso e scostante, fecero sì che appena possibile tornò a Milano, lasciando solo il suo accompagnatore Alessandro Verri a proseguire il viaggio verso l'Inghilterra. Come Rousseau, Beccaria era a tratti paranoico e aveva spesso sbalzi d'umore, la sua personalità era abbastanza indolente e il carattere debole, poco brillante e non portato alla vita sociale; ciò non gli impediva però di saper esprimere molto bene i concetti che aveva in mente, soprattutto nei suoi scritti.Tornato a Milano non si mosse più, divenne professore di Scienze Camerali (economia politica) e cominciò a progettare una grande opera sulla convivenza umana, mai completata.

Entrato nell'amministrazione austriaca nel 1771, fu nominato membro del Supremo Consiglio dell'Economia, carica che ricoprì per oltre vent'anni, contribuendo alle riforme asburgiche sotto Maria Teresa e Giuseppe II. Fu criticato per questo dagli amici (tra cui Pietro Verri), che gli rimproveravano di essere diventato un burocrate.

La figlia Giulia, futura madre di Alessandro Manzoni, era stata messa in collegio (nonostante Beccaria avesse spesso deprecato i collegi religiosi) subito dopo la morte della madre e dimenticata per quasi sei anni: suo padre non volle più sapere niente di lei per molto tempo e non la considerò mai sua figlia, bensì il frutto di una relazione extraconiugale delle numerose che la moglie aveva avuto. Beccaria non si sentiva adeguato al ruolo di padre, inoltre negò l'eredità materna alla figlia, avendo contratto dei debiti: ciò gli diede la fama di irriducibile avarizia. Giulia uscì dal collegio nel 1780, frequentando poi gli ambienti illuministi e libertini. Nel 1782 la diede in sposa al conte Pietro Manzoni, più vecchio di vent'anni di lei: il nipote Alessandro nacque nel 1785, ma pare fosse in realtà il figlio di Giovanni Verri, fratello minore di Pietro e Alessandro, nonché amante di Giulia. Prima della morte di Cesare, Giulia lasciò, nel 1792, il conte Manzoni e Milano, andando a vivere a Parigi con il conte Carlo Imbonati, rompendo definitivamente i rapporti col padre.

Beccaria morì a Milano il 28 novembre 1794, a causa di un ictus, all'età di 56 anni, e trovò sepoltura nel Cimitero della Mojazza, fuori Porta Comasina, in una sepoltura popolare (dove fu sepolto anche Giuseppe Parini) anziché nella tomba di famiglia. Quando tutti i resti vennero traslati nel cimitero monumentale di Milano, un secolo dopo, si perse traccia della tomba del grande giurista. Pietro Verri, con una riflessione valida ancora oggi, deplorò nei suoi scritti il fatto che i milanesi non avessero onorato abbastanza il nome di Cesare Beccaria, né da vivo né da morto, che tanta gloria aveva portato alla città. Ai funerali di Beccaria era presente anche il giovane nipote Alessandro Manzoni, nonché il figlio superstite ed erede, Giulio.

Beccaria fu influenzato dalla lettura di Locke, Helvetius, Rousseau (di cui condivideva l'orientamento deista, sebbene professò sempre il cattolicesimo per tutta la sua vita) e, come gran parte degli illuministi milanesi, dal sensismo di Condillac. Fu influenzato anche dagli enciclopedisti, in particolare da Voltaire e Diderot. Partendo dalla classica teoria contrattualistica del diritto, derivata in parte dalla formulazione datane da Rousseau, che sostanzialmente fonda la società su un contratto sociale (nell'omonima opera) teso a salvaguardare i diritti degli individui e a garantire in questo modo l'ordine, Beccaria definì in pratica il delitto in maniera laica come una violazione del contratto, e non come offesa alla legge divina, che appartiene alla coscienza della persona e non alla sfera pubblica. La società nel suo complesso godeva pertanto di un diritto di autodifesa, da esercitare in misura proporzionata al delitto commesso (principio del proporzionalismo della pena) e secondo il principio contrattualistico per cui nessun uomo può disporre della vita di un altro (Rousseau non considerava moralmente lecito nemmeno il suicidio, in quanto non l'uomo, ma la natura, nella visione del ginevrino, aveva potere sulla propria vita, e quindi tale diritto non poteva certamente andare allo Stato, che comunque avrebbe violato un diritto individuale).

Il punto di vista illuministico del Beccaria si concentra in frasi come «Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l'uomo cessi di essere persona e diventi cosa». Ribadisce come è necessario neutralizzare l'«inutile prodigalità di supplizi» ampiamente diffusi nella società del suo tempo. La tesi umanitaria, messa in risalto da Voltaire, è parzialmente da lui accantonata, in quanto Beccaria vuole dimostrare pragmaticamente l'inutilità della tortura e della pena di morte, più che la loro ingiustizia. Egli è infatti consapevole che i legislatori sono mossi più dall'utile pratico di una legge, che da principi assoluti, di ordine religioso o filosofico. Beccaria afferma infatti che «se dimostrerò non essere la morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell'umanità». Beccaria quindi si inserisce nel filone utilitaristico: considera l’utile come movente e metro di valutazione di ogni azione umana.

L’ambito della sua dottrina è quello general-preventivo, nel quale si suppone che l’uomo sia condizionabile in base alla promessa di un premio o di un castigo e, nel contempo, si ritiene che sussista fra ogni cittadino e le istituzioni una conflittualità più o meno latente. Sostiene la laicità dello Stato. Adotta come metodo d’indagine quello analitico-deduttivo (tipico della matematica) e per lui l’esperienza è da intendersi in termini fenomenici (approccio sensista).

La natura umana si svolge in una dimensione edonistico-pulsionistica, ovvero sia i singoli, sia la moltitudine, agiscono seguendo i loro sensi. In poche parole l’uomo è caratterizzato dall’edonismo. Gli individui possono essere paragonati a dei «fluidi» messi in movimento dalla costante ricerca del piacere, intesa come fuga dal dolore. L’uomo però è una macchina intelligente capace di razionalizzare le pulsioni, in modo da consentire la vita in società; infatti certamente ogni uomo pretende di essere autonomo e insindacabile nelle sue decisioni, ma si rende conto della convenienza della vita sociale. Ma la conflittualità rimane e quindi bisogna impedire che il cittadino venga sedotto dall’idea di infrangere la legge al fine di perseguire il proprio utile a tutti i costi, pertanto il legislatore, da «abile architetto», deve predisporre sanzioni e premi in funzione preventiva; è necessario tenere sotto controllo i «fluidi», inibendo le pulsioni antisociali.

Tuttavia Beccaria sostiene che la sanzione deve essere sì idonea a garantire la difesa sociale, ma al contempo mitigata e rispettosa della persona umana.

« Parmi un assurdo che le leggi, che sono l'espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l'omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio »
(Dei delitti e delle pene, cap. XXVIII)
La pena di morte, “una guerra della nazione contro un cittadino”, è inaccettabile perché il bene della vita è indisponibile, quindi sottratto alla volontà del singolo e dello Stato.
Inoltre essa:

non è un vero deterrente
non è necessaria in tempo di pace
Essa non svolge un'adeguata azione intimidatoria poiché lo stesso criminale teme meno la morte di un ergastolo perpetuo o di una miserabile schiavitù, si tratta di una sofferenza definitiva contro una sofferenza reiterata. Nei soggetti osservanti, essa può poi apparire come uno spettacolo o suscitare compassione. Nel primo caso, essa indurisce gli animi, rendendoli più inclini al delitto; nel secondo, non rafforza il senso di obbligatorietà della legge e il senso di fiducia nelle istituzioni, anzi lo diminuisce. Anche se la pena assumesse un aspetto deterrente, essa apparirebbe uno strumento troppo dispendioso in quanto dovrebbe essere irrogata spesso per esercitare la dovuta impressione sugli uomini. Suggerisce invece di sostituirla con i lavori forzati, in modo che il reo, ridotto a “bestia di servigio”, fornirà esempio duraturo ed incisivo dell’efficacia della legge, risarcendo la società dai danni provocati; e, così facendo, nel contempo si salvaguarda il valore della vita. Questa condizione è assai più potente dell’idea della morte e spaventa più chi la vede che chi la soffre; è quindi efficace ed intimidatoria, benché tenue. In realtà così facendo viene sostituita alla morte del corpo la morte dell’anima, il condannato viene annichilito interiormente.

Beccaria ammette che il ricorso alla pena capitale sia necessario solo quando l’eliminazione del singolo fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti, come nel caso di chi fomenta tumulti e tensioni sociali: ma questo caso non sarebbe applicabile se non verso un individuo molto potente e solo in caso di una guerra civile.
Tale motivazione fu usata da Robespierre per chiedere la condanna di Luigi XVI, che invece diede il via ad un uso spropositato della pena di morte, e poi al Terrore, certamente non ammissibile nel pensiero di Beccaria, che infatti prese le distanze, come molti illuministi moderati, dalla Rivoluzione francese dopo il 1793.

La tortura, “l’infame crociuolo della verità”, viene confutata da Beccaria per vari motivi:

essa viola la presunzione di innocenza, dato che un uomo non può considerarsi reo fino alla sentenza del giudice.
consiste in un’afflizione e pertanto è inaccettabile; se il delitto è certo porta alla pena stabilita dalle leggi, se è incerto non si deve tormentare un possibile innocente.
non è operativa in quanto induce a false confessioni, poiché l’uomo, stremato dal dolore, arriverà ad affermare falsità al fine di terminare la sofferenza.
è da rifiutarsi anche per motivi di umanità: l’innocente è posto in condizioni peggiori del colpevole.
non porta all’emenda del soggetto, né lo purifica agli occhi della collettività
Beccaria ammette razionalmente l’afflizione della tortura nel caso di testimone reticente, cioè a chi durante il processo si ostini a non rispondere alle domande; in questo caso la tortura trova una sua giustificazione, ma egli preferisce comunque chiederne la totale abolizione.

Beccaria indica come la sanzione deve possedere alcuni requisiti:

la prontezza ovvero la vicinanza temporale della pena al delitto
l’infallibilità ovvero vi deve essere la certezza della risposta sanzionatoria da parte delle autorità
la proporzionalità con il reato (difficile da realizzare ma auspicabile)
la durata, che dev’essere adeguata
la pubblica esemplarità, infatti la destinataria della sanzione è la collettività, che constata la non convenienza all’infrazione
Pertanto il fine della sanzione non è quello di affliggere, ma quello di impedire al reo di compiere altri delitti e di intimidire gli altri dal compierne altri, fino a parlare di "dolcezza della pena", in contrasto alla pena violenta.

Secondo Beccaria, per ottenere un'approssimativa proporzionalità pena-delitto, bisogna tener conto:
- del danno subito dalla collettività
- del vantaggio che comporta la commissione di tale reato
- della tendenza dei cittadini a commettere tale reato
Non dev’essere quindi una violenza gratuita, ma dev’essere invece essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata ai delitti, dettata dalle leggi.
La pena è oltretutto una extrema ratio, infatti si dovrebbe evitare di ricorrere ad essa quando si hanno efficaci strumenti di controllo sociale. Per questo è importante attuare degli espedienti di “prevenzione indiretta”, come ad esempio: un sistema ordinato della magistratura, la diffusione dell’istruzione nella società, il diritto premiale, una riforma economico-sociale che migliori le condizioni di vita delle classi sociali disagiate.

Il pensiero di Beccaria sul porto delle armi da fuoco, che egli riteneva un utile strumento di deterrenza del crimine, si riassume nelle seguenti citazioni:"Falsa idea di utilità è quella che sacrifica mille vantaggi reali per un inconveniente o immaginario o di troppa conseguenza, che toglierebbe agli uomini il fuoco perché incendia e l’acqua perché annega, che non ripara ai mali che col distruggere. Le leggi che proibiscono di portare armi sono leggi di tal natura; esse non disarmano che i non inclinati né determinati ai delitti, mentre coloro che hanno il coraggio di poter violare le leggi più sacre della umanità e le più importanti del codice, come rispetteranno le minori e le puramente arbitrarie, e delle quali tanto facili ed impuni debbon essere le contravvenzioni, e l’esecuzione esatta delle quali toglie la libertà personale, carissima all'uomo, carissima all’illuminato legislatore, e sottopone gl’innocenti a tutte le vessazioni dovute ai rei? Queste peggiorano la condizione degli assaliti, migliorando quella degli assalitori, non iscemano gli omicidii, ma gli accrescono, perché è maggiore la confidenza nell’assalire i disarmati che gli armati. Queste si chiamano leggi non prevenitrici ma paurose dei delitti, che nascono dalla tumultuosa impressione di alcuni fatti particolari, non dalla ragionata meditazione degl’inconvenienti ed avantaggi di un decreto universale'".

L'opera ed il pensiero di Beccaria influenzarono la codificazione del Granducato di Toscana,concretizzata nella Riforma della legislazione criminale toscana, promulgata da Pietro Leopoldo d'Asburgo nel 1787, meglio conosciuta come "Codice leopoldino" col quale la Toscana divenne il primo stato in Europa ad eliminare integralmente la pena di morte e la tortura dal proprio sistema penale.

L'attenzione e la centralità del suo pensiero arrivarono a condizionare persino la codificazione costituzionale di molti stati nordamericani, avviata intorno all'ultimo terzo del secolo XVIII.

Le idee del Beccaria stimolarono un dibattito ancora vivo e attuale oggi.

Gli è stato dedicato un asteroide: 8935 Beccaria.
Il carcere minorile di Milano è a lui intitolato.
A lui è intitolato un prestigioso Liceo Classico milanese, il Ginnasio Liceo Statale Cesare Beccaria.


LEGGI ANCHE : http://asiamicky.blogspot.it/2015/02/milano-citta-dell-expo-conosciamola.html

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